GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    Il “dialogo tra le Corti” e le prestazioni di sicurezza sociale di Luigi Cavallaro

    Il “dialogo tra le Corti” e le prestazioni di sicurezza sociale[1]  

    di Luigi Cavallaro  

    Il diritto dell’Unione Europea è materia tanto rilevante quanto ancora incerta nei suoi presupposti dogmatici. Né c’è da meravigliarsene: è disciplina giuridicamente “giovane”, se paragonata alla tradizione millenaria del diritto civile o a quella secolare del diritto costituzionale e del diritto processuale; e siccome giovani siamo stati tutti, tutti ricordiamo che la gioventù è un tempo in cui la vigoria del corpo spinge alla prassi, cioè alla trasformazione della realtà, piuttosto che alla riflessione su di essa.

    Ma tutti ricordiamo anche che non si dà una netta linea di demarcazione tra gioventù e “maturità”, che è il nome altisonante con cui coloro che giovani non sono più chiamano quell’età in cui, oltre a “fare”, s’incomincia a ragionare su quel “fare”: sui suoi obiettivi, sui presupposti per raggiungerli, sulla loro compatibilità con altri che pure ci siamo dati. E accade così anche per il diritto dell’Unione Europea: che dopo la stagione faustiana dell’“azione” ha preso anch’esso a interrogarsi sui suoi presupposti e fondamenti, nel tentativo di districare la selva di problemi che tutt’intorno, mentre correva a perdifiato, gli era cresciuta.

    È mia personale opinione che la fortuna che ha arriso all’espressione “dialogo tra le Corti” si debba all’indubbia capacità di dissimulazione di molti di questi problemi: che riguardano non soltanto il rapporto tra ordinamenti giuridici differenti, quali indubbiamente sono il diritto dell’Unione, da un lato, e gli ordinamenti degli Stati membri, dall’altro, ma prima ancora i conflitti tra i valori che rispettivamente ispirano l’uno e gli altri e, se l’espressione non suona troppo irriguardosa, perfino i conflitti di classe che ne stanno alla base. Cercherò di spiegare il perché avvalendomi di un recentissimo esempio.  

    Due lavoratori extracomunitari che vivono in Italia, ma i cui familiari risiedono nei Paesi di rispettiva provenienza, convengono in giudizio l’INPS, chiedendo la corresponsione degli assegni familiari. L’Istituto resiste, invocando l’art. 2, comma 6-bis, d.l. n. 69/1988 (conv. con l. n. 153/1988), che esclude dal diritto agli assegni familiari i lavoratori stranieri i cui congiunti non abbiano residenza effettiva nel nostro Paese, a meno che non sussista un criterio di reciprocità con il Paese di provenienza o la materia sia regolata da apposita convenzione internazionale. I giudici di merito accolgono nondimeno la domanda, richiamando le direttive dell’Unione Europea nn. 103/2003 e 98/2011: le quali, fissando il principio di parità di trattamento tra lavoratori nazionali ed extracomunitari, imporrebbero al nostro Paese il divieto di discriminare gli stranieri rispetto ai cittadini italiani, ai quali, invece, gli assegni sono corrisposti indipendentemente dal fatto che i familiari risiedano nel nostro Paese.

    L’INPS ricorre quindi per la cassazione di entrambe le sentenze, denunciandole per violazione di legge. Ma la Cassazione vuol vederci chiaro circa l’effettiva portata della norma europea, e solleva altrettante questioni pregiudiziali d’interpretazione alla Corte di Giustizia: chiedendole, in particolare, se la parità di trattamento sancita dalle direttive in questione debba estendersi anche ai casi di specie, la cui peculiarità, come s’è detto, è data dall’essere il nucleo familiare dei lavoratori stranieri residente all’estero[2].

    La Corte di Giustizia risponde da par suo[3]: e nel compiere la dovuta esegesi delle direttive, interpreta in modo estensivo la portata del principio di parità di trattamento, privando di valore ermeneutico quei “considerando” delle direttive che apparentemente potevano circoscriverne la portata, e in modo specularmente restrittivo la possibilità per gli Stati membri di introdurre deroghe. E conclude asserendo che il diritto dell’Unione “osta” ad una normativa nazionale come quella invocata dall’INPS per negare la corresponsione degli assegni.

    Chiamata a dare esecuzione alle sentenze della Corte di Giustizia, la Corte di cassazione reputa però di non poter procedere alla “disapplicazione” della legge italiana e solleva un incidente di costituzionalità. Le ragioni si leggono per esteso nelle ordinanze nn. 9378 e 9379 dell’8 aprile scorso, ma ai nostri fini interessano le valutazioni in punto di rilevanza della questione di legittimità costituzionale: che sono quelle in cui la Cassazione prova a dire la sua su come deve dialogarsi tra le Corti in questa materia e perché.

    Ad avviso del Collegio, infatti, le direttive in questione non possiedono alcuna “efficacia diretta” che possa giustificare la disapplicazione (o meglio, la non applicazione) della norma interna con esse contrastante: e ciò perché il diritto dell’Unione non regola direttamente la materia dei trattamenti di famiglia. Il precetto di parità di trattamento, infatti, impone bensì agli Stati membri di non trattare diversamente i congiunti del lavoratore straniero non residenti nel nostro Paese, ma non consegna al giudice interno una disciplina in grado di sostituirsi integralmente a quella nazionale; di conseguenza, la “disapplicazione” della norma interna con esso contrastante «altro non realizzerebbe che una modifica della norma nazionale mediante la sostituzione del criterio della reciprocità ovvero della specifica convenzione internazionale con quello della parità di trattamento»; si tratterebbe insomma «di un intervento di tipo manipolativo» della norma nazionale, ovviamente inibito al giudice comune e che solo la Corte costituzionale può realizzare.  

    Le ordinanze in questione sono state subito oggetto di attenzione critica da parte della dottrina: e in verità, anche di giudizi severi[4]. «Assai poco condivisibili», si è detto delle considerazioni della Corte, «ed anzi senz’altro scorrette»: sia dal punto di vista del collegamento instaurato tra disapplicazione e riparto di competenze, che si è denunciato come «errato», sia dal punto di vista della sussistenza di residui margini di discrezionalità del legislatore nazionale nell’attuazione delle direttive, lapidariamente liquidato come «fuorviante». E nel rimarcare l’erroneità dell’approdo, si è ovviamente auspicata una dichiarazione d’inammissibilità della questione da parte della Corte costituzionale: unico rimedio per «ripristinare i corretti termini» della vicenda e tornare «a prendere sul serio il diritto dell’Unione»[5].

    Chi scrive di quel Collegio ha fatto parte: e oltre a reputare affatto legittimo che la dottrina si sia espressa in modo critico, nemmeno si meraviglia dell’asperità dei toni, ben sapendo quanto il tema dell’immigrazione sia connotato da precomprensioni ideologiche che rendono pressoché impossibile un pacato confronto. Una cosa sola ci tiene a dire, per chiarezza: in Cassazione, il diritto dell’Unione lo si prende sul serio, sempre; ed è proprio per ciò che i dubbi talora affiorano là dove altri pretendono di trovare nient’altro che certezze.

    E vorrei provare a dar voce a questi dubbi aprendo anzitutto proprio il volume che qui siamo chiamati a presentare: e leggendone le pagine che riassumono incisivamente e con nettezza i cardini dell’intervento dell’Unione Europea in materia di sicurezza sociale[6]. Ricordandoci, in primo luogo, che la “politica sociale”, nel cui ambito rientrano la previdenza e l’assistenza sociale, appartiene al novero delle “competenze concorrenti” dell’Unione Europea, cioè di quelle competenze che le sono attribuite solo ed in quanto gli obiettivi enunciati dai Trattati non possono essere conseguiti a livello di singoli Stati membri; e che, di conseguenza, pur essendo la sicurezza sociale inclusa tra gli ambiti di azione dell’Unione, la competenza in materia non può essere esercitata in modo da compromettere «la facoltà riconosciuta agli Stati membri di definire i principi fondamentali del loro sistema di sicurezza sociale», né da «incidere sensibilmente sull’equilibrio finanziario dello stesso», come dice testualmente l’art. 153 TFUE: si tratta infatti di ambiti normativi che hanno implicazioni dirette sul bilancio dei singoli Stati membri, al cui equilibrio peraltro essi sono tenuti per rispettare altre e non meno cogenti disposizioni contenute negli artt. 126 ss. TFUE.

    È per ciò che i principali interventi regolatori che si rinvengono nella nostra materia sono i regolamenti che concernono la definizione del regime previdenziale applicabile ai lavoratori migranti nell’ambito dell’Unione, al fine di risolvere i possibili conflitti di disposizioni interne in tema di iscrizione, pagamento dei contributi e calcolo delle prestazioni: si tratta, infatti, di disposizioni finalizzate a preservare la fondamentale libertà di circolazione dei lavoratori all’interno dell’Unione, che potrebbe essere pregiudicata in assenza di regole che garantiscano la conservazione e il cumulo dei periodi assicurati presso i singoli Stati membri; e che rientrano pertanto a pieno titolo nell’ambito del principio di sussidiarietà nei cui limiti l’Unione può legiferare allorché sia dotata di competenza concorrente.  

    Ora, se questa premessa è vera, ne vengono talune implicazioni di non poco momento. Fin dalla sentenza nota come Granital, la Corte costituzionale ha chiarito che il diritto nazionale incompatibile con una norma dell’Unione può non trovare applicazione nella specifica fattispecie concreta sub iudice solo se le disposizioni del diritto dell’Unione «soddisfano i requisiti dell’immediata applicabilità», vale a dire «solo se e fino a quando il potere trasferito alla Comunità [oggi all’Unione] si estrinseca in una normazione compiuta»[7]. Ma, come abbiamo appena ricordato, una “normazione compiuta” di diritto dell’Unione nella materia degli assegni familiari non esiste: esiste solo un principio di parità di trattamento nell’accesso alle prestazioni previdenziali tra lavoratori che appartengono all’Unione e lavoratori che non vi appartengono. Ciò significa che, in questo caso, la norma dell’Unione viene invocata per opporsi ad una norma nazionale, espunta la quale la situazione soggettiva torna ad essere (come solo può essere) disciplinata dall’ordinamento interno, che non è stato oggetto di disapplicazione alcuna.

    Si tratta di un fenomeno che la dottrina francese ha chiamato “invocabilité d’exclusion[8]: e vale a designare il caso in cui il singolo, pur non essendo destinatario di situazioni soggettive garantitegli direttamente dall’ordinamento dell’Unione, invoca una norma di diritto dell’Unione per richiedere un controllo di legittimità di una norma di diritto interno, onde beneficiare di una modifica dell’ordinamento interno che sia favorevole ai suoi interessi. La Corte di Giustizia lo ha espressamente teorizzato fin dalla sentenza Becker[9], allorché ha osservato che, quando le disposizioni di una direttiva appaiono precise e incondizionate, il singolo, in mancanza di provvedimenti d’attuazione, può valersene «per opporsi a qualsiasi disposizione di diritto interno non conforme alla direttiva, ovvero in quanto sono atte a definire diritti che i singoli possono far valere nei confronti dello Stato»[10]. E si tratta chiaramente di fattispecie differenti; e se c’è un ambito nel quale questa diversità si coglie nitidamente è proprio la materia dei diritti a prestazione, i quali – come tutti i diritti sociali – in tanto possono essere garantiti in quanto esistano procedimenti amministrativi preordinati all’accertamento dei requisiti ed enti tenuti all’erogazione delle prestazioni, ciò che a sua volta presuppone l’esistenza di leggi e, soprattutto, corrispondenti stanziamenti di bilancio: che sono, nella specie, tutti statali e non già dell’Unione Europea.

    Non indugerò qui sul fatto che la dottrina si è a lungo interrogata (e s’interroga ancora) circa la possibilità di ricomprendere l’invocabilité d’exclusion tra le fattispecie in cui l’ordinamento dell’Unione possiede “efficacia diretta”, giungendo a soluzioni differenti (e prevalentemente negative)[11]: mi limito a ricordarlo giusto per scansare alla Corte di cassazione l’accusa di non prendere “sul serio” il diritto dell’Unione. D’altra parte, è indiscutibile che la Corte di Giustizia, nonostante il formale ossequio ai principi elaborati dalla sentenza Simmenthal[12], è progressivamente pervenuta ad ancorare la disapplicazione al (solo) principio del “primato del diritto UE”, senza più porsi soverchi problemi di efficacia diretta o indiretta delle norme dell’Unione (emblematici i casi noti come Lucchini e Taricco)[13]. Ma se è vero che, ad onta di ogni pretesa “monistica” più o meno ascrivibile alla dottrina del “primato”, la nostra giurisprudenza costituzionale è ferma nel ritenere che i rapporti tra l’ordinamento dell’Unione e quello nazionale sono fondati sul riparto di competenze (ed è per ciò che al giudice comune non è attribuito alcun potere di dichiarare le leggi statali “viziate” per contrasto con il diritto dell’Unione, bensì soltanto di verificare quale sia la norma competente a disciplinare la  fattispecie, non applicando quella che “competente” non è)[14], possiamo davvero giungere ad una “disapplicazione” in conseguenza di un “controllo di legittimità” della norma interna alla stregua del diritto dell’Unione?

    Detto altrimenti: pur volendo concedere che le direttive posseggano “effetti diretti” anche quando funzionano come parametro di legittimità dell’azione degli Stati membri (come appunto nel caso dell’invocabilité d’exclusion, in cui per definizione non esiste un diritto dell’Unione che possa dirsi integralmente “sostitutivo” della normativa interna)[15], chi può essere chiamato a “produrre” la norma interna diversa da quella originariamente preposta a governare la fattispecie? Il giudice comune? Oppure, in un sistema come il nostro, in cui il controllo di legittimità degli atti normativi è accentrato, si tratta di un compito riservato alla Corte costituzionale?  

    Ecco, in estrema sintesi, i dubbi per i quali la Corte di cassazione, nelle ordinanze di cui qui s’è cercato di dare conto, ha ritenuto che il “dialogo” precorso con la Corte di Giustizia non fosse esaustivo e ha rimesso la questione alla Corte costituzionale, affinché dicesse la sua: e prima di tutto, ovviamente, se si tratta di dubbi che hanno ragion d’essere o meno.

    Non sta a me dire se, come sostenuto da altra dottrina[16], l’episodio possa essere considerato come espressione di un “contromovimento” della Cassazione rispetto alle “magnifiche sorti e progressive” dell’integrazione europea attraverso il diritto; per quel poco che vale il mio parere, mi sembra piuttosto di poter suggerire che, se si conviene che i conflitti tra norme statali e sovranazionali in materia di sicurezza sociale vanno riconosciuti per ciò che realmente sono, vale a dire conflitti politici o, per usare l’irriguardosa espressione di poc’anzi, conflitti di classe[17], cautela e grande attenzione sono doverose per gl’interpreti, in questo campo più che mai.


    [1] Testo rivisto dell’intervento tenuto al webinar “Le politiche europee di supporto all’occupazione in periodo pandemico e gli effetti sull’ordinamento italiano” (28 maggio 2021), in occasione della presentazione del volume di F. Carinci, A. Pizzoferrato (a cura di), Diritto del lavoro dell’Unione Europea, Torino, Giappichelli, 2021.

    [2] Si tratta di Cass. (ord.) 1 aprile 2019, nn. 9021 e 9022.

    [3] CGUE, 25 novembre 2020, C-302/19 e C-303/19.

    [4] S. Giubboni, N. Lazzerini, L’assistenza sociale degli stranieri e gli strani dubbi della Cassazione, in “Questione Giustizia”, 6 maggio 2021.

    [5] Ibid.

    [6] A. Pizzoferrato, La sicurezza sociale, in Carinci, Pizzoferrato, Il diritto del lavoro dell’Unione Europea, cit., p. 428 ss.

    [7] Così Corte cost. 5 giugno 1984, n. 170, in motivazione.

    [8] Cfr. al riguardo D. Gallo, L’efficacia diretta del diritto dell’Unione Europea negli ordinamenti nazionali, Milano, Giuffrè, 2018, spec. p. 213 ss.

    [9] CGUE, 19 gennaio 1982, C-8/81.

    [10] Ibid., § 25. Da notare che, come rileva puntualmente Gallo, op. cit., p. 215 n., “ovvero” qui vale nel senso di “oppure”, come risulta dalle versioni francese e inglese della sentenza.

    [11] Si ricorderanno, in particolare, le opinioni negative di J.A. Winter e S. Amadeo, opportunamente richiamate in Gallo, op. cit., p. 239: secondo il primo, in casi del genere il diritto dell’Unione creerebbe «limited effects», dissociati da veri e propri «claimable rights»; non dissimilmente, per il secondo, esso non avrebbe vere e proprie «ricadute soggettive» sugli individui. V., rispettivamente, J. A. Winter, Direct Applicability and Direct Effect. Two Distinct and Different Concepts in Community Law, in “Common Market Law Review”, 1972, spec. p. 437; S. Amadeo, Norme comunitarie, posizioni giuridiche soggettive e giudizi interni, Milano, Giuffrè, 2002, spec. p. 174.

    [12] CGUE, 9 marzo 1978, C-49/78.

    [13] Si vedano rispettivamente CGUE, 18 luglio 2007, C-119/05, e CGUE, 8 settembre 2015, C-105/14, e la nota “saga” seguita a quest’ultima, su cui v. almeno M. Luciani, Il brusco risveglio. I controlimiti e la fine mancata della storia costituzionale, in A. Bernardi (a cura di), I controlimiti. Primato delle norme europee e difesa dei principi costituzionali, Napoli, Jovene, 2017, p. 63 ss.

    [14] Lo ricorda opportunamente A. Guazzarotti, Logica competenziale dell’UE e sindacato diffuso sulle leggi: alle origini del riduzionismo della Costituzione italiana, in “Diritto pubblico comparato ed europeo”, 2019, spec. p. 805.

    [15] È la tesi di Gallo, op. cit., p. 241 ss., ripresa in Id., Effetto diretto del diritto dell’Unione Europea e disapplicazione, oggi, in “Osservatorio sulle fonti”, n. 3/2019 (disponibile all’indirizzo: http//www.osservatoriosullefonti.it).

    [16] Guazzarotti, Integrazione europea attraverso il diritto? Due recenti ordinanze della Cassazione in tema di assegni familiari per i lavoratori extra-UE, in “lacostituzione.info”, 10 maggio 2021.

    [17] Sulle conseguenze economiche delle politiche di apertura delle frontiere perseguite dall’Unione Europea, in termini di indebolimento del potere contrattuale dei salariati autoctoni e di aggravamento delle condizioni generali di vita dei ceti popolari, v. la perspicua analisi di A. Barba, M. Pivetti, Il lavoro importato. Immigrazione, salari e Stato sociale, Milano, Meltemi, 2019, che suggeriscono di ricercare in questa direzione le ragioni strutturali della crescente (ancorché certo non commendevole) ostilità delle popolazioni europee nei confronti del fenomeno migratorio.

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