Sommario: 1. Il Sessantotto delle leggi sulla droga - 2. Cosa c’era prima: le leggi sino agli anni Cinquanta e l’atteggiamento liberale - 3. Cosa c’era prima: la legge del 1954 e l’atteggiamento proibizionista – 4. La frattura sociale degli anni Sessanta e la necessità di superare il proibizionismo – 5. La richiesta di una nuova legge - 6. Il confronto politico e il dibattito parlamentare - 7. Il contenuto della legge n. 685, la più importante di tutte le leggi sulla droga - 8. Una legge troppo nuova e già vecchia
1. Il Sessantotto delle leggi sulla droga
Il “Sessantotto” della droga fu nel 1975: si può dire così, per il significato che questo termine ha assunto di turbolento cambiamento di una situazione; ma soprattutto perché la legge del 22 dicembre 1975 n. 685 fu il frutto di un’evoluzione sociale che ha trovato nei movimenti del Sessantotto la causa e l’impronta culturale[1]. E quella riforma fu anche espressione di un paese che era ancora capace di interrogarsi su se stesso, di fare un’analisi collettiva dei problemi e delle questioni sociali, e infine di trovare una soluzione condivisa.
Fu dunque una stagione politica e sociale irripetibile, e mai ripetuta, che produsse la nuova legge sulla droga, in un contesto che portò a varare altre importanti leggi di riforma, come il nuovo diritto di famiglia, le leggi in materia di divorzio e aborto, la deistituzionalizzazione della psichiatria, la riforma penitenziaria, la riforma della scuola, della casa, l'ordinamento regionale, il voto ai diciottenni, il finanziamento pubblico dei partiti, lo statuto dei lavoratori.
La legge n. 685, assieme alle altre, nacque da istanze sociali che trovarono persone e gruppi capaci di comprenderle e rappresentarle; da una discussione cui parteciparono alcuni fra i migliori uomini della politica e della società di quel tempo, i cui nomi oggi sono ricordati solo da chi c’era; dall’apporto di sociologi, psicologi, preti di strada e altre figure che mai avevano prima contribuito alla vita politica del paese. In contrapposizione al pensiero unico della droga come male assoluto, l’uso di sostanze stupefacenti venne da alcuni considerato una conquista di libertà; non solo, ma addirittura un atto di rivolta sociale, come la libertà sessuale e la contestazione dell’ordine familiare; contribuì a creare una cultura alternativa, che era miscuglio di fattori eterogenei come i guru indiani, il pacifismo, il cristianesimo sociale; fu anche una moda, come i capelli lunghi e i pantaloni a zampa di elefante; e fu certo una pratica identitaria generazionale, sancita da canzoni, raduni, manifestazioni e occasioni di incontro.
Sia chiaro: la concezione dell’uso di droghe come fenomeno accettabile o addirittura positivo, fra gli anni Sessanta e gli anni Settanta, non fu di coloro che ne rimasero esclusi per motivi di classe sociale, o per scelte politiche, o di identità (motivi in cui mi riconosco) e che conservarono uno sguardo freddo, spesso decisamente negativo, su queste condotte. Non fu di tutti, ma lo era per molti. Così una nuova legge divenne necessaria e fu benvenuta perché – con le altre leggi prima citate – servì a traghettare questo paese dal dopoguerra alla modernità, con i suoi pregi e i suoi difetti. Traghettare significa portare da una sponda all’altra. Ma qual era e cosa c’era nella sponda che si lasciava? E poi, cosa si pensava di trovare, e cosa invece si trovò, nella sponda di approdo?
2. Cosa c’era prima: le leggi sino agli anni Cinquanta e l’atteggiamento liberale
È necessario per comprendere la portata “rivoluzionaria” della legge fare un passo indietro, anzi due: non solo fino alla legge del 1953 che la precedette, ma anche alla normativa sugli stupefacenti che c’era, o non c’era, sino al “codice Rocco” del 1930[2].
Anche la normativa che non c’era, sì: in Italia – ma in tutti i paesi che oggi definiamo “occidentali” - sino al XIX secolo il fenomeno delle sostanze stupefacenti non era regolamentato. Se ne faceva un (modesto) uso medico (e non dimentichiamo Freud e il suo “Cocaina”); se ne faceva un limitato uso di quello che oggi definiamo “ricreativo”, limitato principalmente fra persone dell’alta società (in ispecie la morfina) e nelle fumerie di oppio che, provenienti dall’Asia, si diffusero anche in Europa e in America.
Il Codice penale Zanardelli del 1889 certo vietava la vendita e la circolazione di "cose pericolose per la salute umana", ma si riteneva non facesse riferimento alle droghe. A prescindere dal classismo e dalla pessima condizione popolare, era una società liberale: per questo l'assunzione di allucinogeni o stimolanti veniva considerata una scelta non sindacabile del singolo individuo, sulla quale lo Stato non doveva interferire. Un atteggiamento che – si può anticipare – si ripropose in altra forma, con le proposte dei radicali, negli anni Sessanta del secolo successivo e fu fra le cause della legge del 1975.
L’uso di droghe cominciò a diffondersi sino a diventare un problema sociale e una preoccupazione per la sicurezza agli inizi del XX secolo. L’uso sempre crescente di oppio nelle “colonie”, come la Cina e le Filippine, era diventata un problema sanitario, che si temeva si estendesse ai paesi occidentali; preoccupazione che riguardava anche la cocaina e, in misura minore, altre sostanze.
Si giunse per questo al primo trattato internazionale, la Convenzione internazionale sull'oppio, firmata a L’Aia il 23 gennaio 1912. I paesi firmatari, tra cui il nostro, si impegnavano a controllare “tutte le persone che fabbrichino, importino, vendano, distribuiscano e esportino” cocaina e morfina. L’Italia onorò l'impegno assunto con la l. 18 febbraio 1923 n. 396, con la quale fu per la prima volta prevista la punizione di coloro che commerciavano la morfina, la cocaina nonché le "sostanze velenose che in piccole dosi danno azione stupefacente". Una punizione che oggi considereremmo blanda: la reclusione da 2 a 6 mesi. È con questa legge che l’espressione “stupefacente” appare nell’ordinamento italiano.
Con l'entrata in vigore del Codice penale del 1930, l’espressione “sostanze stupefacenti” divenne autonoma e distinta rispetto alle “sostanze velenose”; nel “Codice Rocco” la disciplina concernente gli stupefacenti era prevista negli artt. 446, 447, 729 e 730 c.p.; le fattispecie incriminatici perseguivano l'obiettivo di tutelare più adeguatamente l'incolumità pubblica sanzionando penalmente le condotte di commercio clandestino e fraudolento, di agevolazione dolosa dell'uso di sostanze stupefacenti, di abuso di tali sostanze e, infine, di somministrazione delle stesse ai minori di anni sedici. La pena per i delitti era più sostanziosa, da 6 mesi a 2 anni, per le contravvenzioni l’ammenda era di 5.000 lire.
Con il r.d.l. 15 gennaio 1934 n. 151 (art. 12) venne per la prima volta introdotta un'ipotesi di intervento coattivo per il trattamento del tossicodipendente. L’intervento non prevedeva prevenzione e assistenza medica, ma consisteva nel ricovero coatto in una casa di salute per chi fosse stato colto in stato di grave alterazione psichica per abuso di sostanze stupefacenti, al fine di essere sottoposto ad una cura disintossicante.
È importante evidenziare che la legge n. 396/1923, il Codice penale Rocco e la l. n. 151/1934 non punivano il consumo di stupefacenti in quanto tali, ma solo le ipotesi in cui il consumo aveva riflessi negativi sull'ordine pubblico e sulla immoralità del vizio quando esce dalla sfera privata. Si può dire che nel ventennio fascista e nel periodo della ricostruzione la diffusione della droga non era un serio problema di sicurezza pubblica, e la tossicomania rimase, in effetti, una patologia rara e non una piaga sanitaria.
3. Cosa c’era prima: la legge del 1954 e l’atteggiamento proibizionista
Con la L. 22 ottobre 1954, n. 1041, che fu la prima disciplina della materia dopo la Costituzione, si ebbe una radicale svolta nella normativa sugli stupefacenti, caratterizzata da una forte impostazione repressiva.
La riforma non era suggerita da una nuova dimensione del consumo, che non era affatto diventato, in quel momento, di rilevanti effetti sociali e sanitari; ma dalle forti pressioni dell'Organizzazione Mondiale della Sanità e in particolare dal governo degli Stati Uniti, al fine di combattere il traffico di oppiacei tra la Turchia e l'America: era dal bacino del Mediterraneo che provenivano eroina e morfina che stavano invadendo gli USA.
La legge nacque con queste premesse di carattere politico e avviò un approccio repressivo indirizzato a colpire chiunque avesse a che fare con qualsiasi tipo di sostanza stupefacente, senza distinzione tra consumatore e spacciatore. Al centro delle preoccupazioni del legislatore vi era, per quanto detto sopra, l’oppio: infatti l’art. 4 puniva specificamente “la coltivazione del papavero (papaver somniferum L.)”; la coltivazione di canapa indiana, piante della coca, funghi etc. doveva ritenersi compresa nel divieto di “altre piante dalle quali si possono ricavare sostanze comprese nell'elenco degli stupefacenti"
Oggetto pressoché esclusivo della legge era la disciplina - mediante l’approntamento di una specifica struttura e di una minuziosa normativa amministrativa - dell’uso sanitario, medicale e farmaceutico, cui presiedeva, presso “l'Alto Commissariato per l'igiene e la sanità pubblica”, un neocostituito “'Ufficio centrale stupefacenti” che provvedeva “all'esercizio della vigilanza e del controllo” sulle sostanze stupefacenti – compresa la compilazione dell’elenco delle medesime – e alla “organizzazione della lotta contro la tossicomania”.
In pratica, il sistema richiedeva una autorizzazione per qualsiasi condotta riguardante le droghe (art. 6: “Chiunque, senza autorizzazione, acquisti, venda, ceda, esporti, importi, passi in transito, procuri ad altri, impieghi o comunque detenga…”), e si prevedeva la sanzione penale (da tre a otto anni di reclusione) per chi era privo dell’autorizzazione o ne faceva un uso non consentito. L’atteggiamento proibizionista che permeava la legge del 1954 si è poi ripresentato e si ripresenta tuttora segnando le numerose modifiche della instabile normativa sulla droga.
Il proibizionismo penale trovava ferma coerenza nelle previsioni sanitarie. La legge prevedeva (art. 20) che “Il sanitario che assiste o visita persona affetta da intossicazione cronica prodotta da stupefacenti, deve farne denuncia, entro due giorni, all’autorità di pubblica sicurezza e al prefetto”; obbligo sanzionato con un’ammenda, ma se il medico era recidivo con l’arresto e la sospensione dall’esercizio della professione. La tossicomania era curata con un trattamento coattivo, soggetto a controllo dell’autorità giudiziaria, nei confronti di chi per abuso di sostanze stupefacenti era un pericolo per sé, ma soprattutto dava “pubblico scandalo”[3].
4. La frattura sociale degli anni Sessanta e la necessità di superare il proibizionismo
Negli anni Sessanta si verificò un progressivo disallineamento tra società civile e istituzioni e soggetti politici: al boom economico seguì una fase di contestazione sociale e culturale. Determinanti furono le trasformazioni economiche, conseguenti alla ricostruzione post-bellica: l'industrializzazione, l'aumento dei consumi di massa, l'espansione edilizia, i grandi flussi migratori interni, l'aumento dell'alfabetizzazione e della scolarizzazione, l’incremento dell’accesso all’istruzione superiore.
Tutto questo determinò un cambio dei costumi e delle mentalità, con la comparsa dei “giovani” quale attore collettivo che procedette, grazie alle nuove condizioni economiche e ai nuovi strumenti culturali, all’elaborazione di una cultura giovanile che coglieva le profonde contraddizioni della società ed era curiosa di quanto avveniva negli altri contesti internazionali.
“L’evoluzione dei rapporti sociali, l’entrata sulla scena delle generazioni che non avevano preso parte alla guerra, l’allargamento delle condizioni del benessere, la rivendicazione di un’autonoma capacità espressiva per categorie e gruppi finora identificati con strutture collettive chiuse (dai cattolici agli operai) sono tutti elementi che convergono nel senso di sovrapporre al pluralismo partitico, che finora aveva rivendicato un sostanziale monopolio nella rappresentazione della società, un pluralismo sociale orizzontale, strutturato in gruppi pronti a non riconoscere più le tutele partitiche…. È un tratto, quello del protagonismo degli attori sociali, in veste vicaria, quando non sostitutiva, dell’elaborazione politico-partitica, che attraversa tutto intero il periodo in questione, segnando le luci e le ombre di una stagione di riforme[4].
Da questo punto di vista, la legge 685 può indubbiamente essere considerata figlia di una stagione politica in cui vengono varate altre importanti leggi di riforma, come il nuovo diritto di famiglia, le leggi in materia di divorzio e aborto, la deistituzionalizzazione della psichiatria, la riforma penitenziaria, la riforma della scuola, della casa, l'ordinamento regionale, il voto ai diciottenni, il finanziamento pubblico dei partiti, lo statuto dei lavoratori[5].
Il fenomeno della droga stava subendo un cambiamento radicale. Per quanto riguarda il consumo, all’interno delle frange giovanili più avanzate dal punto di vista politico e culturale (i gruppi extraparlamentari e studenteschi), che proponevano la lotta di classe come modello di emancipazione collettiva, avvenne la prima diffusione delle sostanze stupefacenti, che raggiungerà nel giro di pochi anni tutte le classi sociali e il mondo degli adulti, diffondendo al contempo una cultura alternativa, con comportamenti e significati specifici. Secondo buona parte dell’opinione pubblica e dei soggetti istituzionali, invece, “le droghe leggere rappresenterebbero il primo picchetto del continuum che ha come limite opposto la tossicomania da eroina. In sostanza, le droghe leggere rappresenterebbero soltanto un primo momento dell'esperienza tossicomanica, e non qualcosa di diverso”[6].
In quegli anni si vanno delineando i due modelli principali di assunzione delle sostanze psicotrope: il consumo dei derivati dalla canapa indiana e degli "acidi", come ad esempio LSD (più avanti si aggiungerà la cocaina), che si caratterizza per l'aspetto maggiormente sociale dell'esperienza; il consumo di eroina dove è centrale, sino a divenire un rito, l'uso dell'iniezione, è sostanzialmente individualista. Due modalità che non sembravano comunicanti, ma avere percorsi distinti[7].
La scomparsa sul mercato clandestino della morfina, sostituita dalla più remunerativa eroina, fece sì che in Italia, dal 1973-74 in poi, la tossicodipendenza divenisse sostanzialmente un problema di dipendenza da eroina e il tossicodipendente fosse quasi sempre un eroinodipendente. Nel 1974 venne segnalato il primo decesso ufficiale di un giovane per overdose: molto probabilmente si erano verificate già altre morti per la medesima causa, ma non erano state diagnosticate come tali[8].
La forte evoluzione del fenomeno ebbe effetti anche nella risposta della giurisprudenza, ma in senso contrario a quanto ci si aspetterebbe. Sinché il fenomeno del consumo di droga non divenne un problema sociale rilevante, la Cassazione interpretò l'articolo 6 della legge del 1954 (quello relativo alla punibilità) in modo da non sanzionare la punibilità in ogni caso del consumatore[9]. A partire dal 1958 la giurisprudenza mutò radicalmente indirizzo, ristabilendo la necessità della sanzione anche per il consumatore, atteggiamento approvato nel 1972 dalla Corte costituzionale, che non ritenne irragionevole tale sistema sanzionatorio in quanto esso “sotto l'egida del principio di tutela della pubblica salute, consacrato nell'art. 32 Cost., si inserisce … nel quadro generale … della lotta, con mezzi legali, su tutti i fronti, contro l'alto potere distruttivo dell'uso della droga e contro il dilagare del suo contagio, … tale da suscitare, in misura sempre più preoccupante, turbamento dell'ordine pubblico e di quello morale”[10]. È una sentenza già fuori tempo ormai, considerata la situazione sociale di quel periodo.[11].
Questa, dunque, la situazione normativa, sociale, giurisprudenziale a cavallo fra gli anni 60 e 70. La legge 1041 del '54 che prevedeva per il tossicodipendente la sola alternativa fra il carcere e il manicomio, che attirava nel sistema penale i comportamenti come l’uso personale delle droghe, era divenuta obsoleta e intollerabile: era necessario che la tossicodipendenza cessasse di essere disciplinata normativamente solo come un problema di ordine pubblico, prevedendo invece una normativa che la considerasse anche un problema sociale e sanitario, e prevedendo che la figura del tossicodipendente (considerando finalmente anche il dramma della sua famiglia) fosse considerata quella di un soggetto avente diritto di accedere a dei servizi di cura e riabilitazione su di lui approntati[12].
5. La richiesta di una nuova legge
Gli attori sociali che più di tutti si contraddistinsero nel movimento che portò nel 1975 alla nuova legge furono il partito radicale e le associazioni cattoliche, che, con opposte traiettorie, si trovarono affiancate nel richiederla.
Da qualche anno era in atto una campagna del Partito Radicale, di cui era leader Marco Pannella, incentrata sulla depenalizzazione del possesso di droghe leggere e sulla decriminalizzazione dei tossicodipendenti, contro la legge che li puniva penalmente. Secondo lo stile suo proprio, teso a ottenere con azioni provocatorie l’attenzione dell’opinione pubblica, per manifestare in favore della depenalizzazione del consumo di cannabis nel 1975 Pannella adottò uno dei primi atti di disobbedienza civile che lo renderanno poi celebre: il 2 luglio si fece infatti arrestare, autodenunciandosi per aver fumato uno spinello[13].
Deve essere rimarcato che il partito radicale non condivideva la proposta di legge sulla droga in discussione al Parlamento. Essa, si affermò, conteneva una vistosa contraddizione: da una parte consente l'uso e la detenzione di una "modica quantità", per uso personale, di droga, dall'altra vieta il commercio, la vendita, la produzione. Inoltre la legge venne censurata in quanto continuava a considerare i derivati della canapa indiana come droghe, mentre il consumo avrebbe dovuto essere libero. Marco Pannella più volte affermò che una legge così approvata era criminogena perché consegnava alla criminalità il commercio di droga, costringeva i drogati ad entrare nel circuito criminale, aumentava il proselitismo; infine Pannella avvertì: “i morti per eroina, se questa legge viene approvata, raddoppieranno in pochi anni”[14].
Riconducibile a quella del partito radicale, anche se parzialmente diversa su alcuni punti, era la posizione dei movimenti “controculturali”, una galassia che si spirava a esperienze internazionali (Huxley, Leary…) e trovava espressione in riviste come “Re Nudo”, “Fallo!”, “Controcampo” e altre. Al contrario, i cosiddetti gruppi extraparlamentari di sinistra criticarono in diverse occasioni le posizioni controculturali, etichettandole come «problematicismo piccolo borghese»[15]. Sulla questione del consumo di droga le controversie furono particolarmente aspre, poiché la “nuova sinistra” sosteneva che impegno politico e consumo di droghe leggere erano pratiche incompatibili. I gruppi controculturali, dal canto loro, accusavano le altre formazioni di mostrare scarsa sensibilità verso le questioni esistenziali e di ricorrere a forme di eccessivo militarismo, espresso negli interventi dei loro servizi d’ordine[16].
È significativa la posizione del gruppo extraparlamentare meno dogmatico, Lotta Continua. In esso si aprì un ampio dibattito interno sul consumo di droga, in un periodo di crescente uso di droghe pesanti in Italia, incentrato sulla contrapposizione tra chi utilizzava la droga come strumento di fuga o autodistruzione e coloro che la vedevano come forma di protesta o di espressione politica, anche se tale prospettiva non era unanimemente condivisa. Prevalentemente, il gruppo non riteneva coerente con la lotta di classe il consumo di sostanze stupefacenti: “Pur interessandosi a una vasta gamma di questioni riguardanti le classi popolari e giovanili, fino al 1972 furono sporadici i riferimenti al consumo di stupefacenti su «Lotta Continua». In continuità con la tradizione socialista e comunista, la droga era considerata un elemento estraneo ai costumi della classe operaia, per cui non vi era interesse a indagare le dimensioni assunte dalla sua diffusione e le cause che ne erano alla base, né venivano prese in considerazione le teorie della controcultura”[17].
Sul fronte cattolico, nel 1975, il Gruppo Abele di Torino[18], ispirato e guidato da don Luigi Ciotti[19], decise di richiamare l’attenzione pubblica sul problema della tossicodipendenza e sollecitare la ripresa del dibattito parlamentare organizzando un’importante azione di protesta. Dal 28 al 30 giugno, si svolse uno sciopero della fame di due giorni in piazza Solferino; il 1° luglio, mentre i giovani del Gruppo Abele erano al terzo giorno di sciopero della fame, iniziò un altro digiuno di protesta a Milano, in piazza Duomo, condotto da giovani aderenti all’associazione Comunità Nuova di don Gino Rigoldi, che lavorava soprattutto per il reinserimento sociale dei minori detenuti[20]. In questo contesto, gli attivisti torinesi presero le distanze il 2 luglio dall’azione dimostrativa di Marco Pannella, sopra ricordata, dichiarando di comprenderne le motivazioni, ma di rifuggire dai “gesti clamorosi”[21].
Sempre il 2 luglio, alcuni detenuti dal carcere Le Nuove di Torino si erano rifiutati di rientrare in cella dopo l’ora d’aria, asserragliandosi sui tetti e chiedendo di parlare con il sostituto procuratore, con un avvocato e con don Ciotti, spiegando di voler condurre una manifestazione pacifica in solidarietà con il Gruppo Abele, con il quale alcuni di loro avevano avuto in passato contatti diretti al Centro Droga. Condotti in isolamento, dodici di loro avevano iniziato uno sciopero della fame, ottenendo un colloquio con don Ciotti. I detenuti elaborarono un proprio documento di rivendicazione, prodotto durante la protesta sui tetti. In esso, i detenuti chiesero la depenalizzazione dell’uso di sostanze stupefacenti, ricordando come la tossicomania fosse ufficialmente inserita tra le malattie sociali, mentre nella realtà era in corso una chiara discriminazione ai danni del tossicomane, braccato dalla polizia, emarginato dalla massa, immerso in una estenuante ricerca di denaro per procurarsi la droga. In questa situazione, le uniche conclusioni possibili finivano per essere la prigione («che non guariva ma creava solo emarginazione»), il manicomio e la morte[22].
6. Il confronto politico e il dibattito parlamentare
Sulla riforma della normativa sugli stupefacenti vi era una proposta ufficiale del governo con un disegno di legge firmato dai ministri Gaspari e Gonella, che era stato approvato dal Consiglio dei ministri alla fine del 1972. La sua discussione, nel momento di grande tensione per questioni che più preoccupavano i partiti (divorzio, aborto, terrorismo…) aveva subito una battuta d’arresto fino all’estate 1975. Prevaleva il clima di contrapposizione, per cui “sull’onda del lungo Sessantotto, i giornali più conservatori iniziarono inoltre ad associare il consumo di stupefacenti agli avversari politici, individuati nei giovani extraparlamentari e nei comunisti, riuscendo a portare questa rappresentazione al centro del dibattito pubblico”[23].
Le iniziative dei gruppi cattolici e radicali perciò influirono grandemente sul dibattito parlamentare, rivitalizzandolo e provocando molte altre proposte di legge. La ripresa del dibattito parlamentare avvenne in un quadro politico mutato dagli esiti del referendum sul divorzio e dall’avvio dell’interlocuzione sul «compromesso storico», contraddistinguendosi per un clima di collaborazione tra democristiani, socialisti e comunisti, che approvarono insieme la nuova normativa sugli stupefacenti.
Per migliorare la legge in discussione nelle Commissioni parlamentari, i comunisti si dichiaravano favorevoli all’aumento delle pene per spacciatori e trafficanti, mentre erano fortemente contrari a colpire gli intossicati, specie se giovani o minorenni, per i quali proponevano il trattamento sanitario anonimo e il potenziamento del lavoro sulla prevenzione. Anche i partiti di area governativa mostrarono interesse verso l’iniziativa condotta dal Gruppo Abele, come testimoniato dagli incontri che gli attivisti torinesi riuscirono a svolgere a Roma nei giorni successivi.
La legge 685 del 22 dicembre 1975 nacque dunque sotto la spinta sempre più pressante e urgente della necessità di intervenire sul fenomeno del consumo di droga. La riforma fu il frutto di una attenta mediazione tra ben quindici diversi progetti di legge presentati in Parlamento ad opera di quasi tutte le parti politiche e venne approvata con il consenso di tutti i gruppi politici ad eccezione del Movimento Sociale Italiano.
7. Il contenuto della legge n. 685, la più importante di tutte le leggi sulla droga
La nuova legge presenta tre fondamentali novità rispetto alla precedente legge 1041 del '54: "La prima riguarda l'estensione della disciplina alle sostanze psicotrope e cioè alle anfetamine, ai barbiturici, ai tranquillanti e agli allucinogeni. La seconda novità attiene all'instaurazione di una strategia differenziata, che parte dalla depenalizzazione dell'acquisto e della detenzione illecita per uso personale e giunge a prevedere pene di speciale rigore nei confronti dei grandi trafficanti professionali organizzati. La terza concerne l'apertura verso attività di prevenzione, di trattamento e di reinserimento sociale dei soggetti farmaco-dipendenti, che è di ampiezza tale da far ritenere che il legislatore confidi più sull'efficacia dei relativi interventi che sull'impatto della repressione, al fine di combattere radicalmente il fenomeno”[24].
La legge è composta di 108 articoli, divisi in 12 titoli[25]. Essa è nota ancora oggi per avere distinto il trattamento giuridico delle “droghe leggere” e delle “droghe pesanti”. Ma il punto maggiormente innovativo, il contenuto principale di questa riforma, è la chiara attribuzione del ruolo centrale alle istituzioni sanitarie, non a quelle repressive. Per queste due rivoluzionarie novità la legge 685 rimane la più importante nella centenaria produzione normativa sugli stupefacenti. La sua impostazione è stata progressivamente annacquata e affiancata da riforme contenenti limitazioni al consumo e inasprimenti di pena, ma non è mai venuta meno.
Il meccanismo creato dalla riforma riguarda le attribuzioni del Ministero della Sanità e delle Regioni. Il ministero ha il compito di dirigere, attraverso le direttive, l’indirizzo e il coordinamento, le politiche di prevenzione, cura e riabilitazione degli stati di tossicodipendenza da sostanze stupefacenti, di vigilare sulla coltivazione, la produzione, la fabbricazione, il commercio, il transito etc. di sostanze stupefacenti; è il Ministero della Sanità che deve curare i rapporti con i diversi organismi internazionali, quindi anche con gli uffici delle Nazioni Unite, da cui arrivavano informazioni e indicazioni operative fondamentali, eseguendo tempestivamente gli adempimenti previsti nelle convenzioni ratificate dall'Italia.
Alle Regioni, invece, viene delegata la messa in atto di interventi di prevenzione, di cura e riabilitazione; vengono previsti Comitati regionali per la prevenzione delle tossicodipendenze (art. 91) e una rete territoriale di Centri medici e di assistenza sociale (Cmas), gestiti in un primo tempo dai Comuni e in seguito dalle U.S.L..
Si tratta di una attribuzione sanitaria innovativa ed esclusiva: l'unica istituzione sanitaria considerata nella precedente legge, e cioè l'ospedale psichiatrico, dopo la riforma non è più fra i possibili luoghi di ricovero (articoli 90, 100, 107), anzi viene introdotto il diritto di scelta dei luoghi di cura e dei medici curanti. Nel corso del trattamento viene riconosciuto il diritto a mantenere l'anonimato (art. 92) e a fruire di interventi terapeutici improntati al rispetto della personalità degli assistiti, e non autoritari né repressivi (art. 92). Vengono previste nuove figure sociosanitarie che integrano il circuito terapeutico per la prevenzione cura e riabilitazione degli stati di tossicodipendenza: gli assistenti volontari (che possono operare presso i Cmas a titolo gratuito) e gli enti ausiliari (art. 94).
La previsione degli enti ausiliari è fra le più significative; si tratta di "associazioni, enti ed istituzioni pubbliche o private che abbiano come loro specifica finalità l'assistenza sanitaria, sociale e la riabilitazione di ogni categoria di persone in stato di necessità, senza scopo di lucro". La loro attività è sottoposta al controllo e agli indirizzi di programmazione della Regione in materia. Il rapporto tra gli enti ausiliari e le strutture pubbliche (che per competenza sono le Regioni) si basa su una convenzione che prevede i diritti e doveri, anche di carattere economico, di entrambe le parti.
Sul versante penale, altrettanto rivoluzionaria è l’introduzione della non punibilità della detenzione per uso personale, anche a fini non terapeutici, di modiche quantità di stupefacenti (art. 80); in pratica, la detenzione rimane comunque illecita secondo la previsione generale dell’art. 71; ma il consumatore di sostanze stupefacenti è considerato un malato e non un criminale: per cui il detentore-consumatore, se è stato trovato in possesso di una quantità ritenuta "modica", non è penalmente sanzionato.
Superando tutte le contraddizioni delle normative dal 1923 al 1954, vengono introdotte tabelle con l’indicazione esclusiva delle sostanze stupefacenti. Le tabelle erano state introdotte già nel 1923, ma il codice Rocco conservava la possibilità per il giudice, in materia di stupefacenti, di ritenere tali altre sostanze in base ad una indicazione generica, con valutazione sulla concreta base dei loro effetti. Con la riforma, può essere considerata stupefacente solo la sostanza inserita nell'apposito elenco predisposto dal Ministero della Sanità, che viene costantemente aggiornato con Decreti ministeriali. In esecuzione di tale principio, vengono create dalla legge sei tabelle nelle quali vengono inserite le sostanze ritenute stupefacenti (articoli 11 e 12), accorpando da un lato le cosiddette "droghe pesanti" (oppio e derivati, coca e derivati, anfetamine, tetraidrocannabinoli - "olio di hashish" - e allucinogeni) e dall’altro lato la cannabis (definita cannabis Indica) e suoi derivati, considerati "droghe leggere". La normativa adottata, aderendo al sistema analitico-elencativo prevista anche a livello internazionale, pur creando criticità in relazione alla riserva di legge penale, tuttavia venne ritenuta da dottrina e giurisprudenza la soluzione più rispettosa del principio costituzionale di legalità visto che l’assenza di liste tassative delle sostanze vietate avrebbe lasciato all'interprete troppi margini di discrezionalità.
Sotto l’aspetto sanzionatorio, venne creato un sistema molto articolato, sia per quanto riguarda le diverse condotte illecite (produzione, offerta, importazione, detenzione...), sia le fattispecie di reato aggiuntive (associazione per delinquere, agevolazione, induzione...): a questi tipi di condotte illecite corrispondono sanzioni che distinguono fra droghe “leggere” e “pesanti”, da 1 a 15 anni di reclusione per i casi considerati più gravi[26], con aumenti draconiani per le aggravanti. Erano previste dall’art. 72 conseguenze amministrative, piuttosto blande soprattutto per le droghe leggere[27].
8. Una legge troppo nuova e già vecchia
Alla luce di quanto è avvenuto in questi 50 anni, tentando un bilancio, il paradosso della legge n. 685 è che nel 1975 era troppo avanzata per coloro che erano legati a principi etici e a valori morali considerati irrinunciabili (e che volentieri volevano imporre…), che rifiutavano l’uso di droghe in assoluto e che mai e poi mai tolleravano che lo Stato fosse indulgente o, peggio, di fatto agevolasse il consumo di droga. Essi facevano esplicitamente risalire alla legge 685/1975 (per questo ritenuta fallimentare) il drammatico espandersi nel nostro paese della tossicodipendenza. Contemporaneamente, la legge sugli stupefacenti nel 1975 nasceva già superata: le stesse dimensioni e la qualità del consumo che avevano portato a elaborare e introdurre la riforma erano già oggetto, nel momento in cui la si approvava, di una drammatica evoluzione, che in breve ne rivelò i limiti.
Il consumo delle droghe leggere restò quasi invariato e si evolvette lentamente, senza creare nuovi problemi sociali. Il mercato e il consumo delle droghe pesanti (allora, quasi solo dell’eroina) legati sino ai primi anni ’70 a un approvvigionamento poco più che artigianale, invece stavano già cambiando: il sistema di produzione e fornitura al mercato di eroina venne sconvolto e per sempre soppiantato da una massiccia importazione e dalla produzione nelle raffinerie della mafia, con un sistema di diffusione e spaccio monopolizzato dalla criminalità organizzata.
Il consumo sporadico, quasi elitario, che vi era stato sino agli anni Sessanta[28] si alterò per sempre mediante il coinvolgimento di grandi fasce giovanili non politicizzate e non abbienti. Il consumo divenne di massa da parte di giovani proletari e sottoproletari, “costretti”, per procurarsi il denaro per l’acquisto, a farlo con modalità illegali (furti e rapine da quattro soldi) o socialmente inaccettabili (ad esempio con pressioni dolorose e violente sui genitori, prostituzione…) o a loro volta incentivanti il consumo attraverso il piccolo spaccio per “guadagnare” la dose personale.
L’approvazione della legge n. 685 certamente non sopì la polemica, al contrario. Le accuse di permissivismo o lassismo erano dovute soprattutto all'articolo 80 (detenzione per uso personale di sostanze stupefacenti o psicotrope) e al concetto di "modica quantità" ad esso legato, ritenuto lo strumento attraverso il quale passava l’idea della piena libertà dell'individuo di drogarsi. Altri commentatori al contrario ritenevano la legge ancora troppo repressiva: vero che la legge esaudiva nell'art. 80 la necessità di non punire il consumatore, ma finiva per assoggettare alla sanzione penale anche la figura del tossicodipendente-piccolo spacciatore, inevitabilmente prodotta dal sistema di circolazione illegale; inoltre vietava la cessione di sostanze stupefacenti anche a titolo gratuito con ciò comportando l'assoggettamento a sanzioni di tutti i casi di uso di gruppo di sostanze.
La posizione restrittiva e proibizionista aveva molti argomenti e risultò prevalente. L’opinione pubblica in gran parte non tollerava più il consumo di droga (eroina, principalmente) divenuto pubblico e pericoloso, con i “tossici” visibili e provocatori di disagio per le strade, protagonisti del dilagare di una microcriminalità che invadeva ogni luogo. Così le forze politiche non solo di destra, che facevano della sicurezza un tema centrale, presto proposero una nuova legge, avente come punto cardine la punibilità del tossicodipendente e dell'assuntore anche occasionale di droghe, pesanti o leggere. Ignorando volutamente che, date le dimensioni sociali ed economiche del fenomeno, vi era l’evidente impossibilità, per un apparato giudiziario già prossimo al tracollo, di gestire un nuovo elevatissimo numero di processi penali[29].
D’altra parte, vi era un’opinione (a quel punto minoritaria), promossa soprattutto dai radicali, che accusava la legge di avere “una chiara impronta proibizionista”, perché le sostanze eventualmente trovate in possesso del tossicodipendente venivano comunque confiscate, essendone considerato illecito il possesso, ma anche perché la legge prevedeva nei confronti del tossicodipendente l'adozione di provvedimenti che consistevano in veri e propri ordini di cura impartiti dal pretore; considerando ciò una inammissibile intrusione nella vita privata delle persone[30].
Riguardo all’aspetto sanitario e di prevenzione, l’esplosione del fenomeno della tossicodipendenza da eroina, non prevista e non preparata, rivelò gli effetti preventivi e riabilitativi della legge da subito insufficienti, per non dire un palliativo. Erano palesi la carenza delle strutture pubbliche di prevenzione e cura; l’inadeguatezza dei rimedi proponibili, basati sull’adesione volontaria del tossicodipendente; la complicata per non dire caotica gestione dei SerT; le falle evidenti del sistema di impiego del metadone come strategia di riduzione del danno; la inevitabile nascita di strutture private più o meno efficaci, più o meno costrittive; la modesta capacità delle forze dell’ordine e magistratura di arginare l’attività della criminalità organizzata e di ridurre le forniture.
Così la legge 22 dicembre 1975 n. 685 durò poco e già nel 1990 venne fortemente modificata (in alcune parti stravolta) dalla legge n. 162/1990, che inaspriva le sanzioni penali e amministrative e molto altro. Ma questa è un’altra storia.
[1] “Il movimento del Sessantotto, o più brevemente Sessantotto, è un fenomeno socio-culturale avvenuto negli anni a cavallo dell'anno 1968, durante i quali grandi movimenti di massa socialmente eterogenei (studenti, operai, intellettuali e gruppi etnici minoritari), formatisi spesso per aggregazione spontanea, interessarono quasi tutti gli Stati del mondo con la loro forte carica di contestazione giovanile contro gli apparati di potere dominanti e le loro ideologie. Lo svolgersi degli eventi in un tempo relativamente ristretto contribuì a identificare il movimento con il nome dell'anno in cui esso si manifestò in modo più attivo”: è la definizione di Wikipedia.
[2] Un approfondimento su tutto questo periodo in Lorenzo Miazzi, Diritto degli stupefacenti, Pacini Giuridica, 2022.
[3] Art. 21: “Il pretore, su richiesta dell’autorità di pubblica sicurezza o di qualsiasi altro interessato e previo accertamento medico, ordina il ricovero in casa di salute o di cura o in ospedali psichiatrici, perché sia sottoposto alla cura disintossicante, di chi, a causa di grave alterazione psichica per abituale abuso di stupefacenti, si rende comunque pericoloso a sé e agli altri o riesce di pubblico scandalo”.
[4] La civilizzazione. L’espansione dei diritti negli anni ‘60 E ’70, di Giorgio Repetto, in Il Politico (Univ. Pavia), 2019, anno LXXXIV, n. 2, p. 54
[5] Scrive Ota De Leonardis, sociologa presso l’Università di Milano: "La fase culminante della politica delle riforme che ha caratterizzato in Italia gli anni Settanta ha investito un arco molto ampio di politiche pubbliche e di istituzioni. Questo processo, soprattutto in quanto ha introdotto alcuni istituti portanti dello Stato sociale, ha cambiato nell'insieme i patti tra istituzioni e cittadini. La cittadinanza si generalizza e si fa "sociale". E, almeno nei principi, la copertura istituzionale dei bisogni sociali si riformula in termini di responsabilità pubblica, da una parte, e di diritti dei cittadini dall'altra": Ota De Leonardis, Il terzo escluso, Milano, Feltrinelli, 1990, p. 103
[6] Droghe, Tossicodipendenza e Tossicodipendenti, di Claudio Cippitelli, in www.ristretti.it/areestudio/droghe/zippati/cippitelli.pdf
[7] La poliassunzione di droghe è fenomeno solo del XXI secolo.
[8] In ogni caso, l'effetto sull'opinione pubblica fu rilevante, e i morti per droga, prima di divenire l'indicatore principe della diffusione delle tossicodipendenze in Italia, diventò il cavallo di battaglia di quanti invocavano un cambiamento legislativo; vedi https://www.antoniocasella.eu/archila/Corleone_2007.pdf
[9] Si veda in particolare la sentenza della Cassazione 9 dicembre 1957, Ardizzone, e Cassazione 26 aprile 1957.
[10] Corte costituzionale n. 9 del 1972.
[11] A tale proposito Gianfranco Viglietta afferma: "Fino a che il fenomeno delle tossicodipendenze non suscitò un forte allarme sociale, la giurisprudenza, per tradizione legislativa e per valutazioni sistematiche (quali la natura di esimente dell'uso terapeutico), ebbe forti resistenze a stabilire la punibilità tout court del consumatore...L'inversione di tendenza fu, successivamente, assai netta a livello di Cassazione, ma non di giudici di merito, che riproposero costantemente il problema della legittimità costituzionale della punizione del consumatore, o della sua eguale punizione rispetto al trafficante". Gianfranco Viglietta, ”Stupefacenti e legge penale in Italia: dalla repressione dei traffici alla punizione del tossicodipendente.” in Livio Pepino, Droga tossicodipendenza legge, Milano, Franco Angeli, 1989, p. 90.
[12] “La realtà sociale del fenomeno, l'articolazione degli atteggiamenti individuali, la diversificazione nell'offerta di droga divengono, negli anni a cavallo tra la seconda metà degli anni '60 e la prima metà degli anni '70, estremamente complessi e problematici. La velocità di diffusione dell'uso di droghe sia geograficamente che socialmente è senz'altro un aspetto: ma da una parte sono la complessità delle culture che la diffusione delle sostanze genera o nelle quali si inserisce, e dall'altra la richiesta di una tutela sociale non repressiva e di solidarietà verso l'individuo assuntore a rendere obsoleta la legge 1041 del 1954”.: Droghe… di Claudio Cippitelli, cit.
[13] Questo fu solo uno dei suoi tanti provocatori gesti di disobbedienza civile; Pannella effettuò la sua azione più nota, relativa alle droghe leggere, nel 1997, quando venne arrestato per aver distribuito hashish in un comizio a Roma; eclatante l’azione del 1995, quando regalò 200 grammi di hashish ad Alda D’Eusanio, in diretta su Rai 2.
[14] Ne: Il Mondo - Ottobre 1975, da " Marco Pannella - Scritti e discorsi - 1959-1980", editrice Gammalibri, gennaio 1982, reperibile in http://old.radicali.it/search_view.php?id=45515&lang=&cms=
[15] Maria Elena Cantilena, «Sul petto Mao, nelle vene la droga». Storia del consumo di droga in Italia negli anni Sessanta e Settanta, Università degli studi di Trieste, Anno accademico 2019/2020, p. 73.
[16] Vedi A. Valcarenghi, Non contate su di noi. Note critiche su movimento giovanile, violenza, politica, ideologia, sessualità, droga e misticismo, Arcana, Roma, 1977, pp.64-68
[17] Maria Elena Cantilena, «Sul petto Mao, cit, p. 87.
[18] Il Gruppo Abele era l’evoluzione del gruppo “Gioventù”, nato a Torino negli anni Sessanta, che iniziò un progetto educativo negli istituti di pena minorili e la nascita di alcune comunità per adolescenti alternative al carcere. Nel 1973, il Gruppo inaugurò il “Centro Droga”, luogo di accoglienza e ascolto per giovani con problemi di tossicodipendenza: era un'esperienza allora unica e pioneristica in Italia, a cui seguì l'apertura di alcune comunità di recupero. Nel 1974, Don Ciotti riuscì ad aprire un centro di ascolto per tossicodipendenti riqualificando un cascinale, rinominandolo Cascina Abele, da cui nascerà, da lì a poco, anche il nome dell'associazione onlus "Gruppo Abele".
[19] Ma va chiarito che egli era sostenuto da molta parte della Chiesa Cattolica, in particolare dal vescovo di Torino Michele Pellegrino, noto per le sue attività pastorali dedicate agli emarginati, che lo aveva ordinato prete e (con gesto inedito) come parrocchia gli affidò la strada, e poi lo incoraggiò e sostenne in questa sua missione.
[20] Comunità nuova era nata nel 1973 dall'iniziativa di un gruppo di volontari legati al carcere minorile, operava e opera nel campo del disagio e della promozione delle risorse dei più giovani. Anche Don Rigoldi dunque iniziò il suo percorso occupandosi di minorenni carcerati e proseguendolo in favore dei tossicodipendenti.
[21] Pur condividendo coi radicali la pratica dello sciopero della fame, metodologia di protesta nonviolenta derivata dal movimento pacifista, il Gruppo Abele non si spinse infatti fino alla disobbedienza civile.
[22] Informazioni tratte dall’Archivio del gruppo Abele, riportate nel testo citato di Maria Elena Cantilena.
[23] Maria Elena Cantilena, «Sul petto Mao, cit, p. 49; l’autrice ipotizza inoltre un collegamento tra strategia della tensione e scontro sulla droga.
[24] Giuseppe di Gennaro, La droga – controllo del traffico e recupero dei drogati – commento alla legge 22 dicembre 1975, n. 685, Milano, Giuffrè Editore, 1976.
[25] L’approfondimento di dettaglio sulla normativa può essere trovato in: Droghe… di Claudio Cippitelli, cit.
[26] Art. 71 legge n. 685/1975: Chiunque, senza autorizzazione, produce, fabbrica, estrae, offre, pone in vendita, distribuisce, acquista, cede o riceve a qualsiasi titolo, procura ad altri, trasporta, importa, esporta, passa in transito o illecitamente detiene, fuori delle ipotesi previste dagli articoli 72 e 80, sostanze stupefacenti o psicotrope, di cui alle tabelle I e III, previste dall'art. 12, è punito con la reclusione da quattro a quindici anni e con la multa da lire tre milioni a lire cento milioni…
Se taluno dei fatti previsti dai precedenti commi riguarda sostanze stupefacenti o psicotrope classificate nelle tabelle II e IV, di cui all'art. 12, si applicano la reclusione da due a sei anni e la multa da lire due milioni a lire cinquanta milioni.
[27] L’art. 72 comma 2 prevedeva per il consumo di sostanze di cui alle tabelle II e IV, “se ricorrono elementi tali da far presumere che la persona si asterrà, per il futuro, dal commetterli nuovamente, in luogo della sanzione, e per una sola volta, il prefetto definisce il procedimento con il formale invito a non fare più uso delle sostanze stesse, avvertendo il soggetto delle conseguenze a suo danno”.
[28] Negli anni Sessanta il consumo di eroina non era ghettizzato nel mondo delle droghe, faceva parte del percorso di conoscenza di “nuove esperienze” ed era in parte persino mitizzato: per eroina erano morti nel 1970 Jim Morrison e Jimi Hendrix, Brian Jones e Janis Joplin, senza che ciò incrinasse la loro fama, anzi trasformandoli in icone che ancora sono sulle magliette.
[29] Vedi: Droga, tossicodipendenza, legge, a cura di: Livio Pepino, Franco Angeli, 1a edizione 1989, che commenta: “appare chiaro che la strada della punibilità generalizzata dei tossicodipendenti costituisce una pura operazione culturale spregiudicatamente diretta a fornire rassicurazioni apparenti ad una opinione pubblica allarmata e preoccupata”.
[30] Vedi: Giuseppe La Greca. L'attuale tendenza politico-criminale: il c.d disegno di legge Fini; in: Droga e controllo penale, a cura di Francesco Saverio Fortuna e Sarah Grieco, Cassino. 2006, p. 37.
Immagine: Jean Béraud, La lettre, oli su tela, 1908, collezione privata.
