La rinnovata definizione di pena. Può il giudice comune qualificare autonomamente la materia penale?
di Ginevra Iacobelli
Il principio di legalità è divenuto baluardo della salvaguardia dei diritti individuali fondamentali, in tal senso si sta muovendo anche la Corte Costituzionale che, erigendo la proporzione della pena a pietra angolare della costituzione, sta definendo nettamente i limiti della discrezionalità legislativa.
È chiaro che la pena non è solo sanzione, ma anche diritti. Diviene, allora, fondamentale comprende cosa si intende per materia penale e cosa può fare il giudice comune di fronte a norme di dubbia natura sanzionatoria. Può il giudice comune qualificare autonomamente la materia penale?
sommario: 1. La rinnovata nozione di materia penale- 2. Può il giudice comune qualificare autonomamente la materia penale?
1. La rinnovata nozione di materia penale
È noto che l’individuazione della materia penale è monopolio della funzione legislativa: legislatore, orientato dai principi di offensività e tassatività, nonché della materia costituzionalmente rilevante, traccia i confini del penalmente rilevante.
Ma la definizione di pena vede, ormai, una rivoluzione: si è chiarito, infatti, che qualificare la materia come penale è di rilievo anche al fine di perimetrare l’ambito di operatività delle garanzie sottese al principio di legalità.
La comprensione di cosa si intenda per materia penale appare, infatti, pregiudiziale all’analisi del principio di legalità e alle sue garanzie. Non è un caso che la Corte Edu abbia espressamente affermato che “se gli Stati contraenti potessero, a loro piacimento, qualificare come disciplinare piuttosto che penale un illecito […] l’effetto delle norme fondamentali degli art. 6 e 7 sarebbe subordinato alla loro volontà sovrana. Una cosi ampia libertà rischierebbe di condurre a risultati incompatibili con l’oggetto e lo scopo della Convenzione[1]”.
Per evitare il fenomeno della “truffa delle etichette” e scongiurare che i paesi membri si sottraggano agli obblighi convenzionali attraverso una qualificazione meramente formale, la CEDU ha inteso la nozione di materia penale come autonoma.
In particolare, per verificare se si è in presenza di un “illecito penale” ai sensi della Convenzione è necessario rifarsi a tre criteri elaborati dalla Corte in via pretoria (cd. Engel criteria):
- i)qualificazione giuridica della misura in causa nel diritto nazionale ( occorre accertare se le norme che definiscono l’illecito in questione appartengono, secondo il sistema legale del singolo Stato, al campo penale, fiscale, disciplinare o amministrativo);
- ii)natura dell’illecito;
- iii)grado di severità della sanzione.
Si è così imposta una riqualificazione in termini sostanzialmente penali di istituti diversamente qualificati dal Legislatore nazionale.
“Il risultato è la crescita di un “diritto globale”, di “giustizia e democrazia oltre lo Stato”, che contribuisce a creare un sistema giuridico nuovo, formando e selezionando i principi generali di base, a garanzia dei diritti delle persone, oltre la dimensione più ristretta della cittadinanza (ancora legata al rapporto tra stato, giurisdizione e territorio) (…). In questo nuovo scenario occorre prendere atto che la Giustizia italiana non può più essere considerata un “sistema a sé stante”, ma diventa elemento “formante” del sistema-Europa”[2].
In tal senso, la dottrina[3] individua nel principio di legalità più di un’istanza. Nel principio di legalità convivono diversi contenuti: “un’istanza di matrice liberale che conduce tendenzialmente al monopolio dell’organo rappresentativo-parlamentare nella produzione del diritto. Vi è, poi, un’istanza di matrice costituzionale che pone al centro, quale asse irrinunciabile dell’esperienza giuridica, la salvaguardia dei diritti individuali fondamentali con tutto il loro séguito dei necessari bilanciamenti”.
Tali istanze convivono e la misura con cui la legalità risponde all’una o all’altra varia nel tempo. Attualmente si assiste al crescere della seconda istanza legalitaria: il rafforzamento dei diritti fondamentali. Il potenziamento dei diritti, come un tempo è avvenuto ad opera della Costituzione, oggi avviene soprattutto a Strasburgo.
In tal senso, si distingue [4]tra il piano del precetto penale, che si rivolge all’individuo, e il piano delle garanzie costituzionali e convenzionali, rivolte piuttosto agli organi statali deputati alla produzione e all’applicazione delle norme penali.
Non è in discussione che l’art 25, co. 2, Cost. pone solo in capo al Legislatore il compito di individuare i confini della materia penale, stabilendo cosa è e cosa non è reato. Si discute, piuttosto, a chi spetti determinare l’ambito di applicazione delle garanzie previste.
Non può ritenersi che sia il Legislatore ordinario a decidere sull’estensione delle garanzie costituzionali dalle quali è vincolato; deputata a delineare l’ambito applicativo delle garanzie costituzionali è, allora, l’autorità giudiziaria.
Più chiaramente, la Corte Costituzionale è tenuta a controllare la compatibilità delle scelte legislative con la Carta Costituzionale; i giudici comuni sono tenuti a risolvere le antinomie tra legge e Costituzione con lo strumento dell’interpretazione convenzionalmente orientata, ove possibile, o diversamente a sottoporre quelle antinomie al giudizio della Corte Costituzionale.
2. Può il giudice comune qualificare autonomamente la materia penale?
Così chiarito ne consegue una questione: cosa deve fare il giudice comune dinanzi ad un istituto che il Legislatore nazionale qualifica come non penale, sottratto alle garanzie del principio di legalità, ma che a seguito della sua attività interpretativa assume i connotati della sanzione penale alla luce dei criteri Engel?
Può il giudice comune, che ha il primario compito di tentare un’interpretazione convenzionalmente orientata, qualificare autonomamente in termini sostanzialmente penali l’istituto, non operando un rinvio alla Corte Costituzionale?
Attualmente il tema appare discusso e oggetto di decisioni contrastanti. Il tutto aggravato da una denunciata liquidità e vaghezza dei criteri Engel, pur contrastanti con la stessa necessità di prevedibilità della sanzione penale.
Con la sentenza n. 68 del 2017 la Corte Costituzionale, chiamata a pronunciarsi in relazione alla legittimità costituzionale dell’art. 187 sexies del d.lgs. n. 58 del 1998, che disciplina un’ipotesi di confisca per equivalente, in relazione all’art. 9, co. 6, della l. n. 62 del 2005 che prevede, limitatamente agli illeciti depenalizzati, che la confisca per equivalente si applica anche alle violazioni commesse prima dell’entrata in vigore della legge del 2005, purché il procedimento penale non si definitivo, ha dato vigore alla questione.
Limitatamente a quanto qui di rilievo, la Corte Costituzionale, accogliendo l’interpretazione del giudice a quo, afferma che “non ha motivo per discostarsi dalla premessa argomentativa da cui muove il remittente, sulla natura penale, ai sensi dell’art. 7 CEDU, della confisca per equivalente… è da respingere l’idea che l’interprete non possa applicare la CEDU, se non con riferimento ai casi che siano già stati oggetto di puntuali pronunce da parte della Corte di Strasburgo. Al contrario, l’applicazione e l’interpretazione del sistema di norme è attribuito beninteso in prima battura ai giudici degli Stati membri (C.Cost. 49 del 2015 e 349 del 2007). Il dovere di questi ultimi di evitare violazioni della CEDU li obbliga ad applicarne le norme sulla base dei principi di diritto espressi dalla Corte Edu, specie quando il caso sia riconducibile ai precedenti di giurisprudenza del giudice europea (C. Cost. 276 e 36 del 2016). In tale attività interpretativa, che gli compete ai sensi dell’art. 101, secondo comma, Cost., il giudice incontra solo il limite costituito dalla presenza di una normativa nazionale di contenuto contrario alla CEDU. In tal caso la disposizione interna va impugnata innanzi a questa Corte per violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., ove non sia in nessun modo interpretabile in senso convenzionalmente orientato”.
All’opposto, con la sentenza 109 del 2017, la Corte Costituzionale, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità di talune norme del d.lgs n. 8 del 2016 (legge di depenalizzazione) ricondotte dal giudice a quo a sanzioni in tutto e per tutto penali secondo i criteri engel, evidenzia il “ criterio casistico cui sarebbe in tal modo consegnata l’identificazione della natura penale della sanzione (che potrebbe porsi in problematico rapporto con l’esigenza garantistica tutelata dalla riserva di legge di cui all’art. 25, secondo comma, Cost.)”.
Dottrina maggioritaria, dal canto suo, esclude la possibilità di riqualificazione di un fatto qualificato dal Legislatore come non penale in termini di sanzione penale ad opera del giudice comune: il nomen iuris e il dato formale costituiscono ostacolo insuperabile dal giudice con la sua attività interpretativa.
Si finisce diversamente per attribuire, nei fatti, al giudice penale un potere disapplicativo della norma interna contrastante con l’interpretazione delle norme convenzionali, fino ad ora fortemente contrastato dalla stessa Corte Costituzionale. In tal senso il giudizio di costituzionalità pare l’unica soluzione percorribile per arrivare ad una riqualificazione in termini sostanzialmente penali di un istituto qualificato dal Legislatore nazionale come non penale.
La questione non è di pronta soluzione, specie per la difficoltà di innestare le garanzie del processo penale in procedimenti che penali non sono. Ancora una volta, sarà solo l’opera della giurisprudenza a chiarire quale sarà la tenuta del concetto convenzionale di materia penale nel nostro diritto interno.
[1] Corte EDU, GC, Engel e altri c. Paesi Bassi, 8.6.1976
[2] Relazione del Primo Presidente della Corte di cassazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2009
[3] F. Palazzo
[4] F. Viganò