GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    Il giudice interprete o legislatore?  Intervista di Matilde Brancaccio a Vittorio Manes e Luca Pistorelli

    Il giudice interprete o legislatore?*

    Intervista di Matilde Brancaccio a Vittorio Manes e Luca Pistorelli  

    Sommario: 1. Le domande - 2. introduzione al tema - 3. Le risposte - 4. Le conclusioni.  

    1. Le domande

    1. Diritto scritto e diritto giurisprudenziale: la questione del loro rapporto ricorre nella storia degli ordinamenti giuridici di ogni epoca e sembra oggi nuovamente riproporsi con più forza e più attuale. E’ possibile la “compatibilità” tra due prospettive che hanno dato vita a sistemi penali differenti eppure a volte paralleli e coesistenti?

    2. Fino a che punto il principio di legalità che ancora fonda il nostro diritto penale interno è in grado di reggere un formante giurisprudenziale sempre più forte, di fronte a quelli che la dottrina ha definito i “tradimenti legislativi” alla legalità? Si sta irrimediabilmente affermando un principio di “legalità debole” e, se è così, si tratta di un processo irreversibile in cui il giudice ha in mano le sorti dell’illecito penale?

    3. L’art. 618, comma 1-bis, del codice di procedura penale ha introdotto un “vulnus” al concetto classico di legalità che induce a ritenere legittimo un “sistema del precedente”, quanto meno di quello “più forte” di matrice delle Sezioni Unite, oppure si pongono le basi per una “riorganizzazione della nomofilachia” che metta nuovamente al centro del lavoro della Corte di cassazione la sua funzione di garantire uniformità interpretativa?

    4. Vincolo del precedente, nuova ermeneutica e massimazione sembrano oramai costituire una galassia in via di espansione.

    Quando è possibile, ed a quali condizioni, che un’affermazione giurisprudenziale si trasformi in “precedente” anche attraverso la massimazione? E il cd. diritto dottrinale può avere un ruolo in questa trasformazione?

    5. Logica della fattispecie concreta e logica del principio di diritto generato dalla scelta di campo per una ermeneutica tassativizzante e tipizzante possono apparire come approcci opposti dell’attività di creazione del precedente e del processo di massimazione, ma sono realmente inconciliabili?  

    2. Introduzione al tema

    La scelta di aprire un cantiere permanente di riflessioni sulle nuove frontiere del diritto giurisprudenziale è stata già compiuta tempo fa dalla Rivista (vedi, da ultimo, A. Costanzo, Il precedente friabile e gli slittamenti della nomofilachia, in Giustizia Insieme, 13 maggio 2020) e contribuisce al dibattito fecondo sul tema che sempre più permea dottrina, avvocatura e magistratura (v., per tutti, A. Cadoppi, voce Giurisprudenza e diritto penale, in Dig. disc. pen., Agg., Torino, 2017, e M. Donini, Fattispecie o case law? La “prevedibilità del diritto” e i limiti alla dissoluzione della legge penale nella giurisprudenza, in Questione giustizia, 2018).

    La coscienza della crescita impetuosa del peso dell’interpretazione, a detta di molti oramai “creativa” della fattispecie penale, ha toccato anche il legislatore, che sembra quasi averne preso atto, introducendo una disposizione quale è il nuovo comma 1-bis dell’art. 618 del codice di procedura penale, che, attraverso il valore di precedente tendenzialmente vincolante delle affermazioni di principio provenienti dalle Sezioni Unite con valore nomofilattico, ha probabilmente inteso provare a rispondere alle istanze di uniformità e stabilità che fanno da contrappunto all’innegabile, moderna potenza del formante giurisprudenziale (per un’analisi della valenza della nuova norma, si rimanda, per tutti, a G. Fidelbo, Il precedente nel rapporto tra Sezioni unite e Sezioni semplici: l’esperienza della Cassazione penale, in Questione giustizia, 4, 2018; nonché a G. De Amicis, La formulazione del principio di diritto e i rapporti tra Sezioni semplici e Sezioni Unite Penali della Corte di cassazione, in Dir. Pen. Cont., 4 febbraio 2019).

    Senza dubbio all’espansione della law in action ha contribuito il continuo flusso interpretativo proveniente dalle Corti europee, prima tra tutte la Corte Europea dei diritti dell’uomo, divenuto negli ultimi dieci anni una vera e propria corrente costante, pronta a trascinare con sé il diritto interno ed i suoi paradigmi consolidati, fino a toccare lo stesso principio di legalità formale che da sempre ispira il nostro diritto penale.   

    Tuttavia, il fenomeno che oggi constatiamo nasce dall’antica dicotomia tra “legalità della legge” e “legalità dell’esperienza giuridica” o “effettuale” – per usare le parole di Francesco Palazzo (il richiamo è F. Palazzo, Legalità fra law in the books e law in action, in AA.VV., Cassazione e legalità penale, a cura di A. Cadoppi, Roma, 2017, 27 ss., 33 ss.) – e ripropone l’eterno enigma del rapporto tra legge e giudice: l’una senza l’altro sarebbe vuota enunciazione; il giudice, al di fuori della legge, in un sistema penale a legalità formale, potrebbe costituire un vulnus democratico.

    Ma al di là di tali due estreme ipotesi, emerge il piano fisiologico ed ordinario di un’interdipendenza inevitabile tra i due poli che sovrintendono alla nascita del precetto penale “vivente”, per la necessità di conferire, attraverso l’interpretazione e la giurisprudenza, piena ed effettiva espansione ai principi declinati dal legislatore.

    è altrettanto evidente che la crisi della capacità di legiferare con forme e tecniche congrue ed efficaci ha determinato l’accrescersi sempre più intenso dell’importanza dell’ermeneutica, dell’attività di interpretazione, cui gli interlocutori istituzionali (a partire dalla Corte costituzionale) e la dottrina si sono rivolti per ritrovare organicità di contenuti e complessità di letture spesso nascoste dalla trascuratezza o dalla distonia legislative.

    Quello che ancora Palazzo ha ben individuato come il riposizionamento dell’asse portante del principio di legalità ha fatto il resto: le fondamenta di esso sono sempre più collocate nei criteri universali di conoscibilità del precetto penale e di prevedibilità delle conseguenze della sua violazione e sempre meno nell’esaltazione fideistica della fonte legislativa, che, per questo, perde di centralità ed importanza nella ricostruzione della nuova legalità.

    Ecco, dunque, che si compone la cornice entro la quale la crisi del modello di diritto penale classico conduce inesorabilmente ad adottare le forme più fluide e flessibili dell’ermeneutica dei diritti.

    Ma quali sono i confini attuali entro i quali si muove questo fiume in piena rappresentato dal diritto giurisprudenziale e quali gli effetti, i rischi?

    è possibile comporre le spinte disallineanti dell’interpretazione “diffusa”, tipica della giurisdizione di merito, utilizzando la propensione nomofilattica e razionalizzante del precedente giurisprudenziale, che è propria della Corte di cassazione?

    L’obiettivo di questo dialogo, magari il primo di una serie di confronti a più voci sul tema, è quello di provare ad individuare alcune risposte agli interrogativi di fondo che animano questa nuova epoca della legalità, che oramai si muove in una fase avanzata e dalla quale non si può più prescindere.

    Proviamo a farlo con due “esperti”, tra i primi a rendersi conto delle nuove potenzialità e, al tempo stesso, dei nuovi problemi che l’espansione della capacità di elaborazione del diritto vivente da parte della giurisprudenza determina: Vittorio Manes, ordinario di diritto penale all’Università di Bologna, che dei labirinti interpretativi creati dall’interazione delle molteplici fonti creatrici del moderno diritto penale è acuto osservatore (autore di una delle opere pionieristiche sul tema: V. Manes, Il giudice nel labirinto, ed. Dike, 2012), e Luca Pistorelli, magistrato, componente delle Sezioni Unite Penali e grande esperto di tecnica della massimazione (si richiama L. Pistorelli, Dalla massima al precedente, in AA.VV., Cassazione e legalità penale, a cura di A. Cadoppi, Roma, 2017).        

    Le risposte, come vedremo, si spingono ben oltre la ricognizione dello stato attuale di quella che, secondo alcuni, rappresenta una nuova ermeneutica, risorta in tutte le sue potenzialità da secoli di illuministica fiducia nel principio di riserva di legge in materia penale, e ne centrano anche i punti deboli e le prospettive meno esplorate.  

    3. Le risposte

    1. Diritto scritto e diritto giurisprudenziale: la questione del loro rapporto ricorre nella storia degli ordinamenti giuridici di ogni epoca e sembra oggi nuovamente riproporsi con più forza e più attuale. E’ possibile la “compatibilità” tra due prospettive che hanno dato vita a sistemi penali differenti eppure a volte paralleli e coesistenti?

    2. Fino a che punto il principio di legalità che ancora fonda il nostro diritto penale interno è in grado di reggere un formante giurisprudenziale sempre più forte, di fronte a quelli che la dottrina ha definito i “tradimenti legislativi” alla legalità? Si sta irrimediabilmente affermando un principio di “legalità debole” e, se è così, si tratta di un processo irreversibile in cui il giudice ha in mano le sorti dell’illecito penale?  

    V.M. Dietro la dicotomia che vorrebbe contrapposti “diritto scritto” e “diritto giurisprudenziale” ci sono sempre stati elementi di con-fusione, ed il confine è stato sempre mobile, e labile.

    La legge, per gli antichi, era mutus magistratus, e il giudice lex loquens, le cui sentenze erano viva vox iuris: e ciclicamente si è avvertita l’esigenza di accentuare il ruolo della lex scripta, o di sistematizzarla in complessi normativi ordinati ed ordinanti, anche per arginare il diritto pretorile o giurisprudenziale, o quello elaborato dagli iuris prduentes nei loro responsa o nelle glosse, che nel tempo – come ben si sa – ha visto riconoscere come vere e proprie fonti del diritto criminale “[…] una opinione di Carpzovio, un uso antico accennato da Claro, un tormento con iracondia suggerito da Farinaccio […]” (come rammentava la avvertenza al lettore di C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, Milano, 7° ed., 1999, 31).

    Proprio per reagire a questa “cosa funesta quanto diffusa al di d’oggi”, l’illuminismo giuridico ha avuto non solo il merito di proiettare il problema nella dimensione dello Stato di diritto, evidenziando la centralità di quel valore che oggi comunemente viene definito – con le parole del Preambolo della Convenzione europea dei diritti dell’uomo – rule of law o prééminence du droit; ma soprattutto di evidenziare – nella precipua angolatura penalistica – la cifra politica della questione, invocando la primazia della legge e, parallelamente, limiti precipui e stringenti all’interpretazione in materia penale, emblematizzati proprio nel § 4 dell’aureo libretto di Beccaria, Dei delitti e delle pene, dove l’ingenuità dell’agognato “sillogismo giudiziale” – e l’idea di giudice come Subsumptionsautomat – o l’enfasi posta sul divieto di interpretazione non possono offuscare la primordiale istanza di legittimazione che appunto sta alla base del principio di legalità.

    Se alcune tensioni sono dunque antiche e cicliche – e tanto note che non merita indugiare oltre – non vi è però dubbio che l’epoca contemporanea ha registrato una mutazione sostanziale nel rapporto tra legge e giudice, anche e soprattutto – lo diciamo con ovvia preoccupazione – in materia penale, dove è stato a più riprese evidenziato un “mutamento genetico del discorso penalistico” (M. Donini, Europeismo giudiziario e scienza penale, Milano, 2011, 49 ss.): in molti, troppi casi la legge non riesce più a stabilire alcun confine affidabile per il cittadino e per l’interprete, perché la norma è frutto di una stratificazione di fonti policentriche e reticolari, spesso generate – a loro volta - dal metabolismo giurisprudenziale delle Corti europee; e l’interpretazione del giudice – liberata da ogni vincolo - ha conseguentemente espropriato il monopolio politico della penalità prima affidato alla centralità della lex parlametaria, tanto che la stessa categoria del “diritto vivente” è, ormai da tempo, paradossalmente diventata – nel lessico della stessa giustizia costituzionale - il parametro di riferimento dei principi di tassatività e determinatezza (v., per tutti, A. Cadoppi, voce Giurisprudenza e diritto penale, in Dig. disc. pen., Agg., Torino, 2017).

    Ognuno vede che il rapporto di equilibrio si è dunque profondamente alterato, anche perché i criteri interpretativi – come generati in un inesauribile magic box - sono tanto variegati quanto privi di gerarchie che riescano ad ordinarli: nelle aule si invoca ora il criterio letterale (testualista, originalista, etc.), ora quello storico, o quello sistematico, o teleologico, ovvero, sempre più spesso, quello dell’interpretazione conforme (volta a volta orientata alla Costituzione, alla Convenzione EDU, al diritto UE..), etc., il tutto a seconda dei gusti e delle esigenze del caso concreto, e con la stessa pretesa di autorevolezza (per una critica argomentata, specie sul fronte dell’interpretazione conforme, v. di recente M. Luciani, voce Interpretazione conforme a costituzione, in Enc. dir., Ann. IX, Milano, 2016).

    E’ noto: il declino della tassatività e la dissoluzione della legalità nell’interpretazione – in uno con la proliferazione scomposta dei metodi interpretativi che contrassegna l’ermeneutica giuridica contemporanea anche ove si rifuggano derive decostruzionistiche – hanno messo in crisi il futuro del “tipo legale” come schema logico-concettuale chiuso (Begriff), sostituito la sua determinatezza con la prevedibilità del diritto giurisprudenziale e posto il problema della “calcolabilità giuridica” all’apice delle urgenze anche in materia penale (v., di recente, F. Consulich, Così è (se vi pare). Alla ricerca del volto dell'illecito penale, tra legge indeterminata e giurisprudenza imprevedibile, in Sistema penale, 10 aprile 2020; amplius, A. Massaro, Determinatezza della norma penale e calcolabilità giuridica, Napoli, 2020).

    Denunce recenti, con la voce sommamente autorevole di un Maestro venuto a mancare troppo presto, hanno evidenziato in maniera vibrante, specie nella prospettiva delle garanzie dei cittadini, lo “stato impossibile" del quadro attuale, dove ormai si punisce “senza legge, senza verità, senza colpa” (F. Sgubbi, Il diritto penale totale, Bologna, 2019); e riforme altrettanto recenti testimoniano, del resto, le difficoltà del legislatore nel ristabilire l’ordine infranto, inseguendo più il tentativo di imporre argini all’interpretazione dei giudici che il fine di fissare norme di condotta chiare per i loro destinatari privilegiati, i cittadini (basti pensare alla recente riforma dell’abuso d’ufficio, che – a prescindere dalle scelte tecniche adottate, non prive di notevoli ambiguità – dimostra il fallimento della riforma del 1997, mossa dall’evidente finalità di elevare la cifra di tassatività del reato).

    Si è riflettuto forse meno, peraltro, sulle conseguenze che questo crescente disequilibrio avrà – e forse sta già avendo, in sinergia con vari altri fattori e vicende contingenti – sulla giurisdizione, e – prima e più in alto – sulla stessa legittimazione della magistratura, specie giudicante, che si scopre sempre più libera dai vincoli di legge ma, al contempo, sempre più condizionata dalle aspettative dell’opinione pubblica e del circuito mediatico: mentre dovrebbe essere chiaro che legalità formale, tassatività e determinatezza, divieto di analogia, etc. sono non solo garanzie per l’individuo – che ha un preciso diritto alla conoscibilità del divieto cui corrisponde un dovere dello Stato di garantire l’irretroattività del mutamento giurisprudenziale sfavorevole - ma al contempo presidi protettivi per il giudice e per la sua decisione, che viene messa gravemente a repentaglio quando “ci si attende molto di più da una sentenza che non da una legge” (così, ancora, F. Sgubbi, Il diritto penale totale, cit., 28).

    Venendo alle domande, dunque, la compatibilità tra le due prospettive, in quella “singolarissima materia” che è il diritto penale, è possibile – a mio avviso - solo se si condividano una serie di regole di “deontologia ermeneutica”, ossia principi-guida che orientino e limitino l’interpretazione del giudice in materia penale: a partire da una “difesa del senso letterale” della disposizione incriminatrice, secondo quella che la Corte suprema americana definisce “narrow reading”; a seguire con l’adesione ad un approccio “antianalogico”, che nei casi dubbi conduca il giudice ad astenersi dal rischio di analogia in malam partem (in dubio pro analogia et abstine); ed operando la scelta tra le molteplici opzioni interpretative che la disposizione offre preferendo una lettura “tassativizzante e tipizzante” della norma penale, alla luce di direttrici imposte dai principi di offensività e proporzione, secondo una preziosa indicazione che la stessa Corte di Cassazione, in diverse importanti pronunce, ha offerto (volendo, sul punto, rinvio a quanto più diffusamente argomentato in Dalla fattispecie al precedente: appunti di “deontologia ermeneutica”, in Cass. pen., 2018, 2222 ss.).

    Solo con questo preciso, rigoroso impegno ermeneutico sarà possibile avviarsi a ripristinare l’equilibrio perduto della legalità formale e le geometrie fondanti lo Stato di diritto, un “parallelogramma di forze” in cui convergono sia il potere di emanare le leggi che il potere di interpretarle e applicarle ai casi concreti, vettori opposti la cui convergenza – e la cui immanente tensione – genera la stessa spinta che garantisce l’equilibrio del sistema: come nell’architettura di una volta – si è detto con una felice metafora (R. Bin) – le cui linee d’arco, per sorreggerne il peso, devono innervarsi su basi saldamente fissate,  e – soprattutto – ben distanziate tra loro.  

    L. P. La norma è inevitabilmente il risultato dell’interpretazione della disposizione astratta nella sua applicazione al caso concreto, posto che quello dell’applicazione meccanica della legge era e rimane una utopia illuministica.

    Di conseguenza l’attività interpretativa del giudice diviene coessenziale all’attuazione della legge scritta e ne costituisce irrinunciabile complemento in funzione della sua concretizzazione giuridica. In tal senso il giudice “forma” il diritto o, se si preferisce, diviene fonte del diritto del caso concreto, produce, cioè, il diritto applicato. Il che non significa negare la supremazia della legge, ma più semplicemente riconoscere – ricorrendo ad una stucchevole, ancorchè efficace, espressione invalsa nei tempi correnti – che il giudice è il necessario veicolo per la “messa a terra” del dettato legislativo, consentendo così alla realtà fenomenica di riflettersi nella regola astratta.

    Il rapporto tra la legge scritta e la sua applicazione al caso concreto è un equilibrio delicato, soprattutto in un ambito, come quello del diritto penale, governato dal principio di legalità. Equilibrio che i quesiti assumono oramai messo in crisi dalla erosione della centralità della prima in favore della sempre maggiore “invadenza” del formante giurisprudenziale nella definizione in via interpretativa del suo contenuto.

    L’assunto non può essere negato, anche se il presunto scivolamento dalla legalità della legge verso una legalità “effettuale” mi sembra che, a volte, venga eccessivamente enfatizzato, ben oltre le reali dimensioni del fenomeno, mentre il dibattito sul punto risulta spesso inquinato da pregiudizi ideologici che finiscono per confondere cause ed effetti.

    Sono dell’opinione che sia anzitutto doveroso confrontarsi in maniera obiettiva con la realtà della produzione legislativa allo stato attuale dell’evoluzione dei sistemi democratici e soprattutto di quelli caratterizzati dalla (formale o effettiva che si ritenga) centralità dell’istituzione parlamentare.

    Confronto che non può che evidenziare come tale produzione sia per sua natura il frutto di articolate mediazioni indotte non solo (o non tanto) dalla frammentazione dei corpi legislativi, quanto, piuttosto, in ragione della necessità di coniugare le diverse e spesso confliggenti istanze provenienti da quelli sociali, in grado di riflettersi anche all’interno delle singole componenti rappresentative. Mediazioni che, anche in materia penale, inevitabilmente si riflettono sull’effettiva autosufficienza del prodotto legislativo. A ciò deve aggiungersi come l’impressionante accelerazione dei cambiamenti sociali e dell’evoluzione tecnologica a cui abbiamo assistito negli ultimi decenni hanno determinato una crescente domanda di adeguamento e innovazione degli ordinamenti positivi, i cui tempi – per le ragioni già ricordate – risultano però difficilmente compatibili con l’urgenza di soddisfare le aspettative e che inevitabilmente comporta nella sede applicativa uno sforzo di adattamento della legge “scritta” alle mutate esigenze. 

    Accanto a quella che appare in misura crescente come una crisi “strutturale” delle democrazie rappresentative (che non è certo questa la sede per approfondire), destinata a ripercuotersi inevitabilmente sulla tenuta della legalità formale, non è poi in dubbio che nel “caso” italiano si assiste altresì da tempo ad un progressivo deterioramento della tecnica legislativa e ad una degenerazione della mediazione democratica nel mero compromesso, nonchè al sempre più frequente tentativo di trasferire “a valle” la responsabilità politica di scelte controverse ricorrendo alla formulazione ambigua o generica delle singole disposizioni.

    Ciò sempre più spesso si traduce nell’elaborazione di enunciati normativi caratterizzati da scelte terminologiche semanticamente poco impegnative sul piano definitorio e che irrimediabilmente si consegnano all’esperienza applicativa per acquisire certezza e stabilità di significato ovvero nella introduzione di incriminazioni finalizzate ad attrarre fattispecie tipologiche molto particolari, ma architettate in maniera assai sommaria e con scarsa ponderazione della loro attitudine espansiva.

    A tutto questo deve infine aggiungersi la crescente complessità del sistema delle fonti, che sempre più spesso vede concorrere nella determinazione del contenuto del diritto penale quelle internazionali o sovranazionali con quelle nazionali, facendo insorgere l’esigenza di conciliarle in sede applicativa.

    Limiti storici o strutturali e vizi patologici dell’esercizio della potestà legislativa sono dunque alla base di quella «dissoluzione della legalità nell’interpretazione» efficacemente fotografata da Vittorio Manes. Il principio di legalità costituisce, infatti, non solo il fondamento del monopolio del legislatore in materia penale, ma definisce altresì come questo potere debba essere esercitato. In questo senso il dogma illuministico dell’applicazione meccanica della legge può e deve essere recuperato nella tecnica legislativa, come tensione verso la formulazione di norme chiare e in grado di esprimere con certezza la volontà dell’artefice del diritto penale.

    Le mancanze del legislatore non possono costituire però l’alibi per una sorta di eversione dell’ordine costituzionale, consentendo al formante giurisprudenziale di ricostruire il contenuto della legge travalicandone i limiti esegetici.

    In definitiva, come è ben chiaro a tutti, perché la legalità della legge non sia percepita come una legalità “debole”, come suggerito dai quesiti, appare non più rinunciabile una maggiore definizione delle regole dell’interpretazione.

    Sul punto mi limito a due brevi considerazioni.

    Non posso, anzitutto, che concordare con Vittorio Manes sull’esigenza di formulare in proposito principi-guida fondati anzitutto sulla difesa del senso letterale della disposizione incriminatrice. Resta da intendersi sul come. Ed a mio avviso l’elaborazione giurisprudenziale e dottrinaria sul punto (non priva di contraddizioni ed incertezze) richiede a questo punto di essere recepita ed ordinata dallo stesso legislatore, posto che l’unico reale vincolo normativo costituito dalle preleggi appare oramai inadeguato, quantomeno nella materia penale, a fronteggiare le molteplici sollecitazioni che convergono sul giudice al momento dell’applicazione del dato normativo al caso concreto di cui si è detto.

    Una seconda annotazione riguarda invece la magistratura. Nel dibattito sulla “sopravvivenza” della legalità formale mi sembra che, con eccessiva disinvoltura, si tenda a non volersi confrontare con il principio della riserva di legge e, dunque, con il profilo della legittimazione democratica della fonte da cui promana il diritto penale.

    Per conciliarsi nella materia penale con il principio di legalità che la domina, l’atto interpretativo può sì esitare nella individuazione di contenuti normativi apparentemente “inediti” rispetto alla lettera della disposizione (anche e soprattutto nell’ottica dell’adeguamento costituzionale o convenzionale di quest’ultima), purchè l’operazione avvenga per l’appunto nel rigoroso rispetto dei limiti esegetici della stessa e si traduca dunque nel riconoscimento della reale capacità espansiva della fattispecie astratta tipizzata e non già nella produzione di quella che di fatto si rivelerebbe essere una nuova disposizione. Condizione questa funzionale non solo al rispetto della matrice di garanzia del principio, ma anche (e, forse, soprattutto) di quella politico-ideologica: non si tratta dunque solo di rendere compatibile la “creatività” interpretativa con il principio di tassatività e determinatezza, ma anche con il significato che nell’assetto costituzionale assume l’attribuzione del monopolio normativo al legislatore.

    Trascurare tale ultimo aspetto porta a non vedere a mio avviso i rischi ultimi dell’affermato scivolamento nella legalità “effettuale” e cioè, in prospettiva, l’insorgere dell’esigenza di modificare lo statuto costituzionale della magistratura, al fine di dotarla di quella legittimazione democratica in grado di giustificare una eventuale assunzione del formante giurisprudenziale nel sistema delle fonti e ciò in quanto l’interpretazione non è mai neutrale, contenendo in sé un insopprimibile margine di creatività e di soggettivismo, spesso condizionata dalle precomprensioni dell’interprete, tanto più “pericolose”, quanto non esplicitate od occultate dietro lo schermo dell’argomentazione tecnico-giuridica.

    E’ dunque indubitabile che un valido antidoto a questo scenario - per il sottoscritto distopico, ancorchè non inedito nella storia dell’offerta politica nostrana - può essere rappresentato proprio dall’assunzione da parte del legislatore della responsabilità di elaborare una più stringente codificazione di quella “deontologia ermeneutica” cui ha fatto cenno il Prof. Manes.  

    3. L’art. 618, comma 1-bis, del codice di procedura penale ha introdotto un “vulnus” al concetto classico di legalità che induce a ritenere legittimo un “sistema del precedente”, quanto meno di quello “più forte” di matrice delle Sezioni Unite, oppure si pongono le basi per una “riorganizzazione della nomofilachia” che metta nuovamente al centro del lavoro della Corte di cassazione la sua funzione di garantire uniformità interpretativa?  

    V.M. La funzione nomofilattica della Cassazione, aggravata da un abnorme sovraccarico di ricorsi, è in crisi da tempo, e da tempo non riesce a controbilanciare il disequilibrio che via via si è determinato: casi di conflitti sincronici che apparivano, un tempo, esempi paradossali ”di scuola”, si verificano con frequenza crescente tra le varie sezioni (come nel caso del regime intertemporale relativo alle norme dell’ordinamento penitenziario, poi esitato nella nota decisione della Corte costituzionale n. 32 del 2020, su cui tornerò) o all’interno della stessa sezione (come nei casi della distinzione tra concussione, induzione indebita e corruzione, in seno alla sezione VI, della configurabilità del falso societario nelle valutazioni estimative, all’interno della sezione V, o dell’interpretazione della riforma in materia di responsabilità medica, all’interno della sezione IV), finanche nella forma di contrasti inconsapevoli (come nel caso delle pronunce Tarabori e Cavazza, depositate a pochi mesi di distanza dai giudici della IV sezione, in tema di responsabilità medica), e molti di questi hanno come esito – non sempre terminativo - la rimessione alle Sezioni Unite. 

    In questo quadro, l’aver introdotto un obbligo di rimessione come quello previsto all’art. 618, comma 1 bis, c.p.p., rappresenta un primo, apprezzabile strumento volto a temperare i conflitti giurisprudenziali, tanto più nocivi se generati al vertice del sistema, e manifesta la tendenza dell’ordinamento ad una stabilizzazione del precedente funzionale, anche, a garantire maggior conoscibilità della legge da parte dei consociati e, dunque, maggior certezza del diritto (ma v. di recente, sul punto, G. Amarelli, Dalla legolatria alla post-legalità: eclissi o rinnovamento di un principio, in RIDPP, 3, 2018, 1406 ss.; M. Lanzi, Error iuris e sistema penale. Attualità e prospettive, 213 s.; ampiamente, ora, A. Nappi, La prevedibilità nel diritto penale, Napoli, 2020); ed in questa prospettiva si comprende anche lo sforzo di chi ha proposto di rafforzare ulteriormente questo vincolo evocando un onere di motivazione rafforzata ove la sezione semplice voglia “convincere” le Sezioni Unite a rivedere il proprio orientamento (sul punto, G. Fidelbo, Il precedente nel rapporto tra Sezioni unite e Sezioni semplici: l’esperienza della Cassazione penale, in Questione giustizia, 4, 2018).

    Ben prima, tuttavia, la stessa giurisprudenza della Cassazione aveva garantito un significativo e concreto riconoscimento di “valore” al precedente, sin dalle SS.UU., n. 18288/2010, Beschi (quando con riferimento al c.d. giudicato esecutivo ex art. 666, comma secondo, c.p.p., ha affermato il principio secondo cui “il mutamento di giurisprudenza intervenuto con decisione delle Sezioni unite, integrando un nuovo elemento di diritto, rende ammissibile la riproposizione, in sede esecutiva, della richiesta di applicazione dell’indulto in precedenza rigettata”); decisione a cui hanno fatto seguito varie pronunce di tenore analogo.

    Si era da tempo preso atto, dunque, della valenza paranormativa del “diritto vivente”: e proprio al fine di rafforzare il ruolo della Cassazione come Corte suprema o “del precedente” e di rivitalizzare la sua funzione nomofilattica la riforma Orlando ha introdotto un meccanismo volto ad assicurare maggior stabilità, quanto meno, alla decisione delle Sezioni Unite, in una prospettiva sempre più distante da una efficacia solo “persuasiva” e “vincolante”, al più, per il giudice del rinvio (artt. 627, comma 3, e 628, comma 2, c.p.p.; art. 173, comma 2, disp. att.).

    Tuttavia, il sistema resta ancora sideralmente lontano da un accettabile livello di nomofilachia, e da un’apprezzabile stabilizzazione dei precedenti. La stessa funzione nomofilattica, del resto, nell’attuale contesto di complessità non può essere affidata alla sola Cassazione, e men che meno alle sole Sezioni Unite, il ricorso alle quali, se troppo frequente, rischia peraltro di corroderne l’autorevolezza, con una sorta di volgarizzazione – o di “macdonaldizzazione” – delle relative pronunce.

    Da questo punto di vista, un ausilio potrebbe e dovrebbe venire – in una sorta di “nomofilachia condivisa” - dalla Corte costituzionale, inducendola a riscoprire il tradizionale strumento delle “sentenze interpretative” che per molto tempo sono state limitate a sporadici casi di interpretazioni “innovative” o particolarmente “ardite” e “creative”, e che a partire dalla sentenza n. 356 del 1996 sono state largamente sostituite – come si sa - da decisioni di inammissibilità.

    La recente giurisprudenza costituzionale che ha esteso il principio di irretroattività a talune norme dell’ordinamento penitenziario offre un buon esempio di introduzione e stabilizzazione di “nuovo diritto” per il tramite di pronunce interpretative: di fronte ad un “diritto vivente” conflittuale, la Corte costituzionale ha prima “sfoderato” la sentenza interpretativa di accoglimento, con la storica pronuncia n. 32 del 2020; successivamente, visto che l’interpretazione accolta deve considerarsi diritto vivente, di fronte ad analoga questione prospettatale ha potuto limitarsi ad una sentenza interpretativa di rigetto, invitando il giudice rimettente a prenderne atto.

    Un principio rivoluzionario che faticava ad imporsi nella ermeneutica della giurisprudenza di legittimità è stato così veicolato e stabilizzato per via interpretativa dalla Corte costituzionale, evidenziando che “nessun ostacolo si oppone più a che il giudice a quo adotti, rispetto a tali reati, l’unica interpretazione della disposizione censurata compatibile con il principio di legalità della pena di cui all’art. 25, secondo comma, Cost., così come declinato da questa Corte nella sentenza n. 32 del 2020 […]” (sentenza n. 193 del 2020).  

    L.P. Il comma 1-bis è stato introdotto nell’art. 618 c.p.p. dalla riforma del 2017 al dichiarato fine di rafforzare la funzione nomofilattica del giudice di legittimità garantendo maggiore stabilità e certezza ai pronunziamenti adottati dalla sua massima espressione e cioè le Sezioni Unite.

    Non si tratta di una novità assoluta, invero, atteso che una disposizione analoga già compariva nel testo del progetto definitivo del codice di procedura penale, ma venne poi accantonata in ragione delle obiezioni sollevate in sede parlamentare e che hanno portato nel corso degli anni a respingere anche ulteriori proposte di riforma dell'art. 618 c.p.p. nel senso indicato.

    In estrema sintesi, i timori manifestati anche dalla dottrina contraria alla disciplina di cui si tratta sono legati al paventato rischio di una deriva verso la vincolatività del precedente e la progressiva atrofizzazione della spinta innovativa della produzione giurisprudenziale.

    Si tratta, però, di timori cha affondano le radici in una visione astratta dei processi attraverso cui si affermano gli orientamenti giurisprudenziali nella sede di legittimità e che, in ultima analisi, finiscono per mettere in dubbio la stessa legittimazione della funzione nomofilattica della Corte di Cassazione.

    La realtà con la quale il legislatore ha invece ritenuto di fare in conti è però quella in cui l’organo che dovrebbe esprimere l’indirizzo nomofilattico non è (più) in grado di produrre orientamenti uniformi e stabili, gravata com’è dall’eccessivo numero dei ricorsi e dalla conseguente esigenza nel tempo di accrescere a dismisura il suo organico per farvi fronte. Ben più concreto è dunque il rischio (già divenuto per l’appunto opprimente realtà) di una crescente imprevedibilità delle decisioni di merito, sempre più in grado di trovare una base giustificativa all'interno dei numerosi contrasti interpretativi che caratterizzano la produzione della Suprema Corte. Imprevedibilità la cui inevitabile conseguenza è l’aumento del contenzioso, il quale a sua volta innesca un meccanismo perverso che genera ancora maggiore imprevedibilità ed instabilità.

    La soluzione adottata dal legislatore appare come un ragionevole bilanciamento tra  garanzia dell'evoluzione del pensiero giuridico in funzione dei cambiamenti sempre più rapidi della società e garanzia della certezza dell'interpretazione che di tali cambiamenti fornisce la Cassazione. Esigenze che invero non si contrappongono, risultando invece avvinte in un rapporto di reciproca implicazione. In tal senso, l'aver assegnato alle decisioni del supremo organo di nomofilachia una valenza più concreta, non significa aver reso sterile la Corte, atteso che l'estemporaneo scostamento da tali decisioni è spesso solo un “finto” sintomo della vitalità dell'elaborazione giurisprudenziale, mentre la spinta ad una rivisitazione dei principi affermati in passato altrettanto proficuamente può esprimersi attraverso l'autorevolezza delle argomentazioni dispiegate nell'ordinanza di remissione. Ed infatti la nuova disposizione non configura una sorta di “dittatura” delle Sezioni Unite, ma struttura il rapporto dialettico tra le stesse e le sezioni semplici, chiamate a rilevare le eventuali criticità dell'interpretazione consolidata.

    Del resto la disposizione è stata mutuata da quella introdotta dal d. lgs. n. 40/2006 nell’art. 373 comma 3 c.p.c. per il giudizio civile di cassazione e la cui oramai più che decennale applicazione non ha visto concretizzarsi i rischi paventati.

    Nel rispondere alla domanda, dunque, tenderei a non intravedere nella modifica dell’art. 618 c.p.p. l’attuazione di un surrettizio disegno finalizzato all’instaurazione di un “sistema del precedente”, ma più semplicemente un valido strumento di razionalizzazione della funzione assegnata dall’ordinamento alla Cassazione.  

    4. Vincolo del precedente, nuova ermeneutica e massimazione sembrano oramai costituire una galassia in via di espansione.

    Quando è possibile, ed a quali condizioni, che un’affermazione giurisprudenziale si trasformi in “precedente” anche attraverso la massimazione? E il cd. diritto dottrinale può avere un ruolo in questa trasformazione?     

    V.M. Senza dubbio la stabilizzazione dei precedenti passa anche da una razionalizzazione del sistema di massimazione: del resto, non bisogna dimenticare che se “la forza e l’efficacia di un precedente è inversamente proporzionale alla quantità e al numero dei precedenti” (G. Canzio, Nomofilachia e diritto giurisprudenziale, in Dir. pen. cont., 6 febbraio 2017, 1), l’efficacia della massima è direttamente proporzionale alla sua precisione puntiforme, ed alla selettività con cui si scelgono le massime da “ufficializzare”.

    Qualche anno fa si registravano, negli archivi di ItalgiureWeb, oltre 150.000 massime nella sola materia penale (E. Lupo, Cassazione e legalità penale. Relazione introduttiva, in AA.VV., Cassazione e legalità penale, a cura di A. Cadoppi, Roma, 2017, 27 ss., 33 ss.): un profluvio al cospetto del quale la funzione di orientamento della massima risulta sostanzialmente annichilita, ed ogni sforzo di cernita del giudice di merito in sede di motivazione si riduce, sostanzialmente, ad un esperimento di cherry picking (dove si finisce con lo scegliere la ciliegina più gradita, non necessariamente rappresentativa di quelle contenute nel cestino).

    In questa prospettiva, peraltro, si affaccia anche la necessità di definire l’autorità cui compete l’enunciazione della ratio decidendi “vincolante” per la giurisdizione, se debba trattarsi dello stesso organo decidente o, piuttosto, del secondo giudice chiamato a confrontarsi con fatti analoghi secondo l’insegnamento dell’esperienza del precedent di common law.

    Alla dottrina, d’altro canto, spetta un compito fondamentale di sussidio all’evoluzione del diritto giurisprudenziale, declinabile in almeno tre attività (M. Donini, Fattispecie o case law? La “prevedibilità del diritto” e i limiti alla dissoluzione della legge penale nella giurisprudenza, in Quest. giust., 2018): a) la conoscenza della legge e la stessa ricerca del diritto applicabile (Rechtsfindung, Rechtsauslegung); b) l’applicazione del diritto ai casi (Rechtsanwendung); c) la ricostruzione del diritto dopo l’applicazione ai casi (Rechtsfortbildung).

    In questo senso, è la dottrina che, a monte, può preparare il campo ad un mutamento giurisprudenziale, mettendone in luce le ragioni; a valle, evidenziare o criticare la autorevolezza del “precedente”; censire le “classi di casi” a cui quel precedente dovrebbe estendersi, o, all’opposto, evidenziare le ragioni del distinguishing; da diversa prospettiva, e soprattutto, mettere in guardia da criptoanalogie e sollecitare la doverosa attivazione delle garanzie di irretroattività che devono contrassegnare un overruling con effetti in malam partem.  

    L.P. L’archivio informatico delle massime di ItalgiureWeb costituisce  da diverso tempo la principale – e in larga misura l’esclusiva – banca dati da cui i magistrati italiani attingono la loro informazione sugli orientamenti della Suprema Corte e le conseguenti indicazioni nomofilattiche, costituendo la fondamentale – e, come detto, spesso l’unica – fonte di conoscenza del diritto giurisprudenziale.

    In ogni caso costituisce l’unico strumento istituzionale di divulgazione dell’elaborazione giurisprudenziale attraverso la tecnica della “massimazione” delle decisioni della Corte e come tale è diffusa la sua consultazione anche da parte degli altri operatori del diritto.

    La conoscibilità del diritto vivente – e quindi della norma nella sua interpretazione concreta - non può ritenersi garantita soltanto dalla formale accessibilità delle sentenze, ma presuppone l’effettiva possibilità di ricostruire gli orientamenti giurisprudenziali e la loro eventuale stabilità nel tempo.

    Già in altre occasioni ho avuto modo di denunziare come tale possibilità diventi nel tempo sempre meno effettiva.

    Per un verso l’archivio delle massime si è sviluppato nel tempo sostanzialmente per accumulazione, limite appena attenuato dalla segnalazione delle connessioni tra le singole decisioni attraverso l’indicazione di quelle conformi o difformi ed il richiamo a quelle per altri motivi considerate di interesse per la contestualizzazione del principio massimato. L’ipertrofica produzione della Corte di legittimità, seppur filtrata dalla selezione compiuta dall’Ufficio del Massimario, ha dunque generato un accumulo di decine di migliaia di massime che, come già sottolineato da Vittorio Manes, rendono spesso solo teorica la possibilità di identificare la reale portata di una pronunzia ed il suo valore di “precedente”.

    Per altro verso deve ricordarsi come le scelte e le tecniche di massimazione sono il frutto di una elaborazione pluridecennale compiuta esclusivamente all’interno della Corte. Potrebbe credersi che ciò vada imputato ad una scarsa attitudine da parte dell’istituzione suprema di giustizia al confronto, ma in realtà la sua autoreferenzialità è la inevitabile conseguenza del completo disinteresse da parte delle altre componenti del mondo giuridico per il tema (fatte salve meritorie eccezioni), dell’assenza, cioè, di un effettivo dibattito sulla reale funzione della massima, sul metodo di individuazione del principio di diritto che la stessa intende evidenziare, sui criteri di selezione delle decisioni da sottoporre a massimazione, sulla stessa determinazione dei criteri per l’assunzione di una decisione a “precedente”.

    E’ dunque auspicabile una profonda revisione dell’attività di massimazione e di ristrutturazione dell’archivio informatico, anche attraverso il forse utopico, ma a mio avviso imprescindibile, coinvolgimento dell’Accademia e dell’Avvocatura.  

    5. Logica della fattispecie concreta e logica del principio di diritto generato dalla scelta di campo per una ermeneutica tassativizzante e tipizzante possono apparire come approcci opposti dell’attività di creazione del precedente e del processo di massimazione, ma sono realmente inconciliabili?  

    V.M. Non vedo, francamente, questa inconciliabilità: identificazione della regula iuris corretta e applicazione della regola al caso concreto sono due aspetti distinti, ma coessenziali, del fenomeno giuridico: coessenziali anche se non si giunga a condividere una opinione peraltro diffusa nell’ermeneutica contemporanea, per la quale nessuna regola potrebbe essere interpretata prima, e al di fuori, della sua applicazione ai casi (v. ad es. O. Di Giovine, L’interpretazione nel diritto penale tra creatività e vincolo della legge, Milano, 2006, 18 ss.; ma anche M. Vogliotti, Dove passa il confine? Sul divieto di analogia in materia penale, Torino, 2011, 53 ss.; Id., Lo scandalo dell’ermeneutica per la penalistica moderna, in Quaderni fiorentini, 2015, tomo I, 131 ss., 162 ss.; sul punto, in chiave critica, v. ancora M. Donini, Fattispecie o case law?, cit., 10 ss.).

    Sono questi due momenti, dunque, che danno come risultato la norma del caso concreto, o meglio il “caso-norma” (Fallnorm), che è norma in quanto esprime la riconducibilità o la sussumibilità di quella condotta nel perimetro della disposizione interpretata, secondo criteri di ripetibilità, e che se è innovativo rispetto al passato – e percepito come un avanzamento originale rispetto allo stesso, e non solo come esempio applicativo generato dalla infinita casistica quotidiana - diventa appunto qualcosa di simile al “precedente”, “una volta che sia riconosciuto come tale non solo da chi lo ha giudicato ma, evidentemente, dalla…successiva giurisprudenza che, case by case, opera giudizi analogici particolareggiati tra i casi” (cfr., ancora, M. Donini, Fattispecie o case law?, cit., 12, anche per la non sovrapponibilità tra “caso-norma” e “precedent” di common law).

    Dunque la giurisprudenza, al di là dei casi di ordinaria esemplificazione applicativa della norma agli infiniti casi della quotidianità, talvolta genera – anche con la guida della dottrina – una “sotto-fattispecie” che per la sua innovatività è riconosciuto come vero e proprio precedente: come nel caso recente – condivisibile o meno che esso sia – dell’applicazione dei reati di turbativa al di fuori dal perimetro economico-commerciale delle gare d’appalto estendendole alle valutazioni comparative riferibili ai concorsi pubblici.

    La natura di precedente – è stato ancora evidenziato - “dipende dalla percezione o meno di uno strappo innovativo rispetto al passato […]; [e] il loro successivo “riconoscimento”, dipende dall’onestà intellettuale di ammettere quello strappo o il coinvolgimento della sfera di aspettative e dei diritti di terzi rispetto all’imprevedibilità del mutamento” (ancora M. Donini, op. ult. cit., 14).

    Qui, dunque, si gioca la delicata questione delle garanzie intertemporali interpellate dall’evoluzione del diritto giurisprudenziale: il quale - se davvero maturo e consapevole del ruolo ormai assunto - dovrebbe appunto improntarsi non solo (e non tanto) a quel self-restraint che gli impone di rispettare il perimetro di una interpretazione “tassativizzante e tipizzante”, ma anche, ed appunto, a quella onestà intellettuale che lo conduca a riconoscere le proprie spinte innovative imprevedibili, quanto meno in materia penale, incanalandole entro i corretti binari costituzionali.  

    L.P. Se il formante giurisprudenziale concorre all’identificazione del diritto applicato mi sembra perfino superfluo riconoscere l’intimo legame tra fattispecie concreta e principio di diritto. Nella formazione del “precedente”, però, ciò che assume rilievo non è la fattispecie concreta considerata in tutte le sue articolazioni, ma quella tipologica cui è riconducibile, giacchè solo in tal modo è possibile individuare una base omogenea funzionale al confronto dei principi affermato nelle diverse pronunzie ed all’apprezzamento del carattere eventualmente innovativo di quella più recente. Fermo restando che secondo i tradizionali criteri assunti dal giudice di legittimità una decisione innovativa diviene precedente solo qualora altra successiva la riconosca come tale aderendovi.  

    4. Le conclusioni

    Le sirene del diritto giurisprudenziale “creativo” sono senz’altro affascinanti, ma il principio di legalità tuttora appare come un baluardo di garanzia del nostro sistema penale che ne assicura anche la sua tenuta democratica.

    è questa la prospettiva che emerge dal confronto delle risposte di Vittorio Manes e Luca Pistorelli alle domande volutamente formulate con tono accentuatamente dialettico.

    è, quindi, sì innegabile la forza propulsiva del formante giurisprudenziale nei moderni sistemi di diritto penale: e come potrebbe essere negata?.. essendo peraltro simbolo di modernità di approccio, dal momento che le improvvise fughe in avanti nella ricerca di tutela dei diritti imposte dal tessuto sociale sopraffanno spesso il legislatore.

    E tuttavia, come ammonisce Manes, è necessario che tale forza sia orientata secondo un’auspicata serie di regole di “deontologia ermeneutica” condivise, che svolgano il ruolo di linee guida interpretative, oltre che tracciare confini di operatività delle scelte del giudice (sul tema, appunto, V. Manes, Dalla fattispecie al precedente: appunti di “deontologia ermeneutica”, in Cass. Pen., 2018, 2222 e s., nonché in Dir. Pen. Cont., 17 gennaio 2018), la cui attività dovrebbe sempre rimanere sostanzialmente, e non solo formalmente, distinguibile da quella del legislatore per rispettare gli equilibri del sistema ordinamentale democratico fondato sul principio di legalità penale classica (per una prospettiva generale e valoriale dell’attività di interpretazione nella materia penale, si rimanda a O. Di Giovine, «Salti mentali» (analogia e interpretazione nel diritto penale), in Questione Giustizia, n. 4/2018).

    Una lettura meno enfatica delle magnifiche sorti progressive della legalità “effettuale” è quella proposta anche da Luca Pistorelli, che richiama ad un realismo d’analisi dell’entità del fenomeno, scevro da approcci eccessivamente ideologizzati.

    Dividersi in due partiti contrapposti – quello dei fautori del potere salvifico della nuova ermeneutica e del formante giurisprudenziale, rispetto alle mancanze del legislatore, e quello di coloro i quali si richiamano al principio di legalità penale formale quale unico presidio valido di un diritto penale democratico e capace di preservare garanzie ed approntare tutele – è operazione artificiosa oltre che pericolosa.   

    L’esegetica, invece, deve sprigionare tutte le sue potenzialità migliorative della voce legislativa attraverso una maggiore definizione delle regole dell’interpretazione.

    Pistorelli auspica che sia lo stesso legislatore a provvedere all’elaborazione di strumenti ermeneutici maggiormente dotati di efficacia ordinatrice dell’attività interpretativa giurisprudenziale, oggi affidata al criterio troppo generale dell’art. 12 delle Preleggi.

    E tuttavia, sia consentito per certi aspetti dubitare di una tale capacità legislativa nel breve periodo, a meno di non immaginare una task force di intelletti delegati all’opera, che, unendo le forze migliori di dottrina, giurisprudenza ed avvocatura, sopperisca alla mancanza diffusa di qualsiasi consapevolezza dell’importanza della questione da parte di chi detiene il potere di incidere sulla legalità formale.  

    Non è in dubbio, d’altra parte, che un simile sforzo di riorganizzazione di alcune pre-regole interpretative dotate di carattere sistematico debba essere tentato, dovendo essere valutate con estrema prudenza prospettive che paiono troppo inclini a guardare con favore un formante giurisprudenziale slegato dalla legalità formale ed a sfuggire al confronto inevitabile con il principio della riserva di legge; principio che costituisce, in filigrana, la trama di quelli di autonomia ed indipendenza della magistratura così come concepiti dal nostro dettato costituzionale: caduta la forza di garanzia democratica della riserva di legge in materia penale, si rischia di aprire le porte anche all’esigenza di modificare lo statuto primario della magistratura, al fine di dotarla di quella legittimazione .. in grado di giustificare una eventuale assunzione del formante giurisprudenziale nel sistema delle fonti, come avverte acutamente Pistorelli.

    E forse un primo tentativo di rispondere a questa esigenza di stabilizzazione e sistematizzazione del formante giurisprudenziale può ritrovarsi nella disposizione introdotta con la legge n. 103 del 2017 all’interno del dettato dell’art. 618 del codice di procedura penale.

    Il nuovo comma 1-bis, pur non costruendo certo una regola di precedente vincolante “puro” nel sistema processuale penale, riscontra un’esigenza di ordine nomofilattico, che opera sia sul piano, interno alla Cassazione, della moral suasion e della motivazione – ogni Sezione penale che intenda discostarsi dall’autorevole affermazione delle Sezioni Unite dovrà d’ora in poi, anzitutto, farsi carico più profondamente, ed obbligatoriamente, del confronto con le ragioni di essa e, quindi, sentirsi portatrice di un’adeguata e convincente carica argomentativa e giustificativa della possibile scelta dissonante – sia su un orizzonte di orientamento esterno, inducendo gli interpreti e i destinatari del precetto penale a confrontarsi con un’ermeneusi maggiormente affidabile e dotata di più ampi margini di prevedibilità (per un approfondimento, si richiama ancora, per tutti, il contributo di G. Fidelbo, Verso il sistema del precedente? Sezioni Unite e principio di diritto, in Dir. Pen. Cont., 29 gennaio 2018; nonché A. Caputo - G. Fidelbo, Appunti per una discussione su ruolo della Corte di cassazione e “nuova” legalità, in Sistemapenale, n. 3/2020).

    Ed è proprio sul fronte della prevedibilità che si gioca la partita della tenuta convenzionale del formante giurisprudenziale, secondo gli orientamenti della giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, legati a logiche di prospective overruling che stanno emergendo in tutta la loro problematica rilevanza anche nel nostro sistema penale (si vedano in proposito le illuminanti pagine di M. Donini, Il caso Contrada e la Corte Edu. La responsabilità dello Stato per la carenza di tassatività/tipicità di una legge penale retroattiva a formazione giudiziaria, in Rivista italiana di diritto e processo penale, 2016, p.346 e ss.; nonché, dello stesso Autore, Il diritto giurisprudenziale penale. Collisioni vere e apparenti con la legalità e sanzioni dell’illecito interpretativo, in AA.VV., Cassazione e legalità penale, a cura di A. Cadoppi, Roma, 2017, 77 e ss).

    Una regola del precedente soft ed a vincolatività relativa quale quella che viene fuori dall’art. 618, comma 1-bis (per tale definizione e approfondimenti, si richiama G. Fidelbo, Verso il sistema del precedente?, op. cit.) può aiutare a riorganizzare la funzione nomofilattica, sotto stress per l’eccessivo carico di decisioni richieste alla Corte di cassazione.

    E tale affermazione non è in discussione, per quanto sulla portata della nuova disposizione Manes e Pistorelli si dividono: a parere del primo, essa non consente di raggiungere l’obiettivo di un’apprezzabile stabilizzazione dei precedenti e rischia di inflazionare le pronunce delle Sezioni Unite, sicchè si invocano nuovi orizzonti nomofilattici che vedano coprotagonista la Corte costituzionale attraverso lo strumento delle “sentenze interpretative”; a giudizio del secondo, la norma, tutto sommato, merita una valutazione più benevola, quale strumento di razionalizzazione della funzione nomofilattica basato su un ragionevole bilanciamento tra  garanzia dell'evoluzione del pensiero giuridico, capace di seguire i cambiamenti sempre più rapidi della società, e garanzia della certezza dell'interpretazione che di tali cambiamenti fornisce la Cassazione.

    Sembra, in ogni caso, molto positiva l’efficacia dialogica della nuova procedura prevista per l’eventualità che una Sezione semplice intenda discostarsi da un orientamento già oggetto di scelte interpretative delle Sezioni Unite: si potrà instaurare un rapporto dialettico più proficuo, maturo e consapevole tra le sezioni semplici e il massimo collegio nomofilattico, tale da consentire l’emersione di eventuali criticità dell’orientamento “vincolante” e, d’altra parte, da evitare più possibile un confronto solo parziale o non adeguatamente meditato con il precedente più “autorevole” o, peggio ancora, fughe distoniche azzardate.

    Tale ultimo effetto potrebbe consentire - certo non in tempi brevi, ma nel medio periodo - di arginare il moltiplicarsi eccessivo degli orientamenti in contrasto all’interno della giurisdizione di legittimità, che, oltre ad aumentare l’imprevedibilità delle decisione, agendo sulla percezione di instabilità del precedente dei giudici di merito, diventa esso stesso causa di ulteriori, collegati contrasti.

    Un ruolo fondamentale nella ricostruzione del precedente, sia pur solo relativamente vincolante, e nella riorganizzazione della funzione nomofilattica di cui è interprete il giudice di legittimità deve essere riconosciuto, oggi più che mai, all’attività di massimazione e, dunque, all’Ufficio del Massimario della Corte di cassazione.

    L’archivio delle massime gestito dal CED della Corte di cassazione (Italgiure Web) dovrebbe essere diretto a supportare l’attività nomofilattica della Suprema Corte e ad offrire un quadro prospettico dell’evoluzione del pensiero giurisprudenziale, fissandone i percorsi interpretativi più attuali e consentendo di orientarsi circa il “diritto vivente”.

    Manes e Pistorelli hanno entrambi invocato fortemente una razionalizzazione dell’attività di massimazione, per sostenere i nuovi orizzonti dell’ermeneutica moderna e le sue nuove sfide: la mole sempre più ingente di massime contenute nella banca dati Italgiure Web è certamente un problema nella ricerca di precedenti stabili ed autorevoli che svolgano in pieno la loro funzione di “orientamento”.

    Il lavoro incessante di selezione ed elaborazione delle massime da parte dell’Ufficio del Massimario non riesce a governare l’implementazione pletorica della banca dati, dovuta all’eccessiva produzione della Corte di legittimità, effetto, a sua volta, del carico di ricorsi a dir poco anomalo cui essa deve soggiacere.

    Tuttavia, è necessario chiedersi se tali prospettive siano unanimemente condivise e quali siano oggi gli obiettivi della massimazione: in che misura essa debba, da un lato, rispondere alle aspettative nomofilattiche e, dall’altro, costituire lo specchio attuale dell’evoluzione giurisprudenziale, seguendola “in tempo reale”.

    Secondo ragioni in parte antitetiche a quelle appena proposte, infatti, la massima penale dovrebbe quanto più tendere a evidenziare il caso concreto di riferimento, per la forza creatrice del nesso interpretare-applicare: il significato di un testo normativo si comprende autenticamente e “si costituisce” solo in relazione al contesto applicativo, non vi è distinzione netta tra quaestio facti e quaestio iuris; nè separazione tra interpretazione in astratto e interpretazione in concreto: ogni nuovo “caso” aggiunge qualcosa alla comprensione della norma (per una ricostruzione del tema, si richiama M. Vogliotti, Lo scandalo dell’ermeneutica per la penalistica moderna, in Quaderni fiorentini, 2015, tomo I).

    Dunque, ben vengano, in tale ottica, anche banche dati capillari e poderose: la banca dati non rischia nulla, infatti, dall’eccessiva implementazione, che anzi è funzionale all’obiettivo ultimo di “costruire il diritto”, seguendo i casi concreti che descrivono l’essenza della norma penale, strutturalmente “aperta” ai mutamenti sociali.

    Ed invece, una visione di maggior razionalizzazione, più funzionale alle aspettative nomofilattiche, postula, probabilmente, un contenimento della massimazione per fattispecie, da limitarsi alle ipotesi realmente peculiari, utili da segnalare per frequenza e paradigmaticità: la massima penale deve fornire la percezione del diritto vivente e contenere un nucleo di astrazione necessaria del principio di diritto.

    In tale prospettiva, la costruzione di un archivio troppo “sensibile” alle fattispecie concrete ostacola la ricostruzione dei principi di diritto astratti, leggibili come linea di tendenza interpretativa dall’insieme delle applicazioni normative svolte nelle decisioni giurisprudenziali.

    Si tratta, come è evidente, di prospettive complesse e parzialmente antagoniste, delle quali solo negli ultimi anni si è compresa la reale importanza, individuando la posta in gioco: la tenuta stessa del principio di legalità nella sua dimensione “effettuale”, dinamica; dimensione essenziale a garantire la tutela dei diritti nell’esercizio della giurisdizione penale dei moderni sistemi democratici.

    è giunto il tempo, però, di una crescita, di un’evoluzione culturale sulla questione del valore del precedente che travalichi i confini segnati dalla magistratura e dalla dottrina più attenta e colta, uscendo allo scoperto, impadronendosi del dibattito giuridico con nuova centralità: in questo ben si comprende il richiamo ad un moderno pluralismo nell’attività di elaborazione che ruota intorno alla formazione della massima giurisprudenziale.

    Una consapevolezza deve guidarci: il diritto giurisprudenziale non può non rispondere all’esigenza di darsi regole interpretative quanto più possibile condivise e intellegibili, per scongiurare rischi di autoreferenzialità ed imprevedibilità che potrebbero minarne la legittimazione sociale ma soprattutto per collegare chiaramente e sempre di più i suoi obiettivi all’attuazione delle linee costituzionali.

    * L'intervista prosegue il tema già trattato dalle rivista in Il giudice disobbediente nel terzo millennio e in Giudice o giudici nell’Italia post-moderna?

     

     

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