GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    La parola dei magistrati tra libertà di espressione, obblighi di segreto e dovere di riserbo (prima parte)*

    La parola dei magistrati tra libertà di espressione, obblighi di segreto e dovere di riserbo (prima parte)*

    La parola dei magistrati tra libertà di espressione, obblighi di segreto e dovere di riserbo (prima parte)* 

    di Mario Fresa

    Sommario: 1. Giustizia e informazione: un necessario bilanciamento tra valori costituzionali - 2. La responsabilità disciplinare ed il riserbo - 3. I limiti alle pubbliche dichiarazioni o interviste. 

    1. Giustizia e informazione: un necessario bilanciamento tra valori costituzionali

    Ogni possibile disciplina dei rapporti tra informazione e processo deve passare attraverso il bilanciamento di valori costituzionali fondamentali: la tutela della sfera privata dell’individuo e la libertà di espressione, il segreto investigativo ed il categorico rifiuto di una amministrazione occulta della giustizia. Valori tutti al servizio dei cittadini e della collettività in un qualsiasi Paese democratico.[1]

    La dimensione mediatica straripante di alcuni processi, penali e civili, è capace di distruggere non solo il diritto alla riservatezza, ma a volte anche la vita di chi subisce la spettacolarizzazione della propria vicenda processuale.[2]

    Se è vero che il popolo, in nome del quale viene amministrata la giustizia, ha diritto di sapere come essa viene conseguita e come i magistrati, soggetti soltanto alla legge, esercitino il loro potere giurisdizionale, è anche vero che è necessario rafforzare gli anticorpi del sistema, capaci di evitare - o comunque limitare - i rischi della cosiddetta spettacolarizzazione della giustizia, e cioè che la narrazione mediatica degli avvenimenti giudiziari, rimandi all’opinione pubblica una immagine distorta ed alterata della giustizia.[3]

    Una immagine distorta della giustizia non solo non è utile al processo di democratizzazione del Paese, costituzionalmente previsto, ma normativamente e culturalmente non ancora attuato, ma è dannosa proprio in relazione all’esigenza di assicurare la trasparenza nelle scelte di chiunque eserciti un potere dello Stato, legislativo, esecutivo o giurisdizionale che sia.

    Trasparenza che è alla base di qualsiasi ordinamento democratico, dato che è in forza di essa che il popolo può, con cognizione di causa e non per improvvidi slogan, determinare le sue scelte elettorali in tema di opzioni di politica legislativa e, quindi, anche in tema di possibili riforme giudiziarie.

    La mancata informazione sulle dinamiche processuali, o la errata informazione sulle stesse, determinano entrambe il rischio di una giustizia occulta, non giudicabile dal popolo in nome del quale essa è amministrata e, in ultima analisi, foriera di sfiducia e delegittimazione verso la giurisdizione che, tra i vari poteri dello Stato, è un potere di garanzia nell’assetto costituzionale del Paese.

    C’è il rischio così che si passi da una giustizia “popolare” ad una giustizia “populista”, contravvenendosi ai principi fondanti della Carta costituzionale,[4] ad una giustizia come “fabbrica del consenso”.[5]

    La distorta immagine della giustizia, certo, è in parte la conseguenza del fatto che le regole processuali e le tecniche di informazione hanno differenti modalità di estrinsecazione: il processo ha i suoi tempi e le sue regole di acquisizione delle prove, che passano attraverso le garanzie fondamentali delle persone coinvolte, attraverso le continue attività di riscontro dei fatti, che non possono dirsi mai certi, fino al giudicato, spesso a distanza di molti anni dalla loro consumazione; l’informazione necessita invece di tempi brevi, direi immediati, e non è sottoposta a regole di valutazione probatoria dei fatti, potendo attingere liberamente da ogni fonte.

    Ma la distorta immagine della giustizia è anche fonte di patologie nei rapporti tra i protagonisti della giustizia e dell’informazione che, con espressione sintetica, ma efficace, possono essere ricondotte alla logica dello scambio, nella quale gli intrecci possibili sono praticamente infiniti.[6] Non può sottacersi il fatto che le scelte improntate alla diffusione mediatica di fatti giudiziari possano essere causate, nella migliore delle ipotesi, per un verso, dal protagonismo dei magistrati e, per altro verso, dal sensazionalismo dei giornalisti; quando non anche da interessi personali o da condizionamenti politici degli uni o degli altri protagonisti.

    Non è un caso che queste patologie rilevano soprattutto nella fase procedimentale penale, caratterizzata dalla segretezza delle indagini. E’ in questa fase che la divaricazione tra le diverse modalità di estrinsecazione di giustizia e informazione appare maggiormente rilevante, giacché le esigenze di segretezza caratterizzano il procedimento penale in questa fase, dove massima dev’essere la tutela delle garanzie degli indagati e massimo il dubbio che deve caratterizzare l’azione del magistrato, mentre l’opinione pubblica esige certezze immediate che non possono assicurarsi.

    Vengono allora in rilievo, nella prospettiva di migliorare la qualità dell’informazione giudiziaria e di orientarla verso il rispetto dei principi costituzionali (artt. 21 e 101) e sovranazionali (art. 6 C.E.D.U.), per un verso - con riferimento alla necessità di coordinare, sul piano generale, l’organizzazione degli uffici giudiziari e le relazioni con la stampa e con gli altri organi di informazione - gli interventi adottati in sede europea dall’ENCJ (European network of councils for the judiciary) e dal CPPE (Consiglio consultivo dei Procuratori europei) e in sede nazionale dal Consiglio superiore della magistratura; per altro verso - con riferimento alla necessità di prevenire e comunque di sanzionare le menzionate patologie nei rapporti tra magistrati e giornalisti - le previsioni dei codici etici e disciplinari propri delle rispettive categorie, per i giornalisti il testo unico dei doveri del 2016 e poi il codice delle regole deontologiche del 2018, per i magistrati il codice disciplinare del 2006 ed il codice dell’A.N.M. del 2010.  

    Per il primo aspetto, va sottolineato che negli ultimi anni è sempre più avvertita, tra i magistrati dell’Unione europea, l’esigenza di governare il rapporto con gli organi di informazione.

    In due fondamentali report dell’ENCJ del 2012 (Giustizia, società e media)[7] e del 2018 (Fiducia dell’opinione pubblica e immagine della giustizia),[8] si esclude che la magistratura debba parlare soltanto con le sue decisioni sapendo che i media possono disinformare il pubblico, si esprimono raccomandazioni affinché i singoli ordinamenti prevedano corsi di formazione per i magistrati al fine di affidare loro il compito di comunicare la giustizia anche attraverso i social media e coinvolgano anche magistrati nella formazione dei giornalisti giudiziari e si sottolinea come migliorare la comunicazione giudiziaria significhi migliorare la fiducia dei cittadini nella giustizia.

    Sempre sul piano dei rapporti tra libertà di informazione e attività giudiziaria rileva il parere espresso dal CCPE,[9] che ha esaminato in particolare “il giusto equilibrio tra i diritti fondamentali relativi alla libertà di espressione garantiti all’articolo 10 della CEDU ed il diritto-dovere dei media ad informare il pubblico in merito ai procedimenti giudiziari ed i diritti legati alla presunzione di innocenza, ad un giusto processo ed al rispetto della vita privata e familiare, garantito dagli articoli 6 e 8 della CEDU”.[10] 

    Il parere è rivolto ai procuratori - ma analoghi principi aveva espresso anni prima anche il Consiglio Consultivo dei Giudici europei (CCJE) - e si conclude con raccomandazioni di massimo interesse:

    - le comunicazioni tra i procuratori e i media dovrebbero rispettare i seguenti principi: libertà di espressione e di stampa, diritto alla riservatezza, diritto all’informazione, principio di trasparenza, diritto alla vita privata e alla dignità, nonché riservatezza nelle inchieste, presunzione di innocenza, parità delle armi, diritti della difesa e diritto ad un giusto processo;

    - i rapporti dei procuratori con tutti i media dovrebbero essere basati sul rispetto reciproco, la fiducia, la responsabilità, la parità di trattamento ed il rispetto per le decisioni giudiziarie; 

    - nei rapporti con i media, il pubblico ministero dovrebbe prendere in considerazione di adottare sia un “approccio reattivo”, rispondendo così alle richieste dei media, che un “approccio proattivo”, informando di sua iniziativa i media in merito ad un evento di natura giudiziaria; 

    - potrebbe essere presa in considerazione l’opportunità di affidare la gestione dei rapporti tra media e pubblico ministero a portavoce o a procuratori con competenze nelle pubbliche relazioni; 

    - si raccomanda, laddove ciò sia possibile e/o pratico, che i procuratori cerchino di garantire che le persone coinvolte dalle loro decisioni siano informate prima che di tali decisioni sia data comunicazione ai media;

    - laddove i procuratori abbiano rapporti diretti con i media, sarebbe opportuno fornire loro una formazione nel campo della comunicazione, in modo da garantire un’adeguata informazione;

    - le comunicazioni che provengono dal pubblico ministero nel suo insieme possono evitare il pericolo che le attività siano presentate in modo personalizzato e minimizzare il rischio di critiche personali;

    - al di là dei mezzi legali a disposizione dei procuratori, qualsiasi reazione ad informazioni inesatte oppure a campagne di stampa scorrette nei confronti dei procuratori dovrebbe venire preferibilmente dal capo della procura o da un portavoce dell’ufficio e, nei casi più importanti, dal procuratore generale o dalla più alta autorità nell’ambito del pubblico ministero o dalla più alta autorità statale.

    Si tratta di raccomandazioni non vincolanti per i singoli Stati, ma autorevoli che si possono mettere a confronto con la disciplina che, anzitutto sul piano dell’organizzazione degli uffici giudiziari e poi sul piano dei doveri dei singoli magistrati, è vigente nel nostro ordinamento.

    Sul piano organizzativo è come noto intervenuta l’approvazione, da parte del Consiglio superiore della magistratura, delle “Linee-guida per l’organizzazione degli uffici giudiziari ai fini di un’informazione pubblica efficace e di una corretta comunicazione istituzionale”.[11]

     La risoluzione del C.S.M., che non è la prima in materia[12] e che presuppone con espressa previsione un’adeguata attività di formazione sul tema dei rapporti tra magistratura e organi di informazione, muove dalla premessa che “la trasparenza e la comprensibilità dell’azione giudiziaria sono valori che discendono dal carattere democratico dell’ordinamento e sono correlati ai principi d’indipendenza e autonomia della magistratura nonché a una moderna concezione della responsabilità dei magistrati” e traccia “linee d’indirizzo ispirate dalla convinzione che trasparenza e comprensibilità della giurisdizione non confliggono con il carattere riservato, talora segreto, della funzione” e che esse, “correttamente interpretate, aumentano la fiducia dei cittadini nella giustizia e nello Stato di diritto, rafforzano l’indipendenza della magistratura e, più in generale, l’autorevolezza delle istituzioni”.

    In buona sintesi, agli uffici requirenti - nei quali, si ricorda, l’art. 5 del d.lgs. n. 106 del 2006 riserva al capo dell’Ufficio, eventualmente tramite un magistrato delegato, i rapporti con gli organi di informazione - si raccomanda di bandire “ogni rappresentazione delle indagini idonea a determinare nel pubblico la convinzione della colpevolezza delle persone indagate”, di costruire le relazioni con gli organi di informazione sulla base del reciproco rispetto e della parità di trattamento, evitando “canali riservati e ogni impropria rappresentazione dei meriti dell’azione dell’ufficio e dei servizi di polizia giudiziaria”, di fornire un’informazione “rispettosa delle decisioni e del ruolo del giudice”.

    Agli uffici giudicanti si raccomanda, tra l’altro, di dare la notizia della decisione, contestualmente o immediatamente dopo la deliberazione, con un abstract “consistente nell’illustrazione sintetica (di regola 6 righe al massimo), con linguaggio semplice, chiaro e comprensibile, delle statuizioni decisorie e delle ragioni delle stesse”, di affidare “la selezione e la rielaborazione tecnica della notizia” al responsabile per la comunicazione, di trasmetterla “agli organi di informazione e ai media”.  

    Naturalmente, questo compendio di regole vale a migliorare la comunicazione istituzionale e la stessa cronaca giudiziaria, ma non incide sul versante delle condotte dei singoli magistrati e giornalisti per le quali, come si è detto, i rispettivi ordinamenti hanno da tempo introdotto i codici di disciplina.

    2. La responsabilità disciplinare ed il riserbo

    Sono chiamato in questa sede ad affrontare la delicata problematica attinente alla sfera della giustizia disciplinare, concernente le condotte dei magistrati poste in essere in violazione del generale dovere di riserbo e ad essa riservo l’attenzione, non senza una premessa che riguarda il codice etico dell’A.N.M.

    Ai sensi dell’art. 6 del codice etico approvato il 13 novembre 2010 (“rapporti con la stampa e con gli altri mezzi di comunicazione di massa”):

    “Nei contatti con la stampa e con gli altri mezzi di comunicazione il magistrato non sollecita la pubblicità di notizie attinenti alla propria attività di ufficio.

    Quando non è tenuto al segreto o alla riservatezza su informazioni per ragioni del suo ufficio concernenti l'attività del suo ufficio o conosciute per ragioni di esso e ritiene di dover fornire notizie sull'attività giudiziaria, al fine di garantire la corretta informazione dei cittadini e l'esercizio del diritto di cronaca, ovvero di tutelare l'onore e la reputazione dei cittadini, evita la costituzione o l'utilizzazione di canali informativi personali riservati o privilegiati.

    Fermo il principio di piena libertà di manifestazione del pensiero, il magistrato si ispira a criteri di equilibrio, dignità e misura nel rilasciare dichiarazioni ed interviste ai giornali e agli altri mezzi di comunicazione di massa, così come in ogni scritto e in ogni dichiarazione destinati alla diffusione.

    Evita di partecipare a trasmissioni nelle quali sappia che le vicende di procedimenti giudiziari in corso saranno oggetto di rappresentazione in forma scenica”.

    Mentre le disposizioni previste dai primi due commi sono trascritte anche nel c.d. codice disciplinare (il d.lgs. 23 febbraio 2006 n. 109 così come modificato dalla legge n. 69 del 2006), le disposizioni previste dal terzo e quarto comma dell’art. 6 del codice etico non sono tradotte in disposizioni normative per i profili disciplinari. Sicché può senz’altro affermarsi che, sul versante delle dichiarazioni, interviste e partecipazione a trasmissioni televisive, l’Associazione nazionale magistrati - almeno sul piano della regola astratta che, però, non risulta mai applicata nella pratica - è più rigorosa del legislatore, stigmatizzando in particolare le dichiarazioni non ispirate a criteri di equilibrio, dignità e misura e la partecipazione a trasmissioni televisive finalizzate a rappresentare in forma scenica vicende giudiziarie in corso.    

    D’altra parte, dopo l’entrata in vigore del codice disciplinare e l’avvento della tipizzazione degli illeciti disciplinari, si è osservato[13] che almeno una parte delle previsioni deontologiche sono state trasfuse in fattispecie tipiche di illecito, sì che, su tale versante, la tendenza ad attribuire al codice etico una funzione di supporto al generico precetto di cui all’art. 18 del r.d.lgs. n. 511 del 1946, progressivamente emersa in via giurisprudenziale, può dirsi portata almeno a parziale compimento dall’intervento del legislatore e, al tempo stesso, superata.

    Coglie questa prospettiva una decisione della Sezione disciplinare[14] che trae origine proprio da una vicenda relativa a rapporti tra procedimento penale e stampa. In particolare, un procuratore aggiunto era stato incolpato per avere reso dichiarazioni agli organi di informazione sull'attività giudiziaria dell'ufficio senza delega del Procuratore della Repubblica. Egli, nel rilasciare l’intervista, dichiarava: "Posso affermare soltanto, ma con certezza, che abbiamo trovato un modo di amministrare paragonabile all'organizzazione di una "cupola", destinata a privilegiare l'interesse privato di pochi". Domanda: “qual è il quadro che salta fuori dalle tangenti sulla sanità?”. Risposta: “...dalle intercettazioni che abbiamo disposto, i protagonisti usano un linguaggio estremamente esplicito. Altro che ‘pizzini’”.

    Dalla lettura del provvedimento di non luogo a procedere[15] emerge che non era stato fatto, nella specie, alcun riferimento specifico ad atti processuali, si trattava di dichiarazioni generiche e non era più possibile, attesa la tipizzazione degli illeciti, trarre la responsabilità disciplinare dalla norma violata del codice etico, come veniva fatto in precedenza, nella vigenza dell’art. 18 r.d.lgs n. 511 del 1946.

    Dunque, ai fini della configurabilità dell’illecito tipico, deve ritenersi venuto meno, per le norme del codice etico, il ruolo di supporto interpretativo, in quanto esse o sono coincidenti con le fattispecie tipiche, il che esclude in radice l’utilità di tale funzione, ovvero prevedono condotte ulteriori ed eticamente più impegnative, nel qual caso costituiscono precetti diversi, che si collocano su un piano distinto e separato rispetto al precetto disciplinare e, come tali, sono inidonee a supportarne l’interpretazione.

    Sotto tale versante le regole deontologiche espresse dal codice etico hanno una rilevanza soltanto indiretta e mediata nella materia disciplinare, nella misura in cui i precetti in esso previsti coincidono con una delle fattispecie tipiche previste dal d.lgs. n. 109 del 2006; al di fuori di tali casi rilevano solo ai fini delle eventuali sanzioni in sede associativa, sanzioni che - di fatto - non risultano però mai essere state adottate (ai sensi degli artt. 9, 10 e 11 dello Statuto dell’A.N.M.) dagli organi dell’associazione a ciò deputati (il Comitato direttivo centrale, con eventuale ricorso all’assemblea generale, sulla base dell’azione esercitata dal Collegio dei probiviri).

    Pertanto, nel passaggio da un sistema in cui l'atipicità dell'illecito disciplinare poteva essere integrata da un'attività ermeneutica fondata anche su norme interne alla magistratura, quale il codice etico dei magistrati, ad uno incentrato sulla tipizzazione degli illeciti, si è determinata una mancata previsione di sanzioni disciplinari in presenza di condotte che pure pongono a rischio l’immagine di imparzialità, riserbo ed equilibrio del magistrato, ma non sono più perseguibili, in quanto non previste quale illecito, mentre, nel vigore dell’art. 18, potevano assumere rilevanza disciplinare, se costituenti una violazione del codice etico e ritenute compromissive del prestigio e della credibilità del singolo appartenente all'ordine giudiziario, nonché dello stesso intero Ordine magistratuale.

    Vero è che il sistema disciplinare non dev’essere l’unico anticorpo del sistema del governo autonomo della magistratura avverso condotte non in sintonia con il “dover essere” o il “saper fare” il magistrato. Esistono altri, più efficaci, strumenti del sistema ordinamentale, capaci di prevenire simili cadute di professionalità e garantire meglio i cittadini. Ad esempio, il sistema delle valutazioni di professionalità e la stessa formazione da parte della Scuola superiore della magistratura possono essere in grado di limitare comportamenti che, pur non rilevanti per i profili disciplinari, siano deontologicamente scorretti e, comunque, potenzialmente lesivi dell’immagine del magistrato, del prestigio dell’ordine giudiziario e, in ultima analisi, della credibilità della giurisdizione.  

    Ecco perché, seppur i rapporti tra codice etico e codice disciplinare sembrano non rispondere agli auspici del CCPE e seppur, de iure condendo, taluni auspichino una riforma che recepisca, per alcuni aspetti, sul piano disciplinare ciò che la stessa A.N.M. ha sentito come disvalore deontologico, può ritenersi che il sistema disciplinare vigente sia la conseguenza di una scelta legislativa di non ricondurre qualsiasi patologia che si determini a causa di condotte di magistrati nell’alveo sanzionatorio della giustizia disciplinare.

    Con riguardo al sistema disciplinare vigente, la necessità di un efficace bilanciamento tra i diversi valori costituzionali viene comunque in particolare rilievo nell’atteggiarsi del magistrato che si occupa di processi di interesse mediatico ed è fonte di possibile responsabilità.[16]

    Il dovere di riferimento in relazione ai limiti delle esternazioni e, comunque, di ogni relazione con gli organi di informazione da parte dei magistrati è riconducibile all’art. 1 del d.lgs. n. 109 del 2006, che pone a carico del magistrato nell’esercizio delle funzioni il dovere di “riserbo” e che comunemente si estende anche all’attività extrafunzionale del magistrato.[17]

    Tale dovere di riserbo ha una portata più ampia del c.d. dovere di riservatezza.[18] Nella lingua italiana riserbo vuol dire, con riferimento al comportamento, “l’essere molto riservato nell’esprimere il proprio stato d’animo, le proprie intenzioni e valutazioni”, mentre per riservatezza si intende “il fatto di essere riservato, discreto e controllato nell’esprimersi e nel comportarsi”.[19] Come affermato dalla Corte di legittimità “si tratta di un atteggiamento richiesto al magistrato all’evidente fine di evitare che, facendo percepire i propri sentimenti e le proprie opinioni, possa suscitare dubbi sulla sua indipendenza e imparzialità, danneggiando la considerazione di cui il magistrato deve godere presso la pubblica opinione”.[20] 

    Su un piano generale, deve evidenziarsi l’esigenza di una particolare sensibilità richiesta ad ogni magistrato, che dovrebbe trattenerlo dal dibattere pubblicamente vicende che hanno costituito oggetto di trattazione da parte sua, attesa la possibilità che le dichiarazioni rese, oggettivamente, diano adito a polemiche in grado di pregiudicare l’apparenza di imparzialità della quale il magistrato stesso deve godere.

    Invero, il rapporto tra la possibilità di cagionare un siffatto pregiudizio ed il diritto di libertà di espressione del pensiero, non può essere risolto attribuendo incondizionata prevalenza solo a quest’ultimo.

    Anzi, va sottolineato che l’interferenza tra i diritti generali di libertà e di espressione del proprio pensiero ed il possibile pregiudizio per l’apparenza di imparzialità del magistrato, costituisce tema di tale delicatezza da aver formato anche oggetto di pronunce della Corte costituzionale e della Corte europea dei diritti dell’uomo.

    Al riguardo la prima, pur riconoscendo al magistrato gli stessi diritti di espressione attribuiti a chiunque dall’art. 21 della Costituzione, ha affermato che l’esercizio di questi diritti non può essere privo di limiti,[21] precisando poi che il valore della imparzialità e quello dell’indipendenza, posti per dettato costituzionale (artt. 101, secondo comma, e 104, primo comma, Cost.), “vanno tutelati non solo con specifico riferimento al concreto esercizio delle funzioni giudiziarie, ma anche come regola deontologica da osservarsi in ogni comportamento al fine di evitare che possa fondatamente dubitarsi della loro indipendenza e imparzialità”.[22]

    A sua volta, la Corte EDU ha affermato che “la più grande discrezione si impone” alle autorità giurisdizionali, perché è ciò che esigono gli “imperativi superiori di giustizia e di grandezza della funzione giudiziaria”,[23] sottolineando che anche l’apparenza di imparzialità ha un peso rilevante, in quanto con essa si mette in gioco la fiducia che in una società democratica un magistrato deve ispirare nella generalità dei cittadini.[24]

    Più recentemente, la C.E.D.U.,[25], nel rigettare il ricorso alla Corte europea per violazione dell’art. 10 della Convenzione europea per i diritti dell’uomo (limiti alla libertà di espressione) da parte di un magistrato italiano, condannato in sede disciplinare per dichiarazioni diffamatorie rilasciate alla stampa nei confronti di altro magistrato, ha svolto considerazioni pregnanti sul tema del dovere di discrezione e di riservatezza che incombe sui magistrati in ragione della loro delicatissima funzione ed al fine di preservare la fiducia dei cittadini nel potere giudiziario. In particolare, si legge che “sottolineando la massima discrezione imposta alle autorità giudiziarie, la Corte rammenta che questa discrezione deve indurle a non utilizzare la stampa, neanche per rispondere alle provocazioni”.

    Vero è che ciò vale essenzialmente, come ha pure precisato la Corte di Strasburgo, prima di decidere la causa[26] e, se è vero che le dichiarazioni alla stampa possono perciò essere valorizzate per ritenere lesa l’imparzialità,[27] rilevando l’esigenza di un’estrema discrezione, al fine di scongiurarne la lesione, anche sotto il profilo dell’apparenza,[28] è anche vero che, secondo detta Corte,[29] la stampa svolge un ruolo fondamentale in una società democratica e, se non deve superare taluni limiti, le spetta tuttavia comunicare informazioni e idee su tutte le questioni di interesse generale, ivi compreso quelle che riguardano il funzionamento del potere giudiziario.

    Di questo era consapevole il Consiglio superiore della magistratura già prima della redazione delle menzionate Linee-guida in materia di comunicazione istituzionale, laddove è specificamente intervenuto a regolamentare con più puntuali direttive l’attività di partecipazione dei magistrati a trasmissioni televisive e radiofoniche, riconducendola a quella per cui necessita l’autorizzazione.[30] Detta circolare è significativa poiché, per un verso, pone in luce l’esigenza di differenziare la narrazione a seconda che concerna o meno vicende definite, poiché nel secondo caso il diritto di manifestazione del pensiero può esplicarsi in termini più ampi, fermo il rispetto di tutti gli altri limiti che la stessa incontra e, per altro verso, rende evidente che, con le dovute autorizzazioni, il magistrato può partecipare a dibattiti mediatici su processi in corso, nell’ovvio rispetto dei limiti di estensione del dovere di riserbo posti nelle fattispecie tipizzate dal codice disciplinare. In questo contesto, la mera narrazione avente ad oggetto l’attività svolta nel processo, nel rispetto dei limiti previsti dagli illeciti tipizzati, non espone il magistrato a rischi di sanzioni.

    Il contemperamento tra i valori costituzionali e comunitari in gioco deve essere risolto infatti, sul piano disciplinare, in un sistema ispirato al principio di tipizzazione degli illeciti, in punto di sussumibilità, o meno, di una specifica condotta nella fattispecie astratta.[31]

    Invero, la declinazione disciplinare del dovere di riserbo incombente sui magistrati si articola - in esito all’intervento abrogativo di alcune ipotesi sanzionatorie operato dalla legge 24 ottobre 2006, n. 269, che ha soppresso le fattispecie di cui al decreto legislativo 23 febbraio 2006, n. 109, artt. 2, primo comma, lett. bb) e z) e 3, lett. f) - nei tre distinti illeciti funzionali previsti dalle lett. v), u) e aa) dell’art. 2, che riguardano, rispettivamente, i limiti alle pubbliche dichiarazioni o interviste (lett. v), l’illecita divulgazione di atti e le violazioni dei doveri di riservatezza (lett. u) e, infine, il divieto di sollecitare la pubblicità di notizie attinenti il proprio ufficio e di utilizzazione di canali informativi personali (lett. aa).

    Dunque, fra le tre categorie generali di possibili violazioni del dovere di riserbo del magistrato enucleate nel sistema disciplinare abrogato (dichiarazioni sul processo trattato; dichiarazioni di critica politica; osservazioni contenute in un provvedimento giudiziario)[32] nel sistema disciplinare vigente sono ascrivibili agli illeciti funzionali del magistrato soltanto le dichiarazioni o comunicazioni di notizie aventi ad oggetto il procedimento penale trattato dal magistrato dichiarante, sia che riguardino la fase delle indagini preliminari, sia che riguardino altre fasi del processo (art. 2). Le dichiarazioni riguardanti la cosiddetta critica politica o le dichiarazioni, per così dire, autopromozionali sono attinenti, invece, alla sfera degli illeciti extrafunzionali (art. 3) ed oggi sono perseguibili solo in quanto conseguenti a reato (art. 4). Le osservazioni contenute in un provvedimento giudiziario non pertinenti al suo scopo esulano, sul piano logico-sistematico, dalla tematica delle violazioni del dovere di riserbo, essendo ascrivibili alla tematica della violazione dei doveri di correttezza ed imparzialità (lett. d ed a dell’art. 2).

    In linea generale, nell’ambito del predetto bilanciamento tra valori costituzionali e con riferimento specifico al magistrato che viola di dovere di riserbo nell’esercizio delle proprie funzioni, viene in considerazione anche un altro valore fondamentale, il diritto all’onore professionale del magistrato, che potrebbe essere violato da notizie mediatiche false o, comunque, non rispettose della verità e della reale portata delle indagini o del processo.

    Come affermato dalla Corte di cassazione,[33] nel sistema giudiziario delineato dalla Costituzione, che prevede l’assunzione dei magistrati per concorso (art. 106, primo comma, Cost.), “il magistrato ripete la propria legittimazione soltanto dalla preparazione giuridica e dal rigoroso rispetto dei doveri consacrati nell’art. 1 del d.lgs. n. 109/2006”. Pertanto, quando è in discussione “la reazione all’attribuzione di un provvedimento non solo di contenuto diverso da quello effettivamente adottato, ma anche inconciliabile con i doveri del magistrato e con l’immagine che il magistrato deve dare di sé per la credibilità propria e della magistratura” il diritto all’onore professionale può costituire una causa di giustificazione della violazione del diritto al riserbo corrispondente allo stato di necessità, posto a tutela dell’onore del magistrato e della credibilità della giurisdizione.

    3. I limiti alle pubbliche dichiarazioni o interviste

    Costituiscono illecito disciplinare ai sensi dell’art. 2, secondo comma, lett. v) le “pubbliche dichiarazioni o interviste che riguardino i soggetti coinvolti negli affari in corso di trattazione, ovvero trattati e non definiti con provvedimento non soggetto a impugnazione ordinaria, quando sono dirette a ledere indebitamente diritti altrui nonché la violazione del divieto di cui all'articolo 5, comma 2, del decreto legislativo 20 febbraio 2006, n. 106”.

    La disposizione prevede, dunque, due diverse fattispecie di illecito disciplinare.

    La prima trae il suo fondamento dall’esigenza di non divulgare, con pubbliche dichiarazioni o interviste, notizie sui soggetti coinvolti negli affari pendenti, dei quali il magistrato si stia occupando o si sia occupato. Il divieto di pubbliche dichiarazioni o interviste sussiste sino all’emissione del provvedimento non più soggetto ad impugnazione ordinaria; quindi, il magistrato è tenuto al riserbo anche dopo la fase o grado del procedimento in cui ha trattato “l’affare”, sino a quando sui fatti oggetto di trattazione dinanzi a sé non si sia formato il giudicato.  

    Garantite dal dovere di riserbo sono quindi le notizie acquisite dal magistrato nell’esercizio delle proprie funzioni; la finalità della norma è di evitare che le notizie riguardanti soggetti coinvolti negli affari in corso pervengano a chi non ha titolo per esserne informato, anche quando non si tratti di notizie segrete. La norma è posta, pertanto, a tutela di ogni soggetto coinvolto in affari pendenti, in considerazione della specifica invasività dell’attività giudiziaria, che determina l’intromissione nella vita privata delle persone.[34] Per questo profilo, la norma pare già rispettosa della raccomandazione del CCPE, laddove nel richiamato parere si auspica che la libertà di espressione e di stampa, il diritto all’informazione, il principio di trasparenza trovino il loro naturale limite nel diritto alla riservatezza, nel diritto alla vita privata e alla dignità, nonché al riserbo nelle inchieste, alla presunzione di innocenza, alla parità delle armi, ai diritti della difesa e nel diritto ad un giusto processo.

    Parte della dottrina ritiene che la fattispecie si applichi solo ai magistrati giudicanti e non ai magistrati requirenti, ai quali sarebbe riservata l’altra fattispecie, descritta nella seconda parte della disposizione,[35] ma la giurisprudenza disciplinare in materia è di contrario avviso.

    In un caso, mediaticamente noto come il caso della Guerra tra Procure, il giudice disciplinare aveva giudicato (assolvendolo per lo specifico capo di incolpazione di cui alla lett. v) il Procuratore generale presso la Corte d’appello di Catanzaro, il quale aveva tenuto una conferenza stampa in cui aveva qualificato l'azione dei pubblici ministeri di altra Procura della Repubblica, quale atto "istituzionalmente inammissibile", nonché "scandaloso ed eversivo", a cui era necessario rispondere con tempestive iniziative "idonee al ripristino dei principi di legalità, indipendenza ed autonomia che hanno da sempre costituito il patrimonio culturale e morale dell'Ordine Giudiziario”. Il giudice di merito ha così argomentato l’assoluzione: “la pur vivace intervista (…) appare dimostrativa di uno stato d'animo turbato e dunque di una imperfetta lucidità rispetto agli obblighi e agli obiettivi che mai debbono essere dimenticati da un Procuratore della Repubblica. Tuttavia non sembra certo al collegio l'intento, e con esso ovvero la sua obiettiva idoneità, di realizzare una lesione ulteriore a quella già considerata nel complessivo capo a) della rubrica” (la violazione dei doveri di correttezza e diligenza connessi alla mancata astensione ed alla redazione di un provvedimento di sequestro ritenuto abnorme).[36]

    In un altro caso, il giudice disciplinare ha affermato il principio (invero rimasto isolato in giurisprudenza) secondo cui “costituiscono illecito disciplinare le pubbliche dichiarazioni o interviste che riguardino i soggetti coinvolti negli affari in corso di trattazione, quando sono dirette a ledere indebitamente diritti altrui. Tale disposizione va posta in relazione all'art. 21 della Costituzione ed in tal senso la giurisprudenza disciplinare, in costanza del precedente regime giuridico, è approdata alla conclusione, utile ai fini della interpretazione della nuova norma, che le dichiarazioni rilasciate dal pubblico ministero, proprio in quanto manifestazione del pensiero tutelata dal citato art. 21 Cost., non integra illecito disciplinare qualora non abbia superato il limite della continenza. Allo stesso modo si è rilevato che il rispetto del limite della libera manifestazione del pensiero va valutato in considerazione delle modalità, del complessivo contenuto dell'intervista e del contesto in cui è resa (nel caso di specie in ottica di contestualizzazione delle dichiarazione rese, esposizione mediatica del magistrato per la rilevanza dei procedimenti trattati e iniziative prese nei suoi confronti concretatesi in denunce ad autorità giudiziarie competenti, si è ritenuto che le stesse non abbiano superato il limite della continenza)”.[37] 

    Le ragioni per cui la fattispecie è applicabile anche ai pubblici ministeri si traggono dalla esegesi dell’altra fattispecie prevista dalla stessa disposizione di cui alla lett. v), di cui tratterò a breve.

    Per il profilo della condotta materiale, si tratta di un illecito di pericolo. In effetti, la condotta descritta nella fattispecie dev’essere diretta a ledere indebitamente diritti altrui. Deve trattarsi non necessariamente di diritti delle parti processuali; può trattarsi anche dei diritti dei difensori, degli ausiliari del magistrato, di testimoni o di terzi eventualmente indirettamente coinvolti.

    Non è necessario che vi sia stata in concreto la lesione dei diritti altrui, ma è sufficiente che le dichiarazioni pubbliche o le interviste del magistrato concretizzino anche il fondato rischio della lesione dei diritti.

    Il pericolo di questa lesione deve derivare da un comportamento “indebito”, non giustificato in alcun modo. Ne consegue che potrebbe essere esclusa la configurabilità dell’illecito quando il magistrato si sia trovato nello stato di necessità di svolgere pubbliche dichiarazioni proprio a tutela del procedimento trattato, o a garanzia del buon esito dell’inchiesta, o per legittima difesa avverso aggressioni verbali o tentativi di intimidazione, o delegittimazione, o altro.

    All’elemento materiale della condotta illecita deve accompagnarsi l’elemento soggettivo che, secondo la prevalente dottrina, consiste nella intenzione di ledere i diritti altrui in maniera ingiustificata e, perciò, “indebita” ed “antigiuridica”.[38] Non può tuttavia escludersi che il pericolo della lesione dei diritti altrui possa derivare anche da un comportamento colposo del magistrato, non necessariamente doloso, che potrebbe essere costituito da grave negligenza e, comunque, imprudenza, nel rivelare notizie che, pur non protette da segreto, siano idonee a porre in pericolo la lesione dei diritti altrui. Invero, sembra una interpretazione più conforme alla lettera e alla ratio della norma collegare il termine “diretta” alla condotta materiale della pubblica dichiarazione o intervista e non alla sua intenzione specifica di ledere i diritti altrui.

    In altri termini, è la portata materiale della pubblica dichiarazione o intervista che - per lo strepitus fori, per la particolare rilevanza mediatica a livello nazionale, o anche solo locale, per la sua oggettiva inopportunità, non accompagnata da cause di giustificazione - deve esporre i diritti altrui al pericolo della lesione. Non sembra necessario, ai fini della configurabilità dell’illecito, accertare l’intenzionalità del magistrato di ledere i diritti altrui, lesione che potrebbe essere determinata anche per “colpa cosciente”. La norma non presuppone il dolo e la sua ratio mira a porre i diritti dei soggetti coinvolti negli affari trattati al riparo anche dalle semplici manie di protagonismo del magistrato che, magari sensibile al clamore mediatico, dimentica, anche per grave negligenza o imprudenza, di essere il principale garante dei diritti alla riservatezza di quegli stessi soggetti coinvolti, siano essi parti del procedimento o, come si è detto, anche terzi direttamente o indirettamente interessati.[39]

    Come si è visto, secondo una isolata decisione della Sezione disciplinare,[40] la fattispecie andrebbe posta in relazione al diritto tutelato dall’art. 21 della Costituzione. A tal proposito, già nel sistema disciplinare abrogato, si era affermato che l’intervista rilasciata da un pubblico ministero, costituendo espressione della libertà di manifestazione del pensiero tutelata dall’art. 21 della Costituzione, non integra un illecito disciplinare qualora non abbia superato il limite della continenza e che il rispetto del limite della libera manifestazione del pensiero va valutato in considerazione delle modalità, del complessivo contenuto dell'intervista e del contesto in cui è stata resa.[41]

    Dunque, le dichiarazioni rese non andrebbero valutate solo per il loro tenore letterale, ma anche in relazione al particolare contesto nelle quali sono state rese, sicché andrebbe valutata, ad esempio, la circostanza che il magistrato sia suo malgrado esposto al crescente interesse mediatico.

    In ogni caso, laddove le dichiarazioni non varchino il limite della continenza, afferma il giudice disciplinare, esse si disvelano irrilevanti sul piano sanzionatorio.

    Non risulta che la giurisprudenza di legittimità si sia mai pronunciata sul punto, ma il collegamento tra la fattispecie in esame ed il limite di continenza non sembra sostenibile nel sistema vigente. Invero, nel sistema abrogato, l’art. 18 non distingueva tra dichiarazioni pubbliche e dichiarazioni diffamatorie tout court. Oggi, per un verso è prevista la fattispecie di cui alla lett. v) - accanto alle analoghe fattispecie di cui alle lett. u) e aa) - a tutela delle mere violazioni del dovere di riserbo e, per altro verso, rientrano nella previsione di cui all’art. 4, lett. d) - che riguarda gli illeciti disciplinari collegati a reato - quelle dichiarazioni pubbliche, relative ad affari pendenti presso il magistrato, non solo idonee a ledere indebitamente diritti altrui, ma di fatto lesive dell’altrui reputazione, sì da configurare il reato di diffamazione (del quale si tratterà in seguito). 

    Se così è, i limiti alla manifestazione del pensiero sembrano esorbitare dalle tematiche attinenti la fattispecie in esame, per confluire nella diversa valutazione dell’illecito disciplinare connesso al reato di diffamazione.

    D’altronde, quando vi sia una pubblica dichiarazione o intervista diretta a ledere indebitamente diritti altrui, una volta accertata la sussistenza anche dell’elemento soggettivo del magistrato incolpato, sembra estraneo alla fattispecie l’accertamento di un presupposto non richiesto espressamente dalla norma, la continenza delle espressioni; presupposto che, del resto, sembra al contrario aver voluto escludere il legislatore, giacché, nel bilanciamento di opposti diritti costituzionalmente garantiti, quello alla libera manifestazione del pensiero da parte del magistrato e quello alla riservatezza dei soggetti coinvolti negli affari in corso di trattazione (ovvero trattati e non definiti con provvedimento non soggetto a impugnazione ordinaria), ha ritenuto la prevalenza di questi ultimi.

    In questo senso si è orientato il giudice disciplinare in fattispecie cautelare in cui è stata configurata la violazione della lett. v) per avere il magistrato incolpato rilasciato gravi dichiarazioni nel corso di una conferenza stampa in cui aveva qualificato l’azione dei pubblici ministeri di diversa Procura come un atto “istituzionalmente inammissibile”, nonché “scandaloso ed eversivo”, a cui rispondere con tempestive iniziative “idonee al ripristino dei principi di legalità, indipendenza ed autonomia che hanno da sempre costituito il patrimonio culturale e morale dell’Ordine giudiziario”. Ha osservato nell’occasione il giudice disciplinare che queste dichiarazioni, definite “impulsive ed irresponsabili”, si sono prestate a considerazioni dei mass media quali “guerra tra Procure” e “scontro tra magistrati” ed hanno contribuito alla lesione del prestigio dell’ordine giudiziario.[42]

    Il giudice di legittimità, nel confermare l’ordinanza cautelare del giudice disciplinare, ha precisato che si era trattato di dichiarazioni riguardanti “soggetti coinvolti negli affari in corso di trattazione” e dirette a lederne indebitamente i diritti.[43]

    Nello stesso senso si è ancora espresso, successivamente, il giudice disciplinare, in fattispecie riguardante dichiarazioni pubbliche rilasciate dal giudice del riesame che si era occupato del caso dei fratellini morti a Gravina di Puglia, ritenute lesive per il padre indagato, poi scagionato.[44]

    Non integra invece l’illecito disciplinare in esame la condotta del magistrato del pubblico ministero il quale, al fine di tutelare la propria onorabilità professionale, fornisca agli organi di informazione le precisazioni necessarie per dissipare equivoci e impedire distorsioni sul suo operato, qualora tali dichiarazioni non incidano sul buon andamento del procedimento.[45]

    La seconda parte della disposizione in esame, come detto, sanziona la violazione del secondo comma dell’art. 5 del d.lgs. n. 106 del 2006 il quale, tuttavia, non riguarda il divieto, per i magistrati delle procure, di rilasciare dichiarazioni o fornire notizie agli organi di informazione circa l'attività giudiziaria dell'ufficio, previsto invece dal successivo terzo comma.[46]

    Il secondo comma dell’art. 5 dispone, infatti, che “ogni informazione inerente alle attività della procura della Repubblica deve essere fornita attribuendola in modo impersonale all'ufficio ed escludendo ogni riferimento ai magistrati assegnatari del procedimento”.[47]

    Ciò è contestato da una buona parte della dottrina. Si è ad esempio sostenuto che “la condotta sanzionata si identifica con il divieto del 3° comma, dell’art. 5, perché, altrimenti, rimarrebbe priva di rilevanza proprio la condotta che si intendeva colpire: l’esternazione dei singoli sostituti”.[48] Si è pure sostenuto, sempre nello stesso senso, che “non si comprenderebbe altrimenti la disposizione del quarto comma del medesimo articolo”.[49]

    Pur condividendo la teoria della “svista” del legislatore, altra parte della dottrina giunge a diverse conclusioni.[50] In effetti, si deve osservare che, dopo le modifiche apportate all’originario impianto del d.lgs. n. 109 del 2006 dalla legge n. 269 del 2006, sono confluite in questa disposizione le disposizioni già previste dalla stessa lett. v)[51] e dalla abrogata lett. z). Quest’ultima sanzionava “il tenere rapporti in relazione all’attività del proprio ufficio con gli organi di informazione al di fuori delle modalità previste dal decreto legislativo emanato in attuazione della delega di cui agli articoli 1, comma 1, lett. d) e 2, comma 4, della legge 25 luglio 2005, n. 150”.

    Si trattava pertanto di un rinvio al complesso della normativa introdotta con il d.lgs. n. 106 del 2006. Come si è visto, la vigente disposizione di cui all’ultima parte della lett. v) sanziona soltanto la violazione del divieto di cui all'articolo 5, secondo comma, del predetto decreto legislativo e non del successivo terzo comma.

    Certo, la teoria della “svista” del legislatore ha una sua dignità scientifica e non è da escludere che ciò sia per l’appunto avvenuto. Vero è che non possono essere condivise le conseguenze che taluni vogliono trarre da questa “svista”, e cioè che la prima fattispecie disciplinare prevista dalla lett. v) sarebbe applicabile soltanto ai magistrati giudicanti, mentre la seconda fattispecie sanzionerebbe, appunto, soltanto i pubblici ministeri che contravvengano al divieto di rilasciare dichiarazioni o fornire notizie agli organi di informazione circa l'attività giudiziaria dell'ufficio”.

    Sarebbe irragionevole escludere la sanzionabilità delle pubbliche dichiarazioni o interviste rilasciate da magistrati del pubblico ministero “che riguardino i soggetti coinvolti negli affari in corso di trattazione, ovvero trattati e non definiti con provvedimento non soggetto a impugnazione ordinaria, quando sono dirette a ledere indebitamente diritti altrui” solo in considerazione di una “svista” del legislatore che, sicuramente, non può avere alcuna conseguenza modificativa di una fattispecie di illecito chiara e non equivoca, che difetta di alcun riferimento soggettivo ai giudici o ai pubblici ministeri.

    Del resto - come si è visto - vi è un indirizzo del giudice disciplinare univoco nel senso dell’applicabilità della fattispecie prevista dalla prima parte della lett. v) anche ai pubblici ministeri. Ed allora - non potendo configurarsi come disciplinarmente illecita una condotta, quella posta in essere in violazione del terzo comma dell’art. 5 cit., non più tipizzata - sembra che non possa che prendersi atto che la fattispecie disciplinare prevista dalla seconda parte della lett. v) riguardi un illecito proprio dei Procuratori della Repubblica, ovvero dei magistrati da questi delegati a mantenere i rapporti con gli organi di informazione (primo comma dell’art. 5 cit.) ed abbia ad oggetto la condotta consistente nel fornire informazioni inerenti alle attività della procura della Repubblica non attribuendole in modo impersonale all'ufficio ed al contrario riferendole ai magistrati assegnatari del procedimento (secondo comma dell’art. 5).[52]

    Anche per questo profilo, il sistema italiano appare in piena sintonia con le Raccomandazioni del CCPE, laddove si auspica l’opportunità di affidare la gestione dei rapporti tra media e pubblico ministero ai portavoce o ai procuratori con competenze nelle pubbliche relazioni, ritenendosi che le comunicazioni che provengono dal pubblico ministero nel suo insieme possono evitare il pericolo che le attività siano presentate in modo personalizzato e minimizzare il rischio di critiche personali e si osserva altresì che, al di là dei mezzi legali a disposizione dei procuratori, qualsiasi reazione ad informazioni inesatte oppure a campagne di stampa scorrette nei confronti dei procuratori dovrebbe venire preferibilmente dal capo della procura o da un portavoce dell’ufficio e, nei casi più importanti, dal procuratore generale o dalla più alta autorità nell’ambito del pubblico ministero o dalla più alta autorità statale.

    Dove il sistema italiano è invece carente, rispetto alle raccomandazioni del CCPE, è proprio in ordine alla formazione nel campo della comunicazione, in modo da garantire un’adeguata informazione. Di qui, come recentemente disposto nelle Linee-guida del C.S.M., l’importanza di corsi di formazione, anche al fine di evitare informazioni non solo inopportune, ma anche - a volte - intempestive, nel senso che mai dovrebbe concretizzarsi l’ipotesi, rimarcata dall’autorevole organo consultivo dei procuratori europei, che i procuratori della Repubblica non adottino cautele nel senso di cercare di garantire che le persone coinvolte dalle loro decisioni siano informate prima che di tali decisioni sia data comunicazione ai media.

    Quanto alla violazione del divieto per i magistrati della procura della Repubblica - e, deve intendersi implicito, trattandosi della medesima ratio, per i magistrati delle Procure generali della Repubblica - di rilasciare dichiarazioni o fornire notizie agli organi di informazione circa l'attività giudiziaria dell'ufficio (terzo comma dell’art. 5), essa deve ritenersi di per sé priva di alcuna conseguenza disciplinare, non sussistendo più alcuna fattispecie tipizzata, a meno che non si riverberi in altre fattispecie tipizzate: ad esempio, in quanto realizzi la fattispecie prevista dalla prima parte della lett. v), oppure in quanto conseguenza di reato ex art. 4 lett. d) del d.lgs. n. 109 del 2006, oppure in quanto condotta scorretta che potrebbe rilevare ai fini della configurabilità di altri illeciti, quali quelli previsti dalla lett. d), o dalla lett. a), oppure, più semplicemente, a causa della mera violazione del divieto di legge previsto dalla richiamata norma, l’illecito previsto dalla lett. g), ove detta violazione di legge si configuri come “grave” e conseguente a “negligenza inescusabile”, con specifico accertamento, caso per caso.[53]

    Con ciò potrebbe rimanere a prima vista priva di significato concreto la previsione di cui al successivo quarto comma dell’art. 5 (“il procuratore della Repubblica ha l'obbligo di segnalare al consiglio giudiziario, per l'esercizio del potere di vigilanza e di sollecitazione dell'azione disciplinare, le condotte dei magistrati del suo ufficio che siano in contrasto col divieto fissato al comma 3”). Si tratterebbe quindi di un obbligo, la cui violazione rimarrebbe priva, di per sé, di sanzione disciplinare, a meno che non sia stata integrata, attraverso la violazione del dovere di riserbo gravante sui magistrati della Procura della Repubblica, una diversa fattispecie disciplinarmente rilevante. In realtà non è così perché, come si è già detto a proposito delle omissioni dei magistrati dirigenti costituenti illecito disciplinare, la violazione del quarto comma dell’art. 5 da parte del Procuratore della Repubblica è pur sempre una violazione di legge che, se “grave” e conseguente a “negligenza inescusabile”, potrebbe configurare il diverso illecito di cui alla lett. g) del medesimo d.lgs. n. 109 del 2006.

    In conclusione, nel vigente sistema disciplinare, la violazione del divieto per i magistrati della procura della Repubblica di rilasciare dichiarazioni o fornire notizie agli organi di informazione circa l'attività giudiziaria dell'ufficio non comporta di per sé una loro responsabilità disciplinare, a meno che queste dichiarazioni non integrino la violazione della fattispecie disciplinare di cui alla prima parte della lett. v), o integrino fattispecie disciplinari diverse dalla lett. v), quale ad esempio la grave violazione di legge a causa di negligenza inescusabile, di cui alla lett. g).

    L’omissione della comunicazione agli organi competenti, da parte del Procuratore della Repubblica, della violazione del divieto per i sostituti procuratori di rilasciare dichiarazioni o fornire notizie agli organi di informazione  può comportare, di per sé, la responsabilità disciplinare del Procuratore della Repubblica (lett. dd) in quanto l’esternazione del sostituto si riverberi in una fattispecie tipica prevista dal vigente sistema disciplinare, oppure quando l’omissione di segnalazione del Procuratore si riverberi, essa stessa, in una “grave” violazione di legge conseguente a “negligenza inescusabile” (lett. g).

    Secondo il giudice disciplinare, invece, non integra l’illecito disciplinare in esame la condotta del magistrato del pubblico ministero il quale, al fine di tutelare la propria onorabilità professionale, fornisca agli organi di informazione le precisazioni necessarie per dissipare equivoci e impedire distorsioni sul suo operato, atteso che il secondo comma dell’art. 5 d.lgs n. 109/2006, unicamente richiamato dalla lett. v) seconda parte, non pone un divieto ai singoli sostituti procuratori di rilasciare dichiarazioni o fornire notizie agli organi di informazione circa l'attività giudiziaria dell'ufficio.[54]

     *Intervento al corso di formazione della Scuola Superiore della Magistratura, Scandicci, 21 marzo 2019, prima parte

    [1] Cfr. VALENTINI, Stampa e processo penale: storia di un’evoluzione bloccata, in Dike, 2011, n. 3.

    [2] Ricordiamo la penosa vicenda risalente al 1989, di Lanfranco Schillaci, accusato di violenza sessuale sulla figlia di due anni, linciato su tutti i quotidiani e poi assolto con formula piena con sentenza passata in giudicato.

    [3] GIOSTRA, Riflessi della rappresentazione mediatica sulla giustizia “reale” e sulla giustizia “percepita”, in Legislazione penale, agosto 2018.

    [4] Si veda in tal senso il recente intervento del Vice Presidente del C.S.M., David ERMINI, del 2 marzo 2019 al XXII Congresso di Magistratura Democratica in Roma, “Il giudice nell’Europa dei populismi”, secondo cui il mix di populismo e sovranismo metterebbe in crisi i capisaldi della democrazia costituzionale e dello stato di diritto, alimentando politiche del rancore e della chiusura e agitando l'ideologia moralistica della volontà popolare. Nell’occasione il Vice Presidente del C.S.M. ha affermato che vanno denunciati “i guasti di una visione ordalica e sommaria della giustizia” e “di un’ottica secondo cui la decisione del giudice viene valutata secondo fuorvianti e inesistenti legami con idee di popolo dal significato emotivamente ambiguo, più vicine all’immagine della piazza o della folla”.

    [5] CAFERRA, La questione del potere giudiziario, Bari, 2018, 61 ss.

    [6] GAETA, Il problema della divulgazione delle notizie giudiziarie, in Questione giustizia on line, 7 marzo 2019. Si v. anche FERRARELLA, Il “giro della morte”: il giornalismo giudiziario tra prassi e norme, in Dir. pen. contem., Riv. Trim., 2017, 3, p. 4.

    [7] Le principali raccomandazioni del rapporto ENCJ su Giustizia, società e media comprendono: a) la costituzione di portavoce giudiziari/giudici della stampa; b) la stesura di regolamenti per l'uso di registrazioni audio e video nei tribunali; c) avere chiare linee guida per l'uso di smartphone e altri dispositivi di comunicazione; d) lo sviluppo di una strategia per l'uso di ciascun social media; e) la creazione di un sito web con informazioni per i professionisti, la stampa e il pubblico in generale e una banca dati di sentenze liberamente accessibile; f) la regolamentazione delle relazioni tra la magistratura e i media attraverso le linee guida della stampa, dovrebbero indicare cosa i media possono aspettarsi dal personale dei tribunali e come i tribunali dovrebbero trattare i bisogni dei media prima, durante e dopo i procedimenti giudiziari; g) lo sviluppo di un approccio mediatico proattivo incentrato sui singoli casi giudiziari e sull'intero sistema giudiziario.

    [8] Il rapporto, approvato a Lisbona il 1° giugno 2018, sviluppa ampiamente la prospettiva della comunicazione in ambito giudiziario e suggerisce l’adozione di piani d’azione nazionali, verifiche periodiche del livello di fiducia del pubblico, la formazione professionale specifica (per capi degli uffici, giudici, procuratori, personale amministrativo), l’elaborazione di linee-guida sui rapporti tra il giudiziario e i media. In particolare, tra l’altro, raccomanda la nomina come “spokeperson” di giudici o procuratori con specifica formazione in tema di comunicazione e l’istituzione di uno “specialised department” che impieghi professionisti nella comunicazione sotto la direzione del “press judge/prosecutor”.

    [9] Parere CPPE n. 8 del 9 ottobre 2013, espresso a Yerevan. Il CPPE è l’organo consultivo del Consiglio d’Europa ed è stato costituito nel 2005, il cui Presidente era all’epoca un magistrato italiano, il dott. MURA, ora Procuratore generale presso la Corte d’appello di Venezia. Il CPPE è l’organo parallelo al Consiglio Consultivo dei Giudici (CCJE), con il quale ha redatto la Dichiarazione di Bordeaux, su giudici e magistrati del pubblico ministero in una società democratica, adottata ufficialmente a Brdo (Slovenia) il 18 novembre 2009. Al par. 10 della Dichiarazione di Bordeaux già si sottolineava che “è (…) interesse della società che i mezzi di comunicazione possano informare il pubblico sul funzionamento del sistema giudiziario. Le autorità competenti dovranno fornire tali informazioni, rispettando in particolare la presunzione di innocenza degli accusati, il diritto ad un giusto processo ed il diritto alla vita privata e familiare di tutti i soggetti del processo. I giudici ed i magistrati del pubblico ministero debbono redigere, per ciascuna professione, un codice di buone prassi o delle linee-guida in ordine ai loro rapporti con i mezzi di comunicazione”.

    [10] V. il commento di SALVI, I rapporti tra Procuratori e Media nel parere del CPPE, in Questione Giustizia, 17 gennaio 2014, il quale sottolinea come il parere del CCPE sia fondato sulla concezione dell'informazione non come diritto del PM, ma come dovere, corrispondente al diritto della collettività ad essere informata.

    [11] Delibera CSM dell’11 giugno 2018. Tra i primi autorevoli commenti, v. FERRARELLA, Non per dovere, ma per interesse (dei cittadini): i magistrati e la paura di spiegarsi” e BRUTI LIBERATI, Un punto di arrivo o un punto di partenza?, entrambi in Questione giustizia, 2018, fasc. 4.

    [12] Con la risoluzione su Uffici Relazioni con il Pubblico e modalità di comunicazione degli Uffici giudiziari e del Consiglio superiore della magistratura, approvata il 26 luglio 2010, il C.S.M. aveva già individuato nella strategia comunicativa il presupposto necessario per una moderna e democratica configurazione dei rapporti tra cittadini ed istituzioni, indicando quale prima soluzione organizzativa ispirata a questa finalità la costituzione degli Uffici per il Rapporto con il Pubblico (URP).

    [13] FIMIANI-FRESA, Gli illeciti disciplinari dei magistrati ordinari, Torino, 2013, 37 ss.

    [14] CSM, sez. disc., ord. 7 marzo 2008 n. 19 in merito alle dichiarazioni rese dal procuratore aggiunto di Bari, Marco Dinapoli su un procedimento a carico dell’on. Raffaele Fitto e altri.

    [15] Sulla natura e gli effetti dell’ordinanza di non luogo a procedere nel processo disciplinare, v. FRESA, Profili procedurali: il procedimento disciplinare innanzi al CSM: iniziativa, istruttoria, conclusione, in La responsabilità disciplinare nelle carriere magistratuali, a cura di TENORE, Milano 2010, Cap. IV, par. 4.2.

    [16] FRESA, La responsabilità disciplinare, in Il magistrato e le sue quattro responsabilità, Milano, 2016, 263 ss.

    [17] Si segnalano in dottrina, FIMIANI-FRESA, Gli illeciti disciplinari dei magistrati ordinari, op. cit., 208 ss., 315 ss, DI AMATO, La responsabilità disciplinare dei magistrati. Gli illeciti - Le sanzioni - Il procedimento, Milano, 2013, 303 ss.; CAVALLINI, Gli illeciti disciplinari dei magistrati ordinari prima e dopo la riforma del 2006, Milano, 2011, 239 ss.; FANTACCHIOTTI, Profili sostanziali: le infrazioni disciplinari e le relative sanzioni, in La responsabilità disciplinare nelle carriere magistratuali, a cura di TENORE, Milano, 2010, 222 ss.; CAPUTO, Gli illeciti disciplinari, in Ordinamento giudiziario, leggi, regolamenti e procedimenti, a cura di ALBAMONTE-FILIPPI Torino, 2009, 744 ss.; DE NARDI, La responsabilità di espressione dei magistrati, Napoli, 2008; FUZIO, Le dichiarazioni dei magistrati agli organi di informazione: limiti e rilevanza disciplinare, in Foro It., 2007, V, 69 ss.; GRISOLIA, A proposito di esternazioni dei magistrati e controllo disciplinare, in Quest. Giust., 2002, 6, 1237 ss.; DE NUNZIO, Libertà di manifestazione del pensiero e deontologia professionale del magistrato, in Doc. Giust., 1998, 1977 ss.; GILARDI, Rapporti ‘maturi’ tra giustizia e mass-media: basta poco per riequilibrare l’informazione, in Guida al dir., 1997, 100 ss.; GIOSTRA, Disinformazione giudiziaria: cause, effetti e falsi rimedi, in Dir. pen. e proc., 1995, 390 ss.

    [18] CSM, sez. disc., ord. 2 aprile 2014 n. 47 utilizza invece i due termini “riserbo” e “riservatezza” in maniera equivalente.

    [19] Dal vocabolario Treccani on line.

    [20] Cass., sez. un. 24 marzo 2014 n. 6827 in relazione alla vicenda delle dichiarazioni rese da Annamaria Fiorillo, pubblico ministero minorile a Milano, sul noto caso Ruby.

    [21] Corte cost. n. 100 del 1981.

    [22] Corte cost. n. 224/2009 sul caso di Luigi Bobbio e, più recentemente, Corte cost. n. 170/2018 a proposito della nota vicenda di Michele Emiliano.

    [23] C.E.D.U., 13 novembre 2008, Kayasu c. Turchia.

    [24] C.E.D.U., 15 dicembre 2005, Kyprianou c. Cipro.

    [25]  C.E.D.U., sez. seconda, 9 luglio 2013, Di Giovanni c. Italia.

    [26] C.E.D.U., 16 settembre 1999, Buscemi c. Italia.

    [27] C.E.D.U., 5 maggio 2009, Olujic c. Croazia.

    [28] C.E.D.U., 8 dicembre 2009, Previti c. Italia.

    [29] C.E.D.U., 27 febbraio 1997, De Haes e Gijseks c. Regno Unito.

    [30] Il riferimento è alla modifica della circolare sugli incarichi extragiudiziari realizzata con delibera del 2 dicembre 2015, la quale, nell’art. 4 della circolare, ha inserito il comma 4.2-bis, il quale stabilisce: E’ altresì soggetta ad autorizzazione, da rilasciare secondo i criteri del capo che precede, la partecipazione, programmata, continuativa e non occasionale, anche se gratuita, a trasmissioni televisive, radiofoniche ovvero diffuse per via telematica o informatica, da chiunque gestite, nelle quali vengono trattate specifiche vicende giudiziarie ancora non definite nelle sedi competenti.

    [31] Sul punto, consistente è la casistica delle condotte dei magistrati affrontate dalla Procura generale e definite senza esercitare l’azione disciplinare. Si ricorda, tra i tanti, il caso del Procuratore della Repubblica di Catania e delle sue pubbliche esternazioni sulle ONG e sul salvataggio in mare degli immigrati; il caso del pubblico ministero di Trani e delle sue esternazioni all’indomani della sentenza di assoluzione di esponenti di rilievo dell’agenzia di rating Standard & Poor’s con l’accusa, tra le altre, di manipolazione aggravata del mercato finanziario; il caso del Procuratore della Repubblica di Cosenza e della intervista rilasciata al TGR Calabria, riguardante la riapertura delle indagini sulla morte del calciatore del Cosenza “Denis” Bergamini; il caso del Presidente del Tribunale di Bologna e delle sue esternazioni sul referendum in tema di riforma costituzionale; il caso del Procuratore della Repubblica di Macerata e delle sue esternazioni in tema di c.d. scarcerazioni facili; il caso del Procuratore della Repubblica di Modena e delle sue esternazioni sul processo Parmalat; il caso del pubblico ministero siciliano e della sua intervista sulla vicenda della pretesa fuga di Marcello Dell’Utri all’estero; il caso della partecipazione ad un servizio televisivo sulla c.d. trattativa Stato-mafia del pubblico ministero e del GIP protagonisti del relativo processo.

    [32] Si rimanda per brevità a FIMIANI-FRESA, Gli illeciti disciplinari dei magistrati ordinari, op. cit., 208-212.

    [33] Cass., sez. un., 24 marzo 2014 n. 6827, cit., con ampi riferimenti al diritto all’onore quale diritto della personalità nella costante giurisprudenza della Corte costituzionale e della Corte di cassazione penale.

     

    [34] FANTACCHIOTTI, Profili sostanziali: le infrazioni disciplinari e le relative sanzioni, op. cit., 243.

    [35] In questo senso, FUZIO, Le dichiarazioni dei magistrati agli organi di informazione: limiti e rilevanza disciplinare, in Foro It., 2007, V, 72; DE NARDI, La libertà di espressione dei magistrati, Napoli, 2008, 555; FANTACCHIOTTI, op. cit., 243; contra, CAPUTO, Gli illeciti disciplinari, op. cit., 751.   

    [36] CSM, sez. disc., 26 ottobre 2009 n. 143, che ha trovato conferma in Cass., sez. un., 12 maggio 2010 n. 11431, ove peraltro l’assoluzione relativa all’illecito di cui alla lett. v) non era stata oggetto di ricorso da parte del Procuratore generale della Corte di cassazione.

    [37] CSM, sez. disc., 18 gennaio 2008 n. 3, che ha riguardato le dichiarazioni del pubblico ministero Luigi De Magistris, condannato alla sanzione della censura con trasferimento d’ufficio per plurime violazione dei doveri di diligenza e correttezza, connesse ad indagini di rilevanza nazionale. Cass., sez. un., 11 luglio 2008 n. 19279, ha dichiarato inammissibile il ricorso del magistrato per tardività. 

    [38] CAPUTO, Gli illeciti disciplinari, op. cit., 752; FUZIO, Le dichiarazioni dei magistrati agli organi di informazione: limiti e rilevanza disciplinare, op. cit., 73; FANTACCHIOTTI, Profili sostanziali: le infrazioni disciplinari e le relative sanzioni, op. cit., 244, parla apertamente di dolo specifico e ritiene da escludersi la rilevanza disciplinare quando la dichiarazione pubblica sia giustificata dallo scopo di difendersi da offese e critiche ricevute o di fornire notizie a tutela della corretta informazione giudiziaria. Nello stesso senso, APOSTOLI, Implicazioni costituzionali della responsabilità disciplinare dei magistrati, Milano, 2009, 159; BELTRANI, Come (ri)cambia l’illecito disciplinare, in Dir. e giust., 2006, n. 41, 90.

    [39] Contra, CSM, sez. disc., ord. 2 aprile 2014 n. 47, nel caso delle dichiarazioni rese a “La Repubblica” da Antonino Di Matteo in merito al processo sulla c.d. trattativa Stato-mafia, secondo cui “il dato letterale della lett. v) (…) allorquando richiede che la condotta sia diretta a ledere l’altrui diritto, illumina significativamente, oltre che la condotta materiale in senso teleologico, anche e soprattutto l’elemento soggettivo che va necessariamente qualificato come dolo intenzionale”.

    [40] CSM, sez. disc., 18 gennaio 2008 n. 3, cit., in fattispecie in cui il pubblico ministero De Magistris era stato incolpato dell’illecito in esame perché manteneva un disinvolto rapporto con la stampa ed i mezzi di comunicazione del tutto disattento ai profili di opportunità, nonché di riservatezza delle attività d'indagine preliminare, oggettivamente in grado di determinare la divulgazione del contenuto di atti giudiziari sottoposti al segreto d'ufficio, anche quando svincolati dal segreto investigativo, rendendo dichiarazioni senza la delega del Procuratore della Repubblica e suscitando altresì pubblicità sulla propria attività di indagine. In particolare, rilasciava interviste su quotidiani aventi per contenuto fatti oggetto di indagini in corso e (sia pure allusivamente) soggetti nelle medesime coinvolti, spesso utilizzando espressioni improprie ed incontinenti, in termini di inammissibili sfoghi, del tenore “vogliono togliermi le inchieste”, “vogliono fermarmi”, ed altre della medesima portata; inoltre, dichiarava che il procuratore della Repubblica aveva disatteso le sue richieste di essere affiancato nelle indagini più delicate ed anzi era stato oggetto di accuse “per convincere il CSM ad allontanarmi per incompatibilità ambientale”. Rendeva, quindi, in più occasioni, dichiarazioni pubbliche o interviste riguardanti gli affari in corso di trattazione, con le quali faceva apparire che le iniziative giudiziarie o con finalità di accertamenti deontologici, adottate nei suoi confronti, fossero in realtà manifestazioni di un complotto per far cessare la sua attività di indagine anche con il ricorso ad istituti processuali strumentalmente utilizzati per intaccare l'autonomia e il potere diffuso della magistratura.

    [41] CSM, sez. disc., 4 luglio 2003 n. 70, in fattispecie in cui è stata sottoposta al vaglio disciplinare una intervista rilasciata dal sostituto Procuratore della Repubblica Giuseppe Pititto a un quotidiano contenente critiche all'operato del Procuratore della Repubblica in relazione ad un procedimento trattato dall'ufficio di appartenenza e già a lui stesso assegnato, nonché ai componenti del Consiglio superiore della magistratura in relazione al provvedimento negativo assunto nei suoi confronti. Le dichiarazioni sono state ritenute continenti ed il pubblico ministero è stato assolto (la sentenza non è stata impugnata per cassazione).

     

    [42] CSM, sez. disc., ord. 4 febbraio 2009 n. 11 nella ordinanza nota giornalisticamente come risolutiva del conflitto tra Procure della Repubblica.

    [43] Cass., sez. un., 8 luglio 2009 n. 15976. E’ interessante notare che lo stesso episodio, riesaminato nel merito da CSM, sez. disc., 26 ottobre 2009 n. 143, come si è visto, è stato poi ritenuto non configurare la violazione di cui alla lett. v) in quanto “la pur vivace intervista, non può essere, a parere del Collegio, assunta autonomamente. Essa appare dimostrativa di uno stato d'animo turbato e dunque di una imperfetta lucidità rispetto agli obblighi e agli obiettivi che mai debbono essere dimenticati da un Procuratore della Repubblica. Tuttavia non sembra certo al collegio l'intento, e con esso ovvero la sua obiettiva idoneità, di realizzare una lesione ulteriore a quella già considerata nel complessivo capo a) della rubrica” (il magistrato è stato condannato in via definitiva alla sanzione disciplinare della temporanea incapacità ad esercitare un incarico direttivo o semidirettivo per anni uno con trasferimento d'ufficio ad altra sede e ad altre funzioni per l’illecito di cui alle lett. c), e) ed ff) dell’art. 2 del d.lgs. n. 109 del 2006).   

    [44] CSM, sez. disc., 9 luglio 2010 n. 148, dalla quale emerge che le dichiarazioni, su un quotidiano di tiratura nazionale, erano state le seguenti: “ripeto, ho pianto per i bambini. I loro corpi sono i morti che mancavano. Io credo che il ritrovamento non crei contrasto con l'impianto accusatorio dell'epoca quando gli elementi acquisiti risultarono sufficienti per sostenere il coinvolgimento del padre e la sua custodia cautelare. La situazione non è cambiata, anche alla luce dei due corpi ritrovati. Quando la difesa riuscirà a scalfire l'impianto dell'accusa e a dimostrare che invece lo è, saranno possibili altre valutazioni. E' omicidio anche se si vede cadere qualcuno o se si sa che è in pericolo di vita e non si fa nulla”. Ed ancora: “Ci sono molte cose che restano inspiegate e che lui dovrebbe spiegare. Resta un punto fermo e cioè che lui quella sera è stato visto nella piazza delle Quattro Fontane con i suoi figli. Deve dire dove ha portato i bambini quella sera, deve spiegare. Invece dice di non aver visto i figli quella sera, non ha risposto a molte domande, ha depistato, non ha offerto alcuna giustificazione. E mi chiedo qual è il padre che non vede tornare i suoi figli e che alle sei e mezzo del mattino se ne va a lavorare? Lui ha dimostrato quantomeno noncuranza, indifferenza e disaffezione... ...Difendo il lavoro della Procura e della squadra mobile in questa inchiesta. E' stato mirabile. Adesso tutti sono bravi a dire questo o quello, con il senno di poi. Ma prima era come cercare un ago in un pagliaio”. La sentenza, che aveva condannato il magistrato alla sanzione dell’ammonimento, è stata annullata, per motivi procedurali, da Cass., sez. un., 5 luglio 2011 n. 14664.

    [45] CSM, sez. disc., 10 maggio 2013 n. 65, su cui però v. oltre, particolarmente in ordine all’illecito di cui alla lett. aa).

    [46] CSM, sez. disc., 18 gennaio 2008 n. 3, cit., secondo cui “… quanto alle dichiarazioni rese senza la delega del procuratore, (…) esse non rilevano disciplinarmente poiché la norma sanziona la violazione del comma 2 dell'art.5 il quale tuttavia non riguarda il divieto, per i magistrati delle procure, di rilasciare dichiarazioni o fornire notizie agli organi di informazione circa l'attività giudiziaria dell'ufficio, previsto invece dal successivo terzo comma”.

    [47] Pare opportuno riportare l’intero testo dell’art. 5 del d.lgs. n. 106 del 2006 (“Rapporti con gli organi di informazione”): “1. Il procuratore della Repubblica mantiene personalmente, ovvero tramite un magistrato dell'ufficio appositamente delegato, i rapporti con gli organi di informazione.

    2. Ogni informazione inerente alle attività della procura della Repubblica deve essere fornita attribuendola in modo impersonale all'ufficio ed escludendo ogni riferimento ai magistrati assegnatari del procedimento.

    3. È fatto divieto ai magistrati della procura della Repubblica di rilasciare dichiarazioni o fornire notizie agli organi di informazione circa l'attività giudiziaria dell'ufficio.

    4. Il procuratore della Repubblica ha l'obbligo di segnalare al consiglio giudiziario, per l'esercizio del potere di vigilanza e di sollecitazione dell'azione disciplinare, le condotte dei magistrati del suo ufficio che siano in contrasto col divieto fissato al comma 3”.

    [48] FUZIO, Le dichiarazioni dei magistrati agli organi di informazione: limiti e rilevanza disciplinare, op. cit., 73, il quale osserva anche che “l’evidente discrasia sembra collegarsi ad una svista se non ad un mero errore materiale (che ben si giustifica con la fretta e le modalità con le quali la modifica è stata approvata)”.

    [49] FANTACCHIOTTI, Profili sostanziali: le infrazioni disciplinari e le relative sanzioni, op. cit., 244.

    [50] CAPUTO, Gli illeciti disciplinari, op. cit., 750 ss.

    [51] Il testo originario della lett. v) era il seguente: “pubbliche dichiarazioni o interviste che, sotto qualsiasi profilo,   riguardino i soggetti a qualsivoglia titolo coinvolti negli affari in  corso  di  trattazione,  ovvero  trattati  e  non definiti con provvedimento non soggetto a impugnazione ordinaria”.

    [52] In tal senso, anche CSM, sez. disc., ord. 2 aprile 2014 n. 47, cit..

    [53] Peculiare la fattispecie esaminata da CSM, sez. disc., ord. 9 luglio 2012 n. 99, che ha dichiarato il non luogo a procedere nei confronti di un sostituto procuratore, in relazione all’addebito di aver violato la lett. v) del d.lgs. n. 109 del 2006 ed il terzo comma dell’art. 5 del d.lgs. n. 106 del 2006, in quanto era risultato che aveva partecipato ad una conferenza stampa avente ad oggetto indagini da lui svolte, senza tuttavia rendere alcuna dichiarazione.

     

    [54] CSM, sez. disc., 10 maggio 2013 n. 65, cit., secondo cui “la Sezione ben conosce la disputa dottrinale secondo la quale ci si trovi innanzi ad un refuso del Legislatore che intendeva sanzionare le dichiarazioni dei singoli sostituti procuratori non autorizzati. Ma già la sezione disciplinare, esaminate questioni analoghe, affermò che esse "non rilevano disciplinarmente poiché la norma sanziona la violazione del comma 2 dell'art.5 il quale tuttavia non riguarda il divieto, per i magistrati delle procure, di rilasciare dichiarazioni o fornire notizie agli organi di informazione circa l'attività giudiziaria dell'ufficio, previsto invece dal successivo terzo comma". Nello stesso senso, CSM, sez. disc., ord. 2 aprile 2014 n. 47, che non ritiene in particolare applicabile l’illecito di cui alla lett. g) del d.lgs. n. 109 del 2006, pur motivando comunque sul punto della violazione di legge (art. 5, terzo comma, d.lgs. 106/2006) ritenendola nella specie non grave e non dovuta a negligenza inescusabile. 

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