Questo articolo è parte di una campagna cui hanno aderito scrittrici e giornaliste per denunciare la violenza di genere e nominarla.
Bobigny, anno 1972. Grattacieli, cemento, le acque grigie del Canal de l’Ourcq che scorrono a sud ovest per quattro chilometri fino a Parigi. Marie-Claire, 16 anni, chiede aiuto a sua madre per abortire. I soldi sono pochi e Marie-Claire si ritrova su un tavolaccio. Le infilano una sonda di ferro che le farà sanguinare via il figlio della violenza, ma pure il proprio corpo. L’emorragia e l’infezione si curano, l’aborto resta. La denuncia viene dall’uomo che l’ha stuprata. A sua madre Michèle la confessione è estorta da un gendarme, sulla porta di casa, sotto minaccia di arrestarle entrambe. Marie-Claire ne porta il cognome, Chevalier, perché è senza padre. Michèle e le tre donne che l’hanno aiutata sono rinviate a giudizio con lei.
C’è un’altra donna: colei che assume la difesa in tribunale. Si chiama Gisèle Halimi, ha abortito anche lei. È ricca, incredibilmente colta, rivoluzionaria. L’anno precedente ha firmato, con altre 343, il Manifesto per la legalizzazione dell’aborto, dichiarando di avervi ricorso. Con lei Simone de Beauvoir, Françoise Sagan, Marguerite Duras, Catherine Deneuve. Sono famose, qualcuno ne ha letto sui giornali e ne parla a Michèle. Forse ne ha letto lei stessa, con un sussulto di orgoglio, come se fosse una di quelle donne. Gisèle Halimi è una militante, sposa le cause che difende, mette la propria forza al loro servizio, al servizio dei deboli. Michèle ripone in questo ogni speranza di madre e di donna.
La violenza è un’attitudine che postula una subalternità. Poggia su un rapporto di forza, richiede un sopra e un sotto. Da entrambi i lati può venire la violenza, anche dal basso: dalla ribellione che vuole sovvertire, sollevarsi per quanto sforzo costi, e la violenza allora nasce da lì, come uno scoppio, per appianare quella disparità, a volte ribaltarla. Più spesso però dall’alto viene. È talmente più facile, non richiede coraggio, alcuno slancio. Violenza naturale come la forza di gravità, che cade senza accorgersene quasi per un rilassamento del contegno, ché trattenerla costa sforzo.
Il Manifesto delle 343 è intriso della violenza provocatoria e liberatoria di chi sta sotto. È uno schiaffo, dato con rabbia e con coraggio. Dover rivendicare sollevandosi con enorme sforzo di autocoscienza, esponendosi a un rischio dei peggiori, il diritto di compiere una scelta dolorosissima. La scelta di strapparsi di dosso una parte di sé, la più amata, minuscola e indifesa parte. Quale violenza terribile è quella di una legge che nega alle donne la possibilità di abbandonarsi esauste dopo averlo fatto. Che le costringe ad alzarsi, insorgere, lottare.
Gisèle Halimi accetta, pone la propria linea difensiva: confessare, anzi rivendicare. Dichiarare guerra al diritto violento. All’ipocrisia classista che stupra di nuovo chi non può andare ad abortire in Inghilterra. Parlare, oltre la testa dei giudici, alla gente.
E la gente ascolta la sua bella voce lenta, si lascia arringare dall’avvocata militante, l’avvocata partigiana che brandisce come arma la conoscenza del diritto nemico che combatte. La folla davanti al tribunale dei minori di Bobigny è densa, i giornali hanno costruito intorno al processo una corazza fatta di occhi e di voci. Ma per quanto Marie-Claire difenda il proprio libero arbitrio, il Tribunale decide per lei: costrizioni di ordine sociale, familiare e morale, cui non avrebbe potuto resistere, l’hanno indotta al gesto sconsiderato. L’assoluzione scende così come una cappa di negazione, di delegittimazione, su quella scelta e su quella lotta. Un’altra violenza che cade dall’alto in basso come una ghigliottina, come una spiegazione troppo semplice.
Le due amiche di Michèle che l’hanno aiutata a trovare l’abortista vengono assolte perché non hanno avuto contatti diretti con Marie-Claire. Come se il mutuo sostegno tramite una madre, un giornale, una pancarte non lo fosse. Michèle è condannata a una multa poi lasciata prescrivere in appello, in attesa di un’udienza che il giudice istruttore decide di non fissare in tempo. Colei che ha materialmente operato l’aborto è condannata a un anno, con pena convertita in multa.
Nello stesso modo, nello stesso anno 1972, Gigliola Pierobon ascolta in piedi la sentenza che le accorda il perdono giudiziale. È la Padova dei circoli per il potere operaio, delle sommosse studentesche alla facoltà di scienze politiche. Gigliola vive sola, quel giorno non è andata in fabbrica per venire in Tribunale. È colpevole di aver abortito, rea confessa, ma le spetta il perdono perché oggi è madre. Si è ravveduta quindi! Questo ravvedimento Gigliola lo rinnega, ma il Tribunale glie lo attacca addosso come un vestito altrui, che le va largo da tutte le parti. Fatti esteriori, solamente fatti. Il matrimonio, che importa che sia già finito, la maternità, come se questa scelta potesse sovrapporsi, assorbire, negare quella. Gigliola pensa alla sua bambina, la testolina bruna. Poi pensa a sé stessa sei anni prima. Tutto ciò che successe allora accadde dentro, molto dentro. Nel ventre di diciassettenne dove penetrò il ferro a tirare via quell’altra figlia. Nella testa dove Padova aveva infuso una consapevolezza fatta di piazze e libri. La scelta di questi e non di quella. Come si può giudicare quei dentro dal fuori di oggi. Come si può mai giudicare un dentro da un fuori.
Fuori dal Tribunale, Padova insorge di donne nel sole di giugno, le compagne dei circoli femministi. Attaccano striscioni sotto i portici dell’Università, alcune entrano in Tribunale, gridano in aula di aver abortito tutte. Gigliola a diciassette anni pensava che le fosse capitato qualcosa di soltanto suo. Una sfortuna individuale, una vicenda privata. Poi ha capito.
Bianca Guidetti Serra, il suo avvocato, sceglie come Gisèle Halimi di condurre un processo politico. Diversamente da Bobigny, a Padova il giudice non ammette tra i testimoni medici e intellettuali, ma non importa. La politica è fuori dal tribunale, come fuori dal Parlamento. Il processo alla legge si fa negli striscioni di quelle donne in piazza, sui giornali, nei circoli operai estremamente colti che sono gli stessi circoli della facoltà di scienze politiche, di quella cattedra di filosofia.
Per Bianca non è così diversa questa lotta dagli scioperi del ’43. Lei c’era davanti alla FIAT, orfana di padre, doveva guadagnare qualche soldo. Assistente sociale, diciassettenne come poi Marie-Claire, come poi Gigliola. Staffetta partigiana. Avvocata. Le sta comoda Padova, la sua fiducia in un egualitarismo possibile, larghissimo. Quello spazio in cui le donne sono già uguali. La presenza confortante di Gisèle Halimi dall’altra parte delle Alpi e quella social catena che infonde coraggio.
Ogni lotta per i diritti è la stessa lotta. Sono uguali per Gisèle gli indipendentisti algerini torturati dall’esercito francese e le giovani donne vittima di violenza sessuale in Francia. Sono uguali per Bianca gli operai di piazza Statuto e i sindacalisti della Spagna franchista. Uguale la lotta in difesa del corpo delle donne e quella in difesa del salario.
Tutte queste lotte nascono da una minorità. La minorità fisica della donna rispetto all’uomo, primordiale, inestinguibile, non è diversa dalla quella di un detenuto rispetto al carceriere, di un invalido rispetto a chi gli dà assistenza. Una disparità sempre sottesa, sempre latente nella mente di entrambi, anche quando inespressa. Diventa allora una minorità dialettica, non dover indisporre il proprio interlocutore. Quell’autosorveglianza ininterrotta. Una minorità sociale di ruoli imposti, così connaturata che si tramanda come il colore degli occhi. Troppe volte, la minorità economica che ne consegue senza scampo. E la condizione, impronunciabile, di minorità esistenziale che tutto ciò produce. Le scelte che nemmeno verrebbe in mente fare. Il perenne stato di allerta, il pensiero alla propria incolumità nel semplice atto del vestirsi, del programmare un tragitto. L’autoimposizione di vincoli che sembrano venire dal difuori, ma non è. La crudeltà delle scelte, non lavorare, lavorare e sfinirsi due volte, non avere figli, averli e sfinirsi due volte. Quel senso di peso sul petto, alla caviglia. Per metterla a fuoco ci vogliono gli anni, i decenni che ciascuna spende a farci i conti. A partire da quell’intuizione iniziale. Gisèle Halimi bambina, in Tunisia, che dice no, non servirò i miei fratelli maschi. Gisèle donna come noi altre, che parte per l’Algeria indipendentista, a casa il bambino ha la febbre, la studentessa che fa da babysitter ha dato buca, non sa che cosa fare ma comunque deve andare, come qualsiasi dottoressa o operaia o qualcos’altro. Gisèle intellettuale che deve reggere lo sguardo di Simone de Beauvoir sui suoi figli. Donna che deve tener testa a De Gaulle quando le sferra un colpo basso sul divorzio. Rimane in piedi, apparentemente senza sforzo. Il diritto è la sua corazza, la sua fama è la sua forza. Ma dentro, tutte abbiamo capito. Quella fragilità insopportabile cerca appoggio per salvarsi, cerca l’umanità, cerca una causa esterna su cui farsi forza e stare in piedi.
La stessa intuizione coglie Bianca Guidetti Serra di fronte alle leggi razziali, i suoi amici ebrei fino ad allora così uguali. Quell’intuizione la porta al ciclostile, alla resistenza. Sente e comprende Bianca le notizie sul governo di Vichy che nel 1943 ghigliottina Marie-Louise Giraud per aver praticato degli aborti illegali. Sente chiarissimo mentre legge le cartoline di Primo Levi dal campo. Non teme di accostare questo orrore alle altre sue battaglie, sa che la lotta per la liberazione è insieme lotta per l’emancipazione femminile, sa che la libertà non può mai declinarsi al singolare.
Questa certezza, negli anni ’70, quelle donne l’avevano rafforzata ancora, nonostante tutto. Ed era tanto bella e limpida la lotta contro un nemico così visibile, da fare a pezzi con l’accetta. Allora era chiaro: non si poteva fare una battaglia senza farle tutte. L’unica strada era scardinare l’impulso dicotomico del sopra e del sotto, del sopra che poggia il piede sul sotto per mantenere il proprio stato di superiorità, di supremazia, di dominanza. Quelle battaglie facevano tremare il suolo, smuovevano le acque, sradicavano un’erba secolare e creavano frane impossibili da arginare.
Nel 1978 passava la Loi Veil, che porta il nome di Simone, la legge 194. L’aborto era un diritto.
In Italia già c’era stato lo Statuto dei lavoratori. L’abrogazione del delitto di adulterio. La legge sul divorzio. Sarebbero venute di lì a poco la riforma del diritto di famiglia, l’abrogazione del delitto d’onore. Il diritto violento, un pezzo per volta, franava. Si costruivano pezzi di qualcos’altro. Il diritto come legge, espressione democratica di un sentire comune, ben poteva essere miope, violento e basso come quel sentire. Ugualmente incline al sopruso. Il diritto come arma, come strumento difficile il cui impiego richiede alta maestria, strumento potente nelle mani di pochi, poteva invece scegliere di inginocchiarsi al cospetto di qualsiasi ingiustizia e di farne riscatto. I processi di Gisèle Halimi e di Bianca Guidetti Serra, come tante altre lotte fatte da un lato e l’altro dello scranno, restituivano al diritto una funzione civilizzatrice. Le Gisèle prendevano per mano le Marie-Claire del mondo, sentivano che questa era la loro lotta. Questa rincorsa inarrestabile, il rinnovarsi della resistenza di fronte ad ogni ingiustizia. Concepire il diritto come qualcosa di vitale, una forma di risposta, una possibile reazione alla violenza. Il diritto come strumento umanista, arma come altre bestie hanno gli artigli.
Il diritto impara a proteggere, un pezzo per volta. Filtra dalla realtà alcuni conflitti, soltanto alcuni, le maglie strette dei tempi che sono maturi. E quei conflitti cura, lenisce, attutisce. Setaccia tra i deboli i degni di tutela. E li protegge, o tenta. Lavoratori, donne, alcune minoranze. Non tutti i deboli, non proprio tutti ancora. Le donne si, però, non si ritrova traccia di distinguo se non per tutelarle. Quel sopra e sotto esiste ancora, ma il diritto non ne è più artefice o complice, casomai spettatore, controllore e censore.
Abbiamo adesso codice rosso e quote rosa e congedi diversi da quelli dei padri e decontribuzione solo per le madri. La minorità esiste ancora, ma oggi è riconosciuta, certificata. Quella fisica, quella sociale, quella economica. Dobbiamo rallegrarci? Che ne è di quei deboli che non sono filtrati dal setaccio?
Se il discorso è coerente, se qualcosa è rimasto da quegli anni, non è finita dunque la lotta. Nemmeno per le donne è finita. Ora la legge ufficialmente non ci incolpa; ci dice poverina e brava. Le donne non hanno più una pistola puntata sull’utero. Ma la pistola è in tasca, o in un cassetto. Il germe del paternalismo si sostituisce subdolo a quello del patriarcato. Sempre da sopra a sotto viene. Sempre da sopra guardavano Marie-Claire trovandole la scusa di un condizionamento famigliare. Da sopra guardavano Michèle lasciando che il reato le si prescrivesse. Sempre dall’altro veniva il perdono accordato a Gigliola. Credevano di fare un favore a tutte loro. Nessuna di noi ha detto grazie.
Oggi una Marie-Claire non sarebbe denunciata dal padre di suo figlio. Forse partorirebbe, prenderebbe sei mesi di congedo. Perderebbe soldi, professionalità, posizione sociale, sicurezza. Sarebbe più debole, più soggetta a violenza. Anche solo una frase del compagno progressista, la cui vita non si è spostata di altrettanto, e che quasi come niente fosse assesta un colpo, dice tanto non stai lavorando, puoi occuparti di questo o di quello, oppure beata te, di cosa ti lamenti. Approfittando della temporanea minorità dell’altra per affermare, riaffermare o instaurare un rapporto di forza. Questa disuguaglianza così minuta per alcune comporta, come effetto farfalla, l’incrinarsi e poi lo sfaldarsi di un equilibrio fragile, l’inizio di una discesa verso forme di controllo, di prevaricazione più tangibili. Per altre resta lì, colpo non abbastanza forte da essere denunciato, stigmatizzato, da essere finanche visto da qualcuno. Pur sempre un colpo a ricordare quel sopra e sotto con cui dover comunque fare i conti.
C’è un germe di violenza in questo? Si, la pistola in tasca, eccola lì. Quella donna potrebbe non essersene accorta, troppo consueto. Quel colpo potrebbe anche essere venuto da un’altra donna, subdolo, non è un discorso di maschio e di femmina, ma di sopra e di sotto. Il patriarcato è il modo, il basare un rapporto sul dominio. Il nemico non è la legge sull’aborto, ma il pensiero che esista una qualsiasi forma di dominio legittima.
Chi nega che quella realtà di una legge violenta perduri, abbia strascichi, chi disconosce la permanenza del patriarcato nella nostra società, compie una grave scorrettezza intellettuale e dialettica. Il tempo di reazione della società è lungo. Il diritto agisce per strappi in avanti. È finita, è vero, la legittimazione legale di alcune forme di violenza che era a sua volta fonte di violenza. Ma il venir meno formale delle disuguaglianze lascia nell’aria un nuovo astio. La sensazione indicibile di chi prima era sopra che gli sia stato tolto qualche cosa. Negare di vedere il proprio privilegio è un modo per difenderlo. Il liberismo capitalistico, la trappola meritocratica. L’astio di un certo maschile nei confronti del femminile, per legge ormai a lui equiparato nei diritti, è lo stesso che anima i nazionalismi, i sicuritarismi. La paura che prende noi nati nel ventre grasso della vacca quando ci sentiamo invasi e depredati di qualcosa che, chissà perché, ci sembrava così innegabilmente nostro. Quel diritto allo stare sopra che prima era sancito, si poteva esercitare sotto il sole, ora è perduto, inconfessabile, indicibile, ma si fatica a cederlo. Questo si traduce in un sentimento maschile livoroso, che ti si sfoga addosso. In senso sessuale, in senso fisico, anche in senso dialettico. Nel maschio che non ritiene di dover celare il proprio malumore, anzi che provoca deliberatamente, nel maschio che non crede di dover trattenere il commento insultante, sminuente. Violenti sono gli uomini che continuano a trattare le donne come subalterne, violenti sono pure coloro che si adeguano al nuovo corso senza una vera adesione, senza una vera evoluzione, ma obtorto collo. Visibilmente scomodi, irrigiditi. Violento è dire che la violenza è nella testa delle donne che ancora la percepiscono. Violento è dire che sono frettolose, non si accontentano di quello che hanno guadagnato. Così il maschio pur rispettoso della legge esercita nei piccoli spazi rimasti il proprio predominio. E sono ancora in tanti aggrappati lì, a dirci brava, o te la sei cercata, o non dire sciocchezze, o sei migliore di me.
Non basta. Anche pochissimo più di zero violenza, zero disuguaglianza e zero rapporto di forza è già troppo. Ogni accenno alla pistola che l’uomo ha in tasca ricrea automaticamente il contesto di tensione in cui la minaccia di violenza riaffiora tangibile, da sola basta a intimidire. Non serve che sia esplicita, non ce n’è bisogno. È così chiaro, per chi ci è nato in mezzo, per chi ha ereditato quello stato di allerta insieme al colore degli occhi. Il patriarcato è un metodo, non diverso da altri.
E allora dovremmo indignarci oggi come si indignavano le avvocate degli anni ’70? Scendere in piazza a gridare che il re è nudo, che è scandaloso, che la legge è ingiusta? Di certo dovremmo allenarci a riconoscere i sintomi minuti, anche dove sono rimasti solo quelli, perché sono il germe che non consente al patriarcato di sparire. Dovremmo allenare l’intuizione, indignarci come Gisèle Halimi e il suo no di bambina a una realtà che sembrava allora così ovvia, e non era.
Si vota domani al Congresso francese la costituzionalizzazione dell’aborto. Si è discusso tanto se dovesse o meno dirsi diritto, o libertà. Su questa sfumatura semantica si è poggiato lo scontro, perché di sfumature esso oggi vive. Libertà garantita che è qualcosa meno di questo, qualcosa più di quella. Il corpo delle donne è qui ed oggi un terreno su cui operare dei così minuti distinguo, un terreno in salvo da più feroci conflitti. Un terreno che però ha memoria, da trasportare altrove, dove serve. Da custodire mentre assistiamo a queste millimetriche forme di sopravvivenza di quel germe. Le teniamo d’occhio, le teniamo a mente, sappiamo che vuol dire. Non è finita, né può mai finire, ma va avanti. Concediamoci di essere contenti. A Bianca sarebbe piaciuta, questa parola. Libertà. Libertà. Libertà.
* Alcune imprecisioni o omissioni presenti in questo articolo saranno perdonate. Lo stupratore di Marie-Claire Chevalier era un compagno di classe, altra verità densa di implicazioni, così come le grottesche circostanze della denuncia. La sonda di ferro e l’infezione sono di Gigliola, ma in un certo senso sono di tutte. Ugualmente, la traduzione della terminologia processuale dal francese non è accurata né storicamente né giuridicamente. È poco importante rispetto al resto: la storia di queste donne e di questi processi è la storia del nostro diritto e della nostra società. Per chi volesse approfondirla: Un caso di aborto. Il processo Chevalier, con prefazione di Simone de Beauvoir, Torino Einaudi 1974; G. Pierobon, Il processo degli angeli. Storia di un aborto, Tattilo Editrice, 1974; G. Halimi, Le procès de Bobigny: Choisir la cause des femmes, Editions Gallimard, 2006; B. Guidetti Serra, Bianca la Rossa, Einaudi, 2009; Il bellissimo podcast di Cédric Condon Gisèle Halimi, la cause des femmes, 2022.