Intervento di Giuseppe Cascini al V Congresso nazionale di Area DG, 10-12 ottobre 2025, Genova
Rivolgo un ringraziamento ai colleghi della sezione genovese per la splendida organizzazione di questo congresso e al segretario Zaccaro per la sua ottima relazione introduttiva.
Viviamo in un mondo sempre più attraversato da divisioni, polarizzazioni e scontri.
Le grandi sfide che pone la modernità, l'innovazione tecnologica, i cambiamenti climatici, l'aumento delle disuguaglianze, i flussi migratori, il sempre più diffuso ricorso alla guerra come strumento di risoluzione delle controversie, richiederebbero dialogo, confronto, collaborazione tra punti di vista diversi, nella ricerca di soluzioni condivise e durature.
Dopo le grandi tragedie del secolo scorso l'umanità trovò la capacità di affermare il carattere universale dei diritti fondamentali e la loro prevalenza sul diritto della forza e lo fece attraverso un percorso di dialogo e di collaborazione che coinvolse popoli, culture, ideologie profondamente diverse.
Noi dovremmo riuscire a ritrovare quello spirito, senza dover aspettare un'altra tragedia, dovremmo riuscire a collaborare per costruire un futuro diverso per i nostri figli.
E invece mi pare che si stia facendo esattamente l’opposto.
La riforma costituzionale voluta dal Governo è stata presentata al parlamento come una scatola chiusa, sulla quale c’era solo uno slogan: spezziamo le reni ai magistrati. E il Governo ha imposto al parlamento la approvazione di quella scatola chiusa, senza discussioni e senza modifiche, come se fosse un decreto-legge.
Io non discuto la legittimità formale della procedura adottata, che è stata rivendicata dal Cons. Giuffrè. So bene che l’art.138 è stato formalmente rispettato. Ma la sostanza e lo spirito di quella disposizione sono stati calpestati, in un percorso che ha umiliato il Parlamento italiano e ha rifiutato qualsiasi confronto ed ascolto.
Quando gli studiosi cercheranno i lavori preparatori di questa riforma costituzionale non troveranno le parole di Calamandrei o di Mortati, ma quelle di un ministro siciliano che ha definito killer i magistrati, come ha ricordato poco fa il cons. Carbone. Leggeranno le campagne di denigrazione nei confronti di magistrati, gli insulti e le contumelie che hanno accompagnato la riforma e che danno il senso e il segno della volontà politica del legislatore: ridimensionare il ruolo della giurisdizione e (ri)condurre i magistrati in una posizione di sudditanza nei confronti del potere politico.
Lo ha detto esplicitamente poco fa anche il cons. Giuffrè, quando ha parlato della necessità di mettere fine all’uso alternativo del diritto da parte dei magistrati. Tornerò tra un attimo su questo punto, perché mi pare centrale.
Non vi è stata una discussione e non è stato possibile un confronto sugli obiettivi della riforma e sulla congruità delle soluzioni proposte a realizzare quegli obiettivi.
Il risultato è un testo privo di qualsiasi razionalità, pieno di incongruenze e di contraddizioni, scritto e approvato in fretta e senza ponderazione. Quanto di più lontano da ciò che si richiede ad un testo costituzionale. Mi soffermerò più avanti su alcuni punti per cercare di dimostrare cosa intendo dire.
Forse all'inizio non si voleva arrivare sin qui. Probabilmente si voleva solo mandare un segnale ai magistrati, una sorta di invito a non disturbare il manovratore.
Poi è successo qualcosa per cui si è scelto di andare avanti e così si sta arrivando ad approvare una riforma costituzionale che, lo dico con tutto il rispetto, secondo me pochi hanno letto e ancora meno hanno compreso.
Prima di soffermarmi, come anticipato, su alcuni punti di merito della riforma, devo una risposta al Cons. Giuffrè sulla questione dell’uso alternativo del diritto.
È vero che nei primi anni della storia repubblicana vi fu una lunga stagione in cui la Costituzione restò inattuata. Gli studiosi hanno definito quel periodo come gli anni del gelo costituzionale. La ragione storica di questo ritardo è da ricercare nella mancanza di una effettiva cesura nelle classi dirigenti del paese, ivi compresa la magistratura, rispetto al regime fascista. E non ha nulla a che vedere con la mancanza di alternanza nel governo del paese.
All’inizio degli anni ’60 sotto la pressione dei movimenti giovanili e con l’ingresso negli apparati dello Stato di una generazione convintamente antifascista iniziò un processo di attuazione della Costituzione, al quale partecipò anche la magistratura.
E infatti, nonostante la mancanza di alternanza nel governo del paese, il Parlamento approvò alcune importanti riforme sociali e culturali: lo statuto dei lavoratori, la riforma del diritto di famiglia, la legge Gozzini e tante altre. E lo fece attraverso quel metodo di dialogo, di confronto e di collaborazione cui facevo cenno all’inizio e che ha segnato i momenti migliori della storia di questo paese.
Anche la magistratura fu protagonista di questo processo di disgelo costituzionale, grazie all’ingresso di una nuova generazione di magistrati, alla istituzione del Consiglio superiore della magistratura, alle leggi che abolirono la carriera e la supremazia della magistratura di legittimità.
In quegli anni fu coniata l’espressione, volutamente provocatoria e probabilmente anche un po’ infelice, di uso alternativo del diritto. Ma il senso di quella espressione era molto lontano da quello che i tanti detrattori dei magistrati, e qualche ignorante tra noi, hanno voluto dargli. Basta leggere gli scritti di Senese, di Borrè e di Ferrajoli di quegli anni per comprendere che ciò di cui si discuteva era il carattere immediatamente precettivo delle disposizioni costituzionali e la conseguente necessità di rileggere la normativa vigente attraverso la lente della Costituzione, reinterpretandola, ove possibile, in maniera costituzionalmente conforme oppure, ove non possibile, denunciandone la illegittimità davanti alla Corte Costituzionale. Un uso del diritto dunque alternativo a quello conservativo e anticostituzionale fino a quel momento propugnato dai vertici della magistratura.
Questo ruolo della giurisdizione di custode e di garante dei principi fondamentali consacrati nelle carte costituzionali è divenuto ormai senso comune in tutte le democrazie costituzionali. E si è anzi accentuato negli ultimi decenni in ragione della sempre maggiore complessità degli ordinamenti giuridici e delle fonti sovranazionali. E non a caso è ovunque ragione di tensioni e conflitti tra potere politico e magistratura.
Mi rendo conto che questi vincoli -la Costituzione, i diritti fondamentali, le norme sovranazionali- possono rendere più complicata la vita di chi è chiamato a governare la enorme complessità della realtà, ma dovrebbe essere interesse di tutti conservare questo ruolo neutro della giurisdizione a tutela e garanzia dei diritti di tutti.
Concludo con alcuni accenni al merito della riforma, che, secondo me, dimostrano quanta poca ponderazione e riflessione ci sia stata nel disegnare questo progetto.
Toccherò tre punti nei quali, a me pare, le soluzioni proposte non risolvano e in alcuni casi addirittura accentuino i problemi che si dichiara di voler fronteggiare: il sorteggio, la separazione degli ordini e il secondo CSM per i pubblici ministeri, il disciplinare.
Il sorteggio, lo dicono in tanti e lo hanno detto anche oggi l’Avv. Greco e il cons. Giuffrè, è una cosa sbagliata. Il presidente Greco lo ha definito una cosa abominevole. Ma, si dice, di fronte alla gravità del fenomeno del correntismo qualcosa è necessario fare. E dunque, in assenza di altre proposte, meglio fare una cosa sbagliata che non fare nulla.
Questo argomento è francamente sorprendente: stiamo parlando della Costituzione e non credo si possa sfregiare la Costituzione inserendovi una previsione abominevole solo perché non c'è venuta in mente un’idea migliore.
Ma, poi, non è vero che non ci sono rimedi possibili ai vizi del correntismo.
Uno degli anticorpi alle degenerazioni del correntismo è qui, davanti ai vostri occhi: è il dibattito libero e trasparente, sulle idee, sui valori, sui principi, di un gruppo di magistrati.
I corpi intermedi, l'elaborazione collettiva, il confronto delle idee sono un antidoto potente rispetto ai gruppi di potere che si riuniscono in luoghi nascosti, alle conventicole, ai centri di potere.
L’ho detto più volte e in più occasioni: le degenerazioni clientelari e corporative del governo autonomo della magistratura non derivano dalla forza delle correnti, ma semmai dalla loro debolezza, cioè dalla loro incapacità di fare da argine alle richieste di protezione e di promozione provenienti dagli iscritti.
Un ruolo fondamentale potrebbe avere la componente laica del CSM attraverso un recupero del suo ruolo di effettiva rappresentanza dell’accademia e della avvocatura. Non penso, cons. Giuffrè, che la questione sia di adeguatezza del curriculum professionale o accademico dei componenti laici. La questione è quella del mutamento del ruolo della componente laica all'interno del Consiglio, con una accentuazione del peso della appartenenza politica. Oggi la componente laica tende sempre di più a portare in Consiglio il punto di vista della politica e non quello dell’accademia o dell’avvocatura. E, a volte, ha portato anche alcuni vizi della politica, che si sono andati a sommare ai vizi della componente togata.
I laici dovrebbero tornare a svolgere quel ruolo di antidoto rispetto ai rischi di ripiegamento corporativo dell’organo di governo autonomo.
La soluzione proposta dalla riforma, invece, mortifica allo stesso tempo il Parlamento, l’Avvocatura e l’Accademia. E non aiuterà a rendere più forte e autorevole la componente laica.
Ma soprattutto l'antidoto al corporativismo sta nella partecipazione dei magistrati alla discussione collettiva, sta nella loro capacità di confronto con l'esterno, nella capacità di pensare e di elaborare.
Il sorteggio, invece, elimina ogni possibilità di rappresentanza sulla base di idee e di valori ed esclude i magistrati, che partecipando alla vita delle correnti o dell’associazione magistrati, hanno acquisito una abitudine al confronto delle idee. E questo produrrà inevitabilmente un ripiegamento corporativo dell’organo di governo autonomo.
Il secondo punto riguarda il pubblico ministero.
La necessità della riforma viene spiegata con l’eccessiva invadenza del potere del pubblico ministero: troppe indagini che spesso finiscono con assoluzioni, eccessivo riflesso mediatico dei risultati delle indagini, scarsa attenzione del pubblico ministero alle garanzie degli indagati.
Alcuni di questi problemi sono reali, anche se le cause sono diverse e non tutte attribuibili alla magistratura, ma non è questa la sede per affrontare il tema. Quello che mi preme dire è che queste criticità, per la parte che riguarda la magistratura, con il nuovo assetto non potranno che peggiorare.
Lasciare il monopolio dell’azione penale obbligatoria in capo ad un corpo molto ristretto di funzionari, che dispongono della polizia giudiziaria, che si amministrano da soli e che godono delle stesse garanzie di indipendenza e di autonomia dei giudici, rischia di creare davvero quel predominio dei pubblici ministeri che oggi alcuni paventano.
A me pare evidente, infatti, che la separazione porterà ad un aumento, e non ad una diminuzione dei difetti della funzione, determinando inevitabilmente una torsione in senso inquisitorio del pubblico ministero.
Ciò avrà una ricaduta anche sul piano del ruolo del Consiglio superiore della magistratura. Molti lamentano, oggi, l’eccessivo ruolo politico del Consiglio, che con i suoi pareri sui progetti di riforma interferirebbe con il processo legislativo atteggiandosi ad una sorta di terza camera. È questa una critica che io ho sempre ritenuto infondata, in quanto è esclusivamente frutto di una debolezza della politica e della sua incapacità di assumersi la responsabilità delle scelte, eventualmente anche andando di contrario avviso rispetto al parere di un organo tecnico. Ma quello che è certo è che tra i due Consigli che saranno creati dalla riforma quello che avrà maggiore peso politico nel dibattito pubblico e i cui pareri potranno maggiormente interferire sulle scelte del legislatore sarà proprio quello dei pubblici ministeri.
Anche per questo in molti pensano, e alcuni lo hanno detto anche esplicitamente, che l’attuale riforma non sia che un primo passo verso l’approdo finale della sottoposizione del pubblico ministero al potere esecutivo. Un approdo, si badi, che non richiederebbe necessariamente una nuova modifica costituzionale e che potrebbe essere realizzato anche di fatto, ad esempio rafforzando ulteriormente il potere dei dirigenti degli uffici. L’autonomia e l’indipendenza dell’ordine giudiziario, infatti, per essere effettive richiedono robusti ed efficaci presidi di garanzia, senza i quali la mera affermazione del principio in Costituzione può ridursi anche a pura e inutile declamazione.
In ultimo il tema del disciplinare con la creazione di una Alta Corte separata dal CSM, sul quale pure sono molteplici le criticità.
La espressa esclusione del ricorso in Cassazione avverso le sentenze della Alta Corte è chiaramente in contrasto con il disposto dell’art.111 della Costituzione e porterà alla probabile dichiarazione di incostituzionalità della norma, con il rischio che in ragione del numero limitato di componenti la Corte si trovi presto nell’impossibilità di funzionare.
È difficile, inoltre, comprendere la coerenza sistematica di una riforma che separa in maniera netta i due ordini giudiziari, crea due Consigli superiori, ma poi affida il disciplinare ad un organismo misto di giudici e pubblici ministeri, peraltro con una rappresentanza di pubblici ministeri proporzionalmente più ampia (3 contro 6 a fronte di un rapporto di 2 a 10 nella attuale composizione della magistratura). Difficile comprendere come mai qui non venga in gioco il pericolo di un condizionamento dei giudici da parte dei pubblici ministeri, pericolo che è indicato come ragione e fondamento dell’intera riforma.
Vi è poi il problema della iniziativa disciplinare oggi affidata per previsione costituzionale al Ministro e per previsione legislativa anche al Procuratore generale. Sul punto la riforma nulla dice. Resterà nelle leggi di attuazione, l’iniziativa anche in capo al Procuratore generale oppure si intende lasciarla al solo Ministro della giustizia?
Nel primo caso appare evidente come ne risulterebbe ancora più rafforzato quel pericolo di condizionamento dei giudici da parte dei pubblici ministeri. Non solo i pubblici ministeri giudicano gli illeciti disciplinari anche dei giudici, ma addirittura si affida al vertice dell’ordine requirente l’iniziativa disciplinare anche nei confronti dei giudici. E tutti sappiamo quanta incidenza abbia nel disciplinare il potere di azione (e il connesso potere di non esercizio dell’azione).
Nel secondo caso si affiderebbe, invece, l’iniziativa disciplinare al solo Ministro della giustizia. Solo che l’azione disciplinare è obbligatoria, mentre la Costituzione (art.107) attribuisce al Ministro della giustizia la sola facoltà dell’esercizio. E tutti sappiamo che i casi in cui il Ministro della giustizia ha esercitato questa facoltà non sono molti. E la gran parte di essi non fanno onore ai Ministri che l’hanno esercitata. Il risultato sarebbe una drastica riduzione del numero di azioni disciplinari e, al contempo, una fortissima politicizzazione della iniziativa. Ed è probabile che ad una scarsa o nulla attenzione all’iniziativa disciplinare per gli illeciti extra-funzionali dei magistrati, quale quella registrata finora, si venga a contrapporre un incremento della iniziativa sugli illeciti funzionali a fronte di decisioni giudiziarie non gradite al potere politico.
Infine, vale per l’Alta Corte disciplinare, anch’essa composta per sorteggio, la stessa obiezione mossa alla composizione dei due Csm, dovendosi ritenere altamente probabile che anche in questo organismo composto per sorte finiscano per prevalere logiche di protezione corporativa.
Con un pericolo ulteriore, però, connesso alla separazione della funzione disciplinare dalla funzione di governo della magistratura: è possibile che magistrati estratti a sorte, privi di esperienze associative o di governo autonomo, non investiti anche della funzione di presidio della autonomia affidata al Csm, a fronte del possibile aumento delle contestazioni per illeciti funzionali e della forte pressione politica ad esse connessa, possano non coltivare a pieno quella forte attenzione al principio di intangibilità dell’attività di interpretazione delle norme e di valutazione del fatto, che è attualmente sancita dalle pronunce delle Sezioni unite della corte di cassazione, ma che già oggi tende pericolosamente a essere messa in discussione da alcune pronunce della sezione disciplinare.
Insomma, io credo che nonostante si sia arrivati alla terza lettura e nonostante il clima che si cerca di creare, buon senso e serietà impongano di fermarsi e riflettere; di buttare via gli slogan e le pretese di rivincita di un potere sull’altro e di cercare di individuare soluzioni condivise nell’interesse dei cittadini e del paese.