GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    Coltivazione di marijuana e uso personale dopo le Sezioni Unite, di Lorenzo Miazzi (parte prima)

    Coltivazione di marijuana e uso personale dopo le Sezioni Unite

    di Lorenzo Miazzi

    PRIMA PARTE: il futuro è un ritorno al passato

    Sommario 1. Coltivazione di marijuana: un contrasto decennale - 2. La giurisprudenza costituzionale - 3. La remissione alle Sezioni Unite - 4. La sentenza delle Sezioni Unite, Caruso: una risposta che va oltre il quesito - 5. La sentenza nei suoi passaggi logici essenziali - 6. Per la Cassazione il futuro è un ritorno al passato.

    1. Coltivazione di marijuana: un contrasto decennale

    La vicenda del trattamento giuridico della coltivazione di sostanze stupefacenti è sempre stata complessa e ha dato vita a un vivace dibattito in dottrina e in giurisprudenza; dibattito che ha il suo ultimo approdo nella pronuncia n. 12.348/20 delle Sezioni Unite, imp. Caruso (udienza del 19.12.2019, deposito il 16 aprile 2020) che ha stabilito che  “Il reato di coltivazione di stupefacenti è configurabile indipendentemente dalla quantità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza, essendo sufficienti la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre sostanza stupefacente; devono però ritenersi escluse, in quanto non riconducibili all’ambito di applicazione della norma penale, le attività di coltivazione di minime dimensioni svolte in forma domestica, che per le rudimentali tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile, la mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell’ambito del mercato degli stupefacenti, appaiono destinate in via esclusiva all’uso personale del coltivatore”.

    Va detto, preliminarmente, che la questione della coltivazione di sostanze stupefacenti  riguarda di fatto riguarda solo la pianta della marijuana, dato che nel nostro paese non si coltivano papavero da oppio né coca né funghi allucinogeni né alcuna delle piante da cui si traggono principi attivi vietati: ayahuasca, Catha edulis etc.

    Le problematiche riguardanti la coltivazione della marijuana si sviluppano da molti decenni attorno a due profili: quello dell’interferenza fra coltivazione di canapa per uso stupefacente e coltivazione di canapa per uso industriale[1] e quello del rapporto fra coltivazione di canapa per uso stupefacente e destinazione all’uso personale della medesima.

    La sentenza in commento si occupa - pur con accentuata autonomia sistematica - di questo secondo profilo: la coltivazione di cannabis per uso personale è reato? Il dilemma oggi risolto dalla Corte di Cassazione si muove con evidenza letterale fra due nozioni (“coltivazione” e “uso personale”) introdotte da una legge del 1975. E va sottolineato che l’interminabile contrasto di giurisprudenza - che è ampiamente riassunto nella motivazione della sentenza Caruso, che vi dedica ben 14 pagine - si muove sin da allora sugli stessi argomenti e con le stesse motivazioni. E la soluzione oggi scelta era già sembrata imporsi addirittura nel 1994.

    2. La giurisprudenza costituzionale

    Poiché il dato normativo letterale (artt. 73 e 75 T.U. n. 309/1990) non esclude la punibilità della coltivazione - come fa invece per detenzione - qualora destinata all’uso personale, e la giurisprudenza di legittimità non ha inteso equiparare le due  condotte, più e più volte i giudici di merito si sono rivolti alla Corte costituzionale perché valutasse la irragionevolezza di tale situazione. Perciò in materia si sono susseguite numerose pronunce del giudice delle leggi, tre delle quali vanno assolutamente riprese, perché fondamentali nella motivazione della sentenza in commento.

    La prima è la sentenza n.  443/1994, con cui la Corte dichiarò inammissibile la questione proposta (si dubitava della legittimità costituzionale della legge nella parte in cui non esclude la illiceità penale delle condotte di coltivazione univocamente destinate all’uso proprio), in ragione della rilevata possibilità di giungere ad un’interpretazione costituzionalmente orientata alla fattispecie penale, suggerendo la possibilità, sotto un profilo interpretativo, di ritenere che “l’operata depenalizzazione della condotta di «chi ... comunque detiene» sia già interpretativamente estensibile alle condotte di chi «coltiva e fabbrica» (le sostanze in oggetto, per il fine indicato), quale previste dalla normativa denunciata.

    Con la decisione n. 360 del 1995, la Corte costituzionale affermò al contrario che ogni forma di coltivazione deve ritenersi penalmente illecita, anche se univocamente destinata all’uso personale, alla stregua del principio di offensività[2].  Ciò in quanto nel caso della coltivazione, non è prognosticabile la destinazione della sostanza stessa ad uso personale, piuttosto che a spaccio; inoltre l'attività produttiva è destinata ad accrescere indiscriminatamente i quantitativi coltivabili e quindi ha una maggiore potenzialità diffusiva delle sostanze stupefacenti estraibili: “nel caso della coltivazione, non è apprezzabile ex ante con sufficiente grado di certezza la quantità di prodotto ricavabile dal ciclo più o meno ampio della coltivazione in atto, sicché anche la previsione circa il quantitativo di sostanza stupefacente alla fine estraibile dalle piante coltivate” rimane incerta. Per “rimediare” alla punibilità in astratto anche delle condotte “esigue”, si richiamava il principio di offensività in concreto, sostenendo che spetta al giudice verificare se la condotta, come accertata nel processo, sia assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico protetto risultando in concreto inoffensiva, secondo lo schema del “reato impossibile”.

    La sentenza n. 109 del 2016, infine, ha per oggetto l’ingiustificata disparità di trattamento fra chi detiene per uso personale sostanza stupefacente ricavata da piante da lui stesso in precedenza coltivate, non punibile secondo il remittente; e chi è invece sorpreso mentre ha ancora in corso l'attività di coltivazione, finalizzata sempre all'uso personale, punito ai sensi dell'art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990. La pronuncia, sul punto della coltivazione, è del tutto pedissequa a quella del 1995. Tuttavia la sentenza n. 109/2016 - forse per convinzione, forse per semplice completezza sistematica - in un passaggio che assomiglia a un obiter dictum affianca, all’ipotesi di non punibilità secondo la figura del reato impossibile, quella del riconoscimento del difetto di tipicità:  e in questo passaggio teorico andrà a infilarsi SS.UU.  Caruso, facendo saltare tutta l’impostazione di trent’anni di giurisprudenza costituzionale e di legittimità. 

    3. La remissione alle Sezioni Unite

    L’ordinanza n. 35436/2019 della Terza Sezione riassumeva la situazione attuale. Veniva descritto il contrasto di giurisprudenza originatasi dalle SS.UU. Di Salvia del 2008, sentenza che  (riportandosi strettamente a quanto motivato dalla Corte costituzionale n. 360/1995) riteneva proibita ogni “coltivazione”, escludeva però il reato in presenza di un dato quantitativo estremamente ridotto, richiamando il principio della offensività in concreto.

    Il giudice remittente osserva che “sulla declinazione del concetto di "offensività in concreto", però, la giurisprudenza di questa Corte si è divisa seguendo due diversi filoni interpretativi pur gemmati dalla comune premessa che la pianta sia quantomeno conforme al modello botanico vietato.”

    In effetti sin da subito, dopo la sentenza Di Salvia si erano contrapposti  due indirizzi.

    Per il primo, e più restrittivo, l'offensività della condotta consiste nella sua idoneità a produrre la sostanza per il consumo, sicché non rileva la quantità di principio attivo ricavabile nell'immediatezza, ma la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre la sostanza stupefacente.

    Per il secondo, ai fini della configurabilità del reato di coltivazione di piante stupefacenti, non è sufficiente la mera coltivazione di una pianta conforme al tipo botanico vietato che, per maturazione, abbia raggiunto la soglia minima di capacità drogante, ma è altresì necessario verificare se tale attività sia concretamente idonea a ledere la salute pubblica ed a favorire la circolazione della droga alimentandone il mercato.

    L’ordinanza quindi sottopone alle SS.UU. il contrasto sopra descritto sotto uno specifico profilo: quello della idoneità della condotta a ledere la salute pubblica (alimentando il mercato della droga), declinata nel senso dell’idoneità della pianta a produrre sostanza per il consumo. Il quesito posto dalla Terza sezione con ordinanza del 11.6.2019 è perciò questo:

    “Se ai fini della configurabilità del reato di coltivazione di piante stupefacenti, è sufficiente che la pianta sia idonea per grado di maturazione a produrre sostanza per il consumo non rilevando la quantità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza, ovvero se è necessario verificare anche che l’attività sia concretamente idonea a ledere la salute pubblica ed a favorire la circolazione della droga alimentandone il mercato”

    4. La sentenza delle Sezioni Unite, Caruso: una risposta che va oltre il quesito

    Sul punto, la Corte ha assunto la seguente posizione: “Il reato di coltivazione di stupefacenti è configurabile indipendentemente dalla quantità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza, essendo sufficienti la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre sostanza stupefacente”.

    Insomma, è il ribadito principio secondo cui bastano la conformità al tipo botanico e l’attitudine a produrre D9-THC: e la sentenza sul punto si riporta alla giurisprudenza “restrittiva” richiamata dall’ordinanza  di rimessione[3].

    Il nucleo rilevante della risposta, però, non è questo, ma l’aggiunta sulla destinazione ad uso personale:

    devono però ritenersi escluse, in quanto non riconducibili all’ambito di applicazione della norma penale, le attività di coltivazione di minime dimensioni svolte in forma domestica, che per le rudimentali tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile, la mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell’ambito del mercato degli stupefacenti, appaiono destinate in via esclusiva all’uso personale del coltivatore“.

    Ora, nell’ordinanza di rimessione la questione neppure era accennata: mai in essa si parla di uso personale. Eppure le SS.UU. hanno ritenuto meritoriamente di affrontare l’argomento, consapevoli che una risposta limitata alla prima parte sarebbe stata l’ennesima “non soluzione” della questione.

    E’ evidente lo scarto fra il quesito e la risposta: la Terza Sezione chiede se, perché sussista il reato, sia sufficiente l’idoneità botanica della pianta o se essa debba avere concretamente un contenuto apprezzabile di principio attivo. Le SS.UU. rispondono che sì, sono sufficienti la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine a produrre sostanza stupefacente; ma non se la coltivazione è destinata all’uso personale!

    5. La sentenza nei suoi passaggi logici essenziali

    Poiché la motivazione è molto completa e molto tecnica, non ritengo utile ripercorrere e chiosare l’argomentare giuridico della sentenza; mi limito perciò a descriverne il “meccanismo interno”, con la libertà  e chiarezza consentita al commentatore.

    Infatti al di là del giusto bon ton istituzionale (“sembra”, “astrattamente non incompatibile” etc.) la sentenza, infilandosi come si è anticipato nel pertugio della tipicità aperto dalla sentenza n. 109/2016, non “rivede” ma rovescia dalle fondamenta l’edificio costruito da Corte costituzionale n. 360/1995 e SS.UU. Di Salvia.

    Il punto di partenza (p. 18 della sentenza Caruso) è la contrapposizione fra le sentenze della Corte costituzionale n. 443/1994 e n. 360/1995: la prima che propone l’ “equiparazione tra la coltivazione ad uso personale e la detenzione ad uso personale”, la seconda (con la pedissequa SS.UU. Di Salvia) che “opta per l'affermazione della rilevanza penale di qualsiasi attività non autorizzata di coltivazione”; anticipando che è quest’ultima affermazione che “deve essere rivista”.

    Il primo passaggio logico sviluppato è l’equiparazione della coltivazione in generale non alla detenzione, ma alla produzione e alla fabbricazione di non autorizzata. Il secondo passaggio è la valorizzazione di un concetto giuridico di coltivazione, diverso da quello naturalistico fatto proprio da Corte costituzionale n. 360/1995 e SS.UU. Di Salvia, e ciò riproponendo la distinzione tra coltivazione "tecnico-agraria" e coltivazione "domestica", che proprio la Di Salvia aveva negato.

    Questo secondo passaggio permette di giungere al cuore della sentenza (p. 19): “L'irrilevanza penale della coltivazione di minime dimensioni, finalizzata esclusivamente al consumo personale, deve … essere ancorata, non alla sua assimilazione alla detenzione e al regime giuridico di quest'ultima, ma, più linearmente, alla sua non riconducibilità alla definizione di coltivazione come attività penalmente rilevante; dandosi, così, un'interpretazione restrittiva della fattispecie penale…”

    La diversa valutazione della coltivazione domestica passa attraverso il superamento (finalmente) della imponderata e più volte ripresa affermazione della sentenza n. 360/1995 secondo cui “la coltivazione, a differenza della detenzione, è attività suscettibile di creare   nuove   e   non   predeterminabili   disponibilità   di   stupefacenti”.  Quest’affermazione, chiarisce la sentenza Caruso, “non si attaglia alle coltivazioni domestiche di minime dimensioni, intraprese con l'intento di soddisfare esigenze di consumo personale, perché queste hanno, per definizione, una produttività ridottissima e, dunque, insuscettibile di aumentare in modo significativo la provvista di stupefacenti”. (p. 20)

    Evviva! Non è vero - ed era evidente, lo si diceva da venticinque anni! - che la coltivazione dà risultati imprevedibili: da una pianta non si può ricavare un panetto di hashish! Anzi, proprio la “prevedibilità della potenziale produttività” diventa per la sentenza Caruso il parametro base che assieme agli altri permette di individuare la coltivazione non penalmente rilevante. Che è quella che non offende l’unico bene giuridico afferente alla tutela penale della coltivazione, che è la salute pubblica (e non anche i fantasiosi concetti sparpagliati sul tavolo dalle sentenze di questo ventennio, e che le SS.UU. definitivamente escludono: rinvio alla lettura di p. 21).

    La sentenza quindi riconsidera alla luce di quanto affermato il paradigma della offensività in concreto giungendo a individuare (p. 22) l’ambito del penalmente irrilevante nelle due distinte ipotesi di coltivazione ancora in atto (e ciò avviene per “inadeguata modalità di coltivazione”) e di coltivazione giunta al risultato finale (nel caso di raccolto non conforme al tipo botanico o di un contenuto in principio attivo troppo povero per la destinazione all’uso stupefacente).

    Infine la sentenza Caruso richiama ancora la sentenza n. 109/2016 (che  le ha fornito la pista su cui si muoversi) per affermare l’armonia delle conclusioni con la decisione quadro n. 2004/757/GAI e per inquadrare giuridicamente la fattispecie del detentore della sostanza stupefacente coltivata (p. 23).

    La conclusione cui giungono le Sezioni Unite si basa, radicalmente, “sull'affermazione della mancanza di tipicità della condotta di coltivazione domestica destinata all'autoconsumo”. Se la prima conseguenza di questa radicalità è l’esclusione dal penalmente rilevante, non meno importante è la seconda conseguenza, e cioè l’esclusione dalla rilevanza amministrativa ex art. 75 del d.P.R. n. 309 del 1990, norma che non può trovare applicazione “perché tale disposizione non si riferisce in nessun caso alla coltivazione”.

    Ecco dunque in conclusione la graduazione della risposta giudiziaria alla coltivazione di cannabis alla luce della sentenza Caruso:

    a) devono considerarsi lecite la coltivazione domestica, a fine di autoconsumo (per mancanza di tipicità) nonché la coltivazione industriale che non produca sostanza stupefacente (per mancanza di offensività in concreto);

    b) la detenzione di sostanza stupefacente ottenuta attraverso una coltivazione domestica è soggetta al regime sanzionatorio amministrativo dell'art. 75 del d.P.R. n. 309 del 1990 (in quanto detenzione);

    c) alla coltivazione penalmente illecita restano comunque applicabili l'art. 131-b/s cod. pen., e l'art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990.

    6. La Cassazione disegna il futuro e rende giustizia al passato

    E’ il caso, all’esito di questa sentenza, di ritornare a quello che è stato davvero il momento cruciale dell’evoluzione della giurisprudenza sulla coltivazione a uso personale: quello successivo al referendum del 1993, da cui anche la sentenza in commento prende le mosse. E non si pensi che sia archeologia giudica: è stretta attualità, perché è proprio dal contrasto di giurisprudenza sorto nel 1994 - ma riprendendo l’orientamento allora perdente - che nasce, a sorpresa, la sentenza Caruso!

    Il referendum del 1993 - lo ricordano anche le SS.UU. -  intervenne ripristinando la non punibilità della detenzione per l’uso personale, ma non  abrogò la previsione della punizione della coltivazione per uso personale. La giurisprudenza di  merito provò in prima battuta a percorrere la strada dell'interpretazione estensiva dell'art. 75  del  d.P.R.  n.  309/1990, ritenendo che la cd. «coltivazione domestica» non integrasse gli estremi della fattispecie tipica della «coltivazione» vietata dall’art. 73, comma primo, ma costituisse species del più ampio genus (di chiusura) della «detenzione» prevista dall’art. 75, con conseguente depenalizzazione in caso di uso personale[4].

    La Cassazione, nel 1994, sembrò accogliere questa impostazione, in due sentenze che valorizzano peraltro due profili molto diversi: la destinazione a uso personale e la nozione normativa di coltivazione.

    La prima sentenza (imp. Polisena) è quella che inaugura il filone della giurisprudenza secondo cui la coltivazione per uso personale ricade nella nozione di “detenzione” [5], “attraverso un'interpretazione estensiva dell'espressione "comunque detiene" di cui al testo del primo comma dell'art. 75, in modo da comprendervi anche quelle attività che, come appunto la coltivazione, implichino comunque la detenzione della sostanza stupefacente prodotta”. [6]

    Giunge ad escludere il reato, ma per una strada molto diversa, anche un’altra pronuncia (imp. Gabriele), che precorre la strada scelta oggi dalla SS.UU. Caruso, quella della tipicità. La sentenza approfondisce la nozione normativa di "coltivazione" osservando che l'ipotesi normativa di coltivazione evocherebbe, in realtà, “la disponibilità di un terreno ed una serie di attività dei destinatari delle norme sulla coltivazione (preparazione del terreno, semina, governo dello sviluppo delle piante, ubicazione dei locali destinati alla custodia del prodotto ecc.), quali si evincono dagli artt. 27 e 28 del D.P.R. n. 309 del 1990.[7]

    Ebbene: anche la Corte costituzionale nel 1994 sembrò seguire questa impostazione. Come già ricordato,  la Corte con la sentenza n. 443 dichiarò inammissibile la questione di legittimità in ragione della rilevata possibilità di giungere  ad un’interpretazione costituzionalmente orientata della fattispecie penale, suggerendo la possibilità, sotto un profilo interpretativo, di estendere la depenalizzazione della condotta di detenzione a quella di chi coltiva per uso personale. In modo ancora più esplicito, la Corte afferma che “i primi interventi giurisprudenziali e dottrinali già risultino orientati proprio nel senso della interpretazione conforme al precetto costituzionale”; con chiaro riferimento proprio alle sentenze n. 6347 e 3353 appena citate.

    Dunque, nel 1994 la questione sembrava risolta: la giurisprudenza di merito e quella di legittimità avevano affermato che la “coltivazione” di sostanza stupefacente punita dalla legge è quella che prevede la disponibilità di un terreno ed una serie di attività dei destinatari delle norme, privi di autorizzazione; invece la coltivazione domestica, non aventi tali caratteristiche, o non costituisce coltivazione in senso tipico vietata dall’art. 73 o rientra nella condotta di chi “comunque detiene" di cui al testo del primo comma dell'art. 75. E la Corte costituzionale aveva definito questa interpretazione “conforme al precetto costituzionale.” Insomma, gli stessi approdi delle SS.UU. Caruso!

    Invece le resistenze di una parte della Cassazione, e il (per certi versi clamoroso) ribaltone effettuato dalla sentenza n. 360/1995 hanno cambiato il corso della vicenda, imponendo 25 anni di contrasti giurisprudenziali e, soprattutto, di condanne oggi non più giustificate.

    È un po’ straniante - almeno per chi ha vissuto da giudice di merito tutto il lungo cammino della giurisprudenza - questo passo avanti della Suprema Corte che è un inaspettato ritorno al passato, a oltre 25 anni fa, quando ero un giovane pubblico ministero.

    Fa uno strano effetto pensare che si era nel giusto allora; che era nel giusto quell’orientamento del 1994 (le sentenze Gabriele e Paracena) secondo il quale la nozione normativa di "coltivazione" non si attaglia alla coltivazione minima per uso personale; che era nel giusto Corte costituzionale n. 443/1994, quando confermava che quella era la “interpretazione conforme al precetto costituzionale”. E si può dire adesso a voce alta che affermazioni apodittiche come l’imprevedibilità del risultato della coltivazione, la maggiore distanza della coltivazione dal consumo della sostanza (ma se è direttamente coltivata!), la necessaria tutela dell’ordine pubblico, la salvaguardia delle giovani generazioni, l’incremento del mercato clandestino etc.; tutto questo era lontano dalla realtà. Si può dire che queste affermazioni, che per anni sono state imposte come dogmi, erano di fatto esplicitazioni, legittime, di una idea di politica criminale; e per questo non più valide di quelle espressione del pensiero politico contrario (per cui la droga leggera non va proibita, le organizzazioni criminali si combattono con la depenalizzazione e non con il proibizionismo etc.).

    Senza aver mai preso posizione da magistrato fra queste opposte visioni, rifletto che era giusto pensare che la soluzione giuridica dovesse essere coerente con la realtà (e anche col buon senso pratico) e che una minima coltivazione domestica non metteva in pericolo nulla di tutto ciò che si paventava. Fa uno strano effetto leggerlo adesso.

     

    [1] Profilo sul quale egualmente le SS.UU si sono recentemente pronunciate, con sentenza del 30.5.2019, imp. Castignani; mi permetto di rinviare al commento: Cannabis: dalle sezioni unite una risposta che va interpretata, di Lorenzo Miazzi , in questa Rivista, creato il 06 Giugno 2019.

    [2] “La detenzione, l'acquisto e l'importazione di sostanze stupefacenti per uso personale rappresentano condotte collegate immediatamente e direttamente all'uso stesso, e ciò rende non irragionevole un atteggiamento meno rigoroso del legislatore …. Invece, nel caso della coltivazione manca questo nesso di immediatezza con l'uso personale e ciò giustifica un possibile atteggiamento di maggior rigore, rientrando nella discrezionalità del legislatore anche la scelta di non agevolare comportamenti propedeutici all'approvvigionamento di sostanze stupefacenti per uso personale”: Corte costituzionale, sentenza n. 360 del 1995.

    [3] Sia detto incidentalmente, sul punto la sentenza non confuta l’argomento basato sull’osservazione che la legge vigente vieta la coltivazione di sostanza stupefacente, non della pianta di cannabis (come faceva la legge del 1975).

    [4] La giurisprudenza argomentava che a seguito   della  depenalizzazione  della  detenzione  per  uso  personale della droga,  conseguente  agli  esiti  del  referendum  abrogativo,   e   con   il  superamento del dato quantitativo mediante l'abrogazione del concetto  di  dose  media giornaliera, si imponeva al giudice di considerare la  finalizzazione  della  condotta  quale  unico   discrimine   per   la  sanzionabilità penale della stessa: vedi App. Catanzaro, 23 marzo 1994, Noia, in Foro it., 1994, II, c. 510, con nota di G. Amato, La coltivazione di sostanze stupefacenti destinate ad uso personale non è più reato.

    [5] Che trova la sua espressione più nota nella sentenza Sez. 6, n. 17983 del 18/01/2007, Notaro, Rv. 236666, più volte citata anche dalle SS.UU. Caruso.

    [6] Cass. Sez. VI, 30.5.1994, n. 6347, Polisena. Si afferma in motivazione che "una volta abrogato il divieto dell'uso personale di sostanze stupefacenti ed una volta che il discrimine fra gli illeciti penale ed amministrativo resta fissato soltanto nella destinazione della sostanza al consumo personale, l'esigenza di evitare irragionevoli disparità di trattamento per condotte [caratterizzate] dal medesimo fine e quindi di interpretare l'art. 75 in senso conforme alla Costituzione impone in modo più stringente di estendere tale discrimine anche alla coltivazione. E tale risultato può essere agevolmente realizzato attraverso un'interpretazione estensiva dell'espressione "comunque detiene" di cui al testo del primo comma dell'art. 75, in modo da comprendervi anche quelle attività che, come appunto la coltivazione, implichino comunque la detenzione della sostanza stupefacente prodotta”. Il principio è affermato in relazione alla detenzione-coltivazione di due piantine di canapa indiana.

    [7] Cass. Sez. VI, 13.9.1994, n. 3353, Gabriele. E’ importante rilevare che tale decisione ritenne la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art.75 del D.P.R. n. 309 del 1990, come modificato dal D.P.R. n. 171 del 1993, nella parte in cui affermava la non punibilità del tossicodipendente per detenzione, acquisto ed importazione della sostanza stupefacente per uso personale, e ne prevedeva invece la punizione nel caso che si fosse procurato la droga mediante coltivazione domestica. Secondo questa pronuncia, così intesa la coltivazione di sostanze stupefacenti e  psicotrope penalmente rilevante, considerata la diversità dei presupposti ed avuto riguardo alla complessa attività svolta dal tossicodipendente per procurarsi la droga, qualunque sia il fine cui essa è rivolta, si ritenne ragionevole la diversità della disciplina normativa ad essa riservata rispetto alle altre ipotesi singolarmente contemplate dall'art. 75, relativamente alle quali è stata esclusa l'illiceità penale delle condotte, quando la droga sia destinata all'uso personale.




    Essere o non essere "Mafia Capitale"

    Essere o non essere "Mafia Capitale". Commento a Cass., sez. VI, 22 ottobre 2019 (dep. 12 giugno 2020), n. 18125

    di Andrea Apollonio

    Sommario: 1. Il "mondo di mezzo" - 2. Il metodo corruttivo quale "falso" problema ermeneutico - 3. La dimensione probatoria del pericolo concreto - 4. "Mafia capitale": ovvero le due associazioni a delinquere - 5. Conclusioni (e interazioni).

    Era questo, quasi quarant'anni dopo l'apparizione dell'art. 416-bis c.p. nell'ordinamento penale, il momento di consolidare - in un senso di tassatività e prevedibilità - gli strumenti normativi antimafia: che sono sempre gli stessi, e per contro, nella sentenza che mette la parola fine alla lunga e rumorosa vicenda di "Mafia Capitale", la Corte non poteva far altro che rilevare: «La tipicità della fattispecie associativa mafiosa è sempre la stessa, anche per le c.d. nuove mafie [...] piccole o grandi che siano». 

     1.Il "mondo di mezzo"

    «È la teoria del mondo di mezzo ... ci stanno i vivi sopra e i morti sotto e noi stiamo nel mezzo... vuol dire che ci sta un mondo in mezzo in cui tutti si incontrano ... tutto si incontra ... le persone di un certo tipo si incontrano tutti là ... nel mezzo, anche la persona che sta nel sovramondo ha interesse che qualcuno del sottomondo gli faccia delle cose che non le può fare nessuno ... questa è la cosa ... e tutto si mischia»[1]. Sono queste, negli oltre due anni d’indagine, le parole intercettate dagli inquirenti che più di altre condensano il senso e la ragione sociale di quella che, fino alla pronuncia della Corte di Cassazione in commento, era la "mafia" capitolina: una compagine di raccordo tra mondo criminale e mondo politico, tra il campo della legalità e quello della illegalità, che apre uno spazio in cui far prolificare interessi e denaro; ovverosia, dalla prospettiva inquirente, una "mafia" autoctona che preferisce il dialogo con uomini politici piuttosto che esercitare forme di violenza e intimidazione nei confronti di una collettività, e perciò significativamente distante dai moduli operativi delle compagini mafiose tradizionali.

    Le indagini prima, il giudizio dibattimentale poi, hanno delineato i tratti di una organizzazione complessa, la cui multiforme attività si articola in diversi "rami": il ramo criminale, che opera nel campo dell’usura, del recupero crediti e delle estorsioni; il ramo imprenditoriale, che opera nel settore dell’edilizia e del movimento terra attraverso imprenditori apparentemente insospettabili; il ramo della pubblica amministrazione, nel quale operano soggetti che rivestono cariche pubbliche di natura elettiva e imprenditori del settore cooperativo che gestiscono appalti e fondi delle stesse pubbliche amministrazioni. Una organizzazione multiforme, che ruoterebbe attorno ad un gruppo criminale che, mutando obiettivi e strategie, ha avuto una lunga e graduale evoluzione, dall’«eredità criminale complessa [...] sedimentatasi a strati, lentamente, entro un lungo arco temporale, il cui lascito, sempre vivo e attuale, si è perpetuato nella nuova realtà associativa scaturita dalla fusione con il gruppo del B.»[2]: originariamente dedito alle attività illecite di cui appena sopra si è detto (potendo contare sul "prestigio criminale" del suo capo C., ex esponente del terrorismo nero capitolino e già implicato in importanti vicende criminali), a seguito della fusione con la squadra dell’imprenditore B. (anch’egli pregiudicato) a capo di alcune società cooperative, il clan si trasforma e cambia pelle: vengono ridisegnate e stravolte le linee operative del sodalizio, il quale, riservati i metodi originari dell’intimidazione e della violenza per singoli episodi di estorsione, usura e recupero crediti, attività di cui peraltro si occupano pochi e marginali soggetti (la "manovalanza" del gruppo), intende stabilizzare il proprio ingresso nel circuito politico-imprenditoriale capitolino, nel contesto di un rapporto paritario, tale perché caratterizzato da un diffuso utilizzo di pratiche corruttive. 

    Emerge così, unitariamente[3], "Mafia Capitale", una compagine che era stata in un primo tempo - in sede cautelare - giudicata dalla Cassazione rispondente al delitto di associazione mafiosa in virtù di un articolato quanto innovativo principio di diritto, secondo cui «ai fini della configurabilità del reato di associazione per delinquere di stampo mafioso, la forza intimidatrice espressa dal vincolo associativo dalla quale derivano assoggettamento e omertà può essere diretta tanto a minacciare la vita o l’incolumità personale, quanto, anche o soltanto, le essenziali condizioni esistenziali, economiche o lavorative di specifiche categorie di soggetti. Ferma restando una riserva di violenza nel patrimonio associativo, tale forza intimidatrice può venire acquisita con la creazione di una struttura organizzativa che, in virtù di contiguità politiche ed elettorali, con l’uso di prevaricazioni e con una sistematica attività corruttiva, esercita condizionamenti diffusi nell’assegnazione di appalti, nel rilascio di concessioni, nel controllo di settori di attività di enti pubblici o di aziende parimenti pubbliche, tanto da determinare un sostanziale annullamento della concorrenza o di nuove iniziative da parte di chi non aderisca o non sia contiguo al sodalizio».

    Questa "mafia", proseguiva la Corte nel 2015, all’interno di una realtà politica, economica e sociale fluida e complessa come quella della capitale, «tende a preferire il ricorso al metodo corruttivo, sia perché ritenuto necessario al consolidamento della posizione monopolistica raggiunta in determinati settori amministrativi ed economici, sia perché riduce l’incidenza dei profili di rischio nelle sue concrete forme di manifestazione».

    Una pronuncia che aveva sollevato numerose perplessità, in relazione soprattutto alla inconciliabilità ontologica tra metodologia corruttiva, di per sé caratterizzata dall'incontro tra due o più (libere) volontà, e metodologia mafiosa, di per sé caratterizzata dall'intimidazione che genera assoggettamento[4]. Perplessità che trovavano motivi di riscontro nelle divergenti sentenze di merito che, negli anni, si succedevano.

    Ed infatti, il primo giudice (il Tribunale di Roma) non attribuiva all'associazione a delinquere come sopra delineata il carattere della mafiosità, ritenendo che gli elementi probatori non fossero sufficienti a riconoscere la mafiosità c.d. "derivata", tipica delle mafie delocalizzate[5], che i collegamenti del C. con ambienti criminali e mafiosi non fossero attuali e che le (poche) forme di intimidazione accertate fossero finalizzate all'acquisizione di appalti gestiti dalle cooperative di B.: di per sé, queste non sarebbero state in grado di attribuire la natura mafiosa dell'associazione. Secondo il Tribunale capitolino, si sarebbe insomma trattato di un sistema di corruzione mediante infiltrazioni stabili nelle istituzioni.

    A seguito di impugnazione, la Corte d'Appello, richiamando in larga parte l'iter iuris seguito dalla Cassazione in sede cautelare, ha invece riconosciuto l'esistenza di una associazione mafiosa, i cui associati agivano con l'intimidazione del vincolo associativo, che operava essenzialmente nel settore amministrativo per l'acquisizione di appalti attraverso corruzioni e turbative d'asta. Secondo il giudice dell'appello, il carattere mafioso dell'associazione non presuppone un generale controllo del territorio, né una generale condizione di assoggettamento e di omertà, potendo queste caratteristiche riferirsi anche a settori di territorio e a particolari categorie di vittime (es. gli imprenditori).

     2. Il metodo corruttivo quale "falso" problema ermeneutico

    Al netto delle due pronunce di merito - di segno opposto - che si sono succedute, da più parti ci si aspettava che le motivazioni della sentenza oggi in commento si sarebbero soffermate in larga parte sull'aspetto del metodo per delinquere; e che, dunque, il sistema di potere e collusione emerso prima dagli atti di indagine (su cui si è pronunciata la Cassazione nel 2015), poi dalle risultanze dibattimentali (tornato al vaglio dei giudici di legittimità quattro anni dopo), non fosse riconducibile allo schema normativo condensato nell'art. 416-bis cp. sulla scorta delle osservazioni che i commentatori di quel - preliminare - principio di diritto avevano avanzato, chiedendosi se la netta preferenza che il sodalizio romano avrebbe accordato al sistematico ricorso a tecniche corruttive, volte a garantire ai sodali - e in particolare alle imprese da questi controllate - l'affidamento di appalti per servizi di pubblica utilità, potesse integrare i requisiti del reato: «può essere mafiosa una associazione che non ricorre, se non sporadicamente, a strumenti di intimidazione?»[6]. E ancora: possono gli accertamenti sulle sporadiche condotte intimidatorie nel settore (marginale) del recupero crediti «trasformare in una vera e propria associazione di tipo mafioso un sodalizio che per raggiungere i propri scopi utilizzava un'oliatissima e sistematica attività corruttiva di pubblici funzionari e di alterazione dello svolgimento delle gare d'appalto»[7]? Ed ove l'intimidazione fosse rivolta anche agli imprenditori concorrenti, come può misurarsi il grado di intimidazione e di assoggettamento che costoro subivano tutte le volte in cui l'associazione si mostrava interessata ad acquisire un appalto o un intero settore della vita economica capitolina?

    Le motivazioni, depositate molti mesi dopo il dispositivo, soddisfano solo in parte queste aspettative. Il tema cioè delle condotte corruttive anziché intimidatorie, di gran lunga più consistenti e frequenti di queste ultime, che rimane pur sempre un tema di struttura del reato perché si ricollega ad uno dei possibili scopi della norma, ovverosia l' "acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici" (art. 416-bis, co. 3 c.p.) è un "falso" problema: rimane sullo sfondo di un ragionamento che si incentra essenzialmente sul grado di esteriorizzazione del metodo mafioso da parte degli associati (esteriorizzazione effettiva; metodo mafioso che non può essere diverso da quello descritto in termini causali nel reato associativo), e questo perché, come afferma la Corte, «diversamente dall'associazione per delinquere semplice, l'associazione mafiosa non è strutturata sulle "intenzioni", ma su una rete di effettive derivazioni causali. Dunque, non un'associazione per delinquere, ma un'associazione che delinque».

    La Corte individua quindi senza incertezze il percorso argomentativo da seguire: il tema del metodo corruttivo esercitato da un'associazione che si riserva, se del caso e all'occorrenza, di fare leva sulla forza intimidatrice - derivante, come già detto, soprattutto dalla caratura criminale di C. - indica direzioni di senso del tutto fuorvianti: sia perché il tenore letterale della norma di riferimento non è equivocabile[8], sia perché, come si afferma in termini lapidari,  «la fama criminale è quella impersonale del gruppo; un'associazione per delinquere che tra i suoi partecipi o tra i suoi capi annoveri un soggetto di riconosciuta fama criminale non diventa, per ciò solo, un'associazione di tipo mafioso»[9].

    È dunque soprattutto la dimensione probatoria e di rigoroso accertamento dei fatti («che, soli, possono scongiurare il rischio di una "bagatellizzazione" del reato di associazione di tipo mafioso») ad interessare la Corte, che deve rifarsi ad un principio da intendersi consolidato (perché a sua volta sintesi di orientamenti giurisprudenziali da intendersi consolidati): quello indicato nel decreto del 23 luglio 2019 del presidente aggiunto della Corte di Cassazione, per cui in ogni caso in cui il giudizio verta su un'associazione mafiosa, tanto che si tratti di "mafia storica", tanto che si tratti di struttura autonoma ed originale che si proponga di adottare la medesima metodica delinquenziale, «è necessario accertare la sussistenza di tutti i presupposti costitutivi del reato di cui all'art. 416-bis c.p. e, dunque, l'esternazione del metodo mafioso con le sue ricadute nell'ambiente esterno in termini di assoggettamento e di omertà»[10].

    La dimensione probatoria è quindi condensata nella necessità di dimostrare l'esteriorizzazione dell'associazione tramite la verifica della sussistenza delle condizioni dell'omertà e dell'assoggettamento determinate dalla forza intimidatrice dell'associazione, della capacità intimidatoria effettiva e obiettivamente riscontrabile (recte: del metodo mafioso, dal cui rigore interpretativo la Corte sembra non voler prescindere, non individuando strade operative dell'associazione alternative, quali quelle - per intenderci - della corruzione e della turbativa d'asta), anche su scala "ridotta": perché la Cassazione è ben consapevole che il modello idealtipico di mafia è tramontato da tempo. Il modello fino a poco tempo fa unitario, granitico e perciò idealtipico di associazione mafiosa, quello a cui si è sempre pensato a partire dal 1982, momento d’apparizione dell'art. 416-bis, è solo un retaggio storico[11]: mafie straniere impiantate in Italia, mafie del Sud che esportano proprie cellule operative al Nord, mafia autoctone di nuova generazione; ma anche, mafie "silenti" e persino mafie "inattive"[12]. Tutte queste nuove forme mafiose - diverse dalle compagini storiche (Cosa nostra o altre mafie siciliane, 'Ndrangheta, Camorra, Sacra corona unita) che esercitano il loro dominio in quelle aree del Paese definite "a tradizionale radicamento mafioso"[13] - hanno però un comune denominatore: l'essere, inevitabilmente, di ridotte dimensioni. La Corte ricorda che, soprattutto grazie alla giurisprudenza sulle c.d. mafie straniere[14], che ha svolto un ruolo di apri-pista nel superamento del modello interpretativo mafioso tradizionale, «si è compreso che l'associazione di stampo mafioso può sussistere anche se si è in presenza di realtà strutturalmente modeste (le "mafie piccole")[15], che esercitano la propria forma di intimidazione in modo oggettivamente limitato - cioè in zone territorialmente circoscritte ed in ambiti di quote di attività - ovvero soggettivamente parziale - cioè solo su alcune categorie di soggetti». La natura mafiosa dell'associazione non deriva dalla sua dimensione, ma da una forza di intimidazione che deve maifestarsi in concreto, e non solo in via potenziale: «ciò che conta non è la dimensione del radicamento, la sua estensione, ma il "fatto" che il gruppo abbia comunque "raggiunto" una evoluzione ed una reputazione criminale, propria o per derivazione»[16]. E, potrebbe aggiungersi, non si tratta di una qualsiasi reputazione criminale, conseguita con la perpetrazione di una qualsiasi attività delittuosa, quale quella corruttiva impiegata nel campo della pubblica amministrazione (che pure, di per sé, determina la manifestazione e la proiezione esterna dell'associazione, concretamente operativa), ma di quella riserva di intimidazione accumulata con l'esercizio sistematico del metodo mafioso. 

    3. La dimensione probatoria del pericolo concreto

    Lo  si è detto: alcune delle persone che facevano capo al progetto delittuoso poi ribattezzato "Mafia Capitale" avevano comunque esercitato (marginali) forme di violenza, tanto che, come anche si ricorda in sentenza, i giudici dell'appello avevano selezionato i casi in cui vi sarebbe stato l'uso manifesto della forza di intimidazione da parte dell'associazione, soprattutto tramite C.; tra questi, anche il ritiro da una gara d'appalto da parte di un imprenditore, sottolineandosi come fosse il risultato di una forma di intimidazione, consapevole questi di aver toccato un settore che doveva rimanere appannaggio dell'associazione. A cavallo tra (marginali) violenze e (diffusa) corruzione, l'associazione capitolina, in ogni caso, agli occhi dei giudici di legittimità non presentava i problemi di valutazione su di una mafia "silente", collegata con la "casa madre", quegli stessi che avevano spinto la prima sezione della Cassazione a richiedere l'intervento delle Sezioni Unite (ed a cui il primo presidente aggiunto della Corte aveva risposto con la restituzione degli atti), dacché molte pronunce consideravano sufficiente per l'integrazione del reato la capacità potenziale, anche se non attuale, di sprigionare, per il solo fatto di esistere, una carica intimidatrice idonea a piegare ai propri fini la volontà di quanti vengano in contatto con gli affiliati.

    Nel caso di "Mafia Capitale" l'associazione era fin troppo operativa sul territorio e nei palazzi capitolini. Ma richiamare il principio del concreto dispiegamento della forza intimidatrice ha permesso di risalire all'essenza della norma, adombrata dalla tumultuosa evoluzione giurisprudenziale sulle mafie, vecchie e nuove[17], grandi e piccole, attive e silenti. 

    In altri termini, il passaggio necessario - ai fini della decisione, ma anche ai fini del riordino ermeneutico della materia - era piuttosto quello di confrontare quanto accertato nell'ambito delle indagini e dei processi su "Mafia Capitale" con le istanze teleologiche e politico-criminali su cui poggia il reato di cui all'art. 416-bis, le quali non possono prescindere dal bene giuridico protetto dalla norma: «l'esistenza dell'associazione pone in pericolo l'ordine pubblico, l'ordine economico, la libera partecipazione dei cittadini alla vita politica»[18]; e se dal fine si passa al modo, allora è necessaria «l'esistenza in concreto di una capacità di sopraffazione esterna, ovvero più in generale di una capacità di intimidazione rivolta, con carattere diffuso, nei confronti di terzi in un determinato ambito territoriale di cui vuole ottenere il controllo». Questa conseguenza in termini di pericolo concreto discende direttamente dalle tecniche di incriminazione utilizzate dal legislatore del 1982, rivolte in direzione diametralmente opposta a quella utilizzata per configurare l'art. 416 cp., norma questa talmente generica da perdere conseguentemente pregnanza rispetto alle concrete forme di manifestazione della criminalità associativa[19]

    Cosicché, mentre la tradizionale associazione per delinquere ex art. 416 anticipa la tutela ad un accordo stabile di più soggetti organizzati tra loro per commettere (anche in futuro) un numero indeterminato di delitti - e ciò solo, in base ad una valutazione d'astratta prognosi legislativa, pone in pericolo il bene giuridico dell'ordine pubblico[20] -, diversamente l'associazione di tipo mafioso non è un'associazione per delinquere, bensì un'associazione che delinque, poiché esercita attraverso l'intimidazione un controllo immanente sul corpo sociale. 

    Se così, a detta della Corte non rispondono allo schema tipico della norma quelle (non poche) sentenze per cui «è sufficiente che il gruppo criminale sia potenzialmente capace di esercitare intimidazione, non essendo di contro necessario che sia stata effettivamente indotta una condizione di assoggettamento e di omertà»[21]; né possono trovare accoglimento quelle tesi "intermedie" prolificate in giurisprudenza[22], che richiedono una prova solo indiretta, o recuperata aliunde, dell'efficacia della fama criminale dell'associazione. La prova delle "effettive derivazioni causali"[23], delle capacità di intimidazione dell' associazione deve essere invece diretta e rigorosa, siccome il pericolo concreto che caratterizza la norma può essere colto soltanto nella sua dimensione probatoria: nella prova cioè dei riflessi empirici dell'avvalimento del metodo mafioso.

     4. "Mafia capitale": ovvero le due associazioni a delinquere

    Individuati i principi applicabili alla vicenda in esame, che per la loro particolare consistenza teorica devono meglio di altri essere accertati sul piano processuale "caso per caso", la Corte passa in rassegna il materiale probatorio formatosi in dibattimento alla luce dei principi di diritto applicati dalla Corte d'Appello romana. Su questa sentenza piomba una censura diffusa e vigorosa, tra le cui righe si apprezzano le coordinate teoriche su cui, anzitutto, i giudici di legittimità si sono soffermati.   

    Due sono i binari su cui si muovono i rilievi critici della Suprema Corte: la motivazione fornita dalla Corte d'Appello, snodatasi secondo una metodica non corretta, per di più - si afferma - «pregiudizialmente mossa dalla convinzione della fondatezza della impostazione dell'accusa»; il principio di diritto accolto e applicato dai giudici territoriali, per cui un gruppo mafioso, per essere tale, può anche avere, senza manifestarla, una "riserva di violenza". 

    In primo luogo: l'obbligo della motivazione "rinforzata" si impone per il giudice d'appello tutte le volte in cui ritenga di ribaltare in senso peggiorativo - mercé una mutata valutazione delle prove acquisite - la decisione del giudice di primo grado, sia assolutoria, sia di condanna: «un obbligo di motivazione rafforzata si pone almeno in tutti i casi in cui nel giudizio di appello i fatti siano diversamente riqualificati a seguito di una mutazione della loro struttura conseguente ad un diverso apprezzamento delle prove». La Corte capitolina, invece, neppure avrebbe articolato il proprio ragionamento probatorio prendendo spunto dalla sentenza di segno contrario di primo grado, ma dalla sentenza della Cassazione emessa nella fase cautelare, avvalorandola ulteriormente: si tratta di una impostazione - denuncia la Corte - «gravemente» scorretta sul piano del metodo, perché è del tutto evidente che quella decisione si basava su circostanze indiziarie che andavano poi dimostrate: e che, nel processo, non sono state dimostrate. E' vero insomma che quella sentenza conteneva principi di diritto sulle mafie c.d. "delocalizzate" e di natura politico-amministrativa che potevano, in quanto tali, essere spesi nel giudizio di appello, ma quei principi promanavano pur sempre da un fatto complessivo diverso da quello poi emerso dal dibattimento, conseguendone la loro inconferenza nell'iter motivazionale d'impugnazione. 

    È stato dimostrato che C. non era affatto il terminale di relazioni criminali con altri gruppi mafiosi, di cui in qualche modo mutuava la forza d'intimidazione; né alcun ruolo questi giocava nei servizi segreti o in altre consorterie di cui poteva spendere il potere; il gruppo non disponeva di armi, anche perché era dedito soprattutto a corrompere pubblici funzionari per far ottenere alle cooperative di B. lavori e commesse; soprattutto, non emergono elementi indicativi o dimostrativi dell'esercizio del metodo mafioso: nessuna prova, quindi, in ordine alla percezione da parte di coloro che dovevano subire tale ipotetica intimidazione derivante dal vincolo associativo. 

    Inoltre, in assenza di elementi ulteriori valorizzati dal giudice d'appello, e di quel sub-strato fattuale da cui erano emersi i principi elaborati nel 2015, la Suprema Corte fa rivivere la raffigurazione inizialmente fornita dal Tribunale di Roma[24]: constatata la pressoché totale assenza di elementi di fatto che collegano le due realtà associative, esse vanno tenute distinte, ed unitariamente va mantenuta ferma la natura non mafiosa per entrambe. 

    È qui che si innesta l'ulteriore rilievo mosso dalla Cassazione, perché il tema della non unicità di associazione non esurisce quello della "mafiosità", «che, in teoria, avrebbe potuto ipotizzarsi anche facendo riferimento a ciascuna delle due associazioni»[25]. Ma la Corte d'Appello non sarebbe riuscita a specificare il tipo di mafiosità dell' unica associazione: essa non ha proposto la tesi della "mafiosità derivata", magari legata all'ipotesi che C. fosse espressione di una preesistente compagine mafiosa, e come tale percepito all'esterno; piuttosto, come detto, ha fatto leva sul concetto di "riserva di violenza" sottesa alla caratura criminale di C. (caratura criminale presunta e non invero accertata, riconosciuta dalla Corte d'Appello in ragione di elementi di fatto dalla «valenza probatoria neutra», «con una motivazione più spesso erronea che poco convincente»). Eppure, questo connotato della mafiosità non è di per sé sufficiente, se non è accompagnato dalla prova della concreta manifestazione della capacità di intimidazione del sodalizio e del conseguente assoggettamento omertoso.

    Insomma, la Corte ribadisce che la "riserva di violenza" non è un concetto autonomo e sufficiente sul piano della struttura del reato di cui all'art. 416-bis, rifacendosi peraltro ad una questione (probatoria) troppo evanescente per essere affrontata e risolta nella cornice di un dibattimento: correttamente il Tribunale capitolino ne aveva in prima battuta sancito l'insussistenza in punto di fatto e comunque l'inutilità - in punto di diritto - ai fini della qualificazione della fattispecie di associazione mafiosa, successivamente la Corte d'Appello ne aveva (erroneamente) recuperato la valenza, non procurandosi al tempo stesso di motivare adeguatamente questa scelta. 

    A tutto voler concedere, non si può non rilevare come la Cassazione abbia preso una posizione netta: non volendo per tabulas contraddire se stessa. La sentenza sopra citata del 2015 (pronunciata in ambito cautelare dalla stessa sezione sesta che oggi verga la sentenza in commento) elaborava infatti un principio di diritto che si fondava proprio sul concetto di "riserva di violenza", che veniva acquisita (con formazione di carica intimidatoria) ma che non necessariamente doveva essere sprigionata, ed è questa linea esegetica che, in fondo, ha seguito la Corte d'Appello[26]. Le sferzanti critiche mosse alla Corte territoriale appaiono per questo, a tratti, quantomeno gratuite, perché si rifanno in gran parte a tesi di diritto confusamente prolificate nella giurisprudenza di legittimità negli ultimi anni, che la Corte territoriale ha - acriticamente, denunciano i giudici - ossequiato.

    La Cassazione, con questa storica sentenza, sembra aver voluto assolvere se stessa dai problemi di tipicità e prevedibilità generati dall'interpretazione nomofilattica altalenante della norma: ma se (auto)assoluzione c'è stata, la si è avuta non tanto nell'attacco frontale alla sentenza della Corte capitolina, quanto nell'accurata operazione di riordino dei tanti aspetti applicativi della fattispecie di cui all'art. 416-bis

    5. Conclusioni (e interazioni)

    Le esigenze ermeneutiche - il passaggio da una interpretazione statica ad una maggiormente dinamica degli elementi della fattispecie ex art. 416-bis - che conseguono alla esportabilità del modello mafioso a realtà criminali diverse da quelle che hanno ispirato l'introduzione del reato, non possono giungere a piegare le esigenze (altrettanto fondate) «di tassatività della fattispecie e la prevedibilità delle decisioni ad esigenze di semplificazioni probatorie». Il richiamo della Corte è rivolto soprattutto a quelle pronunce di legittimità che, ancora fino a tempi molto recenti, hanno depotenziato gli elementi di struttura della fattispecie ed il giudizio di pericolo concreto che ne deve accompagnare l'accertamento[27]: e tra queste, però, dovrebbero essere incluse le sentenze della stessa sezione, intervenute sulla stessa vicenda (ma in fase cautelare) quattro anni prima.

    Perché, a voler accogliere anche le tesi più estensive del portato normativo, si finirebbe con l'intendere il delitto di cui all'art. 416-bis come un reato a geometria variabile, «a struttura mobile, con tipicità mutevole a seconda che si tratti di un'associazione "storica", ovvero una diramazione di essa che operi in altra parte del territorio, ovvero ancora, una delle "altre associazioni" di cui al comma 8 dell'art. 416-bis cp.»[28] con la conseguenza - inaccettabile, in termini di legalità - di «una tipicità più robusta in alcuni casi e meno in altri rispetto alla stessa associazione mafiosa».    

    Il pericolo dell'elaborazione giurisprudenziale di una mafia "soltanto giuridica"[29], che trova una propria condizione di esistenza solo nelle sentenze e non in precise e verificabili proiezioni empirico-sociali, il timore che la struttura del reato di associazione mafiosa divenga, sfibrandosi, il terreno di dibattiti simili a quelli che hanno segnato per quasi vent’anni il problema dell’ammissibilità, delle forme e dell’ampiezza del c.d. "concorso esterno", che hanno causato fratture in punto di prevedibilità del giudizio penale di cui ancora oggi paghiamo le conseguenze[30], pericoli e timori che le citate sentenze gemelle della Cassazione del 2015 su (quella che allora era) "Mafia Capitale" avevano sprigionato in dottrina con importanti ripercussioni anche su di una giurisprudenza - come visto - fino a ieri poco convincente nel suo complesso, sembrano essere stati definitivamente disinnescati dalla sentenza in commento che, per l'importanza della vicenda che tratta e l'impostazione rigorosa che adotta, è da intendersi come una valutazione nomofilattica di massimo livello.

    Non per caso, allora, l'arresto in parola sembra amalgamarsi perfettamente ai principi - sincronicamente[31] e parallelamente - elaborati dalle Sezioni Unite in tema di aggravante dell'agevolazione mafiosa, ricostruita come fattispecie di pericolo astratto con una condotta che può anche non esplicare alcuna efficacia.

    Come infatti ricordavano i giudici in quella sentenza, non si vuole punire l' «elaborazione intenzionale, così giungendo a punire il pericolo del pericolo», bensì una condotta che, posta in essere con modalità idonee, determina un pericolo per l'oggetto di tutela, seppure - tale pericolo - debba essere astrattamente inteso, scevro da ogni giudizio sull'effettiva agevolazione della compagine. Questo, in quanto si vuole sanzionare quell'agevolazione che produca «l'effetto del rafforzamento, se non concretamente della compagine, del pericolo della sua espansione».

    In quella sentenza la natura peculiare della circostanza è ripercorsa nei numerosi passaggi in cui si fa cenno ad un apporto utilitaristico diretto ad una compagine mafiosa anche astrattamente intesa dall'agente: nel senso che egli può essere mosso da «una valutazione autonoma che non impone un raccordo o un coordinamento con i rappresentanti del gruppo»; gli associati possono anche non sapere nulla di questo apporto, che può non arrivare mai all’associazione; può non essere mai raccolto, attesa «l'irrilevanza dell'effettivo ritorno di utilità della condotta illecita in favore della compagine»[32]. L’unico limite ad un astratto collegamento di questa natura sta nell’esistenza stessa dell’associazione mafiosa, che comunque deve esistere nel contesto territoriale di riferimento.

    La figura dell'agevolazione mafiosa contemplata nell'art. 416-bis.1 cp. impone dunque un vaglio giudiziale di diversa consistenza e caratura, quasi antitetico a quello che la Corte, nella sentenza in commento, impone al giudice ordinario nell'accertamento del reato di cui all'art. 416-bis. D'altronde - e qui ci si riaggancia alla prospettiva teleologica di cui ha fatto buon uso la Corte nella sentenza in parola - molto diversi sono gli scopi della norma aggravatrice, che, a detta delle Sezioni Unite, vuole stendere un vero e proprio "cordone di contenimento" della vasta area dei soggetti contigui che agevolano gli scopi delittuosi dell'associazione: steso dal legislatore penale del 1991 con l'introduzione di questa peculiare figura, non può limitarsi a comprendere le condotte di chi abbia un collegamento diretto con l’associazione e voglia attivamente sostenerne gli obiettivi, né può essere limitato sul terreno processuale da un giudizio di pericolo concreto, che importa valutazioni probatorie di non poco momento.

    La distanza tra la fattispecie-madre e la relativa aggravante agevolatrice - sebbene questa debba essere intesa autonomamente, perché, come noto, può ben essere sganciata dal reato-base - si misura quindi sulla parziale diversità dei valori in gioco e, conseguentemente, sulla condotta (da un lato, l'associazione deve concretamente manifestarsi ed incidere quindi nelle dinamiche sociali dei contesti di riferimento; dall'altro la condotta agevolatrice può non dispiegare alcun effetto concreto) e sull'elemento soggettivo del reato (nell'associazione non è, per quanto appena detto, sufficiente un semplice dolo di fare ricorso all'uso concreto della forza[33]; l'agevolazione si fonda proprio su di una tale intenzione, dovendosi però ulteriormente distinguere l'elemento soggettivo proprio della fattispecie - dolo intenzionale - dal dolo diretto sufficiente ad integrare il concorso nel reato aggravato)[34].

    Così, il perimetro tipico della fattispecie-madre, oggi definito con sufficiente precisione e con semantica appagante[35], è meglio osservato dalla privilegiata prospettiva offerta nello stesso momento dalle Sezioni Unite.

    Il riordino interpretativo dell'intricato reticolo che dall'art. 416-bis arriva alla finitima fattispecie circostanziale di cui all'art. 416-bis.1 appariva, per il vero, non più rinviabile: i confliggenti orientamenti giurisprudenziali rispetto alle principali figure normative a sfondo mafioso (le aggravanti, il concorso esterno, e soprattutto, più di recente, la stessa figura-madre dell'associazione mafiosa) non assicuravano al sistema e ai suoi destinatari reati sufficientemente chiari e quindi prevedibili, considerata anche la sostanziale equiparazione tra fonte legislativa e fonte giurisprudenziale, che oggi assume sempre più rilievo anche negli ordinamenti continentali. L'inevitabile richiamo è, nuovamente, alla portata dell'art. 7 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo, il cui contenuto essenziale è costituito dall'accessibilità e prevedibilità della norma, in un contesto non solo di intelligibilità della fonte formale, ma anche della sua applicazione giudiziale; come pure alle conseguenze della sua violazione, che in tema di concorso esterno ha determinato effetti a cascata - da Strasburgo a Roma, ricadendo sulle Corti territoriali - che, forse, solo le recenti Sezioni Unite intervenute sul punto sono riuscite a frenare.

    Un richiamo alla fonte sovranazionale che, significativamente, non compare nella sentenza in parola: essa si atteggia piuttosto ad un autodafé, che fa leva su quei principi di garanzia e legalità storicamente contenuti e sviluppatisi negli ordinamenti di civil law; che sono poi, a ben vedere, la prima forma di legittimazione del (vigoroso) potere punitivo che si esplica innanzi a fenomeni estremamente pervasivi quale quello mafioso. Era questo, quasi quarant'anni dopo l'apparizione dell'art. 416-bis cp., il momento di riaffermare tale potere tramite il consolidamento - in un senso di tassatività e prevedibilità - dei relativi strumenti normativi: che sono sempre gli stessi, e per contro, la Corte non poteva far altro che rilevare: «La tipicità della fattispecie associativa mafiosa è sempre la stessa, anche per le c.d. nuove mafie [...] piccole o grandi che siano». E' bene che a ribadirlo sia stata la Suprema Corte: perché lo slittamento verso una forma di diritto antimafia atipico e incalcolabile si sarebbe, prima o poi, arrestato a Strasburgo. 

    [1] Richiamate nei numerosi lavori a carattere divulgativo che su "Mafia Capitale" si sono succeduti a partire dal 2015: Abbate-Lillo, I re di Roma. Destra e sinistra agli ordini di Mafia Capitale, Milano, 2015; Pignatone-Prestipino, Le mafie su Roma, la mafia di Roma, in AA.VV., Atlante delle mafie. Storia, economia, società, cultura, a cura di Ciconte, Forgione e Sales, vol. III, Soveria Mannelli, 2015, p. 95 ss.; da ultimo, Pignatone-Prestipino, Modelli criminali. Mafie di ieri e di oggi, Roma-Bari, 2019, p. 71 ss.

    [2] Così nelle due sentenze "gemelle" pronunciate in ambito cautelare, su "Mafia Capitale": Cass., sez. VI, 10 marzo 2015 (dep. 9 giugno 2015), nn. 24535 e 24536, entrambe pubblicate in prima battuta in Dir. pen. cont. (web), 15 giugno 2015, con nota di C. Visconti, A Roma una mafia c'è. E si vede... E' in particolare della sentenza n. 24536 che si riporteranno alcuni passaggi.

    [3] Unitariamente nell'ordinanza genetica cautelare del Gip e del Riesame capitolino, nelle pronunce "cautelari" della Cassazione del 2015 appena richiamate e nella sentenza della Corte d'Appello: mentre nella sentenza di primo grado ed in quella in commento la vicenda di "Mafia Capitale" viene bipartita in due distinte - ed esigue - associazioni, come a breve si dirà.

    [4] Da un lato sta la "tangente", dall'altro la "protezione": la dicotomia, estremamente efficace dal punto di vista illustrativo, è formulata da G. M. Flick, Le regole di funzionamento delle imprese e dei mercati. L’incompatibilità con il metodo mafioso: profili penalistici, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1993, p. 914. Ovviamente, non si intende certo affermare che la corruzione non possa (almeno sul piano astratto) rappresentare uno dei reati-fine a cui l’organizzazione mafiosa tende: certo è, però, che se tale finalità diventa quella prevalente, e non vengono esteriorizzate le metodologie mafiose nei confronti del pubblico ufficiale nella condotta corruttiva, è ben difficile che un sodalizio senza alcun collegamento con mafie "storiche" riesca ad esprimere quella carica di disvalore – che si riflette poi sul diagramma dell’offensività – richiesta dall’art. 416-bis. Per una sintesi del problema dell'inconciliabilità tra i due metodi (nella particolare vicenda affrontata) si consenta il rinvio a A. Apollonio, Rilievi critici sulle pronunce di "mafia capitale": tra l'emersione di nuovi paradigmi e il consolidamento nel sistema di una mafia soltanto giuridica, in Cass. pen., 2016, p. 125 ss., nonché in A. Apollonio, Estorsione "ambientale" e art. 416-bis.1 c.p. al cospetto dei modelli mafiosi elaborati dalla giurisprudenza, in Cass. pen., 2018, p. 3483.

    [5] Pur negando la natura mafiosa dell'associazione criminale capitolina tratta a processo, il Tribunale considera il modello idealtipico di mafia (quello tradizionale) oramai tramontato e non esclude certo la sussistenza di altre forme mafiose: «Perché si realizzi il delitto di associazione di tipo mafioso di cui all’art. 416 bis c.p. [...] non è indispensabile che l’associazione abbia origine mafiosa o sia ispirata o collegata necessariamente alla mafia: l’espressione legislativa "...di tipo mafioso..." va infatti intesa solo come riferimento ad un modello mafioso storicizzato, idoneo però a ricomprendere anche nuove organizzazioni disancorate dalla mafia tradizionale, che ne pratichino tuttavia i metodi» (Trib. di Roma, sez. X, 20 luglio 2017, n. 11730, p. 3050, in Dir. pen. cont., n. 11/2017, p. 271 ss., con nota di C. Zuffada, Per il tribunale di Roma "Mafia Capitale" non è mafia: ovvero, della controversa applicabilità dell'art. 416-bis c.p. ad associazioni criminali diverse dalle mafie "storiche").

    [6] Insolera-Guerini, Diritto penale e criminalità organizzata, Torino, 2019, p. 77; nello stesso senso G. Insolera, Guardando nel caleidoscopio. Antimafia, antipolitica, potere giudiziario, in Ind. pen., 2015, p. 235 ss.

    [7] L. Fornari, Il metodo mafioso: dall'effettività dei requisiti al "pericolo d'intimidazione" derivante da un contesto criminale?, in Dir. pen. cont. (web), 9 giugno 2016, p. 25.

    [8] L' art. 416-bis individua non solo elementi di struttura, ma anche un'ambientazione precisa: «La scelta di procedere a una così analitica definizione vincola l'interprete ad una precisa realtà descrittiva, ove l'insieme dei concetti di intimidazione, assoggettamento e omertà rinvia ad un atteggiamento di timore diffuso in seno alla collettività interessata nei confronti della specifica associazione mafiosa» (S. Seminara, Gli elementi costitutivi del delitto di cui all'art. 416-bis c.p., in AA.VV., I delitti di criminalità organizzata - Quaderni del CSM, 1998, n. 99).

    [9] Tanto da doversi affermare, specularmente, che «l'associazione è mafiosa se il suo prestigio criminale del gruppo resta intatto anche nel caso in cui siano isolati e sterilizzati i personaggi dotati di fama criminale e personale».

    [10] Con propria ordinanza la prima sezione penale aveva rimesso alle Sezioni Unite la seguente questione di diritto in tema di associazioni di tipo mafioso: «se sia configurabile il reato di cui all’art. 416-bis cod. pen. con riguardo a una articolazione periferica (cd. "locale") di un sodalizio mafioso, radicata in un’area territoriale diversa da quella di operatività dell’organizzazione "madre", anche in difetto della esteriorizzazione, nel differente territorio di insediamento, della forza intimidatrice e della relativa condizione di assoggettamento e di omertà, qualora emerga la derivazione e il collegamento della nuova struttura territoriale con l’organizzazione e i rituali del sodalizio di riferimento». Con provvedimento del 17 luglio 2019, il presidente aggiunto, ai sensi dell’art. 172 disp. att. c.p.p. (secondo il quale nel caso previsto dall’articolo 618 del codice, il presidente della corte di cassazione può restituire alla sezione il ricorso qualora siano stati assegnati alle sezione unite altri ricorsi sulla medesima questione o il contrasto giurisprudenziale risulti superato), ha restituito gli atti alla prima sezione - disinnescando così il conflitto esegetico - per una nuova valutazione circa la effettiva sussistenza del contrasto, rassegnando il principio appena riferito.

    [11] Ne è riprova l'imprescindibile lavoro monografico di G. Turone, Il delitto di associazione mafiosa, Milano, 2015, apparso tuttavia una prima volta (con il titolo Le associazioni di tipo mafioso) nel 1984, e via via aggiornato (nel 1995, nel 2008 ed infine, appunto, nel 2015). L'autore, nella Prefazione, così giustifica l'ulteriore edizione dell'opera: «Non prive di rilievo sono, infine, le nuove emergenze circa l'apparato strutturale-strumentale di certi organismi associativi "neo-mafiosi" individuati di recente» (p. V). E' indubbio, infatti, che i modelli mafiosi di nuovo conio - quelli cioè recentemente emersi nella giurisprudenza - travolgano le impostazioni teorico-applicative fin qui consolidatesi in materia. Si veda anche, intorno al libro predetto R. Basile, Riflessioni sparse su "Il delitto di associazione mafiosa. A partire dalla terza edizione del libro di Giuliano Turone. Recensione, in Dir. pen. cont. (web), 26 aprile 2016, passim.

    [12] Questi sono i paradigmi giuridici (perché, come detto, in molti casi la giurisprudenza ha esercitato un vero e proprio "potere definitorio") su cui la giurisprudenza si è concentrata negli ultimi anni, e rispetto ai quali va indicato il ricognitivo lavoro a cura di Santoro, Riconoscere le mafie. Cosa sono, come funzionano, come si muovono, Bologna, 2015, ed in particolare il contributo di A. La Spina, Riconoscere le organizzazioni mafiose, oggi: neo-formazione, trasformazione, espansione e repressione in prospettiva comparata, in ivi, p. 95 ss.

    [13] Il concetto di area "a tradizionale radicamento mafioso" è di matrice istituzionale: elaborato nei lavori della Commissione parlamentare antimafia, è in particolare cristallizzato in Commissione parlamentare d'inchiesta sul fenomeno della mafia e delle altre associazioni criminali similari (XI legislatura), Relazione sulle risultanze dell'attività del gruppo di lavoro incaricato di svolgere accertamenti su insediamenti e infiltrazioni di soggetti ed organizzazioni di tipo mafioso in aree non tradizionali (relatore C. Smuraglia), approvata il 13 gennaio 1994, passim.

    [14] Giova sottolineare che la categoria delle mafie "straniere" è relativamente recente, e si delinea a partire dal leading case "Abo El Nga" del 1995 (Sez. VI, 13 dicembre 1995, n. 4864, in Foro it., 1996, II, c. 478 ss.), in cui la Cassazione riconosce i geni della fattispecie di associazione mafiosa anche in sodalizi criminali (di modeste dimensioni) contraddistinti da origini africane od orientali.

    [15] Tesi che poggia sul fatto che il codice penale, all'art. 416-bis, parla di un'associazione di tipo mafioso formata da tre o più persone, sebbene sia impossibile rintracciare una mafia - tradizionale, almeno - così numericamente esigua. Il legislatore dell'epoca ha dunque ritenuto opportuno non discostarsi da ciò che già era presente tra le pieghe del codice, nel contiguo delitto di associazione per delinquere (v., per tutti, P. Pomanti, Principio di tassatività e metamorfosi della fattisecie: l'art. 416-bis c.p., in Arch. pen., 1, 2017, p. 15 ss.; L. Fornari, Il principio di tassatività alla prova della 'lotta' alla mafia: contiguità e metodo mafioso, in Trattato breve di diritto penale. Temi contemporanei, Per un manifesto del neoilluminismo penale, a cura di Cocco, Padova, 2016, p. 285 ss.).

    [16] D'altronde, la Corte di Cassazione - nella c.d. "sentenza Fasciani", dal nome del gruppo criminale di Ostia tratto a giudizio, quindi in un medesimo contesto territoriale estraneo alle mafie storiche - ha affermato che «il reato previsto dall'art. 416-bis è configurabile in relazione ad organizzazioni diverse dalle mafie cosiddette tradizionali anche nei confronti di un sodalizio costituito da un ridotto numero di partecipanti che tuttavia impieghi il metodo mafioso per ingenerare sia pure in un ambito territoriale circoscritto condizioni di assoggettamento e omertà diffusa» (Sez. VI, 28 dicembre 2017, n. 57896, in C.E.D. n. 253987). 

    [17] La doverosa citazione è all'imprescindibile lavoro sul tema di R. Sciarrone, Mafie vecchie, mafie nuove. Radicamento ed espansione, Milano, 2009.

    [18] La presenza di una organizzazione mafiosa chiama in causa la stessa regolamentazione politica dello sviluppo economico, e pone l'attività del gruppo illecito in concorrenza diretta con quella dello Stato: cfr. G. De Vero, Tutela penale dell’ordine pubblico. Itinerari ed esiti di una verifica dogmatica e politico-criminale, Milano, 1988, p. 5 ss.; Id., Tutela dell’ordine pubblico e reati associativi, in Riv. it. dir. proc. pen., 1993, p. 115. Si vedano anche gli spunti di Cerami-Di Lello-Gambino, Istituzioni, mafia e realtà politico-sociale, in AA.VV., Mafia e istituzioni, Gangemi, 1981, in cui si afferma: «E' necessario considerare la mafia non come fenomeno di criminalità, ma come struttura economica e di potere che opera stabilmente e in connessione con l'articolazione del sistema economico-politico italiano». Un punto di vista meno allarmistico lo si rinviene in L. Paoli, La mafia è stata sconfitta?, in Il Mulino, 3, 2001, p. 450 ss.; volendo, si guardino anche le argomentazioni contenute in A. Apollonio, Critica dell'antimafia. L'avanzare della paura, l'arretramento delle garanzie, l'imperfezione del diritto, Cosenza, 2013, p. 131 ss.

    [19] G. Caruso, Struttura e portata applicativa dell'associazione di tipo mafioso, in Le associazioni di tipo mafioso, a cura di Romano, Milano, 2015, p. 49. E' anche per questo che tra le due norme non può ipotizzarsi un rapporto di specialità, neppure bilaterale, dato che «gli schemi formali non sono adeguati a comprendere il rapporto tra le due norme» (M. Ronco, L'art. 416 bis nella sua origine e nella sua attuale portata applicativa, in Romano - Tinebra, Il diritto penale della criminalità organizzata, Milano, 2013, p. 60).

    [20] V. Patalano, L'associazione per delinquere, Napoli, 1971, p. 178, rileva come il bene protetto dalla fattispecie associativa (e, dunque, dalle aggravanti connesse) sia l'ordine pubblico inteso quale «esclusività dell'ordinamento giuridico-penale».

    [21] Per uno studio della giurisprudenza sul punto, che ha riguardato in non poche occasioni le mafie "straniere", cfr. S. Petralia, La criminalità organizzata di origine straniera: il fenomeno delle nuove mafie tra paradigma socio-criminologico e paradigma normativo, in Ind. pen., 2013, I, p. 106 ss.; R. Sparagna, Metodo mafioso e c.d. mafia silente nei più recenti approdi giurisprudenziali, in Dir. pen. cont. (web), 10 novembre 2015; è interessante anche il lavoro di G. Amato, Mafie etniche, elaborazione e applicazione delle massime di esperienza: le criticità derivanti dall'interazione tra "diritto penale giurisprudenziale" e legalità, in Dir. pen. cont., 1, 2015, segnatamente p. 273 ss.

    [22] Con riferimento a tale modello di mafia importata, che esprime dunque aliunde il proprio metodo, si legga Sez. VI, 27 marzo 2014, n. 4587 in C.E.D. Cass. n. 223387: «In linea di principio, non sarebbe neppure indispensabile la commissione effettiva di condotte di intimidazione per ritenere configurabile [il reato di cui all'art. 416-bis] anche in ambiti geografici diversi [da quelli tradizionali] a condizione però che risulti aliunde dimostrata una tale diffusione della consapevolezza della capacità criminale dell'associazione da rendere inutile l'esigenza che di quella capacità sia data prova conclamata».

    [23] Che non vuol dire necessariamente provare il ricorso alla violenza o alla minaccia da parte dell'associazione, perché - come si procura di specificare la Corte - in mancanza della prova di specifici atti di intimidazione la forza intimidatrice può essere desunta da circostanze obiettive idonee a dimostrare la capacità attuale dell'associazione di incutere timore: «la forza di intimidazione però deve essere manifestata e percepita. Il tema ha una dimensione fattuale e probatoria».

    [24] E che era stata sostanzialmente apprezzata dalla dottrina per l'impostazione rigorista adottata: si veda la nota di G. Amarelli, Le mafie autoctone alla prova della giurisprudenza: accordi e disaccordi sul metodo mafioso, in Giur. It., 2018, p. 955 ss.

    [25]  Dal raffronto tra le richiamate pronunce di Cassazione, Tribunale e Corte d’appello emerge, anzitutto, il grande rilievo assunto della questione dell’ unitarietà dell’associazione: trattasi di un tema la cui analisi incide in maniera determinante sulla qualificazione penalistica delle consorterie criminali (E. Mazzantini, Il delitto di associazione di tipo mafioso alla prova delle organizzazioni criminali della "zona grigia". Il caso di Mafia capitale, in Arch. pen., 2, 2019, p. 20). E' indubbio infatti che un'associazione, già numericamente esigua, se scissa avrebbe perso ulteriore carica criminale.

    [26]  «La Corte d’appello si è realmente allineata alla richiamata interpretazione offerta dalla Cassazione: non tanto rispetto al momento dell’avvalimento, sul cui versante a dire il vero la Corte ha operato un ampio e approfondito accertamento, quanto piuttosto con riferimento alla formazione della carica intimidatoria» (E. Mazzantini, Il delitto di associazione di tipo mafioso, cit., p. 22).

    [27] Una rassegna della recente giurisprudenza sull'art. 416-bis è fornita da Barone-Salemme, Manifestazioni dell'associazione mafiosa, in Cass. Pen., 2018 (supplemento n. 4), p. 159 ss., in cui sono riportate quelle pronunce contenenti affermazioni di diritto in netto contrasto con quanto oggi sancisce la Cassazione - ciò, anche a riprova della Babele interpretativa con cui i giudici si sono dovuti confrontare: in particolare rispetto alle "nuove ed autonome strutture mafiose", è stato ribadito che «la prova del carattere mafioso di una consorteria può desumersi anche dall'esistenza di una efficiente organizzazione» (p. 164), e che, di più, la stessa Corte di Cassazione (e la stessa sezione VI) nel 2015 affermava: «oramai la giurisprudenza è orientata nel senso che, per l'integrazione del delitto di associazione di tipo mafioso configurato quale reato di pericoloè sufficiente che il gruppo criminale considerato sia potenzialmente capace di esercitare intimidazione» (p. 167, richiamando Cass., sez. VI, sentenza del 20.10.2015 (dep. 22.1.2016), n. 3027). 

    [28] Ancora, in relazione alla "geometra variabile" della tipicità a seconda del tipo mafioso: come si è detto alcune sentenze di legittimità hanno affermato che, in specie nel caso delle mafie operanti al Nord, il metodo mafioso può anche non estrinsecarsi all'esterno: stando in questa ipotesi, G. Amarelli, La contiguità politico-mafiosa. Profili politico-criminali, dommatici e applicativi, Roma, 2016, p. 44, parla di «rarefazione dell'elemento del metodo mafioso», che viene ritenuto sussistente in re ipsa in quell'associazione che risulti essere una mera articolazione della mafia-madre (siciliana, calabrese ecc.). Diversamente, nel caso opposto delle neo-formazioni mafiose a struttura "autonoma ed originale" (c.d. "autoctone"), rispetto ad esse «è imprescindibile la verifica, in concreto, dei presupposti costitutivi della fattispecie ex art. 416-bis c.p., tra cui la maifestazione esterna del metodo mafioso, quale fattore di produzione della tipica condizione di assoggettamento e omertà nell'ambiente circostante»: Sez. II, 28 marzo 2017, n. 24850, citata in G. Amarelli, Le mafie autoctone alla prova della giurisprudenza, cit., p. 960, il quale ritiene questa soluzione interpretativa quella «più facilmente compatibile con i principi fondamentali del sistema penale».

    [29] Si consenta nuovamente il rinvio alle tesi espresse in A. Apollonio, Rilievi critici sulle pronunce di "mafia capitale", cit., qui in parte ripercorse.

    [30] Ci si riferisce agli effetti della sentenza della Corte Edu "Contrada c. Italia" sull'ordinamento interno, che ha suscitato questioni di legittimità costituzionali, pronunce delle Sezioni Unite e nuovi interventi della Corte Edu: sul punto vd. C. Angelillis, Sul Caso Contrada (note per l' udienza del 24 ottobre 2019 davanti alle Sezioni Unite), in Giustizia Insieme (web), 14 dicembre 2019 e, da ultimo, M. Mori, I “Fratelli minori” di Contrada e le possibili conseguenze nei rapporti con la Corte europea dei diritti dell’uomo: note a margine di SS.UU. n. 8544, in Giustizia Insieme (web), 12 giugno 2020.

    [31] Si tratta di Cass., sezioni unite penali, sentenza n. 8545 del 19 dicembre 2019 (dep. 2 marzo 2020), in Sistema penale (web), 16 marzo 2020, con nota di S. Finocchiaro, Le Sezioni unite sulla natura dell’aggravante dell’agevolazione mafiosa e sulla sua estensione ai concorrenti: tra punti fermi e criticità irrisolte; per altro commento si guardi A. Apollonio, Le Sezioni Unite sull'aggravante dell'agevolazione mafiosa e sul concorso esterno, in Giustizia Insieme (web), 29 aprile 2020.

    [32] Non si deve pertanto apprezzare l’impatto effettivo della condotta sulla intera struttura associativa come in dottrina affermava, ad es. N. D'Ascola, Impoverimento della fattispecie e responsabilità penale “senza prova”. Strutture in trasformazione del diritto e del processo penale, R. Calabria, 2008, p. 131.

    [33] Come è stato ben illustrato, il metodo, infatti, «sotto il profilo oggettivo è elemento indefettibile di cui l'associazione deve essere dotata; sotto il profilo soggettivo, è l'oggetto del dolo specifico degli associati nella prospettiva del suo concreto sfruttamento» (A. Ingroia, L'associazione di tipo mafioso, Milano, 1993, p. 70).

    [34] Per un approfondimento della questione sia ancora consentito il rinvio ad A. Apollonio, Le Sezioni Unite sull'aggravante dell'agevolazione mafiosa, cit. passim.

    [35] Perché, come si ricordava proprio su questa rivista al momento della pubblicazione del (solo) dispositivo, ribattezzare il "mondo di mezzo" come "Mafia capitale", in via definitiva, sarebbe equivalso a svuotare di sigificato, in via definitiva, l'art. 416-bis: senza più l'utilizzo o il richiamo del concetto di intimidazione (neppure in astratto), si sarebbe determinato lo stacco irreversibile del paradigma giuridico dal contesto socio-criminologico da cui è inizialmente derivato (A. Apollonio, "Mafia Capitale": altro che sconfitta, in Giustizia Insieme (web), 25 ottobre 2019). 


    Il fine vita e il legislatore pensante. 1. Il punto di vista dei penalisti (di Vincenzo Militello, Beatrice Magro e Stefano Canestrari)

    Il fine vita e il legislatore pensante

    1. Il punto  di vista dei penalisti  

    Considerazioni di Beatrice Magro e Stefano Canestrari

    Introduzione di Vincenzo Militello, professore ordinario di diritto penale dell'Università degli studi di Palermo 

    [v. Il fine vita e il legislatore pensante. Editoriale Il fine vita e il legislatore pensante. 2. Il punto di vista dei comparatisti - Parte I (di Mario Serio, Giuseppe Giaimo, Rosario Petruso e Rosalba Potenzano)]

    Introduzione

    Le questioni che ruotano intorno al trattamento del fine vita sono talmente complesse e correlate a presupposti ideali e giuridici differenti da aver indotto una struttura aperta della tavola di domande sottoposta a due penalisti che da anni ne seguono attivamente l’evoluzione. Lo spunto di partenza comune è la riflessione sul particolare percorso segnato nel nostro ordinamento dalla crisi del rigido quadro di tutela assoluta della vita, scolpito nel codice del 1930 e progressivamente incrinato dapprima dalla giurisprudenza ordinaria e da ultimo da quella costituzionale, nella prolungata situazione di stallo del legislatore rispetto alle possibili alternative da percorrere e comporre.    

    Mentre nell’approccio di Stefano Canestrari, anche alla luce della sua pluriennale esperienza in seno al Comitato Nazionale per la Bioetica, l’attenzione è rivolta innanzitutto al distinguo tra un futuro intervento volto a regolamentare l’aiuto medico a morire e la disciplina prevista nella legge n. 219 del 2017, della quale si chiede fermamente di perseguire un’attuazione integrale in tutto il territorio nazionale; le considerazioni di Beatrice Magro si orientano essenzialmente a favore di un ampliamento del diritto a morire da riconoscere al singolo, fermandosi solo fino al limite di trasformarlo in una pretesa di intervento da parte dello stato per garantirne l’attuazione.

    Ulteriori punti problematici sono quelli relativi alla rilevanza dell’obiezione di coscienza, che Canestrari sottolinea non doversi riconoscere espressamente in una modifica della legge sulle disposizioni anticipate di trattamento. Di queste ultime Magro preferisce piuttosto sottolineare i limiti rispetto alla possibilità di fondare la legittimità di un aiuto al suicidio in termini da non comprimere l’affermato diritto all’autodeterminazione alla propria morte. Ancora, pur se il dialogo a distanza si muove entro un comune richiamo ai valori costituzionali da attuare in materia di fine vita, e dal comune riconoscimento dell’importanza – ma anche dell’insufficienza per una soluzione integrale delle problematiche connesse – che assume in materia la cruciale sentenza della Corte Costituzionale n. 242 del 2019, le diverse accentuazioni dei due punti di vista di seguito riportati inevitabilmente determinano una non sovrapponibilità delle rispettive letture: Canestrari sembra condividere l’idea sostenuta dalla Corte nella sentenza relativa al noto caso del DJ Fabo di non innestare la disciplina dell’aiuto medico a morire all’interno della normativa della l. 219/2017, poiché questo comporterebbe equiparare i casi in cui il paziente rifiuta o rinuncia ai trattamenti sanitari alle fattispecie eutanasiche.

    Ebbene proprio le diverse accentuazioni dei limiti di tutela penale al “più fondamentale” dei diritti nella ormai estesa fase del fine vita costituiscono una riprova che il riconoscimento del rilievo primario assunto dalle sentenze tanto ordinarie quanto costituzionali in materia, che pure hanno segnato il tramonto di un ordine troppo rigido nell’assetto del relativo intervento penale, è ben lungi dall’aver fornito un punto di arrivo soddisfacente alla soluzione delle numerose questioni in gioco. Più che in altri settori il diritto penale giurisprudenziale è servito qui per aprire una pista al riconoscimento di diritti costituzionalmente affermati di cui urgeva un qualche riconoscimento nella vita reale. Ma la corretta delimitazione dei bilanciamenti fra i vari interessi in gioco è questione ancora aperta e che urge per un numero crescente di situazioni: le prese di posizioni che seguono al contempo rappresentano un test significativo di quanto accidentato rimanga il percorso per giungere finalmente ad un quadro normativo aggiornato, in grado di assicurare le scelte individuali in materia e le responsabilità degli operatori che le supportano, ma anche di tutelare le posizioni di debolezza del singolo contro subdole forme di altrui sfruttamento utilitaristico.  

    Vincenzo Militello


     Beatrice Magro, professore ordinario di diritto penale presso la Facoltà di Giurisprudenza, Università Guglielmo Marconi

    1. Il valore “normativo” della sentenza Englaro e delle pronunzie della Corte costituzionale sull'aiuto al suicidio. Punto di arrivo o punto di partenza per il legislatore?  

    Certamente gli interventi giurisprudenziali della Corte di cassazione e della Corte costituzionale rappresentano solo alcune delle tappe del lungo percorso che culminerà, ne sono certa, all’approvazione di una normativa che esplicitamente riconosca a ciascuno di noi il diritto di potere decidere della propria morte nelle fasi finali della propria vita, pacificamente, senza disturbare nessuno, senza il clamore di azioni giudiziarie o di scoop mediatici, poiché non a tutti può essere data la fortuna di attendere la morte con serenità e dignità. Può accadere che l’attesa sia straziante, infinita, dolorosa così come è accaduto a Fabiano Antoniani, paraplegico da anni, condannato ad assistere impotente, ma vigile, alla degenerazione di un corpo che stenta a morire.

    L’evoluzione giurisprudenziale sul tema del rifiuto di cure salvavita e, più recentemente, sul tema dell’assistenza sanitaria al suicidio segnala la chiara tendenza ad enucleare, o meglio ad esplicitare, quali contenuti normativi già insiti nel nostro ordinamento giuridico, una amplissima accezione del diritto di libertà all’autodeterminazione terapeutica, come diritto che non è condizionato dal rischio di morte e che non trova limite interno nel dovere di continuare a vivere.

    In questo senso, le pronunce della Corte di cassazione sul caso Englaro e della Corte costituzionale sul caso Antoniani contribuiscono a tratteggiare il volto del diritto vivente, sortendo una chiara valenza normativa, sebbene minore rispetto quella propria del legislatore.

    Invero, la libertà di autodeterminazione terapeutica - e il suo strumento operativo costituito dal consenso informato - vive attualmente un periodo particolarmente felice dovuto alla sua l’esplicita proclamazione sul piano dei principi per effetto della legge n. 219/2017, la quale dedica alla libertà di autodeterminazione del paziente l’intero art. 1 dell’articolato.

    Non vi è dubbio che la nuova disciplina introdotta dalla legge n. 219/2017 sancisca la piena supremazia dell’autodeterminazione del paziente tanto nell’ovvia ipotesi di rifiuto di cure salvavita, ove invero il decorso causale che conduce alla morte si snoda “naturalmente” seguendo il suo corso fisiologico non riconducibile all’intervento umano, quanto maggiormente nella equiparata ipotesi di interruzione di trattamenti salvavita, in cui l’azione positiva umana interviene sul decorso causale della malattia che conduce alla morte, ed è nel pieno dominio di chi agisce. Per effetto di tale disciplina, il consenso informato, a maggior ragione durante la dolorosa e penosa fase del “fine vita”, manifesta la sua intima essenza di atto di padronanza di sé e su di sé, e consente persino di sterilizzare la valenza penale della condotta del medico che, portavoce della volontà del paziente, interrompe con condotta attiva quelle cure salvavita, anticipandone il decesso, con modalità che possono adattarsi al suicidio assistito (art. 580 c.p.) o all’omicidio del consenziente (art. 579 c.p.).

    In tal senso, occorre evidenziare il fondamentale ruolo della normazione primaria scolpito dalla legge n. 219/2017, la cui valenza normativa è certamente più forte rispetto alla pronuncia giurisprudenziale (non vigendo nel nostro sistema il principio della valore vincolante del precedente), anche se il nostro legislatore è intervenuto solo a seguito di casi giurisprudenziali eclatanti per consacrare ex post la correttezza dell’impianto interpretativo, per chiarirne e cristallizzarne i principi.

    A completare il quadro si colloca la già citata sentenza della Corte costituzionale n.242/2019, la quale amplia l’orizzonte dei trattamenti medici dei morenti includendo anche l’ipotesi dell’auto-somministrazione medicalmente assistita di un farmaco letale volto a accelerare il processo di morte, quando la mera interruzione delle terapie salvavita, anche se accompagnata dalla sedazione profonda, non determini una morte veloce, dignitosa, che rispecchi la visione spirituale del morente.

    A seguito della suddetta pronuncia, molti commentatori, anche in ambito sanitario, ritengono si sia individuato un ambito di liceità del suicidio medicalmente assistito, ossia della condotta attiva del medico che co-somministra, con la partecipazione dello stesso paziente, il farmaco letale che cagiona una morte immediata ed indolore.

    Occorre tuttavia evidenziare che la Corte costituzionale si è limitata ad intervenire su un caso specifico, peculiare, la cui incostituzionalità è sostenuta alla stregua dei criteri di ragionevolezza, uguaglianza, plausibilità, in termini di eccezione rispetto la regola generale che pone il divieto di partecipare al suicidio altrui; anzi, nel tessuto motivazionale della pronuncia, si percepisce la chiara intenzione di volersi mantenere strettamente al problema posto dal giudizio principale a prescindere da proclamazioni generali di principio, piuttosto, negando cittadinanza ad un presunto diritto a morire, sia pure medicalmente assistito. Fuori dalle condizioni individuate dalla Corte, nessun rilievo sull’autodeterminazione della persona su come e quando morire viene riconosciuto. Rimangono perciò non risolte una serie numerosa di questioni, tra cui si richiama, solo a mò di esempio, quella del paziente che non dispone neppure di un margine di autonomia per poter compiere l’ultimo atto della catena causale che conduce alla sua morte o del paziente oncologico, affetto da dolori per lui insopportabili, che non è dipendente da mezzi artificiali di sostegno vitale.

    Il tenore della argomentazione - a mio avviso troppo ovattato e compromissorio - apre però un incolmabile vulnus all’assetto tradizionale delle norme poste a tutela della vita umana, certamente non calibrate criminologicamente su situazioni concernenti il c.d. fine vita, ossia quella condizione fenomenologica in cui lo statuto epistemologico della medicina ingloba una dimensione sociale e psicologica inerente alla percezione e alla rappresentazione individuale della malattia, della salute e della cura.

    Premesso che non è compito della Corte costituzionale introdurre eccezioni a principi generali, ma semmai quello di enucleare e ed esplicitare principi immanenti nel sistema normativo, sono dell’idea che il metodo casistico tipico dell’incedere giurisprudenziale, in assenza di una chiara enunciazione dei principi di fondo, come una coperta troppo corta, non risolva la vastissima e differenziata fenomenologia delle situazioni di fine vita che si presenteranno all’interprete.

    Da questa prospettiva si evidenziano i limiti ontologici di una decisione giurisprudenziale preoccupata di contemperare indirizzi interpretativi diametralmente opposti e irrimediabilmente confliggenti, più che di enunciare chiari e semplici principi costituzionali (o meglio ideologico- politici), necessari per la risoluzione dei vari casi che la fenomenologia presenta.

    Spetta quindi al legislatore - l’unico deputato a effettuare scelte divergenti dal tessuto normativo di tipo statalista e collettivista, cui è storicamente intriso il diritto penale a tutela della vita umana - il difficile compito di articolare una normativa ad hoc che tenga conto delle peculiarità delle situazioni esistenziali in relazione a molte e differenziate situazioni di sofferenza, esonerando espressamente da responsabilità penale il medico che fornisca assistenza sanitaria a colui che scelga la propria morte, anche anticipandone il decorso ormai inevitabile, a condizione che tale volontà sia autentica, stabile, radicata, informata sui possibili sviluppi e sulle alternative, non condizionata da condizioni materiali di abbandono e di dolore fisico o di sofferenza psicologica, cioè che non sia il frutto di un momentaneo sconforto o di una diminuita capacità di volere.

    Da questo punto di vista, si lamenta la totale sordità delle norme incriminatrici poste a tutela della vita umana rispetto a tali differenziate esigenze: norme concepite in contesti storici e sociali assai diversi, calibrate su fenomenologie che nulla hanno a che vedere con l’idea tanto laica quanto scontata della disponibilità della propria vita, di cui unico dominus è il titolare del diritto, idea ormai fatta propria dall’ordinamento giuridico moderno che brulica di istituti e discipline che ad essa si ispirano (penso all’interruzione della gravidanza, alla procreazione medicalmente assistita, etc.).

    Fuori da contesti criminologici connotati da violenza, abusi, fini egoistici e illeciti, contesti di abbandono e di privazione, incapacità cognitive e volitive, la futuribile, auspicabile, nuova disciplina normativa posta a tutela della vita umana anche quando la vita sta spegnendosi più o meno lentamente, dovrebbe essere calibrata all’insegna di un unico scopo politico criminale: la tutela di tutti i soggetti (afflitti da condizioni di sfumata capacità o no), da condizioni esterne che possano accentuarne la vulnerabilità o approfittare di condizioni preesistenti di vulnerabilità, senza alcuna paura di una chiara e liberale affermazione dei principi di libertà.  

    2. La non punibilità dell’aiuto al suicidio secondo i criteri fissati dalla Corte costituzionale equivale o no ad un diritto a porre fine alla propria esistenza?  

    A mio avviso la non punibilità dell’aiuto al suicidio, sia pure nell’ambito ristretto tratteggiato dalla Corte costituzionale, sostanzialmente equivale alla proclamazione dell’esistenza del diritto di libertà a porre fine alla propria esistenza.

    Consapevole del sapore assai provocatorio delle mie affermazioni, vorrei chiarire il mio pensiero.

    Malgrado la Corte costituzionale abbia affrontato il dilemma etico e giuridico posto dal caso Antoniani come questione di diritti del malato e le eccezioni di incostituzionalità siano state ricondotte in relazione all’art. 32 comma 2 Cost., non condivido la posizione che scinde nettamente il diritto all’autodeterminazione terapeutica dal diritto di porre fine alla propria esistenza, essendo entrambi, a mio avviso, articolazioni del diritto all’identità personale e manifestazioni della personalità individuale.

    La salute, e le decisioni a lei connesse, sono manifestazione della dignità umana, meglio declinata come manifestazione della propria identità personale. Il riconoscimento di diritto fondamentale dell’uomo all’autodeterminazione rispetto a trattamenti terapeutici è espressione della ricerca di un percorso anzitutto “esistenziale”, prima ancor che curativo, che ha fulcro e fine nel rispetto dell’identità del malato, dei suoi modelli mentali, della sua biografia.

    Perciò, la salute può rappresentare una delle direttrici di ricerca del senso dell’esistenza umana, cui tutti quotidianamente aneliamo.

    In questo senso, non è azzardato ritenere che anche la scelta verso una morte, inevitabile e più o meno prossima, non sia in antitesi con la vita, non costituisca un diritto autonomo e contrapposto rispetto quello alla vita o allo sviluppo della persona o alla salute e al benessere, ma una sua articolazione interna, una sua derivazione o espansione logico-giuridica.

    Pertanto, sono dell’idea che sia l’autodeterminazione terapeutica che l’autodeterminazione alla morte siano manifestazione dello stesso humus culturale e giuridico che pone in posizione di preminenza assoluta l’individuo e la sua autodeterminazione come valori fondanti l’ordinamento giuridico. La premessa giuridico-filosofica sottesa alla proclamazione del diritto ad una morte autodeterminata è il trionfo della concezione personalista secondo cui la persona umana è un essere moralmente e intellettualmente capace di esercitare la propria libertà in modo responsabile e in piena autonomia, nel rispetto della dignità umana, da concepirsi come valore giuridico che mai può rappresentare un limite alla libertà di autodeterminazione perché ne è la sua ragione, il suo presupposto; le decisioni sulla propria vita e sulla propria morte, in quanto da esse promanate, trovano in essa ragione ontologica, poiché la libertà di morire non è in antitesi logica e giuridica rispetto l’autodeterminazione, ma una sua estrinsecazione.

    Soprattutto la decisione di porre fine alla propria vita riveste un profondo ed insondabile significato esistenziale: essa è emanazione della propria identità personale. L’insopprimibile dignità dell’essere umano implica che questi debba essere sempre riconosciuto (salvo che sussistano condizioni che facciano presumere il contrario) quale soggetto autoresponsabile. In particolare, la dignità presuppone che l’essere umano non sia costretto a forme di vita che si pongono in un conflitto irrisolvibile con l’immagine che egli ha di sè.

    Assumendo il modello gius-filosofico in base al quale morte e vita costituiscono eventi di libertà, da interpretare in termini di possibilità, e non in termini di imponderabile necessità, a piccoli passi e senza grandi enunciazioni di principi, l’evoluzione del sistema normativo sembra orientata a comporre quello che è stato tradizionalmente interpretato un ossimoro: il rapporto - conflittuale, inconciliabile ed assolutamente incompatibile - tra morire e salute, tra autodeterminazione alla morte e libertà di autodeterminazione terapeutica. Sembra cioè che, pur mantenendo ben saldo l’obiettivo superiore di tutelare la vita umana, si sia superato il pregiudizio che subordinava ogni interesse individuale a quello – pubblico e statalista – del mantenimento in vita e che assegnava alla vita biologica un primato assoluto, sempre prevalente in ogni condizione e a qualunque costo e sacrificio. Il classico dogma, secondo cui la vita debba prevalere sull’autodeterminazione, poiché non vi è libertà senza vita biologica, sembra perdere le sue radici ideologiche e mostrare la sua fragilità, in quanto emanazione di un datato protagonismo statualista, di una visione fortemente collettivistica e strumentale delle libertà individuali che, nell’appropriarsi di un concetto astratto e normativo di uomo, ne nega la sua concreta e materiale essenza, e di fatto ne comprime dignità e autodeterminazione.   

    3. E’ possibile equiparare sotto ogni profilo il diritto alla autodeterminazione terapeutica e il diritto ad autodeterminare la propria morte? Che spazio residua all’intervento regolatore dello Stato quando il risultato dell’esercizio di questa libertà può coincidere con il totale annientamento della persona umana?  

    Quale è il peso dell’autodeterminazione a porre fine alla propria esistenza e quali sono i suoi limiti strutturali? Dobbiamo concludere che, per un perverso gioco degli opposti, al primato della indisponibilità della vita si sia sostituito l’assioma dell’autodeterminazione (e l’illusione di un assoluto libero arbitrio) cui lo Stato deve supinamente soggiacere, non solo disinteressandosi di eventuali strumentalizzazioni, pressioni indirette, occulti condizionamenti a danno delle vittime più vulnerabili, ma anche restando obbligato a mettere a disposizione strutture sanitarie e servizi sociali che ne permettano l’effettivo esercizio?

    Invero, occorre tracciare una profonda differenziazione tra libertà di autodeterminazione terapeutica e libertà di autodeterminazione alla morte, tale da sbaragliare il radicato paradigma di pensiero secondo cui il riconoscimento del diritto a non vivere equivalga alla corrispondete configurazione di un corrispondente dovere giuridicamente vincolante di prestazione positiva da parte di terzi (medici o estranei) a carico dell’amministrazione sanitaria. Paradigma che ha condizionato il discorso giuridico in tema di disponibilità della vita e l’analisi delle norme penali e che corrisponde coerentemente con il diritto alla salute, ma non con il diritto a non vivere tout court a prescindere da una condizione patologica.

    La salute, nella sua dimensione di diritto umano, presenta delle forti ricadute sul piano dei doveri dell’amministrazione pubblica. La salute non costituisce solo un diritto di libertà negativa (a non essere sottoposto a trattamenti sanitari), ma rappresenta anche un diritto sociale alla cui tutela e promozione devono contribuire le istituzioni sociali in termini di diritti di cura e doveri di prestazioni sanitarie a carico dell’amministrazione pubblica. Questo piano della gestione delle risorse e delle politiche pubbliche rischia di ampliare a dismisura i compiti dello Stato, affinché siano assicurate le condizioni materiali per l’esercizio effettivo dei diritti e il soddisfacimento del sottostante bisogno.

    L’attuazione del diritto alla salute, proprio per la sua peculiare conformazione e anche nella sua forma di libertà negativa dalla cura, passa attraverso la necessaria intermediazione dell’attività prestata dall’Amministrazione sanitaria e, quindi, attraverso la doverosità di tale prestazione e il contenuto obbligatorio di questa, non essendo il paziente, anche quello capace di esprimere la sua volontà, in grado di soddisfarlo da sé, senza la obbligatoria collaborazione del Servizio Sanitario Nazionale. 

    Diversamente, il diritto di libertà a autodeterminare la propria morte non si atteggia a diritto a prestazioni sociali, non impone alcuna prestazione positiva da parte dell’amministrazione sanitaria, né in capo a terzi privati né a soggetti pubblici. Al diritto ad autodeterminare la propria morte non corrisponde alcun dovere a supportare materialmente e solidaristicamente tale decisione, che perciò rimane affidata alla cooperazione spontanea.

    In tal modo viene contemperato il principio di autonomia, tendenzialmente assoluto, con l’ovvia esigenza di salvaguardare la componente relazionale, e in particolare la valutazione tecno-scientifica del medico, in evidente assonanza con la legge n. 219/2017 che, pur valorizzando fortemente l’autodeterminazione, prevede rigorosi limiti alle richieste che il malato può fare all’ equipe curante art. 1 comma 6 e art. 4 comma 5).

    A mio parere, ciò non significa negarne lo statuto di diritto di libertà. Anzi. Ad esso consegue l’illegittimità delle norme penali che puniscono ogni forma di partecipazione del terzo, se non ricorrono specifiche esigenze a difesa dalla suicidal vulnerability, e in assenza di evidenze scientifiche che indizino una valutazione negativa o scivolosa della pratica. Ma nulla più. Il diritto ad autodeterminare la propria morte, in quanto diritto di libertà negativa, non incardina una corrispondente pretesa di prestazione positiva in capo a terzi o allo Stato, neppure quando, per la sua concreta e materiale fruizione, sia richiesto il supporto di terzi.

    Sono dell’idea che questa libertà, a differenza di quella di rifiutare in modo vincolante per i terzi le misure che mantengano in vita, esplichi una limitata efficacia vincolante che si estrinseca nella liceità del suo non impedimento, rimanendo la condotta collaborativa affidata esclusivamente all’apporto spontaneo e non obbligato del terzo: la libertà di morire (senza interferenze da parte d’altri) è una dimensione giuridica che non coincide affatto con il diritto di morire come pretesa esigibile nei confronti di terzi.

    La differenza ontologica tra le due posizioni soggettive (diritto all’autodeterminazione terapeutica e diritto ad autodeterminare la propria morte) si coglie nella diversa condizione del titolare del diritto: solo un’insopportabile dolore o sofferenza totale può attivare un obbligo solidaristico in capo alla Stato. La libertà di autodeterminazione terapeutica incardina precisi obblighi in capo all’amministrazione sanitaria di accettarne le scelte anche nella consapevolezza della certa conseguente morte, non potendo addurre una propria ed autoritativa visione della cura o della prestazione sanitaria che contempli e consenta solo la prosecuzione della vita e non, invece, l’accettazione del processo naturale di morte da parte del consapevole paziente. Perciò, mentre si configura giuridicamente un diritto all’assistenza a morire del paziente (in quanto manifestazione dell’autodeterminazione terapeutica del malato) non si configura alcun diritto ad esigere l’assistenza al suicidio (in quanto manifestazione dell’autodeterminazione tout court che può prescindere da pregresse condizioni patologiche).

    Sussistono, dunque ineliminabili differenze tra assistenza al suicidio tout court, a prescindere da condizioni di sofferenza e di malattia, e assistenza al suicidio prestata in favore di malati affetti da processo morboso irreversibile, incapaci di agire autonomamente e il cui decorso del processo di morte non rispecchierebbe la propria idea di dignità.

    L’aiuto a morire, a differenza del diritto al suicidio, per definizione presuppone una condizione di dolore fisico o di sofferenza totale e un decorso mortale già avviato che può mancare nell’assistenza al suicidio, elementi che costituiscono la ragione ontologica e giuridica su cui si incardina il dovere di assistenza in capo all’amministrazione sanitaria. Questa condizione di sofferenza connota in modo differente il contenuto e la azionabilità delle due libertà: il diritto a morire del malato è espressione di un diritto sociale, il diritto a non vivere dell’individuo è emanazione di una sua libertà negativa. Perciò il “suicidio”, anche sul piano giuridico, è una libertà monadica non accompagnata da pretese di realizzazione o di partecipazione empatica.  

    4. Il dolore e la sofferenza in che misura incidono sul diritto all’identità personale e sulla dignità umana?  

    Per lungo tempo il processo di morte, come esperienza umana, è stato ignorato dalla professione medica. Si è anche sostenuto che non rientri tra gli scopi e gli obiettivi della medicina quello di rimuovere tutte le sofferenze umane possibili. Se in linea di principio si può essere d’accordo con queste affermazioni, si deve tuttavia ricordare che, durante la fase conclusiva della vita, uno degli obiettivi certamente non meno importanti della medicina è quello di alleviare la “sofferenza o il dolore intollerabile”.

    Alcuni studi, diffusi soprattutto nei paesi anglosassoni, hanno esplorato le condizioni che determinano la “sofferenza insopportabile” di pazienti terminali o incurabili che avevano chiesto esplicitamente un aiuto al suicidio o che avevano rifiutato le cure consapevoli del processo di morte in atto, al fine di comprendere cosa s’intende per “sofferenza insopportabile”, cosa la determina, di quali elementi si compone, e quali sono le possibilità di farvi fronte e in che cosa essa si distingua dal dolore insopportabile. Invero, il dolore, concetto medico, va differenziato dalla sofferenza, concetto esperenziale, che indaga sulla intensità e misura soggettiva del dolore, che colpisce l’uomo nella sua identità e non solo un frammento del corpo.

    Cosa emerge da questi dialoghi e da questo ascolto? Il medico e l'operatore sanitario osservano nel quotidiano i segni esteriori di quel processo patologico emotivamente estenuante che condurrà il paziente alla morte. Percepire la soglia del dolore attraverso la conoscenza medica è quasi impossibile e occorre affidarsi alle mutevoli percezioni umane. Il dolore è sempre un fenomeno duplice: una spiacevole sensazione fisica si associa ad una reazione emozionale; perciò per sottolineare la complessità del dolore si ricorre all’espressione “dolore totale” cioè alla sorgente somatica dello stimolo cui si associano gli aspetti psicologici, sociali spirituali che sappiamo accompagnare gli ultimi mesi della vita del malato.

    E’ il paziente l’unico giudice del proprio dolore e solo lui ha il diritto di valutarne l’intensità ed il disagio da esso provocato.

    Il dolore è una minaccia terribile al senso d’identità. Esso induce ad una parziale rinuncia di sè e dell’atteggiamento che si assume nelle normali relazioni sociali, si autorizza atti (smorfie, pianti etc.), parole che rompono incoerenti con i comportamenti abituali, oppure si ritrae in una solitudine estrema. Quando si sa che un dolore è passeggero che prima o poi finirà, esso potrà non intralciare il senso d’identità dell’individuo. La sofferenza diviene terrore quando il dolore minaccia di entrare nella carne in via definitiva, quando diviene cronico, e diviene una “malattia nella malattia”. Allora diviene un pensoso ostacolo all’esistenza. Il dolore è un’esperienza forzata che inaugura un modo di vita, un imprigionarsi dentro di sé che non lascia scampo perché tutto il mondo rigurgita dolore e depressione.

    Ma anche senza dolore fisico, quando è in atto un processo che condurrà alla morte, la sofferenza del paziente può essere intollerabile. Il processo del morire mette a fuoco passato, presente e il futuro. In un lasso di tempo molto breve, il passato deve essere riconciliato, il presente deve essere realizzato e il futuro deve essere pianificato. Tutte le emozioni si intensificano quando la fine è prossima. Un paziente morente è totalmente dipendente dalla famiglia e dagli amici e ne percepisce più acutamente ansia, dolore, incomprensione e assai spesso anche rabbia. Gran parte della depressione clinica nei pazienti morenti e nelle loro famiglie sembra avere le sue radici in una sensazione di impotenza. Questa reazione depressiva talvolta può aumentare progressivamente fino a diventare di intensità patologica con preoccupazioni suicide, poiché non è tanto la morte quanto il tempo necessario per morire e la qualità di quella vita residua che può promuovere l'ideazione suicidaria e persino l'azione.

    L’esperienza mostra che la timidezza nel curare il dolore o nell’anticiparne la venuta sono fonte di ansia acuta che avvelena gli ultimi momenti della propria esistenza. Iniezioni di morfina spesso non sincronizzate con le ondate di dolore lasciano il paziente nell’attesa penosa del prossimo momento di sollievo. Quando il dolore è troppo forte, si consente di “barattare” una morte precoce con il fatto di soffrire di meno.

    Tutta questa gamma di emozioni, dall'ansia, alla paura, persino l’impazienza di fronte alla morte sono espressione di come si è, in precedenza, strutturata la personalità di ciascuno di noi, e come abbiamo messo in atto strategie di sopravvivenza e difesa di un Ego spesso troppo fragile e posticcio. Il concetto di identità personale, nella nostra cultura occidentale, non rinvia ad un Sè indipendente dalla biografia, ma descrive un processo di “identificazione” con desideri, bisogni, stati e modelli mentali di ciascuno di noi appartenenti alla nostra realtà sociale e culturale.

    Ecco perché modificare questi modelli significa perdere la propria identità, perdere se stesso e abbandonare questa identità provoca una “sofferenza insopportabile”, persino maggiore del dolore fisico, talora maggiore dell’idea della morte stessa: negare quella storia biografica o quei modelli mentali equivale già a morire o a essere morto.

    La nostra società ci rende molto più longevi, il tasso di mortalità è molto ridotto, aspiriamo quasi all’immortalità e al potenziamento delle nostre abilità psichiche e fisiche, abbiamo in mano tecnologie strepitose che ci consentono di realizzare molti dei nostri desideri, ma siamo più fragili dal punto di vista esistenziale perché stressati, competitivi, meno autonomi psicologicamente e sempre più dipendenti dal contesto esterno e dalla tecnologia. Nella nostra lotta ad essere "buoni" familiari, amici, medici, nel fare tutto ciò che è possibile, immobilizziamo i nostri pazienti e li rendiamo più indifesi e fragili psichicamente perché meno autonomi e, ormai prossimi alla morte, incapaci di conquistare quell’identità e quella centratura interiore magari mai esperite durante la fase ascendente della vita. E’ in questa fase che si manifesta in modo più dirompente il bisogno di ricostruire un’identità personale forse mai esperita prima.  

    5. Le DAT e l’aiuto al suicidio. Quali modifiche all’impianto normativo già esistente?  

    Secondo alcuni commentatori, la questioni poste all’indomani dalla sentenza della Corte costituzionale sul caso Antoniani evidenziano la necessità di accantonare il tema delle modifiche da apportare alle norme poste in tema di tutela della vita umana (tema che pur dovrebbe essere affrontato, posto che le norme che puniscono l’omicidio del consenziente e l’istigazione o aiuto al suicidio necessiterebbero di una profonda revisione dei loro presupposti applicativi e dei loro reciproci rapporti) e di incentrare l’attenzione sulla normativa in tema di Dat introdotta dalla legge n. 219/2017, l’unica effettivamente calibrata sul tema del fine vita e del trattamento medico dei morenti.

    In questo senso, molti sostengono che sarebbero da implementare i contenuti dispositivi del consenso informato, includendo espressamente anche la richiesta all’assistenza al suicidio, la cui vincolatività dovrebbe essere subordinata al rispetto di una procedura volta a verificare autenticità e stabilità della richiesta, anche mediante colloqui psicologici, purché sia offerta la possibilità di fruire di cure del dolore o della sedazione terminale e purché ricorrano le condizioni poste dalla sentenza 242/2019 della Corte cost. Occorre cioè che la decisione di fine vita si realizzi in un contesto di assistenza psicologica, di comunicazione, di informazione, e di continua verifica delle condizioni di dipendenza da sostegno vitale e di sofferenza indicate dalla Corte.

    Tuttavia non mi pare condivisibile l’idea che tali modifiche possano essere innestate nel tessuto normativo della legge sui DAT il cui valore innovativo concerne soprattutto la vincolatività delle dichiarazioni del paziente rese anticipatamente per il momento in cui sopraggiunga lo stato di incapacità. Per cui, non appare condivisibile l’idea che le modifiche possano concernere l’art. 4 della legge 219/2017, relativo alle dichiarazioni anticipate di trattamento, poiché esse, per definizione, riguardano l’ipotesi in cui il paziente non sia in grado di manifestare la propria volontà né sia in grado di agire autonomamente, sia pure per quel minimo richiesto per cooperare a cagionare la propria morte. E’ quindi quantomeno improprio parlare di assistenza al suicidio in simili situazioni.

    Invero, va specificato che, per definizione, la condotta di assistenza materiale al suicidio così come scolpita dalla Corte costituzionale, presuppone il supporto vigile del paziente capace di intendere, e quindi non può essere inclusa tra i contenuti delle dichiarazioni anticipate, le quali esplicano la loro valenza per il futuro, nell’ipotesi in cui in cui sopraggiunga una malattia tale da escludere le capacità cognitive-volitive del paziente.

    Nell’ipotesi in cui il paziente sia divenuto ormai totalmente incapace di esprimere la propria volontà, sia affetto da sindrome tale da impedirgli qualunque barlume di autonomia di agire, sia dipendente da trattamenti di sostegno vitale, ma abbia espressamente ed anticipatamente richiesto la somministrazione attiva e diretta del farmaco letale, in alternativa all’interruzione di trattamenti di sostegno vitale e alla sedazione terminale profonda, cui seguirebbe “naturalmente” la morte, sia pure in tempi meno rapidi, non sarebbe possibile più parlare di aiuto al suicidio nè di suicidio per mano altrui, ma, esplicitamente di eutanasia diretta.    

     Stefano Canestrari, professore ordinario di diritto penale presso il Dipartimento di Scienze giuridiche dell'Università di Bologna e componente del Comitato Nazionale per la Bioetica.

    1. Il valore «normativo» della sentenza Englaro e delle pronunzie della Corte costituzionale sull’aiuto al suicidio. Punto di arrivo o punto di partenza per il legislatore?  

    (I) Con l’entrata in vigore della legge n. 219 del 2017 – «Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento» – la legislazione del nostro Paese si allinea alle scelte dei principali ordinamenti degli Stati costituzionali di derivazione liberale. La normativa citata sancisce con chiarezza il diritto inviolabile di vivere tutte le fasi della propria esistenza senza subire trattamenti sanitari contro la propria volontà – derivazione logica del diritto all’intangibilità della sfera corporea di ogni essere umano – e contiene disposizioni di fondamentale importanza.

    Occorre avere piena consapevolezza del fatto che, oggi, nel nostro ordinamento giuridico abbiamo una disciplina organica – attesa da decenni – del consenso informato, del rifiuto e della rinuncia al proseguimento di trattamenti sanitari. Il richiamo esplicito dell’art. 1, comma 1, della l. 219/2017 ai principi costituzionali e a quelli convenzionali di riferimento individua una pluralità di diritti fondamentali che riconoscono la massima ampiezza dell’autodeterminazione terapeutica (in armonia con le note prese di posizione giurisprudenziali relative ai casi Welby ed Englaro).

    In particolare, come ho da tempo sottolineato, era auspicabile che il legislatore sancisse in modo inequivoco la liceità e la legittimità della condotta attiva del medico (art. 1, comma 6) – necessaria per dare attuazione al diritto del paziente di rinunciare al proseguimento di un trattamento sanitario anche salvavita – soprattutto al fine di garantire un definitivo consolidamento delle radici costituzionali del principio del consenso/rifiuto informato nella relazione medico-paziente.

    In assenza di una disposizione normativa così netta, la paura del malato di poter essere irrevocabilmente vincolato alla prosecuzione delle terapie provoca gravi distorsioni nella relazione di cura, accentuate nel contesto attuale dove sono diffusi atteggiamenti di medicina difensiva, che conducono il medico a non rispettare la volontà del paziente per evitare il rischio di contenziosi giudiziari. Mi limito a segnalare l’effetto tremendo e perverso – che ho posto più volte in evidenza nell’ambito del Comitato Nazionale per la Bioetica – di finire per dissuadere il paziente a intraprendere un trattamento sanitario salvavita per il timore di rimanere in una «condizione di schiavitù» in cui viene negato valore ad una revocabilità o ritrattabilità del consenso a proseguirlo.

    Alle cure palliative e alla terapia del dolore la legge 219 del 2017 dedica il successivo art. 2 («Terapia del dolore, divieto di ostinazione irragionevole delle cure e dignità nelle fase finale della vita»).

    In particolare, questa disposizione afferma, al comma 2, che: «Nei casi di persona malata con prognosi infausta a breve termine o di imminenza di morte, il medico deve astenersi da ogni ostinazione irragionevole nella somministrazione delle cure e dal ricorso a trattamenti inutili o sproporzionati. In presenza di sofferenze refrattarie ai trattamenti sanitari, il medico può ricorrere alla sedazione palliativa profonda continua in associazione con la terapia del dolore, con il consenso del paziente».

    Come appare evidente, anche la persona malata che s’inserisce in un processo di fine vita a seguito del rifiuto o della rinuncia al proseguimento di trattamenti sanitari necessari alla propria sopravvivenza ha diritto di beneficiare di tutte le cure palliative praticabili e della terapia del dolore nonché, in caso di sofferenze refrattarie, della sedazione profonda e continua.

    Mi limito poi a menzionare gli articoli 4 e 5 della legge n. 219/2017, i quali disciplinano le disposizioni anticipate di trattamento e la pianificazione condivisa delle cure. Quest’ultima costituisce un significativo rafforzamento dell’alleanza terapeutica tra medico e paziente, in quanto disciplina la possibilità di definire, in relazione all’evoluzione delle conseguenze di una patologia cronica ed invalidante o caratterizzata da inarrestabile evoluzione con prognosi infausta, un piano di cura condiviso tra il paziente e il medico, al quale il medico è tenuto ad attenersi in tutte le ipotesi nelle quali il paziente venga a trovarsi nella condizione di non poter esprimere il proprio consenso o in una condizione di incapacità.

    Per ciò che riguarda l’assenza di un’apposita norma che regolamenti l’obiezione di coscienza del medico (e degli operatori sanitari) la scelta del legislatore appare assolutamente condivisibile. La previsione di un diritto all’obiezione di coscienza non sarebbe stata coerente con i presupposti di una disciplina che intende promuovere e valorizzare la relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico basata sul consenso informato, senza richiedere contemperamenti tra valori confliggenti. Diversamente rispetto alla legge sulla interruzione di gravidanza, nella legge n. 219 del 2017 non è necessario alcun bilanciamento tra beni meritevoli di tutela da parte dello Stato e in collisione tra loro.

    Dunque, a mio avviso, la legge n. 219 del 2017 non deve essere modificata, bensì applicata in tutte le sue previsioni normative. E va difesa con convinzione ed energia dai ricorrenti attacchi provenienti da correnti di pensiero di frequente contrapposte.

    Alcuni settori della letteratura bioetica e giuridica invocano una duplice modifica della legge n. 219 del 2017: (a) eliminare la chiara presa di posizione sulla qualificazione normativa della nutrizione artificiale e della idratazione artificiale come trattamenti sanitari (art. 5, comma 1); (b) introdurre l’istituto dell’obiezione di coscienza per i professionisti della salute.

    Sul versante opposto, vi sono orientamenti che auspicano una «riscrittura» della legge n. 219/2017 volta a riconoscere una assimilazione del rifiuto/rinuncia ai trattamenti sanitari alle fattispecie eutanasiche. Anche tale proposta non può essere condivisa.

    In proposito, val la pena ribadire che una simile equiparazione «non rispetta» e «non rispecchia» l’ampia varietà di motivazioni dei pazienti che rifiutano o rinunciano a trattamenti sanitari anche salvavita, le quali non sono sempre riconducibili ad una volontà di morire. Non intendo fare riferimento soltanto al rifiuto di sottoporsi alle trasfusioni ematiche per convinzioni religiose; penso alle vicende di tante persone malate che rifiutano trattamenti sanitari life saving (ad esempio, l’amputazione dell’arto o altri interventi chirurgici demolitori) o rinunciano al loro proseguimento (come un ulteriore ciclo di chemioterapia) con l’intenzione di garantirsi un percorso di vita, talvolta anche breve, in armonia con la propria sensibilità e con la propria identità personale.

    A prescindere dalle motivazioni, occorre essere pienamente consapevoli che, nelle ipotesi in cui il paziente rifiuta o rinuncia al proseguimento di trattamenti sanitari anche necessari alla propria sopravvivenza, il diritto della persona malata assume la consistenza dei diritti dell’habeas corpus e trova la sua necessaria e sufficiente giustificazione nel diritto all’intangibilità della propria sfera corporea in tutte le fasi dell’esistenza. L’equiparazione di tale diritto al c.d. diritto di morire (comprensivo di suicidio assistito e eutanasia) ne determinerebbe un inevitabile ed intollerabile «affievolimento».

    Come appare evidente dal fatto che i fautori dei due indirizzi che propongono modifiche contrapposte di “amputazione” o di dilatazione della legge n. 219 del 2017, finiscono tuttavia per convergere sulla necessità di introdurvi l’istituto dell’obiezione di coscienza (anziché limitarsi a prendere atto della facoltà del medico di astenersi prevista nell’ambito della normativa citata, seconda parte dell’art. 6).

    Come ho avuto più volte occasione di ribadire, una simile modifica sarebbe in contrasto con l’idea ispiratrice e l’impianto complessivo di una legge che intende promuovere e valorizzare una relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico fondata sul consenso informato.  

    (II) La celebre sentenza n. 242 del 2019 della Corte costituzionale non ripropone l’idea – prefigurata nella precedente ordinanza n. 207 del 2018 – di introdurre il diritto della persona malata a richiedere l’assistenza al suicidio tramite una modifica della legge n. 219 del 2017: un «innesto» di difficile attuazione in un tessuto normativo che si è posto l’obiettivo di valorizzare l’«incontro» tra l’autonomia decisionale del paziente e l’autonomia professionale del medico, con la finalità di superare una pervicace visione paternalistica senza mettere in discussione l’immagine tradizionale del medico costitutiva dello sfondo archetipico della sua professione.

    La relazione medico-paziente delineata nella sentenza n. 242 del 2019 non presuppone l’equivalenza tra la situazione in cui la morte sopravvenga per il decorso della malattia, in seguito all’interruzione di trattamenti di sostegno vitale, e l’assistenza al suicidio dove il decesso viene deliberatamente provocato.

    La sentenza della Consulta ribadisce che la legge n. 219 del 2017 riconosce «il diritto di rifiutare o interrompere qualsiasi trattamento sanitario, ancorché necessario alla propria sopravvivenza» e, pertanto, «il medico è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente» (ricordo che tale affermazione è “rafforzata” dal comma 9 dell’art. 1 laddove prevede che: «Ogni struttura sanitaria pubblica o privata garantisce con proprie modalità organizzative la piena e corretta attuazione dei principi di cui alla presente legge»). Viceversa, introducendo il tema dell’obiezione di coscienza, la sentenza 242/2019 afferma che «la presente declaratoria di illegittimità costituzionale si limita ad escludere la punibilità dell’aiuto al suicidio nei casi considerati, senza creare alcun obbligo di procedere a tale aiuto in capo ai medici. Resta affidato, pertanto, alla coscienza del singolo medico scegliere se prestarsi, o no, a esaudire la richiesta del malato» (§ 2.3. Considerato in diritto).

    Dunque, il legislatore del 2017 non ha contemplato un’apposita norma che regoli l’obiezione di coscienza da parte del personale sanitario perché tale opzione avrebbe in parte vanificato l’applicazione della disciplina normativa. Al contrario, la sentenza n. 242 del 2019 non ritiene necessaria l’introduzione dell’istituto dell’obiezione di coscienza perché non prevede alcun obbligo da parte del medico (e della struttura sanitaria) di utilizzare le proprie competenze per aiutare la persona malata a morire.

    La sentenza n. 242/2019 della Corte costituzionale rappresenta comunque una tipologia inedita di decisione calibrata sulle peculiarità del caso concreto e, proprio in virtù della specificità della vicenda giudiziaria, rischia di generare ulteriore disorientamento nel dibattito etico e giuridico sulle questioni di fine vita.

    Innanzitutto, non è agevole ricondurre la condizione esistenziale di Fabiano Antoniani (detto Dj Fabo), nel momento della richiesta di assistenza a morire, alla categoria del suicidio: siamo di fronte ad una persona malata che si è sottoposta per anni a trattamenti sanitari e a terapie sperimentali motivata da un tenace impulso “a vivere” anziché “a morire”. In queste ipotesi si dovrebbe pertanto riflettere sull’opportunità di superare «le trappole semantiche e concettuali legate alla pigra ripetizione del termine suicidio» (S. Rodotà, La vita e le regole. Tra diritto e non diritto, Milano, 2006, 255 nell’ambito di una riflessione generale sulle questioni di fine vita).

    Di fronte all’impossibilità di procedere ad una differenziazione sul piano della tipicità, il malessere «è raddoppiato» dal fatto che è ancora vigente l’art. 580 c.p. formulato in un’epoca in cui era ancora lontana l’irruzione della tecnica in tutte le stagioni della nostra esistenza.

    Non soltanto un suicidio «atipico» e inimmaginabile nel 1930, ma anche «non paradigmatico» rispetto al dibattito mondiale sulla legalizzazione o sulla depenalizzazione del suicidio medicalmente assistito: le ipotesi principali che vengono in rilievo non riguardano richieste di assistenza al suicidio di persone malate che rinunciano al proseguimento di un trattamento di sostegno vitale e, al contempo, rifiutano la sedazione palliativa profonda continua nell’imminenza della morte.

    In proposito, occorre rimarcare il fatto che la sedazione palliativa profonda continua è un trattamento sanitario che avvia la persona malata ad una morte naturale e ha come effetto l’annullamento totale della coscienza e un «sonno senza dolore» fino al momento del decesso. La sedazione profonda continua può essere percepita come un’angosciosa conclusione – secondo le parole della sentenza 242/2019: «[...] vissuta da taluni come una soluzione non accettabile» (§ 2.3. Considerato in diritto) – ma non può certo essere ritenuta una modalità “non decorosa” per accompagnare il paziente nella fase finale della sua esistenza.

    Anche su questo punto è necessario avere piena consapevolezza, per evitare che la sentenza 242/2019 generi equivoci. Il diritto di beneficiare in caso di sofferenze refrattarie della sedazione palliativa profonda non viene garantito in modo omogeneo ed efficace nelle diverse realtà sanitarie del nostro Paese, dove accade di frequente di morire senza un adeguato controllo delle sofferenze. Qui ribadisco con forza che il «diritto di dormire per non soffrire prima di morire» (secondo la formula della legge francese Leonetti-Claeys del 2 febbraio 2016) – sancito dall’art. 2, comma 2, della l. 219/2017 – deve ricevere una piena attuazione.  

    2. Le DAT e l’aiuto al suicidio. Quali modifiche all’impianto normativo già esistente?  

    Sebbene la legge n. 219 del 2017 sia diventata nota – soprattutto nel dibattito pubblico – come la «legge sul testamento biologico», in realtà la sua portata va ben oltre la previsione della disciplina delle disposizioni anticipate di trattamento (DAT), poiché coinvolge l’intera materia del consenso informato, andando a recepire i principi di matrice costituzionale – ribaditi, nel corso degli anni, dalla giurisprudenza –, che concernono l’alleanza terapeutica, da intendersi come il rapporto di fiducia “medico-paziente”.

    A partire da questa premessa necessaria, si evidenzia che l’introduzione di una disciplina dell’assistenza medica a morire esige una decisione da parte del legislatore. Si tratta di effettuare un’autentica opera di bilanciamento, di fronte alla richiesta di essere aiutato a morire indotta da situazioni drammatiche, tra il diritto all’autodeterminazione del paziente e il diritto ad una tutela effettiva delle persone malate in condizioni di sofferenza: una richiesta consapevole di assistenza medica a morire è presente solamente in un contesto concreto in cui le persone malate godano di un’effettiva e adeguata assistenza sanitaria.

    Accesso alle cure, strutture adeguate e risorse appropriate devono essere garantite a prescindere da quella che sarà la decisione legislativa in materia. Un’«onesta» opzione riformatrice presuppone allora una valutazione concreta ed approfondita della realtà sanitaria del nostro Paese da parte del Parlamento.

    Ciò detto, sottolineo con chiarezza che la discussione pubblica su un eventuale intervento del legislatore sull’assistenza medica a morire deve ruotare intorno ad una questione ed apprezzarne appieno la complessità: in quali costellazioni di casi il paziente può essere considerato realmente autonomo e dunque la sua richiesta libera e responsabile?

    In altri scritti ho affrontato funditus la questione e ripropongo in questa sede le conclusioni (parziali e provvisorie) cui sono pervenuto (sia consentito il rinvio a S. Canestrari, Una sentenza “inevitabilmente infelice”: la “riforma” dell’art. 580 c.p. da parte della Corte costituzionale, in La Corte costituzionale e il fine vita. Un confronto interdisciplinare sul caso Cappato-Antoniani, a cura di G. D’Alessandro- O. Di Giovine, Torino, 2020, 77 ss.). Nei casi «tradizionali» di suicidio caratterizzati dalle indecifrabili «ferite dell’anima» ho sostenuto che non sia possibile stabilire o tipizzare criteri sicuri, né identificare soggetti in grado di accertare la «autenticità» e la «stabilità» di una richiesta di agevolazione al suicidio. A mio avviso, dunque, è giustificato il divieto di aiuto al suicidio nei confronti di una richiesta avanzata per ragioni di sofferenza di matrice psicologica o esistenziale di una persona non afflitta da gravi condizioni patologiche (in una diversa prospettiva si colloca la sentenza del 26 febbraio 2020 della Corte costituzionale tedesca, che ho analizzato approfonditamente in uno scritto di prossima pubblicazione).

    Nei casi delineati dalla Corte costituzionale italiana (modellati sulla vicenda Antoniani/Cappato) il corpo assume invece il ruolo di protagonista con i suoi diritti – il principio di intangibilità della sfera corporea ed il diritto a vivere tutte le fasi della propria esistenza senza subire trattamenti sanitari contro la propria volontà – e i suoi tormenti.

    Tale centralità delle sofferenze e della condizione del corpo del malato mi hanno condotto ad effettuare considerazioni diverse rispetto a quelle relative alle «tradizionali» tipologie di suicidio indotto dal «male dell’anima». La sussistenza di presupposti «oggettivi» – l’esistenza di una patologia irreversibile fonte di sofferenze fisiche o psichiche intollerabili al paziente tenuto in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale – depone per la possibilità di verificare la libertà di autodeterminazione di una richiesta di assistenza a morire. Siamo in presenza di criteri di accertamento e di una figura in grado di svolgere il procedimento di verifica, che non può che essere il medico, magari con l’ausilio di uno psicologo clinico nel caso vi siano dubbi sul pieno possesso delle facoltà mentali della persona malata.

    Nella vasta gamma di ipotesi nelle quali, invece, la richiesta di assistenza al suicidio proviene da un malato gravemente sofferente per via di patologie che non richiedono trattamenti sanitari di sostegno vitale suscettibili di essere interrotti – e dunque da un paziente anche non morente, né nella fase finale della sua esistenza – la questione si presenta estremamente complessa. Nelle variegate costellazioni di pazienti con una malattia grave e irreversibile ma in grado di far cessare da soli la propria esistenza mi sono limitato a porre in evidenza le difficoltà inerenti ad un processo di tipizzazione di una decisione libera e consapevole di richiedere un aiuto al suicidio. La verifica di una “lucida” e “stabile” richiesta di avvalersi dell’aiuto al suicidio non può certo dirsi del tutto preclusa, ma appare altamente problematica.

    L’analisi di questa tematica richiede considerazioni approfondite: nessuno spazio dovrebbe essere concesso a «banalizzazioni» o ad asserzioni apodittiche. Dunque:

    a) Nel dibattito tra discipline scientifiche, nel discorso pubblico, nel confronto (interno alle e) tra le forze politiche, nella discussione parlamentare devono essere valorizzate le competenze specialistiche. Su queste tematiche delicate e tragiche non devono essere tollerate «dettature» o «dittature» di incompetenti;

    b) I diversi orientamenti dovrebbero convergere su un aspetto di fondamentale importanza scolpito dai principi costituzionali di libertà e di solidarietà posti a presidio delle prerogative di tutti i consociati: un’autentica libertà di scelta nelle decisioni di fine vita è presente solamente in un contesto concreto in cui le persone malate possano accedere a tutte le cure palliative praticabili – compresa la sedazione profonda continua – e nel quale siano supportati da una consona terapia medica, psicologica e psichiatrica.

    In particolare, è mia profonda e radicata convinzione che l’indispensabile applicazione, valorizzazione e diffusione dei contenuti e degli istituti previsti dalla l. n. 219 del 2017 possa avere un potente effetto preventivo e dissuasivo nei confronti, in generale, delle condotte suicidarie dei pazienti e, in particolare, di moltissime anche se non di tutte le richieste di assistenza medica a morire.

    La mia conclusione è sofferta e necessariamente problematica. Se nel nostro Paese non verrà approvata una disciplina sull’assistenza medica a morire di pazienti gravemente malati e sofferenti il legislatore continuerà a “non vedere” i casi di persone malate che maturano e perseguono la loro volontà suicidaria, trovandosi a concludere la propria esistenza in una tragica condizione di solitudine. Se, viceversa, verrà approvata una normativa sulla falsariga di quelle vigenti in alcuni Stati europei (Olanda, Belgio, Lussemburgo, Svizzera) i pericoli di una “china scivolosa” sarebbero accentuati: nella realtà sanitaria del nostro Paese per molte persone malate la richiesta di assistenza medica a morire potrebbe essere una “scelta obbligata” laddove uno stato di sofferenza, che oggettivamente sarebbe mutabile e riducibile, fosse reso difficilmente superabile dalla mancanza di supporto e assistenza adeguati.

    Di fronte a questo drammatico dilemma il mio contributo – di un giurista penalista che ha collaborato alla stesura della legge n. 219 del 2017 e ne ha festeggiato l’approvazione – si limita ad una riflessione articolata ma umile. E consapevole dell’importanza delle competenze specialistiche di chi giurista non è.  

    Rapporti tra il giudizio sulla legittimità dell’informativa antimafia e l’istituto del controllo giudiziario

    Rapporti tra il giudizio sulla legittimità dell’informativa antimafia e l’istituto del controllo giudiziario*

    di Maria Alessandra Sandulli 

    Sommario: 1. Premessa di inquadramento - 2. Il percorso verso una mitigazione del sistema di prevenzione: l’art. 34-bis del codice antimafia - 3. La riforma del 2021 - 4. Conclusioni.

    1. Premessa di inquadramento. Le misure di prevenzione amministrativa antimafia sono al centro del dibattito scientifico e giurisprudenziale. Negli ultimi anni, le informazioni interdittive[1] sono passate da poche centinaia a quasi due migliaia e il raggiungimento di un giusto punto di equilibrio tra la primaria esigenza di tutela dell’ordine pubblico economico, della sicurezza sociale e della libera concorrenza che esse perseguono e l’altrettanto innegabile esigenza di tutela dei diritti degli operatori economici su cui esse pesantemente incidono acquista ancora maggiore rilevanza in relazione agli obiettivi del PNRR e, più in generale, alla irrinunciabile esigenza di combattere i diversi fattori di crisi economica.

    Come ripetutamente segnalato dalla dottrina, sia accademica che togata, e ben avvertito anche dalla più recente giurisprudenza, l’informazione interdittiva antimafia -nonostante la sua, formale, provvisorietà- può avere un effetto esiziale sull’impresa che ne è attinta.

    Concepita come una misura di nicchia, essenzialmente focalizzata sui rapporti contrattuali della pubblica amministrazione e come tale in qualche modo giustificata dal diritto del committente (pubblico e privato) di scegliere contraenti -almeno apparentemente- “sicuri”, la misura ha acquistato sempre maggiore valenza quando, come ben evidenziato anche in un recente convegno dal consigliere di Stato Giulio VELTRI[2], il legislatore ne ha esteso l'ambito di applicazione alle autorizzazioni commerciali e, attraverso i protocolli di legalità, alla contrattazione privata, e la giurisprudenza ha traslato i principi e le linee interpretative maturati quando l’informativa era riferita ai soli rapporti contrattuali con la p.A. anche a questa nuova e più ampia area di incidenza dello strumento.

    L’operatore colpito dall’interdittiva perché l’autorità prefettizia, da una serie di elementi puramente indiziari, ha rinvenuto un rischio di potenziale pericolo non si vedrà invero più soltanto precluso l’accesso ai contratti pubblici, ma si troverà più generalmente impossibilitato ad avviare qualsivoglia attività economica (tanto che si è parlato di “ergastolo imprenditoriale”). Il che, verosimilmente, lo esporrà al dissesto o al fallimento, anche se all’esito del giudizio -amministrativo e/o penale- intentato per reagire allo strumento, il pericolo si rivelasse insussistente o comunque evitabile attraverso la sottoposizione a misure di prevenzione meno radicali. Ricordo a tale proposito che la Corte costituzionale, con la sent. n. 57/2020[3], per giustificare la conformità dell’istituto dell’interdittiva ai principi sostanziali e procedimentali a tutela dei diritti fondamentali dei soggetti colpiti, ha riconosciuto “un ruolo particolarmente rilevante [al] carattere provvisorio della misura”, propugnando una lettura rigorosa del termine annuale di validità previsto dall’art. 86 del codice: “È questo il senso della disposizione dell’art. 86, comma 2, del d.lgs. n. 159 del 2011, secondo il quale l’informativa antimafia ha una validità limitata di dodici mesi, cosicché alla scadenza del termine occorre procedere alla verifica della persistenza o meno delle circostanze poste a fondamento dell’interdittiva, con l’effetto, in caso di conclusione positiva, della reiscrizione nell’albo delle imprese artigiane, nella specie, e in generale del recupero dell’impresa al mercato. E va sottolineata al riguardo la necessità di un’applicazione puntuale e sostanziale della norma, per scongiurare il rischio della persistenza di una misura non più giustificata e quindi di un danno realmente irreversibile…”. Merita sul punto rimarcare che la giurisprudenza amministrativa è consolidata nell’affermare che il decorso del termine annuale indicato dall’art. 86 non implica la decadenza automatica dell’eventuale misura interdittiva, ma impone soltanto di procedere alla verifica della persistenza o meno delle circostanze poste a fondamento dell’interdittiva, con l’effetto, in caso di conclusione positiva, della reiscrizione dell’impresa nell’albo le imprese e, in generale, del suo recupero al mercato. Il principio è ribadito, citando anche l’Adunanza Plenaria n. 23 del 2020, in un ampio e puntuale scritto del consigliere di Stato Massimiliano NOCCELLI, pubblicato nel 2021 sul sito della giustizia amministrativa[4], il quale sottolinea che la durata annuale della misura non implica che, alla scadenza dei 12 mesi, gli elementi posti a base dell’originario provvedimento perdano di attualità, poiché essi, in mancanza di elementi sopravvenuti di segno contrario, mantengono inalterata la loro valenza indiziaria e ben possono giustificare il rinnovo del provvedimento interdittivo negli anni a seguire. L’A. richiama in proposito Cons. St., sez. III, 5 ottobre 2016, n. 4121, nel senso che la persistente rilevanza degli elementi indiziari posti a base dell’informativa affermata dalla giurisprudenza, anche dopo il decorso del termine annuale previsto dall'art. 86, co 2, cit., non è l’effetto di una non prevista ultrattività dell'informativa positiva, a differenza di quella c.d. negativa (o liberatoria), né tantomeno il frutto di una non consentita interpretazione in malam partem, come pure si è ritenuto, ma l’oggetto di una precisa disposizione normativa e, in particolare, dell’art. 91, comma 5, dello stesso d. lgs. n. 159 del 2011, per il quale «il Prefetto, anche sulla documentata richiesta dell’interessato, aggiorna l’esito dell’informazione al venir meno delle circostanze rilevanti ai fini dell’accertamento dei tentativi di infiltrazione mafiosa». Secondo la giurisprudenza amministrativa, tale disposizione ha evidentemente considerato che gli elementi posti a base dell’informativa antimafia a effetto interdittivo non “scadono” per il decorso del termine annuale, in quanto l’aggiornamento “liberatorio” dell’informativa può esservi solo quando essi perdano la loro rilevanza indiziaria del pericolo di infiltrazione (così ad es. TAR Lazio, Latina, Sez. I, n. 32 del 2021). A conferma e sostegno di tale chiave di lettura, il Collegio ha aggiunto che sarebbe del resto irragionevole e contrario alla ratio della normativa antimafia «sostenere che elementi di consistente gravità, quali ad esempio l’assidua frequentazione, nel tempo, di soggetti pregiudicati o l’altrettanto costante collaborazione economica dell’impresa con la mafia o, addirittura, la presenza di soggetti controindicati nelle cariche societarie, perdano la loro efficacia indiziante solo perché l'informativa sia “scaduta” decorso l’anno dalla sua emanazione».

    Nei fatti, a quanto mi si dice, l’interdittiva viene tendenzialmente confermata.

    Sicché -nonostante il carattere formalmente preventivo e provvisorio, sul quale la giurisprudenza amministrativa e costituzionale appoggia anche la sufficienza della cd tassativizzazione giurisprudenziale dei presupposti indiziari, incompatibile con uno strumento di tipo sanzionatorio[5]- essa finisce in buona sostanza per limitare in via permanente l'esercizio dell’attività di impresa. Limite che viene, come noto, “giustificato dalla considerazione che il metodo mafioso, per sua stessa ragion di essere, costituisce un «danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana» (art. 41, comma secondo, Cost.), già sul piano dei rapporti tra privati (prima ancora che in quello con le pubbliche amministrazioni), oltre a porsi in contrasto, ovviamente, con l’utilità sociale, limite, quest’ultimo, allo stesso esercizio della proprietà privata. Il metodo mafioso è e resta tale, per un essenziale principio di eguaglianza sostanziale prima ancora che di logica giuridica, non solo nelle contrattazioni con la pubblica amministrazione, ma anche tra privati, nello svolgimento della libera iniziativa economica” (Cons. Stato, sent. 565/2017).

    Nella Relazione della DIA al Parlamento sul I semestre 2021 si legge infatti significativamente che con l’interdittiva, “in termini generali, si impedisce quindi alle imprese interessate di stipulare contratti con la pubblica amministrazione in ossequio al principio costituzionale di assicurare il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione” e, “nel contempo si concorre al mantenimento di un sano regime concorrenziale ed alla difesa dell’ordine pubblico economico che ha la funzione di garantire, proteggere e dirigere l’attività economica nazionale”. Nella precedente Relazione per il I semestre 2020, la stessa Direzione rimarcava che la misura rappresenta “la massima anticipazione della tutela preventiva dello Stato dal crimine organizzato (...) in quanto comporta l'esclusione di un soggetto, ritenuto potenzialmente infiltrato dalla criminalità organizzata, dalla possibilità di intrattenere rapporti con le pubbliche amministrazioni”, esplicitando che essa  è l’esito di un’apposita istruttoria effettuata in riferimento a “condizioni che non costituiscono un numero chiuso e non consistono solo in circostanze desumibili dalle sentenze di condanna per particolari delitti e dalle misure di prevenzione antimafia”, nella quale possono rilevare anche le “motivazioni che lumeggino situazioni di infiltrazione mafiosa da provvedimenti giudiziari non ancora definitivi”, ovvero i “rapporti di parentela, amicizia e collaborazione con soggetti controindicati e che indichino un verosimile pericolo di condizionamento criminale per intensità e durata”, nonché “aspetti anomali nella composizione e gestione dell’impresa sintomatici di cointeressenza dell’azienda e dei soci con il fenomeno mafioso”. Si tratta, come si vede e come noto, di elementi necessariamente indiziari che, per di più, il Prefetto valuta con un forte deficit di contraddittorio e che il giudice amministrativo sindaca, alla luce della richiamata tipizzazione giurisprudenziale e secondo la regola del “più probabile che non” (affatto diversa da quella dell’“in dubio pro reo”)[6], con i limiti che inevitabilmente derivano da un procedimento che, per garantire l’effetto “sorpresa” non era e, nonostante la riforma del 2021, non è pienamente trasparente[7].

    2. Il percorso verso una mitigazione del sistema di prevenzione: l’art. 34-bis del codice antimafia. Pur nella consapevolezza della massima importanza che assume l’effettività della lotta alla criminalità organizzata e dell’apprezzamento che merita chiunque vi sia impegnato, i principi di proporzionalità e di equo bilanciamento dei diversi interessi primari -pubblici e privati- che devono guidare l’azione dei poteri pubblici -in sede legislativa e amministrativa- stanno, come noto, spingendo a una riconsiderazione del sistema e a una più attenta riflessione sulla effettiva necessità e opportunità di una misura così drastica.

    Il tema sul quale concentrerò il mio intervento è, proprio, legato al percorso legislativo che ha portato a un progressivo alleggerimento del sistema di prevenzione antimafia nei casi in cui il richiamato obiettivo di tutelare le imprese e la collettività dall’espansione dei fenomeni di criminalità organizzata nelle attività economiche possa essere più proporzionalmente perseguito attraverso strumenti di “vigilanza prescrittiva”, in forma di monitoraggio e/o tutoraggio, dei soggetti ritenuti a rischio di favorire le cd infiltrazioni mafiose nelle suddette attività, consentendo comunque loro di continuare a espletare le loro attività e di dimostrare, se non la sostanziale insussistenza, quanto meno il superamento di un tale rischio. Si sta in altri termini “abbandonando progressivamente un approccio punitivo repressivo, preferendo strumenti di matrice preventiva e di controllo capaci di modularsi in base al differente grado di infiltrazione e di salvaguardare la continuità operativa dell'attività imprenditoriale mediante un'operazione di bonifica dall'inquinamento mafioso[8].

    Il profilo -che, come emerso anche dai confronti tra giudici amministrativi e penali in precedenti incontri di studio[9], è di grande interesse- è particolarmente attuale alla luce delle modifiche introdotte, a margine delle disposizioni urgenti per l’attuazione del PNRR, dagli artt. 47, 48 e 49 del d.l. n. 152, convertito nella l. n. 233 del 2021.

    *

    Il “percorso” parte però, come noto, dal sistema penale. Gli articoli 34 e 34-bis del codice antimafia prevedono infatti, ove ne ricorrano i presupposti e in luogo del sequestro e della confisca dei beni del soggetto proposto, l'applicazione, a seconda del livello di rischio, di due diverse misure di prevenzione penale: l'amministrazione giudiziaria dei beni connessi ad attività economiche e delle aziende e il cd controllo giudiziario di queste ultime. In dottrina si è rimarcato che tali misure, “raramente adottate dal giudice che decide sul sequestro o sulla confisca, e raramente invocate dai difensori in via subordinata rispetto alle richieste di rigetto/revoca del sequestro o della confisca”, sono state qualificate dalla Cassazione penale come “modalità di intervento potenzialmente alternativo rispetto all'ordinario binomio sequestro/confisca dei beni del soggetto portatore di pericolosità” (sent. n. 24678/21), delle quali - come aggiunge la sent. n. 21412/21 - “il legislatore, ricorrendone i presupposti, ha inteso privilegiare l'applicazione in attuazione del principio di proporzionalità e in vista del possibile recupero dell'impresa alle fisiologiche regole del mercato, una volta ridotta l'ingerenza dei soggetti portatori di pericolosità[10]. In particolare, seguendo un approccio gradualistico “a scalare” in relazione ai diversi livelli di contaminazione dell’operatore economico, il controllo è stato introdotto dalla riforma codicistica di cui alla l. n. 161 del 2017 mediante l’inserimento del richiamato art. 34-bis, per intervenire in via conservativa e recuperatoria nelle ipotesi in cui i comportamenti a rischio di infiltrazione sono stati meramente occasionali e il condizionamento subito dall’impresa sia a un livello ancora embrionale e suscettibile di agevole rimozione[11]. Esso persegue una prioritaria finalità di cd “bonifica” delle imprese che versino in una situazione di assoggettamento o intimidazione o si siano occasionalmente prestate per agevolare le associazioni di natura mafiosa, consentendo loro di continuare ad operare in una economia sana e di salvaguardare i livelli occupazionali e così favorendo il loro ritorno a un regime di piena legalità. Come efficacemente evidenziato, si tratta di “un delicatissimo ‘istituto cerniera’, in cui trovano risoluzione equilibrata le possibili frizioni tra la giurisdizione amministrativa e la giurisdizione ordinaria e si saldano in modo armonico le contrapposte esigenze sottese alle interdittive antimafia, da un lato, della tutela dell’ordine pubblico e dei valori fondanti della democrazia avverso i tentativi di infiltrazione mafiosa nelle attività economiche lecite e, dall’altro, della libertà di impresa e del diritto di proprietà del destinatario del provvedimento prefettizio[12].

    Il comma 2 dell’art. 34-bis prevede che il controllo possa essere attuato in due modalità diverse:

    -una modalità meno invasiva, consistente in un obbligo di comunicazione periodica al Questore e al nucleo di polizia tributaria degli atti di disposizione patrimoniale o di altri atti o contratti individuati dal Tribunale (lett a);

    -e una modalità più invasiva, attraverso la nomina di un amministratore giudiziario, che però, diversamente da quanto avviene nell’amministrazione giudiziaria, non si sostituisce all’impresa, ma ha soltanto funzione di tutoraggio e di bonifica e riferisce periodicamente, con relazioni scritte bimestrali, al giudice delegato e al pubblico ministero (lett b).

    In entrambi i casi, comunque, anche se nel secondo caso “sotto controllo” dell’amministratore, che adotterà le opportune cautele, l’impresa rimane quindi titolare della gestione e può continuare direttamente a operare anche in rapporto con l’amministrazione.

    Il Tribunale può poi autorizzare la polizia giudiziaria all’accesso negli uffici dell’impresa per l’acquisizione di documenti o disporre il passaggio all’amministrazione giudiziaria di cui all’art 34 dello stesso codice.

    È dunque evidente la differenza rispetto all’informazione prefettizia interdittiva, che, come detto, inibendo qualsiasi rapporto con la p.A., non soltanto contrattuale, ma anche autorizzatorio, determina spesso la chiusura dell’impresa. Sicché, come è stato esattamente rilevato anche dalla dottrina togata amministrativa[13], è chiaro che “visto dal lato delle imprese è meglio essere colpiti dalla prevenzione antimafia penale che non dalla misura interdittiva amministrativa”.

    L’accento si sposta allora inevitabilmente sul rapporto tra i due sistemi di prevenzione.

    Il legislatore del 2017 ha espressamente disposto che l’applicazione delle riferite misure di prevenzione penale -tanto di amministrazione che di controllo giudiziario- sospende gli effetti dell'informativa amministrativa, attestando in tal modo la prevalenza della prevenzione penale.

    La peculiarità del sistema è però determinata dal fatto che esso ha creato un’osmosi, un ponte fra le due aree, introducendo uno strumento assolutamente atipico e sicuramente anomalo in ambito penale: per raccordare in qualche modo i due sistemi di prevenzione, l’art. 34-bis ha infatti stabilito, al co 6, che l’imprenditore colpito da un’informativa antimafia possa, in parallelo all’impugnazione della misura davanti al giudice amministrativo e nelle more della sua decisione, chiedere al Tribunale di prevenzione di essere sottoposto al controllo giudiziario nella forma prevista dalla lett. b) dello stesso articolo, con sottoposizione cioè al solo controllo dell'amministratore giudiziario e non anche agli obblighi di comunicazione indicati alla lett. a)[14]. L’applicazione del controllo determina, anche in questo caso, l’effetto sospensivo automatico dell'interdittiva prefettizia, fermo che, qualora, nelle more del periodo di controllo, il giudice amministrativo accolga il ricorso e annulli l’interdittiva, l’imprenditore potrà chiedere al Tribunale della prevenzione la revoca del controllo. Ci si è dunque interrogati se l’istituto non sia piuttosto configurabile come un “beneficio”, proponendo un paragone con l'ipotesi della messa alla prova in senso proprio, prevista per l'imputato minorenne dall'art. 28 D.P.R. 448/88 sulla base del progetto elaborato ai sensi dell'art. 27 d.lgs. 272/89, il cui esito positivo comporta l'estinzione di qualunque reato, anche se astrattamente punibile con l'ergastolo, o, analogamente, per quella dell'imputato maggiorenne introdotta dagli artt. 168-bis ss. c.p. e 141-bis ss. c.p.p.[15].

    La misura lascia peraltro aperte varie incertezze.

    Il legislatore ha infatti dimenticato di chiarire cosa accade al termine, con esito favorevole, del periodo di controllo, e quale effetto abbia sul controllo la sentenza amministrativa -di accoglimento o di rigetto- dell’impugnazione dell’interdittiva.

    Nel primo caso mi sembra abbastanza evidente che il Prefetto debba, quantomeno, rivalutare la situazione alla luce degli esiti del controllo, che, diversamente, avrebbe soltanto l’effetto di posticipare l’effetto dell’interdittiva. Si dovrebbe, dunque, aprire un procedimento di riesame di quest’ultima, nel frattempo sospesa, nelle forme dell’autotutela revocatoria, per valutarne, attraverso un’adeguata istruttoria e con le opportune garanzie di contraddittorio, la perdurante necessità. Con conseguente possibilità del destinatario di adire il giudice amministrativo contro il provvedimento confermativo della misura o contro l’eventuale inerzia sull’istanza del suo riesame. Ho parlato di revoca e non di annullamento in considerazione della differenza tra i presupposti delle due misure, tendenzialmente sottolineata anche dalla giurisprudenza. In particolare, con riferimento agli effetti dell’ammissione al controllo e dei suoi esiti sul giudizio amministrativo di impugnazione dell’interdittiva, il Consiglio di Stato ha affermato che “il controllo giudiziario presuppone l’adozione dell’informativa, rispetto alla quale rappresenta un post factum” (…) perché inevitabilmente diversi sono gli elementi fattuali considerati anche sul piano diacronico nelle due diverse sedi (…) la valutazione finale del giudice della prevenzione penale si riferisce dunque alla funzione tipica di tale istituto, che è un controllo successivo all’adozione dell’interdittiva, ed ha riguardo alle sopravvenienze rispetto a tale provvedimento”, concludendo che l'esito favorevole del controllo a richiesta e l'eliminazione del rischio di infiltrazione non rilevano nel giudizio amministrativo, che riguarda gli elementi esistenti al momento dell'interdittiva (sent. 319/21).

    In buona sostanza, si è chiarito che il provvedimento interdittivo valuta il passato e, in base a ciò che l’imprenditore è stato e a come si è comportato, ne inibisce i rapporti con la pubblica amministrazione, mentre il controllo giudiziario si colloca in una dimensione dinamica, proiettata alla riferita possibilità di risanamento dell'impresa per rimetterla nell'economia legale. Come messo efficacemente in evidenza dal TAR Calabria, Catanzaro, nell’ordinanza Sez. I, n. 658 del 2019, “l’ammissione al controllo non sconfessa la legittimità dell’informativa in punto di sussistenza di pericolo di infiltrazione non costituendone un superamento, ma in un certo modo conferma[ndone] la sussistenza (v. Cons. Stato, n. 6377/2018; 3268/ 2018)”, ma rappresenta “un sostegno previsto dall'ordinamento per l'imprenditore che sia marginalmente toccato dai clan e che individualmente (specie in realtà piccole e contaminate e ad economia scarsa non sia in grado di reagire alla criminalità)”.

    Anche le Sezioni Unite penali della Corte di Cassazione hanno del resto significativamente affermato che, nel controllo a richiesta, il giudizio sull'occasionalità non riguarda esclusivamente o prevalentemente la pregressa attività di impresa (momento diagnostico), ma si riferisce anche alle prospettive di recupero all'economia sana (momento prognostico), guardando alle quali può valutarsi in modo concreto la contingenza o meno del fenomeno di agevolazione (sent. n. 46898/19, Ricchiuto). E, nel richiamare tale giurisprudenza, la stessa Corte di Cassazione, ha coerentemente sottolineato che, con la relativa richiesta, “l'istante è chiamata a (necessariamente) dedurre solo quegli elementi, favorevoli, utili a giudicare recuperabile una situazione di condizionamento che può essere data per scontata, in quanto ritenuta in un diverso provvedimento (amministrativo), che la presuppone. Situazione di condizionamento che dunque, pur potendo essere apprezzata (specie nella sua intensità) dal giudice ordinario, non entra nel fuoco dell'accertamento necessario ai fini dell'ammissione all'istituto in esame (cfr. S.U. Ricchiuto, sopra richiamate), volto piuttosto alla disamina del profilo della recuperabilità dell'azienda all'economia sana” (sent. n. 21412/21).

    Come è stato giustamente osservato dalla dottrina, il concorso di giurisdizioni, amministrativa sull'atto di interdittiva e ordinaria sul rapporto tra impresa a rischio ed economia sana, ha del resto ragion d’essere “solo se l’oggetto dei due giudizi è diverso e tale da non comportare un rischio sistemico di contrasto di pronunce, in un ordinamento policentrico che, pur limitando l'efficacia diretta del giudicato in altri giudizi, persegue pur sempre l'obiettivo della tendenziale coerenza e complementarietà degli accertamenti di giudici diversi[16].

    Non convince tuttavia l’affermazione, in una recentissima pronuncia del TAR Catania (1° maggio 2022 n. 1219), che la richiesta di controllo giudiziario presupporrebbe l’ammissione del contagio mafioso, sia pure nei limiti dell’occasionalità. Il ragionamento condotto, sicuramente suggestivo e interessante, trova invero a mio parere un insormontabile ostacolo nel fatto che, in senso diametralmente opposto, il legislatore ha individuato nell’impugnazione dell’interdittiva -e dunque nella non accettazione dei suoi presupposti- una pre-condizione dell’istanza di ammissione al controllo.

    Venendo più specificamente ai rapporti tra giudizio amministrativo e giudizio penale, nella riferita ottica di autonomia tra le due misure, la decisione del giudice amministrativo confermativa della validità dell’interdittiva non dovrebbe ragionevolmente interferire con il controllo a richiesta. E la richiamata “condizione” dell’impugnazione dell’interdittiva per richiedere il controllo avrebbe soltanto una valenza di mancata acquiescenza alla misura.

    Va però segnalato che l’impostazione sopra accolta non è unanimemente seguita dalla Cassazione penale: nella citata sent. n. 24678/21, condividendo la tesi della Corte d’appello secondo cui il giudice della prevenzione deve valutare solo la situazione di fatto esistente al momento dell'interdittiva e non gli accadimenti posteriori, la Corte di legittimità ne ha infatti cassato con rinvio la sentenza per difetto di motivazione, sollecitandola a effettuare una valutazione sostanzialmente sovrapponibile a quella del giudice amministrativo, mentre non ha ritenuto rilevanti le misure di self cleaning adottate dall’impresa dopo l’interdittiva.

    Non è meno delicato il tema degli effetti dell’ammissione al controllo sul giudizio amministrativo. Come riferitoci dal consigliere VELTRI nei richiamati convegni e riportato nella citata ultima sentenza del TAR Catania, il Consiglio di Stato sta adottando una prassi di sospensione impropria del processo (inter alia ordd. 4873 e 5482/19), in attesa della fine del controllo, che, per quanto detto, se attestante l’intervenuta “bonifica”, dovrebbe, in un’ottica di ragionevolezza e di proporzionalità, determinare la revoca dell’interdittiva. Di contro, il TAR Calabria, sezione di Reggio Calabria, ha ritenuto che, in ragione della non interferenza dei due ambiti giurisdizionali, il giudice amministrativo abbia comunque l’obbligo di definire il giudizio. Mentre, da ultimo, il TAR Catania, muovendo dal suddetto ardito presupposto che la richiesta di controllo implicherebbe il riconoscimento dell’illecito, ne ha affermato la radicale improcedibilità, non residuando in tesi spazi neppure per la tutela risarcitoria.   

    Il tema, come si vede, richiede un sollecito intervento del legislatore. O, quantomeno, dell’Adunanza plenaria, che avrebbe però, ancora una volta, l’ingrato compito di fare “chiarezza” senza indulgere in interventi “creativi”[17].

    La casistica giurisprudenziale ha dimostrato peraltro che questa osmosi tra i due ambiti di prevenzione ha determinato anche effetti paradossali. La Cassazione penale, si è trovata così di fronte al caso di un operatore che, dopo avere infruttuosamente adito il giudice amministrativo per l’annullamento dell’interdittiva, si era visto respingere la domanda di controllo giudiziario dal giudice della prevenzione penale sul presupposto che non vi fosse alcun rischio infiltrativo. Sicché, paradossalmente, proprio il fatto che era stato ritenuto indenne dal giudice penale, lo costringeva a subire gli effetti dell’interdizione nei rapporti con l’amministrazione. In linea con la richiamata posizione delle Sezioni Unite, la Corte ha risolto la questione affermando che, quando il controllo è a domanda e non c'è quindi, come nel controllo giudiziario ordinario, una sfera di valutazione riservata al giudice penale, il “fatto” presupposto della misura di prevenzione penale è l’informativa, la valutazione della cui legittimità è rimessa al giudice amministrativo, sicché il giudice penale non può entrare nel merito della sussistenza del rischio infiltrativo e negare la misura sul presupposto che esso non sussista, ma deve unicamente verificare la ricorrenza delle condizioni per l’ammissione al controllo[18].

    3. La riforma del 2021. Nel sistema sopra descritto si è inserita la riforma del 2021. Il legislatore, preso atto della crescente rilevanza delle misure di prevenzione antimafia anche in relazione all'attuazione del PNRR, è intervenuto sulla disciplina della documentazione amministrativa antimafia sul duplice fronte, procedimentale e sostanziale. Sul piano procedimentale, rispondendo, in parte, alle sollecitazioni della dottrina e della giurisprudenza[19], ha aggiunto alla possibilità del Prefetto di disporre un’“audizione personale” dell’interessato prevista (solo in forma eventuale e peraltro non in forma sistemica) dall’art. 93, co 7 (pure novellato), 8 e 9 del codice, la previsione, in via generale, di una “procedura in contraddittorio”, che si apre però solo dopo che il Prefetto si sia già determinato all’adozione delle misure di prevenzione amministrativa (attraverso un mero “preavviso” di tali misure), contempla espressamente una deroga in caso di particolari esigenze di celerità del procedimento, e, soprattutto, specifica che “in ogni caso, non possono formare oggetto della comunicazione … elementi informativi il cui disvelamento sia idoneo a pregiudicare procedimenti amministrativi o attività processuali in corso, ovvero l’esito di altri accertamenti finalizzati alla prevenzione delle infiltrazioni mafiose” (cfr. il nuovo art. 92, co. 2-bis, del codice)[20].

    Sul piano sostanziale, la novella ha introdotto, mutuandola dal sistema di prevenzione penale, una graduazione delle misure di prevenzione amministrativa.

    Prendendo evidentemente atto della eccessiva rigidità della misura interdittiva a fronte di contatti meramente occasionali e della difficoltà di conciliare la maggiore severità delle misure amministrative rispetto a quelle penali, la riforma, inserendo nel codice un nuovo art. 94-bis, ha previsto che, qualora accerti che i tentativi di infiltrazione mafiosa sono riconducibili a situazioni di “agevolazione occasionale”, il Prefetto, invece di disporre l’informazione interdittiva, possa/debba semplicemente adottare, per un periodo variabile dai 6 ai 12 mesi una o più “misure amministrative di prevenzione collaborativa”, consistenti in misure organizzative, specificamente individuate dalla stessa norma, atte a rimuovere e prevenire le cause dei suddetti rischi di agevolazione. Come rilevato nella richiamata Relazione DIA sul I semestre 2021, si richiede, in estrema sintesi all’impresa di comunicare al gruppo interforze istituito presso la prefettura gli atti di disposizione, gli incarichi professionali conferiti e ricevuti, le forme di finanziamento da parte dei soci o di terzi dei contratti di associazione in partecipazione stipulati, nonché l’utilizzazione di un conto corrente dedicato, anche in via non esclusiva, per gli atti di pagamento e riscossione.

    In buona sostanza, si tratta di uno strumento che si differenzia nei contenuti dal controllo giudiziario a richiesta (perché non prevede un amministratore giudiziario), assimilandosi, salvo che per l’applicazione della legge 231/2001, a quello previsto dalla lett. a) dell’art. 34-bis per il controllo giudiziario ordinario. Del controllo giudiziario -ordinario o volontario- il nuovo “controllo amministrativo” condivide comunque i presupposti e la ratio di evitare di travolgere le imprese attinte da contatti mafiosi meramente marginali, talvolta inevitabili in alcuni territori[21]. In coerenza con i già richiamati principi di solidarietà e di buon andamento della pubblica Amministrazione, di cui è corollario il principio di leale collaborazione inserito dal dl 76/20 nell’art. 1 della l. n. 241/90, le nuove misure di prevenzione collaborativa consentono di anticipare nella fase amministrativa, a fronte del carattere meramente occasionale dei tentativi di infiltrazione, le misure di self cleaning previste per il controllo giudiziario. Si apre così utilmente la strada a una cooperazione “tra impresa e autorità amministrativa, consentendo a quest’ultima di entrare in azienda e verificare la presenza o meno dei pericoli di infiltrazione mafiosa, senza però esporla al rischio di una paralisi e salvaguardando il going concern aziendale e i livelli occupazionali[22].

    L’inserimento della novella nel decreto-legge sull’attuazione del PNRR rileva peraltro che le nuove misure di collaborazione preventiva non perseguono soltanto l’obiettivo privatistico di permettere all’impresa attinta dall’interdittiva di proseguire la propria attività imprenditoriale, ma anche un importante obiettivo pubblicistico, volto ad arginare i ritardi nell’attuazione delle politiche economiche nazionali (tra cui la  realizzazione delle opere pubbliche di rilevanza nazionale, la ripresa delle attività edilizie e del turismo, ecc.) derivanti dai provvedimenti interdittivi[23], consentendo direttamente ai prefetti di sostituire, laddove possibile, le misure di prevenzione inibitoria con strumenti finalizzati a “recuperare” le imprese a rischio, indirizzandole verso una economia sana.

    Il legislatore ha previsto opportune forme di coordinamento con le misure di prevenzione penale. Con particolare riferimento al controllo giudiziario ordinario, che può comunque sempre intervenire, l’art. 34-bis, co 1, nel testo novellato dalla riforma, precisa infatti che il Tribunale della prevenzione “valuta altresì se risultino applicate le misure di cui all’articolo 94-bis e, in tal caso, se … adottare, in loro sostituzione, il provvedimento di cui al comma 2, lettera b)”, consistente, come ricordato, nel monitoraggio e tutoraggio dell’amministratore giudiziario, tenendo eventualmente conto del periodo di esecuzione di tali misure ai fini della durata del controllo giudiziario. A conferma del rapporto di necessaria interrelazione con le misure di prevenzione penali, la novella dispone poi, significativamente, che, prima dell’adozione delle nuove misure collaborative, il Prefetto dovrà verificare l’eventuale sottoposizione del destinatario, nel quinquennio precedente, a pregressi provvedimenti di amministrazione giudiziaria o di controllo giudiziario ai sensi degli artt. 34 e 34-bis del codice. Inoltre, riscrivendo il co 7 dell’art. 34-bis, l’art. 47 del d.l. 152/21 specifica che l’applicazione di tali misure di prevenzione penale sospende, oltre che gli effetti dell’interdittiva, anche i termini indicati dall’art. 92, co 2, per l’effettuazione delle verifiche prefettizie e il conseguente rilascio dell’informazione antimafia.

    Accogliendo i suggerimenti della Commissione parlamentare antimafia, lo stesso articolo, peraltro, inserisce il Prefetto che ha emesso l’interdittiva tra i soggetti che devono essere sentiti dal Tribunale al fine di decidere se concedere all’impresa il controllo giudiziario su richiesta. Il legislatore non ha invece accolto l’altra proposta della Commissione di estendere al Prefetto la facoltà di impugnare la decisione penale.

    È comunque indubbio che il sistema assegna un ruolo centrale al Prefetto e al gruppo interforze istituito a suo supporto presso la prefettura. Il Prefetto può, peraltro, nominare anche uno o più esperti, in numero comunque non superiore a tre, con funzioni di supporto finalizzate all’attuazione delle nuove misure (art. 94-bis co. 2).

    Formulando un’utile precisazione, l’art. 94-bis dispone poi, al 4° comma, che, alla scadenza del termine di durata delle misure amministrative adottate, il Prefetto, ove accerti, sulla base delle analisi formulate dal gruppo interforze, il venir meno dell’agevolazione occasionale e l’assenza di altri tentativi di infiltrazione mafiosa, rilascia un’informazione antimafia liberatoria ed effettua le conseguenti iscrizioni nella banca dati nazionale unica della documentazione antimafia. La previsione, che potrebbe essere utilmente traslata anche al rapporto tra interdittiva amministrativa e controllo giudiziario, dovrebbe però essere completata da un’indicazione delle tempistiche del riesame, necessaria a rendere più effettiva la tutela giurisdizionale contro eventuali ritardi nell’aggiornamento del rischio.

    La nuova misura di prevenzione amministrativa dovrebbe avere un impatto estremamente importante sul sistema. Innanzitutto, sul sindacato giurisdizionale sull’interdittiva. Fino a oggi il giudice poteva/doveva soltanto valutare se l’istruttoria e la motivazione giustificavano, alla luce degli elementi fattuali acquisiti e alla stregua del riferito criterio del “più probabile che non” (cd “probabilità cruciale”), la rilevazione di un rischio di dare spazio a tentativi di infiltrazione mafiosa. Un sindacato di legittimità sotto il profilo del rispetto delle -scarne- regole procedimentali e dell’eccesso di potere, nei limiti della non irragionevolezza della ritenuta sussistenza dei presupposti per l’adozione di una misura di prevenzione amministrativa, che si identificava necessariamente nell’interdizione dei rapporti con l’amministrazione. La valutazione di proporzionalità era stata fatta a monte dal legislatore e la Corte costituzionale ne aveva, come detto, affermato la coerenza sul presupposto del carattere preventivo e astrattamente provvisorio della misura, in tesi sufficiente a giustificare la prevalenza dell’interesse pubblico a fugare ogni possibile rischio di infiltrazione della cd criminalità organizzata nell’economia sull’interesse dell’imprenditore a non essere estromesso dal mercato. In questa luce, la Consulta aveva, come noto, affermato anche la compatibilità costituzionale della cd tassativizzazione giurisprudenziale delle ipotesi indiziarie della contaminazione, legata alla necessità di rispondere con la massima prontezza alla capacità delle organizzazioni mafiose di adattarsi rapidamente (“camaleonticamente”) ai mutamenti economici e sociali, coniando nuovi strumenti di infiltrazione[24]. E l’unico paracadute dato all’impresa ritenuta a rischio di contaminazione era il controllo giudiziario su richiesta. Con le criticità di coordinamento cui si è sopra fatto cenno.

    Oggi le cose sono, o almeno dovrebbero essere, profondamente cambiate.

    Il Prefetto ha a sua disposizione due misure alternative di prevenzione, che, pur consentendo di fronteggiare il rischio di contagio, incidono in termini di ben diversa gravità sulla vita dell’impresa. Egli è quindi chiamato a valutare attentamente la situazione per operare la scelta più idonea. Non deve, in altri termini, più soltanto rappresentare, sulla scorta degli elementi indiziari tipizzati dalla giurisprudenza, una minima probabilità di rischio, ma deve anche dimostrare, attraverso un corretto adempimento degli oneri istruttori e motivazionali, che la misura adottata risponde ai rigorosi canoni dell’adeguatezza e della proporzionalità. E il giudice potrà e dovrà valutare la legittimità di questa scelta anche attraverso un vaglio del rispetto di tali canoni, indagando, con un sindacato effettivo sul fatto, sul carattere strutturale od occasionale delle circostanze da cui il Prefetto ha rilevato un pericolo di infiltrazione. Si pongono peraltro almeno due ordini di problemi.

    Il primo -acutamente sollevato dal consigliere M. SANTISE nel già richiamato convegno di Palazzo Spada del 1° aprile scorso- è quello degli effetti del giudizio amministrativo di annullamento dell’interdittiva per difetto di motivazione sulla necessità di tale misura rispetto a quella introdotta dall’art. 94-bis. È chiaro che il ricorrente ha interesse a un annullamento tout court, ma una maggiore coerenza con la ratio delle misure di prevenzione antimafia renderebbe più opportuno, laddove ve ne siano i presupposti, un annullamento parziale -nella parte in cui non giustifica tale scelta- con conseguente immediata applicazione in via residuale delle misure collaborative.

    Il secondo problema attiene, come è agevole comprendere e come ben emerso dalla citata sentenza del TAR Catania del 1° maggio scorso, ai rapporti con il controllo giudiziario a richiesta. Il fatto che le due misure rispondono a un’analoga ratio e muovono da un analogo presupposto -costituito dal carattere meramente occasionale della potenziale contaminazione e dal conseguente minore livello del rischio di infiltrazione- in una con la richiamata disciplina dei rapporti tra misure di collaborazione e controllo giudiziario, con l’espressa previsione che il giudice penale può, se del caso, sostituire le nuove, più miti, misure amministrative con il controllo attraverso l’amministratore giudiziario, indurrebbero a ritenere che il nuovo sistema di graduazione della prevenzione amministrativa dovrebbe implicare il superamento -e la conseguente eliminazione- dello strumento del controllo giudiziario su richiesta, preordinato, come detto, ad arginare gli effetti perniciosi dell’interdittiva in un contesto in cui il Prefetto non aveva alternative. Il fatto che la riforma abbia, come sopra ricordato, inserito il Prefetto che ha emesso l’interdittiva tra i soggetti che il Tribunale deve sentire prima di decidere sulla richiesta di ammissione al cd controllo volontario esclude però che il legislatore abbia operato (sia pure implicitamente) questa scelta. La permanenza delle due forme di controllo -peraltro con modalità diverse- crea tuttavia un evidente cortocircuito sul piano dei rapporti tra giudice amministrativo e giudice penale. Se, infatti, il Prefetto, nonostante la nuova possibilità di adottare la misura di collaborazione, ha ritenuto comunque necessario disporre la più grave misura interdittiva, vuol dire che ha già escluso il carattere “occasionale” della contaminazione e la conseguente possibilità di “bonificare” l’azienda, traghettandola in un contesto economico “sano”. Sicché, come è stato giustamente evidenziato[25], il giudice della prevenzione, per accogliere la richiesta di controllo, dovrebbe inevitabilmente effettuare una valutazione critica sui presupposti, e, dunque, sulla legittimità della decisione amministrativa: valutazione che è invece istituzionalmente riservata al giudice amministrativo. Significativamente il TAR Catania ha affermato che il fatto stesso dell’ammissione al controllo imporrebbe al Prefetto un immediato riesame della propria decisione interdittiva, secondo le nuove regole del contraddittorio procedimentale, con la precisazione che qualora la nuova istruttoria si concludesse con un giudizio prognostico positivo per l’impresa, alla rimozione dell’interdittiva dovrebbe fare automaticamente seguito la cessazione della misura di prevenzione penale, anche se medio tempore reiterata.

    Si ripropone, dunque, l’annoso tema del rapporto tra giurisdizione penale e giurisdizione amministrativa, che, come ho avuto occasione di segnalare in riferimento alla materia edilizia[26], costituisce uno dei più gravi vulnera alla certezza del diritto e alla fiducia degli operatori e degli investitori[27].

    *4. Conclusioni. Non resta quindi che auspicare un sollecito re-intervento legislativo, che, oltre a regolare i rapporti tra controllo giudiziario e informazione amministrativa e le tempistiche del riesame della persistenza dei presupposti per le misure di prevenzione -garantendo un costante aggiornamento della loro effettività necessità, soprattutto con riferimento all’interdittiva- rivaluti l’opportunità della permanenza del controllo su richiesta e, magari, come suggerito dal TAR Catania, consideri anche l’opportunità di intervenire sulle regole e sulle tempistiche processuali, a questo punto, tanto del giudizio amministrativo, quanto di quello penale. Aleggia peraltro sempre il problema dei limiti della trasparenza e delle garanzie partecipative del procedimento che ha condotto all’adozione delle misure di prevenzione amministrativa: problema che la riforma ha solo attenuato[28] e che inevitabilmente si riflette sull’effettività di un sindacato giurisdizionale che non ha sempre pieno accesso al fatto.

    Come è stato da varie parti segnalato, sarebbe peraltro parimenti auspicabile un intervento normativo uniformante dell’Unione europea, analogamente a quanto avvenuto per il mandato d’arresto europeo, riprendendo l’iniziativa a suo tempo bloccata dal “veto” opposto da alcuni Paesi (tra i quali, significativamente, Austria e Germania).

    È in ogni caso assolutamente necessaria la creazione -a livello sia nazionale che europeo- di una valida “rete” di trasmissione delle informazioni e di coordinamento delle azioni tra le autorità competenti.  

    Si legge significativamente in un recente articolo sull’Huffington Post[29] che “il Consiglio europeo ci conferma che nel 2019 i proventi da attività illecite nei principali mercati criminali ammontavano all′1% del PIL dell’Unione europea, ossia a 139 miliardi di euro. Non è disponibile una statistica più recente, ma a parità di condizioni, è indubbio che la cifra per il periodo 2020-21 (periodo di pandemia da covid-19) sia notevolmente più alta. Finora negli anni precedenti non è mai scesa. Le organizzazioni criminali sono presenti in tutti gli Stati membri e operano a livello transfrontaliero.

    Le principali attività criminali in Europa sono il traffico di stupefacenti, la cyber-criminalità, le frodi, il traffico di armi e la tratta di esseri umani. Nonostante una serie di nuove leggi e di sequestri di grandi dimensioni il colpo inferto alle organizzazioni mafiose è del tutto insufficiente”.

    Non vi è dubbio quindi che il tema debba essere seriamente affrontato anche a livello europeo.

    * Il lavoro costituisce rielaborazione dell'intervento svolto dall’A. il 4 maggio scorso alla Tavola rotonda sul tema delle “Misure interdittive antimafia”, organizzata dalla Scuola di perfezionamento per le Forze di Polizia nell’ambito del XXXVII Corso di Alta Formazione (anno accademico 2021/2022) ed è destinato anche  agli scritti in memoria del Pres. Luigi Giampaolino.

    [1] Sull’informazione antimafia, senza alcuna pretesa di esaustività, si vedano, F. FIGORILLI-W. GIULIETTI, Contributo allo studio della documentazione antimafia: aspetti sostanziali, procedurali e di tutela giurisdizionale, in federalismi, 2021; R. DI MARIA e A. AMORE, Effetti “inibitori” della interdittiva antimafia e bilanciamento fra principi costituzionali: alcune questioni di legittimità dedotte in una recente ordinanza di rimessione alla Consulta, ivi, 2021; G. AMARELLI, Interdittive antimafia e “valori fondanti della democrazia”: il pericoloso equivoco da evitare, in giustiziainsieme, 2020; R. GAROFOLI e G. FERRARI, Sicurezza pubblica e funzioni amministrative di contrasto alla criminalità; le interdittive antimafia, in giustizia-amministrativa.it, 2019; J. P. DE JORIO, Le interdittive antimafia e il difficile bilanciamento con i diritti fondamentali, Napoli, 2019; A. LONGO, La «massima anticipazione di tutela». Interdittive antimafia e sofferenze costituzionali, in federalismi, 2019; AA. VV. in G. AMARELLI-STICCHI DAMIANI (a cura di), Le interdittive antimafia e le altre misure di contrasto all’infiltrazione mafiosa negli appalti pubblici, Torino, 2019; M. MAZZAMUTO, Pil salvataggio delle imprese tra controllo giudiziario volontario, interdittive prefettizie e giustizia amministrativa, in Sistema penale, 2020; ID, Pagamento di imprese colpite da interdittiva antimafia e obbligatorietà delle misure anticorruzione, in Giur. it., 2019, 1, p. 157 ss.; A. BONGARZONE, L’informativa antimafia nelle dinamiche negoziali tra privati e pubbliche amministrazioni, Napoli, 2018; F.G. SCOCA, Le interdittive antimafia e la razionalità, la ragionevolezza e la costituzionalità della lotta “anticipata” alla criminalità organizzata, in giustamm.it, 2018; M. NOCCELLI, I più recenti orientamenti della giurisprudenza amministrativa sul complesso sistema antimafia, in Foro amm., 2017, pp. 2524 ss.; A. MARCHESE, Soggetto e oggetto nel “diritto civile antimafia”, Milano, 2017; G. D’ANGELO, La documentazione antimafia nel D. Lgs. 6 settembre 2011, n. 159: profili critici, in Urb. e app., 2013, 3, p. 256 ss.

    [2] G. VELTRI, Questioni controverse in tema di interdittive antimafia, Relazione al convegno su “Questioni controverse di diritto amministrativo. Un dialogo tra Accademia e Giurisprudenza”, svoltosi a Palazzo Spada il 1° aprile scorso e visualizzabile dal link youtube indicato sul sito della giustizia amministrativa.

    [3] Su cui cfr. inter alia A. LONGO La Corte costituzionale e le informative antimafia. Minime riflessioni a partire dalla sentenza n. 57 del 2020, in Nomos, n. 2/2020). 

    [4] M. NOCCELLI, Le informazioni antimafia tra tassatività sostanziale e tassatività processuale, in www.giustizia-amministrativa 2020.

    [5] Cfr. da ultimo, prima della riforma del 2021, Cons. Stato, III, 25 ottobre 2021 n. 7165 (con nota di P. CACACE, Conformità dell’interdittiva antimafia alle norme costituzionali, euro unitarie e internazionali pattizie, in giustamm.it, 2022,  che, richiamando anche la sentenza n. 3 del 2018 dell’Adunanza plenaria, rimarca che la natura cautelare, anticipatoria e prudenziale, affermata da consolidata giurisprudenza, rende estranee al sistema sanzionatorio penale le misure interdittive antimafia, soggette, invece, al principio di legalità e a quello del giusto procedimento “secondo criteri di ragionevolezza, adeguatezza e proporzionalità”.

    [6] Cfr. in argomento F. Fracchia-M. Occhiena, Il giudice amministrativo e l’inferenza logica: “più probabile che non” e “oltre”, “rilevante probabilità” e “oltre ogni ragionevole dubbio”. Paradigmi argomentativi e rilevanza dell’interesse pubblico, in Dir. econ., 2018, 3, pp. 1125-1164.

    [7] V. infra.

    [8] R. ROLLI, L’argine inadatto. Pluriformi verità sull’interdittiva antimafia, in corso di stampa, su gentile concessione dell’A.

    [9] Segnalo in particolare il convegno organizzato dalla Sezione di Reggio Calabria del TAR Calabria e dal Dipartimento di Giurisprudenza, Economia e Scienze umane dell’Università Mediterranea su Il nuovo volto delle interdittive antimafia nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), svoltosi l’8 aprile scorso a Reggio Calabria.

    [10] V. GAETA, Il controllo giudiziario a richiesta dell'impresa e il compito del giudice ordinario, in giustiziainsieme,2021.

    [11] In argomento, inter alia, V. SALAMONE, La documentazione antimafia nella normativa e nella giurisprudenza, Napoli, 2019.

    [12] G. AMARELLI, La Cassazione riduce i presupposti applicativi del controllo giudiziario volontario ed i poteri cognitivi del giudice ordinario (a margine della sent. Cass. Pen., II, n. 9122 del 2021, in Sistema penale, 2021.

     [13] G. VELTRI, cit.

    [14] Sull’istituto del controllo giudiziario volontario, cfr., inter alia, S. FINOCCHIARO, La riforma del codice antimafia (e non solo): uno sguardo d’insieme alle modifiche appena introdotte, in Dir. pen. cont., 2017, 10, pp. 256 ss.A. MAUGERI, La riforma delle misure di prevenzione patrimoniali ad opera della l. 161/2017 tra istanze efficientiste e tentativi incompiuti di giurisdizionalizzazione del procedimento di prevenzione, in Arch. pen., 2018, pp. 368 ss.; C. VISCONTI, Il controllo giudiziario “volontario”: una moderna “messa alla prova” aziendale per una tutela recuperatoria contro le infiltrazioni mafiose, in G. AMARELLI-S. STICCHI DAMIANI (a cura di), Le interdittive antimafia, cit. pp. 237 e ss.; R. CANTONE-B. COCCAGNA, L’impresa raggiunta da interdittiva antimafia tra commissariamenti prefettizi e controllo giudiziario, ivi, pp. 283 e ss.;; E. BIRRITTERI, I nuovi strumenti di bonifica aziendale nel Codice Antimafia: amministrazione e controllo giudiziario delle aziende, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2019, pp. 859 ss.; M. MAZZAMUTO, Il salvataggio, cit. ; A.G. DIANA, Il controllo giudiziario nelle aziende, Pisa, 2021, pp. 237 ss.

    [15] V. GAETA, Il controllo, cit.; v. anche C. VISCONTI, Il controllo giudiziario “volontario”, cit.

    [16] Ancora V. GAETA, op. cit. Cfr. anche R. ROLLI e M. MAGGIOLINI, Interdittiva antimafia e giudicato penale, nota a Cons. Stato, III, 4 febbraio 2021, n. 1049, in giustiziainsieme, 2021.

    [17] In argomento, cfr. da ultimo, gli Atti del convegno organizzato dal Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Roma Tre e dal Consiglio di Stato su “I materiali della legge nella teoria delle fonti e nell’interpretazione del diritto”, svoltosi a Palazzo Spada il 20 aprile scorso, consultabili su youtube con il link indicato sul sito della giustizia amministrativa. Per una riflessione critica sulla giurisprudenza “creativa” si consenta il richiamo alle considerazioni svolte e agli scritti richiamati in M.A. SANDULLI, Per la Corte costituzionale non c’è incertezza sui termini per ricorrere nel rito appalti: la sentenza n. 204 del 2021 e il creazionismo normativo dell’Adunanza plenaria, in federalismi, 2021, e in Silenzio assenso e termine a provvedere. Esiste ancora l’inesauribilità del potere amministrativo?, in corso di pubblicazione in Il processo, n. 1/2022 e già leggibile e visualizzabile sul sito della giustizia amministrativa, cui adde l’Intervento al citato convegno del 20 aprile.

    [18] Sul punto, specificamente, G. AMARELLI, La Cassazione, cit.

    [19] Cfr. il già menzionato scritto di M. NOCCELLI, che, con riferimento all’ ordinanza Corte di Giustizia 28 maggio 2020,  in C-17/20 (che non aveva affrontato la questione non rilevandone un interesse transfrontaliero, ma aveva nondimeno  incidentalmente ricordato che il rispetto dei diritti di difesa costituisce un “principio generale del diritto dell’Unione che trova applicazione quando l’amministrazione intende adottare nei confronti di una persona un atto che le arrechi pregiudizio”), osservava che restava quindi “sullo sfondo l’interrogativo, se la partecipazione procedimentale, almeno in certe ipotesi, non sia necessaria ad evitare l’emissione del provvedimento interdittivo ed adottare misure meno invasive per l’impresa a rischio di infiltrazione mafiosa, anche in una prospettiva de iure condendo”. Significativamente, nella pluricommentata sent. n. 4979 del 2020, redatta dall’A., la III Sezione del Consiglio di Stato, pur ricordando che nel sistema disegnato dall’art 93 del codice 2011 l’audizione degli interessati “non è assente, ma solo eventuale, rimettendo alla valutazione discrezionale del prefetto la scelta sulla ‘… utilità di detto contraddittorio procedimentale in seno ad un procedimento informato da speditezza, riservatezza ed urgenza, per evidenti ragioni di ordine pubblico’ ” e che il sacrificio delle garanzie procedimentali, giustificato anche dall’esigenza di evitare strumentali iniziative dilatorie, sarebbe compensato dalla possibilità di far valere le proprie ragioni in sede giurisdizionale, attraverso il sindacato sull’atto adottato dal Prefetto che, contrariamente a quanto assume parte della dottrina, sarebbe pieno ed effettivo, in termini di full jurisdiction (cfr sent. n. 2854 del 2020), nei passaggi conclusivi, accogliendo anche le sollecitazioni della dottrina, suggeriva, de iure condendo, un recupero, quantomeno parziale, delle garanzie procedimentali, nel rispetto dei diritti di difesa spettanti al soggetto destinatario del provvedimento, in tutte quelle ipotesi in cui la permeabilità mafiosa «appaia alquanto dubbia, incerta, e presenti, per così dire, delle zone grigie o interstiziali, rispetto alle quali l’apporto procedimentale del soggetto potrebbe fornire utili elementi a chiarire alla stessa autorità procedente la natura dei rapporti tra il soggetto e le dinamiche, spesso ambigue e fluide, del mondo criminale». Sull’ordinanza di rimessione alla Corte di Giustizia, cfr. G. CARRATELLI Il (mancato) contraddittorio endoprocedimentale in materia di informazione antimafia – Nota a: Tar Puglia – Bari, sez. III, ordinanza 13 gennaio 2020, n. 28, in Amministrazione e contabilità dello Stato e degli enti pubblici [www.contabilita-pubblica.it] (30.01.2021).

     

    [20] Tema sul quale mi sono soffermata nella Relazione svolta al richiamato convegno di Reggio Calabria (in corso di pubblicazione e reperibile su youtube con il link segnalato su giustiziainsieme 2022) e sul quale segnalo, da ultimi, gli scritti di R. ROLLI e M. MAGGIOLINI, Notarelle sul riformato contraddittorio procedimentale in tema di interdittiva antimafia (nota a ordinanza Tar Lecce, sez. III, n. 116/2022), in giustiziainsieme 2022 e di N. DURANTE, Il contraddittorio nel procedimento di rilascio d’informazione antimafia, in giustizia-amministrativa, it.

    [21] M. VULCANO, Le modifiche del decreto-legge n. 152/2021 al codice antimafia: il legislatore punta sulla prevenzione amministrativa e sulla compliance 231 ma non risolve i nodi del controllo giudiziario, in Giur. pen. web, 2021, 11.

    [22] M. VULCANO, cit. V. anche D. ALBANESE, Le modifiche del d.l. 152/2021 al ‘codice antimafia’ in sistemapenale.it.

    [23] Cfr. R. ROLLI, L’argine inadatto, cit.: “Si è venuto così a creare un sistema bidirezionale: da un lato, l’insistenza dei mezzi di ablazione tradizionali quali la confisca e il sequestro, quali sistemi di lotta alla ricchezza di provenienza illecita; dall'altro, la previsione di un intervento pubblico finalizzato a soccorrere soggetti economici a rischio infiltrazione al fine di restituirli al mercato”, liberandoli dai “rischi derivanti dal condizionamento mafioso in un percorso di risanamento della legalità …a beneficio dell’intero sistema economico”.

    [24] Cfr. ancora la lucida analisi di M. NOCCELLI, cit.

    [25] G. VELTRI, cit.

    [26] Da ultimo, voce Edilizia, cit.

    [27] Sul tema, F. FRANCARIO, L’accertamento del fatto illecito nel giudizio amministrativo e nel giudizio penale: problemi ed interferenze, in Pubblica amministrazione diritto penale e criminalità organizzata (Atti del convegno), Milano, 2008, p. 93 ss; ID, Illecito urbanistico o edilizio e cosa giudicata. Spunti per una ridefinizione della regola del rapporto tra processo penale ed amministrativo, in Riv. Giur. Edil., 2015, p. 99 ss.

    [28] Cfr. gli scritti citati alla nota 20.

    [29] V. MUSACCHIO, L’Europa ha bisogno di nuove strategie per combattere le mafie, 9 gennaio 2022.

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