GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    Crimini di pace morire di lavoro a 10 anni dal testo unico sicurezza del lavoro

    Un morto ogni 8 ore, oltre 13.000 morti e 8 milioni di infortuni sul lavoro in dieci anni, circa 3.000 morti da amianto ogni anno nonché il numero oscuro di quelli dissimulati come incidenti domestici o stradali: veri e propri crimini di pace che qualcuno si ostina a chiamare morti bianche.
    Il 9 aprile 2008 veniva approvato il Testo Unico Sicurezza del Lavoro, approvato dal governo Prodi una settimana prima delle elezioni, subito radicalmente riformato dal successivo governo Berlusconi. Il bilancio è tragicamente fallimentare sul piano preventivo e repressivo per cause di ordine politico, amministrativo, economico, giudiziario.
    Ben cinque governi in questi dieci anni non sono riusciti a varare tutti i decreti attuativi del decreto 81 del 2008. Ad esempio il S.I.N.P. deve ancora decollare e la “patente a punti” delle imprese edili non è stata mai applicata. Il nuovo codice dei contratti pubblici fa dei costi della sicurezza un perno centrale dei lavori pubblici ma pochi ispettori saprebbero sbirciare dentro una gara per scoprire dove si tenta di ribassare sulla pelle dei lavoratori. I provvedimenti noti come Industria 4.0 legano l’innovazione alla sicurezza. Il Jobs Act aggancia la riforma del lavoro alla tutela della salute e riunisce gli ispettori dell’Inail, dell’Inps e del lavoro nell’Ispettorato Nazionale del Lavoro, ma ancora dopo tre anni è impantanato nella burocrazia, nelle resistenze di categoria e nell’impossibilità normativa di coordinare gli ispettori delle Asl che invece fanno capo alle Regioni. Queste hanno competenza generale sui luoghi di lavoro ma rispondono a politiche di prevenzione variegate in base all’assessore di turno. Buone idee che non portano mai ai risultati sperati.
    Ad ogni strage sul lavoro si sente lo slogan “perché non accada mai più” e si invocano maggiori controlli: una ovvietà che vale per tutti i reati di qualsiasi tipo, quindi equivale a non dire nulla.
    Oggi abbiamo la metà degli ispettori Asl che vi erano dieci anni fa: un’impresa può nascere, vivere per anni e morire senza mai essere controllata. Eseguire controlli non può essere un’emergenza, deve essere una costante non contro ma a supporto del sistema produttivo.
    Va elevata la qualità e competenza dei controlli con un unico effettivo coordinamento nazionale che programmi sul territorio le forze ispettive disponibili: intervenire in un’azienda agricola del ragusano o dell’agropontino non è come ispezionare una fabbrica brianzola, un’industria chimica o un cantiere edile.
    I controlli soltanto se sono coordinati e incrociati diventano proficui per imprese, lavoratori, Stato, Regioni e collettività. Si pensi all’incendio di un laboratorio di Prato con la morte di sette lavoratori cinesi il primo dicembre 2013 dopo il quale la Regione Toscana ha reclutato 75 ispettori per tre anni sulla base di un protocollo con la magistratura. Sono stati scoperti oltre 600 dormitori abusivi, il triplo dei reati in materia di lavoro rispetto al periodo precedente, un ingente indotto di evasione fiscale, con la conseguenza di aver recuperato alla legalità centinaia di imprese del territorio pratese e di aver incamerato somme di gran lunga superiori a quelle impegnate per retribuire i 75 ispettori. I controlli a tappeto hanno giovato alla Regione, alla giustizia, ai lavoratori e alle imprese sane che hanno visto il mercato ripulito da imprese che facevano concorrenza sleale sfruttando i lavoratori, abbattendo i costi, evadendo gli obblighi di legge.        
    Sul piano economico una costante lamentela delle imprese riguarda i costi della sicurezza ritenuti eccessivi, burocratici e di intralcio. Si dimentica che fare sicurezza ha un costo di gran lunga inferiore a quello dell’insicurezza: costi umani, legali, produttivi, amministrativi oltre le sanzioni penali e le conseguenze nelle relazioni interne. Invero occuparsi della salute dei lavoratori non è un costo ma un obbligo costituzionale previsto dall’art. 41 della Costituzione; ed è soprattutto un investimento per rendere efficiente e funzionale una procedura, un sistema produttivo, l’organizzazione del lavoro. Ogni euro messo sulla sicurezza porta a produrre meglio, senza danni, quindi reddito e risparmio, benefici non costi.
    Ciò che fa bene all’impresa fa bene alla società, e viceversa, ciò che danneggia l’impresa è un costo per la collettività. I costi degli infortuni infatti vanno valutati anche sul piano macroeconomico: sono a carico dello Stato sociale attraverso il sistema previdenziale, assicurativo, sanitario e giudiziario. Ogni infortunio, a prescindere dalla gravità, mette in moto un meccanismo amministrativo, processuale e sanitario che grava sulla spesa pubblica. In Germania ciò significa il 2,6 % del PIL, in Italia circa il 3%.
    Anche l’apparato giudiziario ha le sue colpe. Molte prescrizioni sarebbero evitate se si applicasse la norma del codice di procedura penale che dal 1989 impone una corsia preferenziale per i processi in materia antinfortunistica al pari di quelli con detenuti. Del resto la magistratura associata non ha mai voluto adottare l’idea di una Procura nazionale (o almeno distrettuale) competente in questa materia, pur sostenuta da autorevoli magistrati. Soprattutto per le morti d’amianto si eviterebbe un’ingiusta oscillazione giurisprudenziale spesso dovuta alla diversa qualità delle indagini.
    Dieci anni fa veniva anche ampliata la responsabilità delle imprese agli omicidi e lesioni gravi dovuti a colpa sul lavoro secondo il d.lgs. 231 del 2001. Sembrava dovesse avvenire una rivoluzione nella prevenzione e nella repressione ma i fatti hanno smentito questa previsione.
    Poche imprese hanno approfittato della normativa (peraltro facoltativa) per rivedere l’organizzazione del lavoro; altre hanno pensato ad assolvere un ulteriore adempimento burocratico; quasi tutte non vi hanno provveduto. Nove volte su dieci quando v’è un infortunio sul lavoro e si vuole indagare sulla responsabilità dell’impresa, non si trova alcun modello di gestione richiesto dal decreto 231. Quando si vuole indagare, appunto, perché a fronte degli oltre tredicimila morti e otto milioni di infortuni, dovremmo oggi leggere almeno qualche decina di migliaia di sentenze sulla responsabilità delle imprese. Invece ne abbiamo soltanto un centinaio perché queste notizie di illecito non vengono cercate, non sono iscritte, le indagini non iniziano e quindi non ci sono processi e sentenze. Molte Procure della Repubblica non ritengono che sia obbligatoria tale indagine e che sia impossibile trovare la prova di un interesse o vantaggio della società (ma ad esempio il caso Thyssen Krupp dimostra il contrario). Probabilmente sulla disapplicazione giudiziaria di una normativa con un’alta funzione preventiva e repressiva influisce la remora delle sanzioni pecuniarie previste, idonee a decretare la chiusura di una piccola azienda.
    Infatti la maggiore parte degli infortuni si verifica nelle P.M.I. che costituiscono oltre 90 % delle imprese italiane e questo dovrebbe orientarci quasi esclusivamente per dare loro supporto preventivo. Le politiche pubbliche grazie soprattutto ai fondi destinati dall’Inail con i bandi ISI per mettere in sicurezza i luoghi di lavoro hanno ridotto gli infortuni del 25,4%  nelle imprese sovvenzionate rispetto a quelle che non hanno chiesto o ottenuto i fondi.      
    A fronte di tali dati però il lavoro è cambiato: non solo precariato ma anche caporalato e sfruttamento. Dall’agricoltura all’edilizia, dai trasporti ai servizi imperversa il lavoro nero, pagato a 2-3 euro l’ora, senza diritti, senza dignità. Disoccupazione giovanile, immigrazione, precariato e stagionalità dei lavori agricoli hanno frammentato la tutela e fatto evaporare i diritti conquistati negli ultimi due secoli. Siamo tornati a livelli ottocenteschi in cui il lavoro è in mano a chi governa un territorio che decide le condizioni in cambio di mera merce umana. E’ il prezzo del prodotto agricolo, ad esempio, spesso imposto dalla grande distribuzione, che condizione la paga di un lavoratore agricolo. Di contratti, tutele, sicurezza manco a parlarne. Il mercato senza regole schiaccia i diritti. Ma devono essere le regole a governare il mercato.

    Giustizia e politica. Lo strano caso  del rito Fornero

    Nell’aula delle cause di lavoro le parti guardano il giudice con occhi smarriti.

    Mentre tenta la conciliazione della causa, snocciola loro le incertezze del percorso processuale che li attende: perché, se anche dovesse decidere rapidamente la loro causa di licenziamento, chi di loro sarà soccombente potrà fare opposizione all’ordinanza, tornando davanti allo stesso giudice; seguirà l’appello (che però qui si chiama reclamo) e o poi magari in giudizio in Cassazione. Nel frattempo è difficile capire su quale base avviare il tentativo di conciliazione, perché il lavoratore che rivendichi anche le retribuzioni per lo straordinario non pagate e contestate dal datore di lavoro, dovrà fare un’altra causa, di cui le parti ancora non conoscono il valore economico, e perché, di conseguenza, non essendo stata iniziata questa causa ulteriore, sia impossibile pronosticare durata e costi del loro processo e, tanto meno, il fondamento delle loro posizioni.

    Nell’aula a fianco i difensori dell’imprenditore convenuto quasi implorano il giudice affinché riunisca le due cause intentate al loro cliente: i due lavoratori sono stati licenziati con l’accusa di averlo derubato insieme, nello stesso turno di servizio. “Ma come faccio a riunirle – replica il giudice – se le due cause di licenziamento procedono con riti diversi? Non è colpa di nessuno se avete assunto il secondo lavoratore ad aprile 2015 e dunque non gli si applica più il rito Fornero. Mica posso riunire due processi che hanno regole diverse! ”.

    Sono scene di ordinaria follia processuale. Si ripetono da anni, da quando cioè, con le legge 92/2012 (cd. legge “Fornero”), il nostro legislatore pensò che per fare durare meno le cause di licenziamento, bisognasse introdurre un nuovo rito, più celere e sotto l’occhio vigile del presidente del tribunale, che avrebbe assicurato priorità a questi giudizi. Così – si diceva – si sarebbe garantita più certezza agli imprenditori sulla durata della causa e dunque sulla sorte del lavoratore che avevano licenziato. Così – si annunciava – si sarebbero avuti tempi più rapidi per la nostra giustizia del lavoro e ci saremmo conquistati la fiducia degli investitori stranieri.

    Come se – fu subito replicato – la durata dipendesse dall’inadeguatezza del processo del lavoro. Come se imporre due fasi di cognizione in primo grado (art. 1, co. 51, l. 92/2012), mantenendo sostanzialmente inalterata la struttura dei gradi superiori (art. 1, co. 59 e 62), significasse accelerare il processo. Come se impedire al lavoratore di fare un’unica causa per tutte le sue pretese (art. 1, co. 48 e 56) fosse scelta conforme a criteri d’economia processuale. Come se la priorità ai processi per i licenziamenti (art. 1, co. 65) non potesse garantirsi anche con gli strumenti organizzativi già a disposizione dei presidenti di sezione e di tribunale.

    Queste obiezioni furono presto avallate dai risultati sul campo. In pochi mesi tutti – magistrati, avvocati, sindacati dei lavoratori, associazioni degli imprenditori – si appellarono in vario modo alla politica per cancellare quel processo insensato. Tutti tranne qualche anima bella, in verità, poco avvezza alla frequentazione dei processi.

    La cronistoria che segue è l’emblema della distanza che purtroppo divide la volontà legislativa dalle esigenze della giustizia.

    Marzo 2014. Dopo alcuni abboccamenti preliminari, l’ANM incontra a Firenze l’Associazione degli avvocati giuslavoristi italiani. Insieme elaborano un testo con sei disposizioni normative brevi e lineari. Esse prevedono l’abrogazione del rito Fornero, la prescrizione di regole organizzative per garantire la via preferenziale alle cause di licenziamento, l’introduzione di due norme chiarificatrici sulla competenza per le controversie del socio lavoratore di cooperativa e del lavoratore vittima di licenziamento discriminatorio.

    5 maggio 2014. ANM ed AGI presentano la bozza di proposta al ministro della giustizia Orlando: il suo compiacimento viene espresso con toni espliciti, sia per il contenuto del testo sia per la concordanza tra magistrati, avvocati e – come questi ultimi tengono a ribadire – organizzazioni sindacali di lavoratori ed imprenditori. Si parla dell’eventualità d’una approvazione celere dietro proposta governativa.

    15 maggio 2014. ANM e AGI riscontrano una sollecitazione del ministro offrendo una proposta di disciplina transitoria alternativa a quella già presente nella bozza presentata nell’incontro al Ministero.

    Da quel momento cala il silenzio, mentre inizia l’iter parlamentare del disegno di legge delega sul processo civile.

    10 dicembre 2014. Viene approvata la legge n. 183 di delega al Governo per le riforme del cd. Jobs act.

    7 marzo 2015. Entra in vigore il decreto legislativo 23/2015 che, in attuazione della delega, introduce il cd. “contratto a tutele crescenti” ed abolisce il rito Fornero. Non è prevista disciplina transitoria. Perciò l’abrogazione vale solo per i lavoratori assunti da quella data. Per tutti gli altri il rito Fornero continua ad applicarsi.

    15 giugno 2015. L’ANM è in audizione alla Commissione giustizia della Camera sul d.d.l. per il processo civile. Spieghiamo la novità apportata dal d. lgs. 23 e l’incongruenza della sopravvivenza del rito Fornero anche dopo la sua abrogazione, limitata ai nuovi assunti. Gli avvocati dell’AGI rincarano la dose. La presidente Donatella Ferranti interviene a placare il mormorio di stupore che si leva dai banchi degli onorevoli. Usciamo dall’aula della Commissione nuovamente fiduciosi sulla comprensione del problema.

    10 marzo 2016. Viene approvato alla Camera il ddl sulla delega per il processo civile. L’art. 2 riproduce integralmente il testo elaborato da ANM e AGI. Sono norme che, se varate definitivamente, non necessitano di attuazione.

    23 novembre 2016. Audizione dell’ANM in Commissione giustizia del Senato. Vengono riproposti gli stessi argomenti spesi nelle varie sedi istituzionali precedenti sulla necessità e, a questo punto, urgenza dell’approvazione delle norme sul rito per i licenziamenti. Con l’entrata a regime del Jobs act, si moltiplicano le incongruenze del doppio regime processuale, sommate a quelle già esiziali del rito Fornero.

    In questo momento il ddl per la delega al Governo sul processo civile giace al Senato in attesa di conoscere il suo incerto destino, legato come ovvio alle sorti della legislatura. Il timore è di vederlo arenare come già tanti altri progetti precedenti, anche perché molte disposizioni che vi sono inserite sono obiettivamente discutibili e sono state criticate dall’ANM stessa.

    I contatti informali col ministero e con parlamentari per instradare le norme lavoristiche su un percorso apposito, anche urgente (la sopravvivenza del rito Fornero dopo l’abrogazione disposta dal Jobs act giustificherebbe una soppressione immediata) non hanno avuto risultato.

    Tutti insomma si dicono d’accordo per la soluzione che l’ANM ha suggerito tre anni fa e che da allora i giudici del lavoro invocano. Ma, nonostante ciò, siamo ad un binario morto.

    Non è bastata l’iniziativa congiunta di magistrati ed avvocati, pur salutata dal ministro della giustizia con dichiarazioni di soddisfazione e di auspici favorevoli per esperienze future analogamente virtuose. Non è servito il fronte compatto dei sindacati e degli imprenditori. Neppure la stupefatta riprovazione espressa da alcuni parlamentari quando gli si sono state illustrate le conseguenze sulla coesistenza del doppio (o triplo) rito per i licenziamenti sono andate oltre l’esteriorità della reazione.

    Negli ultimi lustri la politica in materia di giustizia del lavoro ha seguito una direzione unica, di compressione delle tutele fondamentali e dissuasione dall’azione processuale: questi disegni sono stati perseguiti anche a costo di scaricare sulla parti del processo prezzi elevati in termini di prevedibilità delle decisioni, tenuta costituzionale dei nuovi assetti normativi, razionalità delle soluzioni.

    Sono effetti oggi non ancora vistosi, ma destinati a consolidarsi quando arriveranno le prime pronunce di rottura del nuovo sistema, di cui abbiamo già alcune avvisaglie.

    Il nuovo corso politico-economico non è stato contrastato dalla magistratura del lavoro neppure quando si è espresso con interventi assurdi nelle ricadute processuali ed indifferenti al quadro sistematico, persino costituzionale. Non è chiaro però, di fronte a vicende quale quella del rito per i licenziamenti, a cosa alludano il ministro o le forze governative quando invochino atteggiamenti di collaborazione da parte dell’ordine giudiziario.

    Intanto, nella sua pubblica udienza, il giudice continua paziente a cercare di fare comprendere gli svariati risvolti dei futuri passaggi processuali alle parti venute nell’aula decise ad ottenere giustizia. Non cerca di spiegare loro perché sia tutto tanto complicato ed apparentemente illogico. Il lavoratore e l’imprenditore ascoltano, voltandosi talvolta verso il rispettivo difensore. Probabile che colgano in lui lo stesso sguardo sconsolato di chi siede loro di fronte.

    Marcello Basilico

    Jobs Act degli autonomi. Una novità salutare


    Brevi note su Legge 22 maggio 2017 n° 81

    "Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato"

    -1-

    Nel contesto sociale il termine lavoro assume più significati tutti ugualmente tutelati sul piano costituzionale (artt. 1 e 4).

    In particolare la tutela del diritto al lavoro contempla innanzitutto la garanzia costituzionale (art. 35) alla scelta dell’attività lavorativa e del modo di esercitarla come un mezzo fondamentale di attuazione dell’interesse allo sviluppo della personalità, senza che possano considerarsi irragionevoli differenze di trattamento quelle previste per le due categorie fondamentali (lavoro autonomo e lavoro subordinato) la cui previsione è stata espressamente fissata dal codice civile.

    La produzione normativa successiva all’entrata in vigore della carta costituzionale è stata prevalentemente diretta a garantire le linee programmatiche costituzionali con riferimento al lavoro subordinato (Statuto Lav. processo del lavoro) confinando i provvedimenti riferiti alle altre forme di esercizio dell’attività lavorativa a episodici interventi volti più a disciplinare e reprimere l’abusivo ricorso al lavoro autonomo piuttosto che a garantirne l’esecuzione secondo i principi costituzionali.

    Il testo di legge entrato in vigore il 14 Giugno appare come una diretta attuazione dell’art. 35 Cost. « La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni. Cura la formazione e l’elevazione professionale dei lavoratori… » e si pone perciò come il primo vero tentativo organico volto ad approntare le garanzie costituzionali anche al lavoro autonomo.

    Se l'intento del Legislatore, fino ad oggi, è stato quello di limitare il ricorso a forme contrattuali diverse dal lavoro subordinato, questa innovazione potrebbe comportare una spinta verso l'instaurazione di nuovi rapporti di lavoro autonomo genuini soprattutto nell’ambito delle collaborazioni.

    Ad una prima lettura, il testo normativo del 2017 non pare completare l’ambizioso progetto contenuto nella legge delega n. 183/2014” per emanare “un testo organico delle discipline delle tipologie contrattuali”, quanto piuttosto restituire dignità alla storica distinzione del diritto del lavoro tra subordinazione ed autonomia (quest’ultima inclusiva delle collaborazioni coordinate e continuative) forse utile a favorire e realizzare l’equilibrato contemperamento degli interessi coinvolti nella produzione e l’equo bilanciamento tra i valori dell’impresa e quello della persona umana.

    Tenendo conto di un contesto profondamente diverso da quello del 1970, ma anche da quello del 2003, i nuovi provvedimenti in materia di lavoro che vanno sotto il nome di Jobs Act -da un lato- hanno attenuato le tutele per coloro che hanno un posto di lavoro subordinato a tempo indeterminato allo scopo rendere più attrattivo per le imprese l'uso di questa forma di assunzione rispetto alla pletora di rapporti temporanei, anche attraverso interventi di decontribuzione - da un altro lato- hanno ampliato la cerchia dei lavoratori protetti e hanno incrementato le tutele nel mercato, con lo scopo di favorire, nella ricerca di un posto di lavoro, coloro che sono inoccupati o disoccupati, attraverso il potenziamento di un sistema di politiche attive e della formazione e riqualificazione dei lavoratori.

    In tale ottica il Jobs Act degli autonomi adotta alcune misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e riscrive, in parte, la disciplina delle collaborazioni, introducendo un possibile riparo per il committente dalla presunzione di subordinazione per i contratti non regolari già contenuta nell’art. 2 d.lgs. 81/2015.

    La lettura della legge n° 81 del 22 maggio 2017 deve perciò essere coordinata con il complessivo riassetto regolativo del diritto del lavoro ed in particolare con il d.lgs. n. 81/2015, che ha abrogato la disciplina delle collaborazioni coordinate e continuative a progetto ed ha previsto che, a fare data dal 1° gennaio 2016, trovi applicazione la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretizzino in prestazioni di lavoro esclusivamente personale e continuative, e le cui modalità di esecuzione siano organizzate dal committente, anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro.

    L’ambito di applicazione della L. 81/2017 si interseca con la disciplina delle collaborazioni previste dall’art. 2 d.lgs. 81/2015 creando un ventaglio di possibilità di inquadramento dei lavoratori autonomi ciascuno caratterizzato da diversi profili di disciplina sostanziale e processuale quanto al rito applicabile alle controversie nascenti dalla regolamentazione delle differenti tipologie di prestazione dell’attività lavorativa.

    Diversi possono essere gli approcci al tentativo di ricondurre a sistema la disciplina complessivamente emergente dagli interventi di modifica, ma per tutti appaiono imprescindibile punto di partenza da un lato il mantenimento della dicotomia lavoro subordinato – lavoro autonomo e dall’altro la modifica ad opera dell’art. 15 L. 81/2017 del contenuto dell’art. 409, co. 3 c.p.c.

    Il legislatore del 2017 ha mantenuto l’impianto sistematico dell’art. 409 c.p.c. senza perciò modificare (come in una prima stesura del testo normativo) la competenza del giudice del lavoro di modo che la stretta connessione tra disciplina processuale e disciplina sostanziale continua ad essere un momento imprescindibile della qualificazione della fattispecie (prestazione coordinata e continuativa) stabilmente inserita tra le categorie del lavoro autonomo.

    L’art. 409, n. 3), cod. proc. civ., è -come noto- norma di natura processuale a contenuto sostanziale che, assoggettando i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa al rito del lavoro, li qualifica come quelli aventi a oggetto « una prestazione di opera continuativa e coordinata, prevalentemente personale, anche se non a carattere subordinato. La collaborazione si intende coordinata quando, nel rispetto delle modalità di coordinamento stabilite di comune accordo dalle parti, il collaboratore organizza autonomamente l'attività lavorativa ».

    Molti approfondimenti sono stati fatti in dottrina ed in giurisprudenza in merito alla qualificazione del rapporto di lavoro in termini di autonomia o subordinazione anche successivamente all’emanazione del d.lgs. 81/2015 che ha espressamente previsto la categoria del lavoro etero-organizzato, ha abrogato la figura del contratto a progetto e la possibilità per il giudice di convertire una prestazione a progetto in lavoro subordinato.

    Non è questa la sede per affrontare una questione, oltremodo complessa, come quella della distinzione fra etero direzione, etero organizzazione e coordinamento. Mi limito qui solo ad evidenziare che le tecniche legislative utilizzate nel d.lgs. 81/15 e nella L. 81/2017, costituiscono, un importante elemento esegetico.

    Il legislatore non ha in alcun modo inciso sugli aspetti qualificatori delle fattispecie (fatta eccezione per la precisazione contenuta nel novellato art. 409 n° 3 c.p.c.), ma solo sugli aspetti di disciplina prevedendo specifiche tutele per il lavoro autonomo, graduate in base al livello di autonomia attraverso la quale viene resa la prestazione.

    La considerazione, non è di poco conto in quanto evidenzia la volontà di modificare l’assetto delle tutele lasciando inalterato il piano di definizione normativa delle due categorie generali: autonomia e subordinazione così come disciplinate dal codice civile e ulteriormente specificate dall’art. 409 n° 3 c.p.c.

    Non si tratta di una discussione meramente teorica, ma con notevoli implicazioni pratiche: ove, infatti si ritenga che le modifiche valgano sostanzialmente a riqualificare la fattispecie del lavoro subordinato, deve riconoscersi che la definizione normativa di cui all’art. 2094 c.c. debba essere innovata ad opera dell’elemento della etero organizzazione; qualora viceversa si ritenga che le collaborazioni etero-organizzate rappresentino, comunque, una fattispecie di lavoro autonomo si riterrà di conseguenza non modificata la definizione di subordinazione, con ogni conseguenza in termini di disciplina.

    I sostenitori della prima prospettazione teorizzano, infatti, che le collaborazioni etero organizzate di cui all’art. 2 d.lgs. 81/15 siano in realtà dei veri e propri rapporti di lavoro subordinato e come tali da assoggettare allo statuto integrale del lavoro subordinato.

    Chi al contrario colloca le collaborazioni etero organizzate nell’ambito del lavoro autonomo applica alle stesse la disciplina del lavoro subordinato o meglio le tutele accordate allo stesso, senza modificare la fattispecie.

    La differenza è notevole, in quanto l’applicazione integrale dello statuto del lavoro subordinato prevede oltre alle tutele in favore del prestatore anche l’osservanza da parte di quest’ultimo di precisi doveri nei confronti del datore di lavoro che mal si conciliano con una prestazione priva del requisito della etero direzione. E’ infatti, di tutta evidenza che ove mai la prestazione etero organizzata sia anche eterodiretta questa sia in tutto e per tutto una prestazione di lavoro subordinato tout-court.

    Oltre che su elementi di sistema l’accoglimento della seconda tesi è, come detto, fondata su precisi elementi testuali quali l’aver previsto una collaborazione con un committente e non con un datore di lavoro, l’aver indicato l’applicazione della tutela prevista per il lavoro subordinato e non la riqualificazione della collaborazione a progetto in rapporto di lavoro subordinato come invece era previsto dall’art. 69 d.lgs. 276/03.

    Merita altresì segnalare che quanto previsto nell’art. 2, comma 1, d.lgs 81/15 non riguarda in ogni caso le eccezioni specificate nei successivi commi 2 e 4, ossia: le collaborazioni per le quali gli accordi collettivi nazionali, stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, prevedano discipline specifiche concernenti il trattamento economico e normativo, in ragione delle particolari esigenze produttive ed organizzative del relativo settore (comma 2, lett. a); quelle prestate nell’esercizio di professioni intellettuali per le quali sia necessaria l’iscrizione in appositi albi professionali (comma 2, lett. b); le attività svolte, nell’esercizio della relativa funzione, dai componenti degli organi di amministrazione e di controllo delle società e dai partecipanti a collegi e commissioni (comma 2, lett. c ); le collaborazioni rese, a fini istituzionali, in favore delle associazioni e società sportive dilettantistiche affiliate alle federazioni sportive nazionali, alle discipline sportive associate o agli enti di promozione sportiva riconosciuti dal CONI (comma 2, lett. d ); le collaborazioni prestate nell’ambito della produzione e della realizzazione di spettacoli da parte delle fondazioni di cui al decreto legislativo 29 giugno 1996, n. 36 (comma 2, lett. d-bis ); quelle concluse dalle pubbliche amministrazioni, fino al completo riordino della disciplina dell’utilizzo, da parte delle stesse, dei contratti di lavoro flessibile, fermo restando il divieto di ricorrere ai rapporti di cui all’art. 2, comma 1, a partire dal 1° gennaio 2017 (comma 4).

    Tali eccezioni, confermano inequivocabilmente la tesi della conservazione dell’autonomia delle collaborazioni etero organizzate a meno di non voler incorrere in possibili vizi di incostituzionalità in particolar modo rispetto alla previsione di cui al comma 2, lett.a) con riferimento ai principi espressi dalla Corte Costituzionale in materia di “indisponibilità del tipo contrattuale” per i quali è escluso che la contrattazione collettiva possa sostituire la disciplina legale con una pattizia.

    Così ricostruita la dicotomia lavoro subordinato – lavoro autonomo, la modifica all’articolo 409, numero 3, del codice di procedura civile può forse essere utilizzato, quale elemento di specificazione della fattispecie, alla stregua di un elemento chiarificatore nella distinzione tra il coordinamento (compatibile con l’autonomia), la etero-direzione (tipica della subordinazione) e la etero-organizzazione delle modalità di esecuzione anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro (compatibile con l’autonomia).

    Tracciare il confine tra etero-organizzazione e coordinamento costituisce perciò il momento determinante nella individuazione dell’autonomia della prestazione di opera ( e non di lavoro) resa in via esclusivamente personale in favore di un committente.

    L’introduzione della definizione del concetto di coordinamento: « la collaborazione si intende coordinata quando, nel rispetto delle modalità di coordinamento stabilite di comune accordo dalle parti, il collaboratore organizza autonomamente l’attività lavorativa » -a meno di non voler stravolgere quanto prima affermato circa la necessità di considerare le collaborazioni etero-organizzate nell’ambito dell’autonomia- deve, in sostanza, essere letta quale elemento chiarificatore della possibilità di sopravvivenza di collaborazioni coordinate che non siano anche etero- organizzate alle quali perciò non sia applicabile la disciplina del lavoro subordinato.

    In sostanza per aversi una collaborazione coordinata e continuativa genuina (non etero- organizzata) le modalità di coordinamento non devono essere imposte dal committente, ma possono essere scelte autonomamente dal collaboratore o concordate tra le parti, risultando così confermata la compatibilità tra l’autonomia organizzativa e il coordinamento, nel senso che l’attività lavorativa può essere organizzata autonomamente dal prestatore, benché sia coordinata dal committente.

    Mentre l’autonomia organizzativa del collaboratore – nella fattispecie di cui all’art. 2, d.lgs. n. 81/2015 – risulta fortemente compressa dal potere di organizzazione in capo al committente, nella fattispecie di cui all’art. 409, n. 3, c.p.c. essa non risulta scalfita dal requisito del coordinamento, il quale si limita ad orientare l’esecuzione della prestazione alle condizioni definite nel programma negoziale in vista del soddisfacimento dell’interesse creditorio.

    Come è stato efficacemente osservato in dottrina (1) il lavoratore coordinato di cui all’art. 409 n° 3 « è un lavoratore munito di una micro-organizzazione di risorse, soggetto ad un potere altrui funzionale a garantire l’utilità della sua prestazione nell’incontro dinamico tra due organizzazioni » (quella ‘macro’ del committente e quella ‘micro’ del prestatore), mentre il lavoratore etero-organizzato di cui all’art. 2, co. 1 d.lgs. 81/2015 « è sprovvisto di risorse proprie e promette l’adempimento sotto un potere funzionale all’innesto utile della sua attività in una ».

    Mentre l’autonomia organizzativa del collaboratore – nella fattispecie di cui all’art. 2, d.lgs. n. 81/2015 – risulta fortemente compressa dal potere di organizzazione in capo al committente, nella fattispecie di cui all’art. 409, n. 3, c.p.c. essa non risulta scalfita dal requisito del coordinamento, il quale si limita ad orientare l’esecuzione della prestazione alle condizioni definite nel programma negoziale in vista del soddisfacimento dell’interesse creditorio.

    Ma la vera novità inserita nel novellato art. 409 n° 3 c.p.c. riguarda la possibilità di concordare le modalità di coordinamento che comprendono anche i modi e di tempi di espletamento della prestazione al fine di garantire la genuinità delle scelte ed escludere l’ipotesi di etero-organizzazione.

    Si renderà perciò assolutamente necessario formulare chiari accordi contrattuali, che evitino il rischio che tali modalità vengano a posteriori ed in sede giudiziale considerate un’imposizione del committente, con conseguente applicazione al rapporto della disciplina del lavoro subordinato.

    Dovrà in ogni caso tenersi conto che l’accordo sulle modalità di coordinamento attiene alla fase genetica del negozio, la quale non dovrà essere contraddetta dal concreto svolgimento del rapporto, proprio in nome della logica protettiva insita nell’art. 2, d.lgs. n. 81/2015 che, certamente, «impone la prevalenza della dimensione fattuale rispetto alla volontà originariamente dichiarata».

    Pertanto, se le parti hanno concordato le modalità del mero coordinamento tra di esse, ma poi emerge la sottoposizione della prestazione lavorativa ad un potere unilaterale di organizzazione (o, addirittura, di direzione) della stessa da parte del committente/datore di lavoro, la presunzione alimentata dal nomen juris cadrà di fronte al dato fattuale, nei soliti termini a cui il contenzioso sulla qualificazione del rapporto di lavoro ci ha abituati

    In conclusione coordinando la lettura dell’art. 2094 c.c., dell’art. 409 n° 3 e dell’art. 2 d.lgs. 81/2015 possono perciò essere individuate quattro ipotesi ciascuna con un differente profilo di disciplina sostanziale e processuale:

    1) prestazione di lavoro subordinato ex art. 2094 e ss. c.c.;

    2) contratto d’opera ex art. 2222 c.c.;

    3) collaborazione prevalentemente personale, coordinata e continuativa nella quale la collaborazione è prestata nel rispetto delle modalità di coordinamento stabilite di comune accordo dalle parti e il collaboratore organizza autonomamente l’attività lavorativa ex art. 409, n. 3, c.p.c.;

    4) collaborazione prevalentemente personale, continuativa, coordinata e ed etero-organizzata ex art. 2, comma 1, D.Lgs. n. 81/2015.

    Passando a verificare gli ambiti di tutela accordati al lavoro autonomo dalla legge n° 81/2017 anche definita Jobs Act degli autonomi occorre innanzitutto soffermarsi sul dichiarato ambito di applicazione (art. 1): Le disposizioni del presente capo si applicano ai rapporti di lavoro autonomo di cui al titolo III del libro quinto del codice civile, ivi inclusi i rapporti di lavoro autonomo che hanno una disciplina particolare ai sensi dell'articolo 2222 del codice civile.

    Restano perciò esclusi dall’ambito di applicazione gli agenti, i lavoratori impegnati negli appalti e gli imprenditori, ivi compresi i piccoli imprenditori di cui all'articolo 2083 del codice civile (art. 1 co.2).

    L’articolato procede con l’indicazione di alcune tutele estese a tutte le categorie di lavoratori autonomi: Art. 2. (Tutela del lavoratore autonomo nelle transazioni commerciali); Art. 3. (Clausole e condotte abusive); Art. 4. (Apporti originali e invenzioni del lavoratore) L’individuazione della competenza e del rito applicabile in questi casi restano regolati dalle disposizioni processuali vigenti con la conseguenza che sono attribuite al giudice del lavoro le controversie di cui all’art. 409 n° 3 c.p.c.

    Di particolare interesse sono le disposizioni contenute nell’art. 6. ( Deleghe al Governo in materia di sicurezza e protezione sociale dei professionisti iscritti a ordini o collegi e di ampliamento delle prestazioni di maternità e di malattia riconosciute ai lavoratori autonomi iscritti alla Gestione separata )

    e nell’art. 7. ( Stabilizzazione ed estensione dell'indennità di disoccupazione per i lavoratori con rapporto di collaborazione coordinata e continuativa -- DIS-COLL).

    In entrambi i casi le eventuali controversie saranno soggette al rito del lavoro in quanto coinvolgenti la materia previdenziale o in quanto relative a prestazioni rese da lavoratori iscritti alla gestione separata (collaborazioni coordinate e continuative).

    Analoghe considerazioni valgono per le tutele di natura previdenziale previste dall’art. 8. (Disposizioni fiscali e sociali) mentre più problematica appare la previsione dell’art. 11. ( Delega al Governo in materia di semplificazione della normativa sulla salute e sicurezza degli studi professionali). Si tratta di norme volte alla individuazione di specifiche misure di prevenzione e protezione idonee a garantire la tutela della salute e della sicurezza delle persone che svolgono attività lavorativa negli studi professionali, riformulazione e razionalizzazione dell'apparato sanzionatorio, amministrativo e penale, per la violazione delle norme vigenti in materia di salute e sicurezza sul lavoro negli studi professionali, per le quali forse sarebbe necessaria una specificazione in sede di decreto di attuazione circa la competenza del giudice civile al quale sottoporre le eventuali controversie.

    Art. 14. (Tutela della gravidanza, malattia e infortunio)

    « La gravidanza, la malattia e l'infortunio dei lavoratori autonomi che prestano la loro attività in via continuativa per il committente non comportano l'estinzione del rapporto di lavoro, la cui esecuzione, su richiesta del lavoratore, rimane sospesa, senza diritto al corrispettivo, per un periodo non superiore a centocinquanta giorni per anno solare, fatto salvo il venir meno dell'interesse del committente ».

    La norma riveste un interesse notevole per il giudice del lavoro che sarà sicuramente chiamato a decidere le controversie sorte a causa dell’estinzione del rapporto per interesse del committente.

    L’interesse è sicuramente quello del creditore all’esatto adempimento dell’obbligazione di lavoro dedotta nel contratto.

    Tuttavia occorre tenere presente che si tratta di una obbligazione infungibile nella quale il creditore ha interesse all’adempimento personale del debitore.

    La valutazione del venir meno dell’interesse del committente non può pertanto prescindere da tale fondamentale indicazione.

    Non si tratta di un interesse generico, ma di un interesse particolarmente qualificato dalla specifica prestazione dedotta nel contratto di lavoro di tal ché una sospensione dell’attività, ad esempio per l’urgenza del termine del lavoro commissionato, giustifichi l’estinzione del rapporto.

    1. Occhino A. (2016), Autonomia e subordinazione nel d. lgs. n. 81/2015, in VTDL, 203 ss.

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