Sommario: 1. Lo spazio accresciuto della interpretazione giuridica. - 2. La discrezionalità interpretativa del giudice. – 3.Non solo soggezione del giudice (alla legge), ma anche suo potere interpretativo. – 4. Il “diritto effettivo”: la prevedibilità della regola giuridica applicata (legalità in action, e non solo in the books). - 5. Il ruolo della Cassazione: il senso delle recenti innovazioni legislative. - 6. Nomofilachia e responsabilità.
1. Lo spazio accresciuto della interpretazione giuridica.
È innegabile il maggiore spazio che oggi l’interprete ha rispetto alle norme scritte, se confrontato con quello che gli era riconosciuto a metà del secolo scorso, quando fu elaborata la Costituzione repubblicana. Sono tanti i fattori che hanno determinato l’ampliamento dello spazio interpretativo. Qui mi limito ad indicarne due, tra quelli di maggiore incisività.
Innanzitutto, le profonde innovazioni nel sistema delle fonti normative, radicato non più sulla primazia gerarchica della legge, ma sulla Costituzione, con gli effetti che questa è idonea a determinare non solo come legge gerarchicamente superiore, ma anche come fonte di principi e di valori caratterizzanti l’intero ordinamento interno. Sulla legge si sono, in epoca successiva, sovrapposte anche le fonti (primarie e secondarie) dell’Unione europea e, altresì, quelle derivanti da convenzioni internazionali (rilevanti a norma dell’art.117 Cost.), tra cui la CEDU. Si è in presenza – si è detto – di uno Stato di diritto, costituzionale ed europeo[1].
Spesso queste fonti sovranazionali, non diversamente dalla Costituzione, contengono principi giuridici, e non delineano fattispecie: i primi, qualunque sia la definizione che se ne dia, prevedono vincoli molto meno rigidi per l’interprete, rispetto alle seconde. Oggi il testo scritto della legge deve essere interpretato alla luce di tutte le fonti sovraordinate, tra le quali, inoltre, non sempre sussiste un rapporto gerarchico preciso (si parla, infatti, di fonti normative multilivello, formanti un sistema non piramidale). Di questo primo fattore innovativo si tratterà nei diversi temi della seconda sessione, e quindi mi limito ad un mero richiamo.
Occorre soffermarsi un poco di più sul secondo fattore, che è di natura culturale. Esso consiste in una diversa concezione dell’attività interpretativa, la quale si è andata progressivamente imponendo tra gli studiosi, tanto da costituire oggi una acquisizione quasi pacifica e tale da non potere essere ignorata anche dagli operatori pratici. Mi riferisco alla distinzione, introdotta a livello concettuale, tra la disposizione (l’enunciato linguistico contenuto in un atto normativo) e la norma (il significato dell’enunciato, desunto dalla sua interpretazione)[2]. Consegue che la norma giuridica non è l’oggetto della interpretazione, preesistente alla stessa, ma ne è il risultato. La pronunzia giudiziale accerta l’esistenza della disposizione rilevante per la decisione del caso concreto, ma è “creativa” della norma applicata, e cioè della regola giuridica posta a base della decisione.
Rimane ferma, a mio avviso, la necessità di una correlazione tra l’enunciato e la norma che il giudice ne trae, e cioè tra il significante e il significato, onde la “creatività” ha un ambito che, pur potendo avere una estensione di volta in volta variabile, è sempre limitato; altrimenti saremmo fuori della interpretazione, che consiste nella attribuzione di un significato ad un testo.
2. La discrezionalità interpretativa del giudice.
In ordine a questo ambito, senza entrare negli ampi e complessi studi sulla interpretazione giuridica, trovo rispondente alla mia esperienza giudiziaria la metafora della “cornice”[3] entro cui possono essere collocati i possibili significati di un testo normativo, e quindi le diverse norme da esso alternativamente desumibili[4]. Non sempre la “cornice” ha contorni precisi, per l’indeterminatezza semantica del linguaggio, spesso aggravata dalla cattiva qualità riscontrabile nella legislazione. Questi sono i “casi difficili”, nei quali lo spazio del giudizio interpretativo è ancora più ampio.
Nell’ambito della “cornice” dei significati possibili del testo[5], la scelta dell’interprete avviene attraverso l’impiego degli argomenti interpretativi[6]. È questo l’ambito tipico della “creatività” dell’interprete (sia egli o meno un giudice), che però non è mai illimitata perché deve partire dalla lettera del testo (è significativo che le sentenze delle Corti europee di Lussemburgo e di Strasburgo premettano sempre al ragionamento argomentativo il testo delle disposizioni coinvolte), deve impiegare argomenti interpretativi consentiti dalla scienza del diritto, deve pervenire ad un risultato compatibile con il testo (e cioè rientrante nella “cornice”[7]) o che ne spieghi il superamento sulla base di argomenti a ciò ritenuti razionalmente e ragionevolmente idonei[8].
Il superamento della “cornice” posta dalla lettera della disposizione può avvenire per l’operatività di una interpretazione conforme (alla Costituzione, al diritto dell’U.E., a una convenzione internazionale). Quando il significato che si ritenga conforme a queste fonti sovraordinate – in modo diretto o indiretto (attraverso la rilevanza dell’art.117 Cost.) – non rispetta il tenore letterale della disposizione legislativa è, però, opportuno che il giudice adotti una linea di self-restraint, preferendo la rimessione (a seconda dei casi) alla Corte costituzionale e alla Corte di giustizia dell’Unione europea per la soluzione di una questione su cui queste Corti non si sono ancora pronunziate.
Una individuazione più precisa di quale sia la “cornice” posta dalla lettera della disposizione, conseguente soprattutto alla elasticità insita nel linguaggio, può derivare dalle caratteristiche particolari del caso concreto da giudicare, che possono indurre ad attribuire alle parole significati nuovi rispetto alle precedenti prassi interpretative. Nell’attività di interpretazione si realizza, cioè, il c.d. circolo ermeneutico tra fatto e diritto, nel senso che il primo può incidere non solo sulla individuazione della disposizione da applicare ad esso (sussunzione), ma anche sulla interpretazione della stessa, nei limiti in cui se ne può desumere una norma idonea alla soluzione del caso, secondo il corretto uso degli argomenti interpretativi sopra menzionati[9].
Mi sembra, allora, utile sostituire il termine piuttosto equivoco di “creatività”[10] con quello, usato spesso in dottrina[11], di “discrezionalità” (della interpretazione) giudiziaria, che, a differenza del primo, reca in sé, come elemento indefettibile, quello dei limiti, mentre il termine precedente fa pensare alla arbitrarietà, e quindi al mancato rispetto della divisione dei poteri[12].
La discrezionalità nella interpretazione della legge sta a esprimere il potere conferito al giudice di scegliere tra due o più norme desumibili dal testo normativo, tutte conformi alla legge. Essa deriva dal fatto che gli argomenti interpretativi, di regola, non conducono a un unico risultato, ma lasciano spazi più o meno ampi di incertezza. Significative sono le decisioni delle sezioni unite della Cassazione, quando risolvono un contrasto emerso tra diverse sentenze delle sezioni semplici della Corte. Spesso i contrastanti orientamenti in precedenza affermati sulla questione decisa dalle sezioni unite si appoggiano su corretti argomenti interpretativi, onde non possono essere considerati errati. In questa eventualità la decisione delle sezioni unite è il frutto di scelte di valore consentite dagli spazi lasciati dagli enunciati normativi[13]. In tal senso converge l’esperienza che ho fatto nei collegi delle sezioni unite con lo studio teorico delle sentenze dello stesso collegio che, successivamente al mio pensionamento, ho avuto occasione di fare in un corso universitario che, per alcuni anni, ho dedicato alla analisi dell’argomentazione adottata dalle decisioni (civili e penali) di quel collegio risolutivi di contrasti[14].
All’esercizio della discrezionalità si addice che di esso il giudicante renda conto attraverso la motivazione del giudizio interpretativo, la quale può essere considerata anche come lo strumento per controllare la fedeltà del giudice alla legge.
3. Non solo soggezione del giudice (alla legge), ma anche suo potere interpretativo.
I due fattori qui considerati nel loro effetto ampliativo dello spazio dell’interprete, e in particolare di quell’interprete dotato di autorità quale è il giudice, rendono incompleta la previsione costituzionale relativa alla soggezione del giudice alla legge (art.101, cpv.).
Da un lato, la legge obbliga il giudice solo in quanto essa sia conforme alla Costituzione. E, soprattutto, la soggezione viene meno nel caso di contrasto della legge con il diritto dell’Unione europea, che non solo legittima, ma obbliga il giudicante a non applicare la legge nazionale.
D’altro lato, il concetto attuale di interpretazione giuridica al quale si è fatto riferimento nei precedenti paragrafi non appare pienamente conforme alla ideologia del Costituente. Dai lavori preparatori[15] si desume che, nella discussione del testo dell’art.101, cpv., Cost., furono proposte formule alternative a quella dei giudici “soggetti alla legge”, come “dipendono” (dalla legge) - così il progetto approvato dalla Commissione dei 75 (art.94, comma 2) - ovvero “sono vincolati” o “obbediscono” (alla legge). Il testo vigente fu approvato a seguito di un intervento dell’on. Ruini, il quale si espresse per la cancellazione, dal citato art.94, comma 2, del progetto, delle parole: (legge che i giudici) “interpretano ed applicano secondo coscienza”, prospettando il pericolo che tale previsione potesse rendere ammissibile il “cosiddetto diritto libero”. Nella discussione sembra di percepire ancora un’eco della nota posizione di Cesare Beccaria, secondo cui “l’interpretazione delle leggi è un male”[16].
Lo spazio oggi riconosciuto all’interprete-giudice, avente effetti vincolanti almeno per le parti del processo, costituisce un vero e proprio “potere” (interpretativo). Una recente voce enciclopedica è dedicata ai “poteri interpretativi” e alla loro “tensione con la legalità”: I giudici controllano il rispetto della legge, ma in una certa misura sono i giudici stessi a fissare il significato della legge[17]. La “misura” indica i limiti essenziali del potere interpretativo, che sono limiti non solo giuridici (come, per esempio, il divieto di analogia in materia penale), ma anche deontologici.
Questi ultimi sono affidati al senso di responsabilità del giudicante, il quale va sempre correlato alla sfera di autonomia riconosciutagli: maggiore spazio esistente per l’interpretazione dei testi normativi, maggiore responsabilità deontologica del giudice. La scienza giuridica sta iniziando una ricerca diretta a concretizzare e precisare i doveri deontologici che devono accompagnarsi a questo potere interpretativo[18]. L’auspicio è che questa ricerca continui, anche con il contributo attivo di coloro che sono titolari di questo potere.
Ci si può, allora, interrogare sul significato attuale della disposizione costituzionale relativa alla soggezione del giudice alla legge. Direi che essa mantiene il suo fondamentale rilievo, espresso anche dall’essere contenuta nel primo articolo del titolo sulla magistratura e dall’essere connessa con il precedente comma che instaura un collegamento (qualunque ne sia il preciso significato) dell’amministrazione della giustizia con il popolo, i cui rappresentanti hanno approvato la legge a cui i giudici sono soggetti[19]. Ma sono innegabili le innovazioni segnalate che hanno modificato tale significato, il quale oggi deve comprendere sia le diverse fonti sovraordinate alla legge, sia i poteri interpretativi consentiti dal diritto.
Per esprimere siffatte innovazioni si è, in sede dottrinale, usata l’espressione di soggezione del giudice al “diritto”[20]. Quest’ultima espressione, nella sua letterale ampiezza, può essere criticata perché il diritto comprende anche le fonti secondarie, di cui il giudice comune ha il compito di giudicare la legittimità e alle quali egli, perciò, non è soggetto; essa, comunque, non è idonea a esprimere il valore della fedeltà alla legge e la legalità della giurisdizione che è nell’essenza di questa attività. Ma, pur con questi limiti, l’espressione di soggezione del giudice al “diritto” è, probabilmente, atta a fare percepire l’incompletezza della previsione costituzionale e le innovazioni verificatesi nelle fonti del diritto.
La formulazione del tema assegnatoci, riferendosi alla interpretazione non soltanto delle “norme scritte” (che preferirei indicare come “disposizioni” scritte) ma anche del “diritto effettivo”, mi sembra che recepisca questo passaggio dalla legge (fonte prioritaria all’epoca del Costituente) al diritto, come comprensivo del più ricco e complesso sistema delle fonti nonché dei poteri interpretativi delle fonti stesse.
4. Il “diritto effettivo”: la prevedibilità della regola giuridica applicata (legalità in action, e non solo in the books).
L’importanza e gli effetti delle fonti normative sovraordinate alla legge e sopravvenute alla Costituzione si possono percepire con immediatezza se si riflette sulla qualificazione che, nella formulazione del nostro tema, viene aggiunta al diritto: il suo essere “effettivo”, e cioè applicato: non rileva il diritto che è soltanto scritto (in the books), ma quello che riceve effettiva applicazione (in action). Quindi, per usare i termini del tema successivo del nostro incontro, rileva il “diritto vivente”, e non quello vigente.
È questo un punto fermo della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (e del diritto dell’Unione europea: art.6 TUE). La nozione di legge recepita dalla CEDU implica che essa abbia determinate “qualità”, tra le quali la prevedibilità della sua applicazione. Un testo di legge che consente letture giurisprudenziali contraddittorie non è “legge” ai fini della Convenzione fino a che una giurisprudenza stabilizzata non venga in luce[21].
La ragionevole prevedibilità della applicazione della regola giuridica rileva ai fini del rispetto non solo dell’art.7 (principio di legalità in materia penale), ma anche dell’art.6 della CEDU (equità del processo), e quindi concerne ogni materia. Secondo la Corte di Strasburgo, la stabilità della giurisprudenza e il rilievo riconosciuto ai precedenti sono componenti di ogni giudizio interpretativo, il cui esito deve tendere a evitare una “sorpresa” per l’individuo.
Siffatto risultato è di non facile conseguimento in un sistema ordinamentale che, come quello italiano, è caratterizzato da un potere giudiziario diffuso, per l’assoluta indipendenza del potere interpretativo di ogni giudice e per la normale assenza di vincolatività dei precedenti. Assumono allora un rilievo essenziale le istituzioni alle quali è assegnata, nei rispettivi ambiti interpretativi, una funzione unificante e uniformatrice: la Corte costituzionale, la Corte di giustizia dell’Unione europea, anche la Corte Edu (una volta ratificato dall’Italia il protocollo n.16), la Corte di cassazione.
Con riferimento a quest’ultima istituzione (delle altre si parlerà nella seconda sessione), richiamo l’attenzione sulla sentenza della Corte Edu 30 luglio 2015, Ferreira Santos Pardal c. Portogallo (ric. 30123/10), peraltro espressiva di un orientamento già affermato. È stata ritenuta sussistente la violazione del processo equo in un caso in cui la Corte suprema del Portogallo, nel decidere un’azione di responsabilità civile contro lo Stato per un errore giudiziario, ha adottato una soluzione negativa diametralmente opposta a una giurisprudenza interna costante. La Corte europea ha osservato che sono connaturali a ogni sistema giudiziario i contrasti giurisprudenziali nell’ambito dei giudici di merito, ma che il ruolo di una giurisdizione suprema è quello di risolvere tali contrasti. Se orientamenti divergenti si sviluppano e coesistono all’interno della più alta autorità giudiziaria dello Stato, ciò viola il principio della sicurezza giuridica e riduce la fiducia del pubblico nell’autorità giudiziaria, i quali – principio e fiducia – rientrano tra le componenti fondamentali dello Stato di diritto. La Corte ha, quindi, censurato l’assenza, all’interno della Corte suprema, di un meccanismo idoneo ad assicurare l’uniformità delle decisioni[22].
5. Il ruolo della Cassazione: il senso delle recenti innovazioni legislative.
L’uniformità della interpretazione-applicazione del diritto, attraverso la funzione unificante della Cassazione, è stato l’obiettivo perseguito, sia pure con ripensamenti e con misure per alcuni aspetti contraddittorie, da ben cinque interventi legislativi di modifica del giudizio civile di legittimità intervenuti in questo secolo, a partire dal d. lgs. n.40/2006, che ha introdotto nel linguaggio legislativo la “funzione nomofilattica” della Corte. A questo intervento sono, poi, succeduti: la l. n.69/2009, la l. n.134/2012, la l. n.197/2016, il d. lgs. n.149/2022[23].
Mi limito a indicare alcune delle innovazioni principali nella attuale disciplina di questo giudizio:
a) il vincolo delle sezioni semplici della Corte ai principi di diritto enunciati dalle sezioni unite, in modo da dare stabilità a questi principi, imponendo un particolare procedimento per il loro mutamento (art.374, terzo comma, c.p.c.);
b) l’ampliamento dei casi in cui il Procuratore generale presso la Corte può chiedere l’enunciazione del principio di diritto nell’interesse della legge (ma irrilevante per le parti del processo) e la possibilità che questo principio di diritto sia pronunciato di ufficio anche nel caso di ricorso della parte dichiarato inammissibile (art.363 c.p.c.);
c) la riduzione, tra i motivi del ricorso per cassazione, dell’ambito del vizio di motivazione e l’esclusione assoluta di tale vizio nei casi di doppia conforme sui medesimi fatti (art.360 c.p.c.);
d) l’udienza pubblica limitata alle sole decisioni di una “questione di diritto di particolare rilevanza” (art.375, primo comma, c.p.c.) e la decisione degli altri ricorsi in camera di consiglio; nel primo caso la decisione è emanata con sentenza, nel secondo caso essa assume la forma della ordinanza;
e) il rinvio pregiudiziale del giudice di merito alla Corte di cassazione per la risoluzione di “una questione esclusivamente di diritto”, quando – tra gli altri requisiti – essa “è suscettibile di porsi in numerosi giudizi” (art. 363-bis c.p.c.).
Chiaro è il senso di queste innovazioni. Il legislatore di questo secolo ha scelto di privilegiare la funzione della Cassazione civile di risolvere questioni giuridiche rispetto alla diversa funzione di controllo della logicità delle motivazioni dei giudici di merito sull’accertamento dei fatti. Il sindacato sulla motivazione in fatto è stato sempre lo strumento utilizzato dai ricorrenti per indurre la Corte a compiere sostanzialmente un riesame dei fatti di causa, stante la non chiara individuazione, sia nella teoria che nella prassi, dei limiti di quel sindacato. Esso, ora, non solo risulta limitato nel suo ambito oggettivo (art.360 c.p.c.), ma ha assunto un rilievo nettamente minore nel ruolo della Corte in conseguenza del maggiore spazio previsto per la soluzione delle questioni giuridiche e per la formulazione dei principi di diritto.
Nell’ambito delle questioni giuridiche, poi, mi sembra essenziale l’innovazione recentissima della differenza di procedura imposta dal citato art.375: l’udienza pubblica è riservata alla soluzione delle questioni di diritto “di particolare rilevanza” (oltre ai ricorsi che chiedono la revocazione per contrarietà alla CEDU e ai rinvii pregiudiziali dei giudici di merito). Si è in tal modo introdotta una vera e propria selezione dei ricorsi (sia pure soltanto a fini procedurali), che è stata condivisibilmente ritenuta la caratteristica di una Corte suprema[24]. Di “particolare rilevanza” vanno evidentemente considerati i ricorsi che prospettano questioni giuridiche suscettibili di porsi in numerosi giudizi (di cassazione o di merito), nei quali può esplicarsi la funzione nomofilattica della Cassazione[25]. La stessa finalità ha il menzionato rinvio pregiudiziale (art.363-bis c.p.c.). La funzione di nomofilachia assume, pertanto, secondo la disciplina codicistica, una importanza chiaramente prioritaria.
Molte delle ambiguità che Michele Taruffo individuava nella normativa sulla Cassazione civile[26] mi sembra che oggi siano superate dagli interventi legislativi di questo secolo. La funzione essenziale che la Corte deve assolvere è quella di garanzia oggettiva di legalità (ius constitutionis). La garanzia soggettiva della ricorribilità per cassazione prevista dall’art.111 Cost. (ius litigatoris) rimane ferma e immutata, ma essa, secondo la previsione costituzionale, è limitata alle violazioni di legge, nell’ambito delle quali una posizione nettamente secondaria assumono le questioni di controllo sugli accertamenti di fatto compiuti dai giudici di merito, che hanno una rilevanza limitata al caso concreto.
Rispetto al processo penale l’orientamento del legislatore di questo secolo è meno netto e univoco di quello del legislatore civile, ma non discordante. La l. n.46/2006 ha ampliato l’ambito del vizio di motivazione[27], ma anche nel giudizio penale di cassazione sono state introdotte innovazioni dirette a rafforzare la funzione nomofilattica della Corte[28]: il vincolo della sezione semplice al principio di diritto delle sezioni unite e la possibilità per la Corte di enunciare il principio di diritto anche quando il ricorso è dichiarato inammissibile per causa sopravvenuta (art.618, commi 1-bis e 1-ter, c.p.p.), e quindi non vi è più l’interesse del ricorrente. Inoltre, in alcune ipotesi di ricorso per cassazione è stata esclusa la deducibilità del vizio di motivazione[29]. Recentemente, infine, è stata modificata la disciplina procedurale del giudizio penale, poiché l’art.611 c.p.p. ha previsto come regola ordinaria la decisione dei ricorsi in camera di consiglio, mentre si procede alla trattazione in udienza pubblica su richiesta delle parti ovvero anche di ufficio, nel caso di “rilevanza delle questioni” da decidere. La procedura pubblica, pertanto, è finalizzata non solo all’esercizio della nomofilachia (come nei giudizi civili), ma anche alla tutela del contraddittorio.
Questa parziale diversità accentua l’importanza e la potenziale incidenza operativa della innovazione relativa alla procedura dei giudizi civili. Qui la selezione dei ricorsi da trattare in udienza pubblica è determinata esclusivamente dalla importanza generale della questione da decidere.
Un’innovazione comune ai due giudizi concerne l’esecuzione delle decisioni della Corte dei diritti dell’uomo che hanno accertato la violazione della relativa Convenzione da parte di pronunzie interne. Essa, con discipline diverse nei presupposti (più limitati nella materia civile), è stata attribuita alla Corte di cassazione (art. 391-quater c.p.c. e art.628-bis c.p.p.), considerato che “la delicatezza del nuovo istituto, destinato ad incidere sulla tenuta processuale del giudicato nell’ordinamento interno, richiederà sin dai suoi esordi una costante uniformità interpretativa”[30]. Anche in questi istituti innovativi si ribadisce la funzione uniformatrice che è propria della Cassazione.
6. Nomofilachia e responsabilità.
La nomofilachia della Corte è oggi esercitata in modo che non può considerarsi soddisfacente. In un corso della Scuola superiore della magistratura dedicato al giudizio civile di cassazione[31] si è autorevolmente affermato che “sia in campo sostanziale, sia in campo processuale – dappertutto si annidano contrasti”[32]. Per la Cassazione penale si è condivisibilmente affermato che la funzione nomofilattica è da essa assolta “solo quando decide a sezioni unite, mentre le sezioni semplici finiscono per svolgere prevalentemente funzioni di giudice dello ius litigatoris, pronunciando un numero sterminato di decisioni, con il rischio conseguente ed effettivo di un aumento esponenziale dei contrasti giurisprudenziali”[33]. Ma, soprattutto, sono inaccettabili i tempi lunghi del giudizio civile di cassazione, non giustificati dalla sua struttura semplice, ma determinati esclusivamente dall’enorme numero dei ricorsi e dall’arretrato conseguentemente formatosi.
Su questo aspetto occorre rilevare che la durata media del giudizio penale di cassazione è sensibilmente inferiore a quella di un anno ritenuta ragionevole dal legislatore. La Cassazione penale, quindi, è riuscita a fare fronte al numero enorme di ricorsi, a differenza della Cassazione civile. Non è questa la sede per individuare e analizzare le cause di questa differenza. Qui, però, può e deve prospettarsi qualche rimedio idoneo a incidere positivamente sui tempi dei giudizi civili, in guisa da concretizzare quel “traguardo” che è nel titolo di questa prima sessione.
Penso a due interventi, uno interno alla Corte, di natura organizzativa, e l’altro esterno alla stessa, perché richiede una modifica legislativa.
La menzionata selezione dei ricorsi, imposta a fini procedurali dal d. lgs. n.149/2022, deve essere utilizzata per perseguire organizzativamente un duplice risultato: da un lato, un esercizio più meditato e stabile della nomofilachia; dall’altro, una netta distinzione dell’impegno motivazionale e un minore aggravio complessivo dello stesso.
La decisione della questione di diritto di particolare rilevanza deve essere preceduta da un lavoro preparatorio che coinvolga tutti i magistrati della sezione, e non solo i componenti del singolo collegio decidente. La nuova competenza del rinvio pregiudiziale può costituire l’occasione di partecipazione alla nomofilachia anche dei giudici di merito e della dottrina, stante la preventiva conoscenza pubblica della ordinanza di rinvio.
Sugli altri ricorsi, da decidersi con ordinanza, l’impegno motivazionale (che occupa tanta parte del lavoro dei giudici) va ridotto al minimo, perché le questioni da risolvere attengono o alla logicità della motivazione in fatto (il cui controllo, come si è detto, non costituisce la funzione prioritaria del giudice di legittimità) o consistono in questioni giuridiche che, se non sono state considerate di particolare rilevanza, possono essere risolte in modo sintetico, non richiedendo la loro motivazione quelle caratteristiche di persuasività che devono contrassegnare le decisioni con rilievo nomofilattico.
Mi sembra che il legislatore abbia ora imposto quella diversità di impegno motivazionale che avevo prospettato all’inizio della mia Presidenza della Corte con il provvedimento sulla “motivazione semplificata”[34], che i collegi decidenti erano “invitati” ad adottare quando decidevano “ricorsi che non richiedono l’esercizio della funzione di nomofilachia” (come sono tutti quelli che censurano la motivazione in fatto) ovvero che “sollevano questioni giuridiche la cui soluzione comporta l’applicazione di principi giuridici già affermati dalla corte e condivisi dal collegio”. Il mero invito ai magistrati della Cassazione civile, che era prospettato in quel provvedimento interno, è ora un dovere professionale, stante la diversità di motivazione richiesta dal sistema (raffronto tra l’art.132 e l’art.134 c.p.c.) tra le sentenze, emanate in esito alle udienze pubbliche, e le ordinanze conclusive dei procedimenti in camera di consiglio.
Non si può, però, non riconoscere che qualunque intervento organizzativo è reso difficile e complesso dall’enorme numero di ricorsi che la Cassazione è tenuta a decidere in modo comunque motivato e che finisce con l’ostacolare anche un’attenta selezione interna dei ricorsi. È questa la ragione per la quale i numerosi interventi legislativi di questo secolo diretti ad introdurre filtri interni nei giudizi civili non hanno raggiunto risultati positivi, avendo anzi in alcuni casi prodotto ulteriori complicazioni e difficoltà per la Corte. Ritenuta inopportuna una modifica della ricorribilità per cassazione prevista dall’art.111 Cost., prospetto una innovazione nella legislazione forense che, sull’esempio di ordinamenti stranieri (Germania e Francia), disponga la separazione categoriale tra gli avvocati legittimati a difendere nei giudizi di merito e quelli che scelgano di esercitare nel solo giudizio di legittimità, il quale richiede una preparazione e una esperienza particolari. La proposta fu formulata da Giorgio Santacroce, Primo presidente della Cassazione che mi seguì immediatamente e purtroppo è prematuramente scomparso[35]. La riserva al secondo gruppo della abilitazione a proporre ricorso per cassazione creerebbe un corpo di difensori altamente specializzati, idonei perciò a compiere un filtro esterno all’accesso alla Corte di legittimità e a limitarne prevedibilmente il numero, con l’effetto ulteriore di migliorare il livello qualitativo dei ricorsi proposti[36].
Quest’ultima considerazione giustificherebbe l’estensione della innovazione anche alla materia penale, ove oggi non si ha, come si è detto, una durata patologica dei giudizi di legittimità, ma è sempre elevatissimo il numero dei ricorsi presentati annualmente, con la già menzionata difficoltà anche della Corte penale di assolvere in modo idoneo e celere alla funzione di nomofilachia. La necessità di elevare la qualità media dei ricorsi penali si desume dal fatto che circa due terzi dei ricorsi proposti sono dichiarati inammissibili[37].
L’indubbia esistenza di queste difficoltà non deve, però, fare venire meno nei magistrati tutti della Corte di legittimità la consapevolezza della importanza enormemente accresciuta, in un’epoca di diritto giurisprudenziale, della nomofilachia e, correlativamente, della maggiore responsabilità della intera istituzione e dei magistrati che la impersonano. Questa responsabilità etica e deontologica non rimane a un livello teorico e astratto, ma può essere resa concreta e visibile dal fatto che le interpretazioni del giudice di legittimità sono assoggettate alle valutazioni di altre Corti. Così dicasi per:
- la Corte costituzionale, che può essere investita del controllo di costituzionalità sul principio di diritto dettato per il giudizio di rinvio, e che, nella materia penale, può sindacare il rispetto, anche da parte degli orientamenti della Cassazione, del divieto di analogia (come è sostanzialmente avvenuto nella sentenza costituzionale n.98/2021[38]);
- la Corte di giustizia dell’Unione europea, che può affermare la responsabilità civile dello Stato causata dalla emanazione di pronunzie della Cassazione, come è avvenuto nella nota vicenda della società Traghetti del Mediterraneo[39];
- la Corte europea dei diritti dell’uomo, che può dichiarare la violazione della CEDU commessa anche da sentenze della Cassazione civile e penale. Queste pronunzie contribuiscono all’esaurimento delle vie di ricorso interno, che è condizione di ricevibilità del ricorso alla Corte Edu (art.35 della CEDU), onde l’accoglimento di quest’ultimo ricorso implica, di norma, che la accertata violazione della CEDU non sia stata impedita ovvero sia stata commessa dal giudice nazionale di ultima istanza.
*Intervento pronunciato in occasione del convegno, I Cento anni della Corte di cassazione "Unica", Roma 28 novembre 2023.
[1] Così M. Cartabia, nella Relazione introduttiva del convegno su “Il giudice e lo Stato di diritto”, organizzato a Roma il 20 ottobre 2023 dalla Accademia dei Lincei e dalla Scuola superiore della magistratura.
[2] V., di recente, F. Modugno e A. Longo, Disposizione e norma. Realtà e razionalità di una storica tassonomia, Editoriale Scientifica, 2021. V. anche F. Caringella, L’interpretazione del diritto, Dike giuridica, 2021, di cui è significativo il sottotitolo: Il viaggio dalla disposizione alla norma.
[3] R. Guastini, Interpretare e argomentare, Giuffrè, 2011, p.59-61. Lo stesso concetto è espresso da H. Kelsen, La dottrina pura del diritto (1960), Einaudi, 2021, p.449, con il termine “schema”, comprendente i più significati possibili dell’atto da interpretare (ma senza la previa distinzione tra disposizione e norma).
[4] Anche chi, in posizione minoritaria, critica la menzionata distinzione tra disposizione e norma ritiene “innegabile che gli enunciati normativi si prestino alla pluralità delle interpretazioni” e che “sia fallace l’dea dell’unico significato del testo” (M. Luciani, Interpretazione conforme a Costituzione, in Enc. dir.. Annali. vol. IX, p.438).
[5] La “cornice” è normalmente definibile: Corte cost. 5 giugno 2023, n.110, ha dichiarato l’incostituzionalità di una disposizione di legge regionale per essere “l’enunciato normativo affetto da radicale oscurità”, per “contrasto con il canone di ragionevolezza della legge di cui all’art.3 Cost.”.
[6] V., ex plurimis, D. Canale e G. Tuzet, La giustificazione della decisione giudiziale2, Giappichelli, 2020, p.62 ss.
[7] Si prescinde dall’ipotesi in cui gli argomenti interpretativi conducano all’accertamento di una lacuna, da colmare mediante l’analogia legis o iuris.
[8] Condivido, quindi, la concezione metodologica della interpretazione (N. Irti, Riconoscersi nella parola, Il Mulino, 2020, p.119). Lo stesso Autore (I cancelli delle parole, in Un diritto incalcolabile, Giappichelli, 2016, p.83) ricorda una frase di Francesco Carnelutti: “L’interpretazione testuale traccia i confini entro i quali liberamente si muove la interpretazione logica” e, oggi deve aggiungersi, sistematica, con riferimento alle fonti sovraordinate alla legge.
[9] L’espressione “circolo ermeneutico” ha grosso rilievo nel ragionamento giuridico proposto dalla teoria ermeneutica del diritto (F. Viola e G. Zaccaria, Diritto e interpretazione, Laterza, 1999). Senza prendere posizione su questa teoria dell’interpretazione, l’espressione viene qui recepita soltanto per esprimere la possibilità che l’attribuzione del significato alla disposizione normativa dipenda dalle caratteristiche del fatto da giudicare. Questo passaggio, nella soluzione del caso, dalla individuazione della disposizione da applicare agli aspetti particolari del fatto concreto e viceversa (con la conseguente scelta di quali ne sono le caratteristiche rilevanti per la decisione), è una ricerca che non incide sulla funzione nomofilattica della Cassazione, la quale presuppone che sia stato definitivamente accertato il fatto da giudicare. La nomofilachia attiene alla giustificazione della premessa maggiore del sillogismo giudiziario, non essendo in contestazione la premessa minore dello stesso (che, però, è opportuno che sia tenuta presente per la precisa e corretta comprensione del principio di diritto affermato dalla Cassazione).
[10] In dottrina si è soliti distinguere diversi significati del termine “creatività della interpretazione”: v., di recente, G. Pino, L’interpretazione nel diritto, Giappichelli, 2021, p.341 ss.. V. anche M. Nisticò, L’interpretazione giudiziale nella tensione tra i poteri dello Stato, Giappichelli, 2015, cap. IV.
[11] A. Barak, La discrezionalità del giudice, Giuffré, 1995; Id., La natura della discrezionalità giudiziaria e il suo significato per l’amministrazione della giustizia, in Politica del diritto, 2003, p.3; H. L. A. Hart, Il concetto di diritto2, Einaudi, 2002, p.166-173, 347 ss. (Poscritto); H. Kelsen, La dottrina pura del diritto, cit., p.447, 453; P. Rescigno, La discrezionalità del giudice, in P. Rescigno e S. Patti, La genesi della sentenza, Il Mulino, 2016, p.81. Non uniforme è, però, il significato che questi autori danno al termine “discrezionalità”, anche se in tutti è presente il concetto di limiti esistenti nella attività giudiziaria. Nell’art.132 c.p. il “potere discrezionale del giudice” è riferito alla applicazione della pena “nei limiti fissati dalla legge”.
[12] Per l’incompatibilità tra la dottrina della separazione dei poteri e il giusrealismo radicale (teoria per cui tutto il diritto è prodotto dai giudici) v. M. Barberis, Separazione dei poteri e teoria giusrealistica dell’interpretazione, negli Atti del XIX Convegno annuale della Associazione italiana dei costituzionalisti svoltosi a Padova il 22-23 ottobre 2004, Cedam, 2008, p.29. La compatibilità, secondo lo stesso Autore, può, invece, essere ravvisata rispetto alla teoria del giusrealismo moderato, che, come ho detto, ritengo preferibile rispetto al tradizionale formalismo interpretativo, secondo cui le disposizioni avrebbero ognuna un solo significato.
[13] A. Barak, La discrezionalità del giudice, cit., dopo avere affermato che “la discrezionalità esiste in tutti i sistemi giuridici e fa sorgere problemi comuni” (p.5), distingue tra “soluzione legittima e soluzione appropriata” (p.6), che è quella derivante dalla dall’esercizio della scelta discrezionale (che egli limita ai “casi difficili”) tra più soluzioni legittime. Secondo L. Ferrajoli, Principia iuris. Teoria del diritto e della democrazia, vol.2, Laterza, 2009, p.75, l’attività della giurisdizione è “inevitabilmente discrezionale e contrassegnata assai spesso da giudizi di valore”.
[14] Di diversi contrasti giurisprudenziali risolti dalle sezioni unite, analizzati nella loro origine e negli argomenti adottati dalle sezioni unite per risolverli, ho trattato nella relazione: Tra la lettera e lo spirito della legge: tensioni giurisprudenziali, in Iustitia, 2018, fasc. 1, p.37 e fasc. 2, p.223.
[15] La Costituzione della Repubblica italiana illustrata con i lavori preparatori, a cura di V. Falzone, F. Palermo, F. Cosentino, Oscar Studio Mondadori, 1976, p.324.
[16] C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, cap. V (parole iniziali). L’affermazione di Beccaria sembra riferirsi in generale alla interpretazione delle leggi (v. il cap. IV), al di là della materia penale che è l’oggetto dello scritto.
[17] G. Pino, Poteri interpretativi e principio di legalità, in Enc. dir.. I tematici, vol. V - Potere e Costituzione, Giuffrè, 2023, p.983. L’autore parla, in proposito, di “paradosso della legalità”.
[18] Per la materia penale possono citarsi gli scritti di M. Donini, Fattispecie o case law? La “prevedibilità del diritto” e i limiti alla dissoluzione della legge penale nella giurisprudenza, in Questione giustizia, n.4/2018, p.79, spec. Il § 18, p.101 (Sei regole deontologiche di ermeneutica penale); V. Manes, Dalla “fattispecie” al “precedente”: appunti di “deontologia ermeneutica”, in Cass. pen., 2018, p.2222; F. Palazzo, Legalità penale, interpretazione ed etica del giudice, in Riv. it. dir. proc. pen., 2020, p.1249. Per una più ampia linea di ricerca v. M. Nisticò, L’interpretazione giudiziale nella tensione tra i poteri dello Stato, cit., cap. V: Oltre l’interpretazione. Configurabilità dell’eccesso di potere giurisdizionale, rimedi e questioni di legittimazione (del giudice).
[19] “Nello Stato costituzionale di diritto la legge conserva ancora una sua ‘sfera’ e non è riducibile a mero svolgimento della Costituzione, sicché la salvaguardia dei suoi tratti caratteristici continua a essere un requisito essenziale del mantenimento dell’ordine dei poteri e della certezza del diritto” (M. Luciani, Ogni cosa al suo posto, Giuffré, 2023, p.109).
[20] D. Bifulco, Il giudice è soggetto soltanto al “diritto”. Contributo allo studio dell’art.101, comma 2, della Costituzione italiana, Jovene, 2008,
[21] Così, V. Zagrebelsky, R. Chenal, L. Tomasi, Manuale dei diritti fondamentali in Europa3, Il Mulino, 2022, p.149. Al volume si rinvia anche per le numerose citazioni giurisprudenziali. Questo orientamento, riferito all’art.7 della CEDU, è stato applicato dalla Corte europea nella nota e discussa sentenza 14 aprile 2015 Contrada, in cui la giurisprudenza stabilizzata sulla ammissibilità del concorso esterno in associazione mafiosa si è ritenuto che fosse stata raggiunta solo con la sentenza delle Sezioni unite penali Demitry del 1994.
[22] Il meccanismo introdotto nel c.p.c. portoghese dal décret-loi n. 303/2007 del 24.8.2007, ma non applicabile ratione temporis ai processi già pendenti e quindi al caso di specie, consiste nella possibilità concessa alle parti del processo (civile) di impugnare davanti alla assemblea plenaria delle sezioni civili della Corte suprema una sentenza resa da questa Corte “in contraddizione” con un’altra sua sentenza pronunziata sulla medesima questione di diritto e in applicazione della stessa legislazione (art.763 c.p.c.).
[23] Di fronte alla recente affermazione che la funzione di nomofilachia della Corte di cassazione fu “bocciata” dalla Assemblea costituente (G. Scarselli, La nomofilachia e i suoi pericoli, in Giustizia Insieme, 23 ottobre 2023, § 5) va ricordata la contraria opinione di un costituzionalista (A. Pizzorusso, Corte di cassazione, in Enciclopedia giuridica Treccani, vol. IX, 1988), secondo cui la Costituzione ha recepito “il «sistema della cassazione» quale è stato delineato attraverso una tradizione di studi che ha il suo massimo prodotto nella famosa opera di Piero Calamandrei” (§ 1.1) e la Cassazione è un “organo dotato di rilievo costituzionale soprattutto per il fatto di esercitare la funzione di nomofilachia”. (§ 1.2). Per una analisi dei lavori della Costituente debbo rinviare al mio intervento “La Corte di cassazione nella Costituzione”, in Cass. pen., 2008, p.4444.
[24] A. Nappi, Il sindacato di legittimità nei giudizi civili e penali di cassazione2, Giappichelli, 2011, p.19 e 62.
[25] Nello stesso senso A. Giusti, La nuova udienza pubblica, in La Cassazione civile riformata, a cura di P. Curzio, Cacucci, 2023, p.104.
[26] M. Taruffo, Il vertice ambiguo, Il Mulino, 1991, Introduzione, p.7-26.
[27] Per l’affermazione che la legge del 2006 ha confermato il ruolo nomofilattico della Cassazione v. A. Caputo, Giudizio penale di legittimità e vizio di motivazione, Giuffré Francis Lefebvre, 2021, p.295 (e, amplius, il cap.2, § 4).
[28] L n.103/2017, d. lgs. n.11/2018, d.lgs. n.150/2022.
[29] Ricorso contro la sentenza di non luogo a procedere pronunziata in grado di appello (art.428, comma 3-bis, c.p.p.); ricorso contro la sentenza di appello pronunziata per reati di competenza del giudice di pace (art.606, comma 2-bis, c.p.p.); ricorso del p.m. contro la sentenza di proscioglimento del giudice di appello che conferma quella di primo grado (art.608, comma 1-bis, c.p.p.).
[30] Così la relazione illustrativa all’art.3, comma 28, lettera o) del d. lgs. n.149/2022, che ha introdotto l’art. 391-quater c.p.c., in Gazz. Uff., 19/10/2022, suppl. straord. n.5, p.45.
[31] Quaderno n.20 della SSM, Il giudizio civile di cassazione, 2022.
[32] L’affermazione è del Pres. Angelo Spirito (che si presenta come il “magistrato che da più tempo opera nelle aule della Corte di cassazione”), in Quaderno cit., p.40. Sono questi contrasti che rendono criticabile la nomofilachia come oggi è esercitata, non il pericolo di soppressione della libertà interpretativa dei giudici di merito (come sostiene Scarselli, La nomofilachia e i suoi pericoli, cit., § 10), i quali sono sempre liberi di seguire una tesi diversa da quella della Cassazione purché la motivino. Mentre non è in sintonia con il principio costituzionale di uguaglianza e con la previsione (confermata dal Costituente) della Cassazione unica l’esaltazione dei contrasti giurisprudenziali implicita nella affermazione di Scarselli secondo cui “un contrasto di giurisprudenza significa che i giudici sono liberi”.
[33] G. Fidelbo, Il precedente nel rapporto tra sezioni unite e sezioni semplici: l’esperienza della Cassazione penale, in Questione Giustizia, n.4/2018, p.138.
[34] Provvedimento del 22 marzo 2011, con correlata relazione, in Foro it., 2011, V, c.183.
[35] È quanto riferisce A. Nappi, Quattro anni a Palazzo dei Marescialli, Aracne, 2014, p.142, il quale recepì il suggerimento di Santacroce in una proposta del CSM diretta al Ministro della giustizia attraverso una delibera del 2 luglio 2013, la quale avrebbe conseguito la maggioranza se non vi fosse stata l’assenza per impegni sopravvenuti del Pres. Santacroce.
[36] In Germania “non vi sono più di 40 avvocati abilitati a patrocinare dinanzi alla Corte federale di giustizia” nel settore civile (K. Tolksdorf, L’accesso alla Corte suprema tedesca, in Giurisdizioni di legittimità e regole di accesso. Esperienze europee a confronto, a cui di G. Alpa e V. Carbone, Il Mulino, 2011, p.46); in Francia il detto numero si aggira, notoriamente, attorno al centinaio. Questo aspetto dell’ordinamento francese è stato ritenuto dalla Corte Edu conforme al giusto processo e viene valutato molto utile per il funzionamento della Corte di cassazione francese (D. Le Prado, Alcune caratteristiche del sistema di cassazione alla francese, in Giurisdizioni di legittimità, cit., p.163). Giudizio ancora più positivo viene dato all’analogo aspetto dell’ordinamento forense della Germania (K. Tolksdorf, Op. loc. cit.).
[37] Nel 2022 è stato dichiarato inammissibile il 70,6 % dei ricorsi decisi (P. Curzio, Relazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2022, presentata il 26 gennaio 2023, Gangemi, p.150).
[38] Nell’annotare la sentenza n.98/2021 F. Palazzo, Costituzione e divieto di analogia, in Dir. pen. proc., 2021, p.1218, rileva che essa, pur essendo una pronunzia di inammissibilità, costituisce “un forte richiamo per i giudici comuni” al rispetto del divieto di analogia delle norme incriminatrici.
[39] La sentenza della Corte di giustizia (Grande Sezione) del 10 giugno 2010 (causa C-173-03) ha affermato la responsabilità dello Stato italiano per i danni arrecati alla società Traghetti del Mediterraneo per la violazione del diritto comunitario imputabile alla Corte di cassazione.