L’applicazione delle misure di sicurezza detentive e il “malfunzionamento strutturale” del sistema delle REMS, secondo C. Cost., sentenza n. 22 del 2022: un punto di svolta nel percorso di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari[1]
di Francesco Gualtieri
Il percorso di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari, avviato ormai dieci or sono ai sensi dell’art. 3-ter del decreto-legge 22 dicembre 2011, n. 211, non può ancora dirsi compiuto e continua ad essere attraversato da criticità e contraddizioni, che riguardano, in primo luogo, l’attuale sistema di assegnazione dei pazienti psichiatrici autori di reato alle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (R.E.M.S.) attivate sul territorio nazionale dal 2015 in poi. Con la sentenza n. 22 del 2022, la Corte costituzionale, pur dichiarando inammissibili le questioni poste alla sua attenzione, ha tuttavia rivolto un fondamentale monito affinché vengano prontamente individuate soluzioni di carattere strutturale per le numerose problematiche, giuridiche ed organizzative, che connotano la materia. Il presente contributo, oltre a commentare i contenuti della sentenza, intende affrontare il merito delle complesse questioni oggi “sul tappeto”, a partire da una disamina delle cause che hanno determinato l’attuale situazione di stallo nel sistema di applicazione delle misure di sicurezza detentive nei confronti delle persone non imputabili.
Sommario: 1. Il contesto di riferimento - 2. La questione di legittimità costituzionale posta all’attenzione della Consulta e l’ordinanza istruttoria n. 131 del 2021 - 3. I contenuti della sentenza della Corte costituzionale, n. 22 del 2022. Il ritorno alle direttrici giuridiche fondamentali in materia di misure di sicurezza detentive destinate alle persone non imputabili - 4. Il corretto dimensionamento della rete delle REMS ed il problema delle liste di attesa per i ricoveri - 5. I reali termini del problema: dal superamento degli OPGP alla neutralizzazione, praeter legem, delle misure di sicurezza detentive. La necessità, non più eludibile, di potenziare adeguatamente la rete delle REMS e i sistemi territoriali di tutela della salute mentale dei pazienti psichiatrici autori di reato - 6. Il tema della “appropriatezza” della misura di sicurezza detentiva. 7. Conclusioni.
1. Il contesto di riferimento
Lo scorso 27 gennaio la Corte costituzionale ha depositato l’attesa sentenza n. 22 del 2022, concernente il giudizio di legittimità dell’art. 3-ter del decreto legge 22 dicembre 2021, n. 211, convertito, con modificazioni, nella legge 17 febbraio 2012, n. 9, con il quale venivano formalmente istituite le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (cosiddette R.E.M.S.), nell’ambito del travagliato percorso di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari.
La Consulta ha ritenuto di dichiarare inammissibili tutte le questioni poste alla sua attenzione ma tale dispositivo non deve trarre in inganno, collocandosi nell’ambito di una pronuncia che, pur non essendo sfociata in una decisione demolitoria, si distingue tuttavia per l’estrema chiarezza dei principi che il Giudice delle leggi ha ritenuto di riaffermare e per la severità dei moniti rivolti senz’altro al legislatore, ma anche a tutti gli altri attori istituzionali coinvolti nelle procedure giurisdizionali e amministrative di individuazione, presa in carico, cura e custodia dei pazienti psichiatrici autori di reato.
La ricostruzione della disciplina di riferimento, rinvenibile nelle premesse in fatto della sentenza in commento, consente agevolmente di notare quanto accidentato, contraddittorio e per certi versi timido sia stato il percorso riformatore che, per il suo impatto nel sistema sanzionatorio italiano, avrebbe senz’altro dovuto essere oggetto di interventi ben più ordinati ed organici.
Al riguardo, oltre a quanto puntualizzato dalla Consulta, deve anzitutto sottolinearsi come, in modo francamente anomalo, l’obiettivo del superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari sia comparso ex abrupto nell’ordito normativo nazionale, in particolare nell’ambito di un decreto-legge che, in modo non del tutto coerente rispetto a quanto previsto in precedenza, introduceva il tema della soppressione degli OPG, sebbene la normativa primaria approvata pochi anni prima si fosse limitata a delineare il semplice trasferimento delle funzioni in materia di OPG dallo Stato alle Regioni[2].
Al di là di tale circostanza, ciò che maggiormente desta sorpresa – e su cui, non a caso, si sono appuntate le più decise critiche del Giudice delle leggi – è la persistente assenza di una normativa esplicita di rango ordinario concernente la gestione concreta delle REMS, con un vero e proprio “scarico” di responsabilità su fonti giuridiche secondarie, quali i decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, i decreti ministeriali e gli Accordi da stipularsi in sede di Conferenza Unificata Stato-Regioni, nella sostanziale assenza di indicazioni esplicite all’interno della cornice normativa di riferimento.
In questo contesto, il sistema delle assegnazioni dei pazienti psichiatrici alle REMS è da sempre rimasto in un limbo di ambiguità che, peraltro, tuttora persiste, determinando l’insorgere di gravi problematiche applicative e gestionali.
Tutto ciò, inoltre, si è verificato nell’ambito di un sistema riferito non già a prestazioni di carattere esclusivamente sanitario, bensì alla esecuzione di misure di sicurezza aventi una chiara natura giurisdizionale; ed ancora, la configurazione dei rapporti organizzativi tra i diversi livelli di governo si è perfezionato, in modo evidentemente approssimativo, a fronte dell’ostinato silenzio del legislatore il quale, con l’art. 3-ter, co. 3, lett. a), d.l. 211/2011, conv. in legge n. 9/2012, si è limitato a prevedere la “gestione esclusivamente sanitaria” delle REMS, senza null’altro aggiungere in merito al riparto delle competenze tra lo Stato e le Regioni nella fondamentale materia delle assegnazioni dei pazienti destinatari di misure giudiziarie.
In questo senso, la principale disciplina di riferimento può in effetti rinvenirsi nell’Accordo del 26 febbraio 2015, stipulato in sede di Conferenza Unificata tra Governo, Regioni, Province autonome di Trento e Bolzano e Autonomie locali, recante le “disposizioni per il definitivo superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari”[3].
La lettura di detto documento, che a tutt’oggi governa la materia, dimostra in particolare come, in seguito al lungo processo di trasferimento delle funzioni relative alle misure di sicurezza detentive in capo ai sistemi sanitari regionali, all’Amministrazione penitenziaria sia stato di fatto riservato un ruolo di spettatrice passiva di ciò che accade nel sistema delle REMS, risultando la stessa privata di eventuali poteri di intervento, sia pure in via sostitutiva o sussidiaria, onde supplire ad eventuali difetti del sistema medesimo.
Vero è, infatti, che, formalmente, l’art. 1 dell’Accordo parrebbe assegnare al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria il potere-dovere di effettuare le assegnazioni e i trasferimenti degli internati e degli internandi presso le singole REMS, nel rispetto del principio di territorialità di cui all’art. 3 ter, co. 3, lett. c) d.l. 211/2011 e, dunque, in ragione della residenza anagrafica degli interessati, come già precisato il 26 novembre 2009, in seno ad un precedente Accordo stipulato in sede di Conferenza Unificata[4]. Tuttavia, il medesimo articolo precisa che le assegnazioni e i trasferimenti siano disposti in base alla disponibilità di posti-letto nelle strutture e, soprattutto, attribuisce in via esclusiva alle Regioni e alle Province autonome il compito di verificare la progressiva disponibilità di posti-letto all’interno delle singole REMS, per poi comunicare tempestivamente dette disponibilità all’Amministrazione penitenziaria, affinché quest’ultima possa procedere alle assegnazioni e ai trasferimenti degli internandi e degli internati nei casi previsti dalla legge.
Ancora, deve rammentarsi come l’Accordo del 26 febbraio 2015, sia pure nelle sue premesse, abbia definito come inderogabile il limite dei 20 posti-letto da attivare in ciascuna REMS, il che, nella prassi, al presumibile fine di scongiurare qualsivoglia fenomeno di sovraffollamento, ha indotto le Regioni a palesare nei confronti dell’Autorità giudiziaria e del DAP una tendenziale rigidità nella gestione delle liste di accesso alle singole Residenze, negando sostanzialmente l’accesso degli internandi una volta raggiunto il limite massimo dei posti-letto disponibili all’interno delle strutture presenti nel territorio regionale.
Pare dunque inevitabile che, in siffatto contesto, in assenza di posti-letto effettivamente disponibili e delle conseguenti comunicazioni inoltrate dalle Regioni, il potere di assegnazione e trasferimento degli internandi e degli internati formalmente assegnato all’Amministrazione penitenziaria sia stato de facto abrogato.
2. La questione di legittimità costituzionale posta all’attenzione della Consulta e l’ordinanza istruttoria n. 131 del 2021
È dunque questo lo scenario in cui si è innestata la questione di legittimità costituzionale definita con la sentenza in commento.
Segnatamente, il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Tivoli, con ordinanza dell’11 maggio 2020[5] sollevava d’ufficio la questione di legittimità costituzionale degli articoli 206 e 222 cod. pen. e 3-ter, d.l. n. 211/2011, con riguardo proprio alla sopravvenuta assegnazione alle Regioni di ogni concreta competenza in merito all’ammissione in REMS dei destinatari delle misure di sicurezza detentive.
Il remittente segnalava il potenziale contrasto di tale assetto normativo, da un lato, con l’art. 110 della Costituzione che, com’è noto, assegna al Ministro della giustizia i compiti relativi all’organizzazione e al funzionamento dei servizi relativi alla giustizia e, d’altro lato, con le norme costituzionali, prime fra tutte l’articolo 25, che, prevedendo il principio della riserva di legge anche in materia di misure di sicurezza, osterebbero a norme ordinarie che consentono l’adozione con atti amministrativi di disposizioni generali in relazione alle REMS.
Oltre ad avere avuto l’obiettivo merito di ravvivare il dibattito sulla materia[6], disvelando expressis verbis l’esistenza di chiari problemi nell’attuale sistema di esecuzione delle misure di sicurezza detentive, l’ordinanza in questione ha senz’altro sollevato perplessità sulla legittimità costituzionale dell’attuale assetto organizzativo meritevoli di approfondimento e non affatto peregrine.
Tuttavia, come correttamente evidenziato e come infine riconosciuto dalla stessa Corte costituzionale, è da subito apparso arduo ipotizzare che i nodi “di sistema” che attualmente affliggono le modalità di accoglienza in REMS potessero risolversi mediante l’eventuale revisione costituzionale della normativa di riferimento, senza affrontare nel merito questioni di carattere più sostanziale[7].
In tale contesto, non pare un caso che taluni commentatori abbiano da subito “sospettato” che dietro l’eventuale trasferimento in capo al Ministero della giustizia di più pregnanti competenze nella materia delle assegnazioni in REMS, tramite l’accoglimento della questione posta dal Giudice di Tivoli, si celasse il reale intento di “derubricare” le esigenze di cura dei pazienti accolti nelle Residenze in modo da privilegiare interessi di tipo più securitario. È inoltre sembrato piuttosto chiaro che il timore maggiormente diffuso in ambito sanitario fosse quello che l’eventuale declaratoria di illegittimità costituzionale potesse determinare il superamento del principio del “numero chiuso” in relazione alla disponibilità dei posti-letto in REMS[8].
In realtà, al di là del pregiudizio che parrebbe permeare una siffatta impostazione, laddove si sostiene che “solo con l’esclusiva gestione sanitaria una struttura può infatti avere come criteri organizzativi quelli finalizzati alla cura dei pazienti, senza essere sottoposta a pressioni dettate da altre esigenze”[9], risulta tuttavia altrettanto chiaro che, indipendentemente dal riparto di competenze tra Amministrazione centrale e Regioni e pur non rimettendo in discussione il principio della esclusiva gestione sanitaria delle strutture, tale tipologia di gestione dovrà comunque cominciare ad essere conciliata con le peculiarità delle misure di sicurezza detentive, aventi natura pacificamente giudiziaria e che, come tali, devono essere suscettibili di pronta esecuzione.
L’estrema complessità delle questioni poste dal remittente resta comprovata dalla decisione interlocutoria che la Corte costituzionale ha ritenuto di assumere all’esito della camera di consiglio celebrata il 26 maggio 2021, adottando[10] l’ordinanza “istruttoria” n. 131, depositata il 24 giugno 2021[11].
Infatti, al fine di decidere in merito alle questioni promosse dal Giudice di Tivoli, la Consulta ha ritenuto necessario acquisire una serie di approfondite informazioni dal Ministro della giustizia, dal Ministro della salute, dal Presidente della Conferenza delle Regioni e delle Province autonome e, limitatamente alla lettera m) del dispositivo, dal Presidente dell’Ufficio parlamentare di bilancio, per quanto di rispettiva competenza.
Le richieste, peraltro, non riguardavano esclusivamente i dati statistici inerenti al numero di REMS realizzate sul territorio nazionale (lett. a) del dispositivo), il numero dei pazienti inseriti nelle singole liste di attesa [(lett. b), c) e d)], con specifico riguardo per coloro che si trovassero detenuti in Istituto di pena in attesa di ricovero (lett. f), e la tipologia dei reati contestati agli internandi (lett. e), ma concernevano altresì questioni che si caratterizzano per una consistenza squisitamente politica.
Le istanze istruttorie si addentravano infatti in tutte le più spinose problematiche che connotano la formazione delle liste di attesa per l’ingresso in R.E.M.S., riguardando in particolare: l’accertamento in ordine alle difficoltà di funzionamento dei luoghi di cura per la salute mentale esterni alle R.E.M.S. per i pazienti psichiatrici autori di reato (lett. g); l’esistenza di forme di coordinamento tra il Ministero della giustizia, il Ministero della salute, le aziende sanitarie locali e i Dipartimenti di salute mentale, volte ad assicurare la pronta ed effettiva esecuzione, su scala regionale o nazionale, dei provvedimenti di applicazione, in via provvisoria o definitiva, delle misure di sicurezza detentive (lett. h); quali specifiche competenze esercitino, in particolare, il Ministro della giustizia e il Ministro della salute rispetto all’obiettivo di cui alla lettera h) (lett. i); se il ricovero nelle R.E.M.S., nonché i trattamenti sanitari conseguenti all’applicazione della libertà vigilata, rientrino nei livelli essenziali di assistenza (L.E.A.) che le Regioni sono tenute a garantire (lett. j); se sia attualmente effettuato dal Governo uno specifico monitoraggio sulla tempestiva esecuzione dei provvedimenti di applicazione delle misure di sicurezza detentive (lett. k); se sia prevista la possibilità dell’esercizio dei poteri sostitutivi del Governo nel caso di riscontrata incapacità di assicurare la tempestiva esecuzione di tali provvedimenti nel territorio di specifiche Regioni (lett. l); se le riscontrate difficoltà siano dovute a ostacoli applicativi, all’inadeguatezza delle risorse finanziarie, ovvero ad altre ragioni (lett. m); se siano attualmente allo studio progetti di riforma legislativa, regolamentare od organizzativa per ovviare alle predette difficoltà e rendere complessivamente più efficiente il sistema di esecuzione delle misure di sicurezza applicate nei confronti delle persone inferme di mente (lett. n).
Orbene, così sintetizzati i quesiti posti dal Giudice delle leggi, pare a chi scrive che, con l’ordinanza de qua, la Consulta abbia ritenuto di inscrivere la questione di legittimità costituzionale posta alla sua attenzione entro un quadro giuridico, fattuale e politico ben più ampio, indicando alle amministrazioni coinvolte – ed in ultima istanza al decisore politico – gli ambiti in cui gli interventi organizzativi e finanziari risultano ormai non più rinviabili, al fine di restituire efficacia ed efficienza al sistema di esecuzione delle misure di sicurezza, detentive e non.
Dalle parole della ordinanza traspare dunque la consapevolezza di quanto sopra accennato a proposito del riparto di competenze tra Stato e Regioni, in quanto problematica giuridico-organizzativa che di per sé sola non ha determinato la situazione di stallo nella quale in atto versa l’apparato delle misure di sicurezza e che, in ogni caso, non può continuare ad essere impropriamente utilizzata come schermo per continuare a rinviare sine die la concreta individuazione delle soluzioni.
3. I contenuti della sentenza della Corte costituzionale, n. 22 del 2022. Il ritorno alle direttrici giuridiche fondamentali in materia di misure di sicurezza detentive destinate alle persone non imputabili
Queste ultime considerazioni, invero, hanno trovato piena conferma nelle motivazioni della sentenza n. 22 del 2022, da ultimo depositate.
A dispetto della declaratoria di inammissibilità delle questioni, la Corte ha con evidenza individuato dei punti fermi nella ricostruzione giuridica ed organizzativa della materia, che costituiranno un ineludibile riferimento nella integrale revisione del sistema per tutti coloro che – in tempi auspicabilmente rapidi – saranno chiamati a rendere più fluida ed organica l’applicazione delle misure di sicurezza nei confronti dei pazienti psichiatrici autori di reato.
In estrema sintesi, i principi affermati dalla Consulta possono così riassumersi:
- malgrado la “gestione esclusivamente sanitaria” delle Residenze sancita dal legislatore, “l’assegnazione a una REMS – così come oggi concretamente configurata nell’ordinamento – non può essere considerata come una misura di natura esclusivamente sanitaria”; l’assegnazione a una REMS va dunque a tutti gli effetti considerata una nuova misura di sicurezza, ispirata ad una ratio profondamente diversa rispetto al ricovero in OPG o all’assegnazione a casa di cura e di custodia, ma applicabile in presenza degli stessi presupposti, salvo il nuovo requisito della inidoneità di ogni misura meno afflittiva introdotto dall’art. 3-ter, comma 4, del d. l. n. 211 del 2011 (punto 5.1 del “Considerato in diritto”);
- in quanto misura di sicurezza espressamente “limitativa della libertà personale”, l’assegnazione a una REMS merita altresì di essere tenuta distinta da ogni ordinario trattamento della salute mentale, ed in particolare dal trattamento sanitario obbligatorio per malattia mentale disciplinato dagli articoli 33 a 35 della legge 23 dicembre 1978, n. 833, in ragione, tra l’altro, sia dei noti presupposti penalistici, di rango sostanziale processuale, che ne legittimano l’applicazione in concreto, sia della sua schietta natura giurisdizionale, comprovata dai penetranti poteri di costante vigilanza nella fase esecutiva, pacificamente assegnati al Magistrato di Sorveglianza (punto 5.1 del “Considerato in diritto”);
- secondo l’autorevole avviso della Corte, dunque, l’assegnazione a una REMS non può ritenersi connotata esclusivamente da una finalità di tipo terapeutico, trovando “la propria peculiare ragion d’essere – a fronte della generalità dei trattamenti sanitari per le malattie mentali – in una specifica funzione di contenimento della pericolosità sociale di chi abbia già commesso un reato, o sia gravemente indiziato di averlo commesso, in una condizione di vizio totale o parziale di mente”; le due finalità sottese all’applicazione della misura di sicurezza detentiva, del resto, non rappresentano affatto un novum nel panorama interpretativo relativo all’istituto di cui si discute, come stratificatosi nei decenni secondo chiavi di letture costituzionalmente orientate; evidenzia sul punto la Corte come “le misure di sicurezza nei riguardi degli infermi di mente incapaci totali si muovono inevitabilmente fra queste due polarità, e in tanto si giustificano, in un ordinamento ispirato al principio personalista (art. 2 della Costituzione), in quanto rispondano contemporaneamente a entrambe queste finalità, collegate e non scindibili (cfr. sentenza n. 139 del 1982), di cura e tutela dell’infermo e di contenimento della sua pericolosità sociale. Un sistema che rispondesse ad una sola di queste finalità (e così a quella di controllo dell’infermo “pericoloso”), e non all’altra, non potrebbe ritenersi costituzionalmente ammissibile (sentenza n. 253 del 2003)” (punto 5.2 del “Considerato in diritto”);
- sulla base di tali premesse, la Consulta indica dunque la necessità che l’assegnazione ad una REMS, per la sua natura “ancipite” di misura di sicurezza a spiccato contenuto terapeutico, si conformi ai principi costituzionali dettati, da un lato, in materia di misure di sicurezza e, dall’altro, in materia di trattamenti sanitari obbligatori; ed in questo senso, i riferimenti costituzionali pressoché obbligati, nel percorso argomentativo seguito dalla Corte, debbono individuarsi nell’art. 13 della Costituzione relativo alla salvaguardia della libertà personale, nonché negli articoli 25, terzo comma e 32, secondo comma, rispettivamente dedicati all’applicazione delle misure di sicurezza e dei trattamenti sanitari obbligatori, assoggettando entrambi gli istituti alla riserva di legge; di peculiare interesse risultano peraltro le considerazioni svolte a proposito del citato art. 25, terzo comma, reinterpretato dalla Corte secondo una logica rinforzata, in nome della quale il legislatore non può comunque limitarsi alla sola individuazione dei “casi” in cui possa applicarsi una misura di sicurezza detentiva, dovendo altresì farsi carico di delineare i “modi” con cui la misura possa restringere la libertà personale degli individui, “ed anzi di privarli della loro libertà, spesso per periodi duraturi o – addirittura – per l’intera vita residua” (punto 5.3.1 del “Considerato in diritto”);
- dato un siffatto perimetro costituzionale, la Corte annota come l’attuale disciplina in materia di assegnazione alle REMS riveli “evidenti profili di frizione” con i principi di rango sovra-ordinario illustrati nella sentenza (punto 5.3.2 del “Considerato in diritto”);
- in particolare, nel prosieguo della pronuncia si sottolinea come, attualmente, l’unica norma ordinaria che regoli la materia sia rinvenibile nello scarno art. 3-ter, d.l. 211/2011, conv. in legge n. 9/2012, oltre che nelle datate norme codicistiche che, tuttavia, si limitano a regolare i “casi” in cui le misure di sicurezza detentive – ancora impropriamente denominate ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario e in casa di cura e custodia – possono trovare applicazione in concreto; manca, d’altro canto, una disciplina primaria dei “modi” mediante i quali dette misure, e dunque, le assegnazioni alle REMS, debbono essere eseguite, posto che, come ribadito dalla Corte, la regolamentazione puntuale dei ricoveri è stata affidata a fonti secondarie, quali i decreti ministeriali e gli Accordi intercorsi tra Amministrazioni centrali ed autonomie territoriali; ed un tale assetto, per quanto detto, non può che entrare in potenziale conflitto con il principio della riserva di legge in materia di misure di sicurezza, sancito dall’art. 25, terzo comma della Costituzione (punto 5.3.2 del “Considerato in diritto”);
- a proposito degli ambiti in cui viene appunto invocato un organico intervento del legislatore, concernenti i “modi” di esecuzione delle misure in parola, la Corte segnala anzitutto l’esigenza che la norma primaria stabilisca se ed in che misura sia legittimo l’uso della contenzione all’interno delle REMS, ed eventualmente quali ne siano le ammissibili modalità di esecuzione; in secondo luogo, la legge ordinaria dovrà farsi carico di disciplinare “in modo chiaro e uniforme per l’intero territorio italiano, il ruolo e i poteri dell’autorità giudiziaria, e in particolare della magistratura di sorveglianza, rispetto al trattamento degli internati nelle REMS e ai loro strumenti di tutela giurisdizionale nei confronti delle decisioni delle relative amministrazioni” (punto 5.2.3 del “Considerato in diritto”);
- è a questo punto della pronuncia che la Corte costituzionale, ben lungi dall’arrestare la propria analisi ai profili prettamente giuridici della questione, ritiene di compiere una lucida disamina su quello che definisce “grave malfunzionamento strutturale del sistema di applicazione dell’assegnazione in REMS” (punto 5.4 del “Considerato in diritto”), evidentemente non al fine di sconfinare dalle proprie prerogative istituzionali, ma onde verificare se ed in che termini una eventuale pronuncia demolitoria potesse essere idonea a garantire il risultato perseguito dal remittente, ossia la corretta allocazione in REMS per la persona sottoposta al procedimento penale nel cui alveo era stata promossa la questione di legittimità costituzionale (punto 6 del “Considerato in diritto”);
- a quest’ultimo proposito, il Giudice delle leggi prende le mosse dagli esiti della istruttoria intrapresa con la citata ordinanza n. 131 del 24 giugno 2021, da cui si evince che un numero di persone almeno pari a quelle attualmente ospitate in REMS – compreso tra le 670 (secondo i calcoli effettuati dal Ministero della Salute e dalla Conferenza delle Regioni e delle Province autonome) e le 750 (secondo i calcoli del Ministero della giustizia) – si trovano allo stato in attesa di essere collocate in una REMS; la permanenza media in una lista di attesa è pari a circa dieci mesi ma in alcune Regioni i tempi di attesa possono essere ancora più lunghi; le persone in attesa di ricovero sono spesso accusate, o risultano ormai in via definitiva essere autrici di “reati assai gravi”, il più delle volte commessi contro la persona (punto 5.4 del “Considerato in diritto”);
- ciò premesso, pur non entrando nel merito delle possibili soluzioni prospettate dalle Amministrazioni interpellate con la citata ordinanza istruttoria, la Corte non ha potuto fare a meno di rilevare la “problematicità” della situazione venutasi a creare e a consolidare nel tempo, con riguardo appunto all’esistenza di liste d’attesa per l’esecuzione di provvedimenti emessi dall’autorità giudiziaria nei confronti di autori di reato, sul presupposto della loro pericolosità sociale; sul punto, si sottolinea opportunamente nella sentenza come “per loro natura, simili provvedimenti dovrebbero essere immediatamente eseguiti, così come destinate a essere immediatamente eseguite sono le misure cautelari previste dal codice di procedura penale che si fondano sulla necessità di prevenire rischi quale – in particolare – il pericolo di commissione di gravi reati da parte dell’imputato (art. 274, comma 1, lettera c, del codice di procedura penale)”; ad autorevole avviso della Corte, del resto, l’esigenza di immediata esecuzione dei provvedimenti giurisdizionali di cui si discute non corrisponde ad una sterile petizione di principio, costituendo semmai il passaggio indispensabile per dare effettività alla “tutela dell’intero fascio di diritti fondamentali che l’assegnazione a una REMS mira a tutelare”; spiega al riguardo la Corte come “da un lato, un diffuso e significativo ritardo nell’esecuzione dei provvedimenti in esame comporta un difetto di tutela effettiva dei diritti fondamentali delle potenziali vittime di aggressioni, che il soggetto affetto da patologie psichiche, e già autore spesso di gravi o gravissimi fatti di reato, potrebbe nuovamente realizzare, e che l’ordinamento ha il dovere di prevenire. Dall’altro, la mancata tempestiva esecuzione di questi provvedimenti lede, al contempo, il diritto alla salute del malato, al quale nell’attesa non vengono praticati i trattamenti – rientranti a pieno titolo tra i LEA (Ritenuto in fatto, punto 5.9) – che dovrebbero essergli invece assicurati, per aiutarlo a superare la propria patologia e a reinserirsi gradualmente nella società” (punto 5.4 del “Considerato in diritto”);
- detto che la soluzione alla problematica illustrata non potrà evidentemente risiedere nell’assegnazione in soprannumero delle persone in attesa di ricovero, la Corte invita con forza ad affrontare “senza indugio” il problema delle liste di attesa, attraverso le differenti strategie prospettate dalle competenti Amministrazioni, allo scopo di ridurre gradatamente, “sino ad azzerare, l’attuale divario tra il numero di posti disponibili e il numero dei provvedimenti di assegnazione”; nel merito, nella sentenza si invoca in particolare di adottare ogni strategia opportuna specialmente presso le Regioni rivelatesi più indietro nell’attuazione del processo riformatore: “compreso l’esercizio degli ordinari poteri sostitutivi da parte del Governo, ai sensi dell’art. 120, secondo comma, Cost., in caso di riscontrata inadempienza di quelle Regioni che fossero venute meno al proprio dovere costituzionale di tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali nei confronti dei destinatari dei provvedimenti di assegnazione alle REMS” (punto 5.4 del “Considerato in diritto”);
- da ultimo, la Corte si sofferma sulla compatibilità dell’attuale assetto organizzativo con l’art. 110 della Costituzione che, com’è noto, affida al Ministro della giustizia l’organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia; al riguardo, nel ricomprendere pacificamente l’esecuzione delle misure di sicurezza detentive nel novero dei servizi giudiziari, nella pronuncia si giudica non del tutto conforme al dettato costituzionale l’attuale apparato organizzativo delle REMS, nella parte in cui di fatto estromette proprio il Ministro della giustizia dalle attività inerenti l’applicazione in concreto delle misure di sicurezza, detentive e non (punto 5.5 del “Considerato in diritto”);
- in conclusione, nel dichiarare inammissibili le questioni poste dal remittente, il cui eventuale accoglimento sarebbe palesemente inidoneo a garantire il risultato pratico cui egli mira, la Corte evidenzia l’ “urgente necessità di una complessiva riforma di sistema, che assicuri, assieme: un’adeguata base legislativa alla nuova misura di sicurezza, secondo i principi poc’anzi enunciati; la realizzazione e il buon funzionamento, sull’intero territorio nazionale, di un numero di REMS sufficiente a far fronte ai reali fabbisogni, nel quadro di un complessivo e altrettanto urgente potenziamento delle strutture sul territorio in grado di garantire interventi alternativi adeguati rispetto alle necessità di cura e a quelle, altrettanto imprescindibili, di tutela della collettività (e dunque dei diritti fondamentali delle potenziali vittime dei fatti di reato che potrebbero essere commessi dai destinatari delle misure); forme di adeguato coinvolgimento del Ministro della giustizia nell’attività di coordinamnto e monitoraggio del funzionamento delle REMS esistenti e degli altri strumenti di tutela della salute mentale attivabili nel quadro della diversa misura di sicurezza della libertà vigilata, nonché nella programmazione del relativo fabbisogno finanziario, anche in vista dell’eventuale potenziamento quantitativo delle strutture o degli strumenti alternativi” (punto 6 del “Considerato in diritto”).
Si comprende dalla sentenza come la Corte costituzionale si sia opportunamente fatta carico di offrire una sistemazione, anzitutto teorica e conseguentemente pratica, ad una materia estremamente delicata, in relazione alla quale la perdurante tensione dal sapore ideologico tra istanze contrapposte aveva di fatto determinato negli ultimi anni, tra gli stessi operatori, una sorta di smarrimento delle direttrici giuridiche fondamentali.
Ed è proprio a tali “fondamentali” – che d’ora in avanti non potranno più essere ignorati – che si riferisce la Corte nel momento in cui riafferma la natura pienamente bifronte dell’assegnazione in REMS quale misura di sicurezza detentiva, dalla cui corretta esecuzione dipende la compiuta attuazione di diritti fondamentali concomitanti e di pari rango, consistenti, da un lato, nella doverosa tutela della posizione giuridica delle vittime di reato e, d’altro lato, nell’altrettanto doverosa cura dell’autore del reato affetto da infermità psichica.
Ed è sempre ai “fondamentali” che si rifà la Corte, allorquando rammenta la “problematicità” di un sistema di liste di attesa venutosi impropriamente ad alimentare non già in relazione a misure aventi un contenuto esclusivamente terapeutico, ma con riguardo a misure disposte dall’Autorità giudiziaria con la finalità di prevenire la commissione di reati ad opera di persone che, già avendo commesso reati, siano state giudicate socialmente pericolose.
In questo senso, allorquando equipara a chiare lettere l’esecuzione delle misure di sicurezza detentive a quella delle misure cautelari personali sul piano della necessariamente immediata attuazione del relativo ordine giurisdizionale, la Consulta addita implicitamente come insostenibile un sistema che, nel silenzio della normativa di riferimento, pretenda di subordinare al lento scorrimento di liste di attesa l’esecuzione dei provvedimenti giurisdizionali con cui sia stato disposto il ricovero in REMS. E tale insostenibilità viene evidenziata in modo ancor più netto nel momento in cui la Corte ammonisce il legislatore e gli operatori ad adottare strategie volte non già ad attenuare la consistenza di dette liste, bensì ad arrivare all’ “azzeramento” delle stesse. Siffatte valutazioni, operate dal più autorevole consesso giurisdizionale dello Stato, non sembrano ammettere né deroghe, né tantomeno soluzioni una tantum che, ove adottate in modo disorganico, potrebbero in prima battuta determinare un rapido assottigliamento degli attuali elenchi, seguito subito dopo da un altrettanto rapido e rinnovato incremento degli stessi.
È dunque verso soluzioni e strategie di carattere strutturale che la Corte sembra chiaramente indirizzare, così da portare finalmente ad effettivo compimento l’irreversibile percorso di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari, avviato ormai più di dieci anni or sono.
4. Il corretto dimensionamento della rete delle REMS ed il problema delle liste di attesa per i ricoveri
Per ciò che concerne l’individuazione in concreto delle soluzioni, non pare un caso che, nelle conclusioni della pronuncia, la Corte invochi, tra l’altro, “la realizzazione e il buon funzionamento, sull’intero territorio nazionale, di un numero di REMS sufficiente a far fronte ai reali fabbisogni, nel quadro di un complessivo e altrettanto urgente potenziamento delle strutture sul territorio in grado di garantire interventi alternativi adeguati rispetto alle necessità di cura e a quelle, altrettanto imprescindibili, di tutela della collettività (e dunque dei diritti fondamentali delle potenziali vittime dei fatti di reato che potrebbero essere commessi dai destinatari delle misure)”.
Ebbene, considerando che la sentenza in commento è pervenuta all’esito di una istruttoria volta, tra l’altro, ad accertare il numero di posti in REMS attualmente disponibili sul territorio nazionale, è lecito ipotizzare che l’appena citato monito della Corte a dotare il paese di “un numero di REMS sufficiente a far fronte ai reali fabbisogni” implichi un indiretto giudizio di insufficienza rispetto al numero di REMS attualmente funzionanti, formalmente comunicato alla Consulta in risposta all’ordinanza n. 131/2021.
Pare dunque doveroso interrogarsi sulla congruenza del quantitativo di strutture programmato nel momento in cui il percorso riformatore veniva avviato.
In tal senso, quanto verificatosi nel corso degli ultimi anni, con la formazione e l’inarrestabile incremento di consistenti liste di attesa per i ricoveri in REMS in buona parte del territorio nazionale, permette oggi di affermare che, all’indomani della riforma entrata a regime nel 2015, si sia prevista la realizzazione di un numero di REMS sostanzialmente insufficiente rispetto alle effettive esigenze di internamento derivanti dall’applicazione di misure di sicurezza detentive da parte dell’Autorità giudiziaria, applicazione che, nei fatti, è rimasta tendenzialmente costante ed allineata ai numeri antecedenti all’introduzione delle REMS ed al superamento degli OPG.
Al riguardo, in linea generale, si è sottolineato come, per lo meno a partire dal 2005, si sia registrato un netto aumento nell’applicazione delle misure di sicurezza detentive, anche per gli effetti prodotti dalla nota sentenza “Raso” emessa dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione[12] (sentenza n. 9163 del 25 gennaio 2005), con la quale si è specificato che, ai fini del riconoscimento del vizio totale o parziale di mente, anche i disturbi della personalità, che non sempre sono inquadrabili nel ristretto novero delle malattie mentali, possono rientrare nel concetto di “infermità”, purché siano di consistenza, intensità e gravità tali da incidere concretamente sulla capacità di intendere o di volere, escludendola o scemandola grandemente, e a condizione che sussista un nesso eziologico con la specifica condotta criminosa, per effetto del quale il fatto di reato sia ritenuto causalmente determinato dal disturbo mentale[13]. Come nel prosieguo si vedrà, peraltro, tale importante apertura in merito alla rilevanza dei “disturbi di personalità” avrebbe ricevuto negli anni successivi non poche critiche, anche a causa dei concreti effetti che si sarebbero prodotti sul sistema delle REMS, una volta entrato a regime, risultando in molti casi destinatari delle misure di sicurezza detentive soggetti affetti da patologie psichiatriche con caratteristiche tali da non poter essere adeguatamente trattate e contenute presso strutture, quali le REMS, a vocazione esclusivamente sanitaria[14].
Ad ogni modo, al di là delle motivazioni anche giuridiche da cui è derivato l’aumento del ricorso alle misure di sicurezza detentive, consta il dato per cui, a fronte di una media di circa 1.250 pazienti accolti nei vecchi OPG, per lo meno tra gli anni 2008 e 2011[15], siano stati ad oggi realizzati 652 posti-letto nelle 36 REMS attivate sul territorio nazionale dal 2015 in poi, a fronte dei circa 740 posti di dotazione originariamente programmata agli albori della riforma (punto 5.1 del “Ritenuto in fatto” della sentenza in commento)[16].
Con ogni probabilità, la scelta di creare una rete di Residenze dimensionata al ribasso in termini di posti-letto non è stata casuale o dettata esclusivamente da ragioni finanziarie ma si poneva in linea con il presupposto politico, oggi concretizzato nel noto art. 3-ter, co. 4, d.l. 211/2011 ma già da tempo conosciuto nella giurisprudenza costituzionale riferita agli OPG[17], secondo cui il ricovero in REMS sarebbe dovuto realmente diventare una extrema ratio, cui ricorrere solo nel caso in cui qualsiasi altra misura non detentiva si fosse rivelata inappropriata o inefficace nei confronti del singolo paziente autore di reato; ciò posto, le Residenze di nuova istituzione non avrebbero dovuto considerarsi sic et simpliciter come dei sostituti dei vecchi O.P.G.[18]
Inoltre, sin da quanto previsto nell’ “Allegato C” del D.P.C.M. primo aprile 2008[19], si era in effetti stabilito che, in vista del transito della gestione degli ospedali psichiatrici giudiziari in capo ai sistemi sanitari regionali, si procedesse “alla restituzione ad ogni Regione italiana della quota di internati in OPG di provenienza dai propri territori e dell’assunzione della responsabilità per la presa in carico”. In tale contesto normativo, una volta approvato il d.l. n. 211/2011, tra il 2012 e il 2015, si è dato impulso, d’intesa con l’Autorità giudiziaria, a numerose dimissioni dal circuito degli ospedali psichiatrici giudiziari[20], così da poter realizzare il trasferimento di un più contenuto numero di pazienti all’interno delle neonate REMS che, come detto, erano state istituite in un’ottica di accoglienza molto meno “massiva” rispetto a quanto non fosse accaduto con l’esperienza degli O.P.G.
D’altro canto, nell’ambito di siffatta operazione, come opportunamente sottolineato, non si è adeguatamente tenuto conto del tasso di nuovi ingressi, essendosi appunto parametrato il numero dei posti-letto teoricamente necessari su una media di presenze in O.P.G. anormalmente bassa, in quanto appunto proveniente da una importante campagna di dimissioni[21].
Inoltre, deve considerarsi che buona parte dei posti-letto realizzati nelle REMS sono stati inizialmente destinati all’accoglienza dei pazienti già ricoverati in OPG e ritenuti non suscettibili di dimissioni da parte dell’Autorità giudiziaria, dal che è derivata una rapida saturazione delle nuove strutture con l’inevitabile creazione di liste di attesa per il perfezionamento dei ricoveri a partire già dal mese di dicembre 2015[22].
Del resto, neppure il transito dei pazienti dagli OPG alle REMS si è svolto in maniera realmente efficiente. Deve rammentarsi, al riguardo, come la realizzazione delle Residenze rientrava nella attuazione dei complessi programmi organizzativi regionali previsti dall’art. 3-ter, co. 6, d.l. n. 211/2011, conv. in legge n. 9/2012, attuazione che, com’è noto, non è avvenuta in tutte le Regioni secondo la medesima tempistica ed ha anzi subito in alcuni casi consistenti rallentamenti, al punto da giustificare la nomina, nel febbraio 2016, da parte del Consiglio dei Ministri, di un Commissario unico per il definitivo superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari.
I ritardi registratisi nella concretizzazione del processo riformatore hanno comportato finanche difficoltà nella allocazione degli internati in OPG alla data di formale chiusura degli stessi. Costoro, infatti, non essendo stati ritenuti suscettibili di dimissioni da parte dell’Autorità giudiziaria, hanno continuato ad essere ristretti nelle strutture penitenziarie, pur dopo il primo aprile 2015, in attesa che le Residenze competenti per la loro accoglienza venissero realizzate e comunque dichiarassero la disponibilità di posto-letto; solo agli inizi del 2017, si è infine giunti alla completa dimissione degli internati dagli ospedali psichiatrici giudiziari, potendosi così procedere alle loro effettive chiusure o riconversioni[23].
In siffatto contesto, la creazione e il progressivo incremento delle liste di attesa per i ricoveri in R.E.M.S. dei vecchi internati e dei nuovi internandi avrebbe dovuto considerarsi come una disfunzione ampiamente prevedibile.
Ancora, come si vedrà meglio nel prosieguo, la previsione normativa del principio della REMS come extrema ratio non è stata accompagnata da adeguati investimenti nei servizi psichiatrici territoriali, sicché, nella maggior parte dei casi e per lo meno nell’ambito di alcune realtà regionali, le Autorità giudiziarie si sono trovate nella pratica impossibilità di prendere in considerazione valide alternative ai ricoveri in REMS, cui ricorrere nei casi in concreto portati alla loro attenzione; vi è anche da dire che, a fronte di taluni territori in cui si sono innescati meccanismi virtuosi di collaborazione tra Magistratura, Aziende sanitarie e Dipartimenti di salute mentale, nell’ambito di altre Regioni sono verosimilmente mancati adeguati canali di comunicazione tra le varie istituzioni coinvolte nella cura e nel contenimento dei pazienti psichiatrici autori di reato, il che ha determinato inevitabili ripercussioni anche sulla corretta individuazione, da parte delle Autorità giudiziarie, delle misure di sicurezza più appropriate per i singoli destinatari. Analoghe problematiche, peraltro, parrebbero affiorare, sempre con livelli di gravità sensibilmente differenziati tra i singoli territori regionali, in relazione al corretto espletamento di un adeguato turn-over tra soggetti già internati in REMS che, raggiunto un buon livello di compenso psichico, potrebbero essere dimessi, e soggetti internandi che, al contrario, trovandosi talora in situazioni di maggiore gravità clinica, meriterebbero una più immediata accoglienza nelle Residenze[24].
A quest’ultimo riguardo, peraltro, non si registra un pieno accordo tra i commentatori; alcuni, infatti, più che sui difetti di coordinamento tra REMS, dipartimenti di salute mentale e strutture alternative di accoglienza, si sono espressi con toni fortemente critici sul tema della valutazione di appropriatezza del ricovero in REMS operato nei confronti di taluni dei pazienti psichiatrici autori di reato che giungono alla loro attenzione. In questo senso, si è segnalato come, in molti casi, i pazienti delle REMS si troverebbero sottoposti alla misura di sicurezza detentiva, pur avendo commesso reati “tutto sommato modesti” e come, talora, le liste di attesa per l’accesso nelle Residenze sarebbero infoltite da persone che, oltre ad essere affette da disturbi psichiatrici, versano in situazioni di disagio socio-economiche che dovrebbero essere meglio trattate con risposte diverse da quella sanzionatoria di tipo penale[25].
Nello stesso contesto interpretativo si è inoltre rilevato come il problema della tendenziale scarsità dei posti-letto disponibili deriverebbe da un uso troppo disinvolto dei ricoveri in REMS di tipo provvisorio, a norma dell’art. 206, cod. pen., peraltro spesso destinati a soggetti connotati da alta e persistente pericolosità sociale e criminale e che, come tali, trarrebbero giovamento da percorsi giudiziari ordinari e non dall’applicazione di misure di sicurezza detentive[26]. Secondo tale impostazione, sarebbe dunque fondamentalmente errato auspicare un maggiore ricambio nell’accoglienza in REMS tra pazienti “compensati” e pazienti che si trovano invece in stati di acuzie, posto che le Residenze di nuova concezione non dovrebbero proprio considerarsi adatte a soggetti che mostrano più spiccati profili di pericolosità anche in ragione dello scompenso psicopatologico in cui versano.
Ad ogni modo, pur prendendosi atto delle illustrate divergenze di opinioni, e con particolare riguardo per il principio affermato dall’art. 3-ter, co. 4, d.l. 211/2011, si ritiene che non sempre, nella disamina della problematica, si tengano nella dovuta considerazione i principi posti dal diritto vivente, con i quali tutti gli operatori non possono esimersi dal confrontarsi, e che però, oggi, grazie alla sentenza in commento, sono stati opportunamente ricollocati dalla Corte costituzionale al centro del dibattito pubblico.
In tal senso, in relazione ai variegati spunti problematici connessi al giudizio di “appropriatezza” della misura di sicurezza detentiva, dovrebbe pur sempre rammentarsi come, a prescindere dall’innesco di buone pratiche e dalla esistenza di adeguati circuiti di accoglienza alternativi alle R.E.M.S., il citato art. 3-ter, co. 4, pur indicando le Residenze come una extrema ratio, affidi comunque alla esclusiva responsabilità dell’Autorità giudiziaria la scelta non solo sull’an, ma anche sulla tipologia della misura di sicurezza da adottare in concreto; tale giudizio, peraltro, per espressa previsione normativa, deve essere parametrato alla pericolosità sociale del destinatario della misura, previo specifico accertamento da eseguirsi sulla base delle qualità soggettive della persona e senza tenere conto delle sue “condizioni di vita individuale, familiare e sociale”, prese in considerazione dall’art. 133, co. 2, n. 4, c.p. E’ noto del resto che, trattandosi di giudizio connotato anche da una importante componente tecnica, lo stesso è di norma svolto con il supporto di consulenti e periti esperti in psichiatria investiti di fondamentali compiti ausiliari; ma è altresì noto che, per espressa previsione normativa, il giudizio in merito all’adeguatezza della misura è destinato a colorarsi anche di valutazioni giuridiche, aventi ad oggetto la gravità del reato in contestazione, dalle modalità di esecuzione dello stesso, oltre che i precedenti penali e giudiziari del soggetto interessato; ancora, un ruolo cruciale nella valutazione di “adeguatezza” circa la misura da applicare è inoltre rivestito dalla compliance che il paziente abbia dimostrato rispetto alla eventuale precedente irrogazione di misure non detentive ed in particolare dalla sussistenza di pregresse violazione delle prescrizioni che, di norma, vengono impartite con la misura gradata della libertà vigilata.
Va da sé, dunque, che non sempre le valutazioni giudiziarie potranno combaciare con le indicazioni provenienti dai servizi psichiatrici territoriali circa l’appropriatezza della misura da applicare o, eventualmente, da prorogare.
Ne consegue che, pur ipotizzandosi maggiori sforzi anche di tipo finanziario per dare concretezza al principio della R.E.M.S. quale extrema ratio, con ogni probabilità, ci si dovrà comunque continuare a confrontare con un rilevante numero di misure di sicurezza detentive che le Autorità giudiziarie riterranno di continuare ad applicare in forza di valutazioni strettamente giuridiche legate alla pericolosità sociale del paziente psichiatrico autore di reato.
Quest’ultimo dato di fatto non pare sia stato adeguatamente ponderato dai decisori pubblici e le conseguenze di tutto quanto sopra esposto non possono che risultare di rilevante gravità.
Basti pensare che, alla data del 28 ottobre 2020, risultava all’Amministrazione penitenziaria l’esistenza di 813 persone in attesa di ricovero in R.E.M.S., in quanto destinatarie di provvedimenti applicativi di misura di sicurezza detentiva, in via provvisoria o definitiva; delle persone in attesa di ricovero, 98 si trovavano ristrette in istituti penitenziari, mentre le restanti 715 si trovavano in stato di libertà con tutto ciò che intuitivamente ne consegue in termini di rischi per la sicurezza pubblica e privata, trattandosi evidentemente di soggetti infermi di mente che hanno già commesso reati ed attualmente giudicati socialmente pericolosi.
In tale contesto, deve peraltro segnalarsi che, sempre sulla base dei dati a disposizione dell’Amministrazione penitenziaria, le situazioni più critiche in termini di consistenza delle liste di attesa, alla data del 28 ottobre 2020, si registravano nelle Regioni Calabria, Campania, Lazio, Lombardia, Puglia e Sicilia che, da sole, assorbivano circa il 72% delle persone in attesa di ricovero. Ad ogni modo, seppure con numeri più contenuti, alla predetta data quasi tutte le Regioni italiane risultavano interessate dal fenomeno delle liste di attesa per l’ingresso in REMS.
Nell’ultimo anno la situazione si è evoluta positivamente solo con riguardo al numero complessivo delle persone che attendono il ricovero dall’interno degli istituti penitenziari, essendosi passati a 35 persone che si trovavano in tale condizione al 25 ottobre 2021 (punto 5.5 della sentenza in commento), con una evidente flessione rispetto al dato della precedente rilevazione; di scarso rilievo appare invece la diminuzione del numero complessivo delle misure di sicurezza detentive rimaste ineseguite, essendosi passati, alla data del 31 luglio 2021, secondo le rilevazioni comunicate alla Corte costituzionale, ad un totale compreso tra le circa 670 persone, secondo i calcoli del Ministero della salute e della Conferenza delle Regioni e delle Province autonome, e le 750 persone, secondo i calcoli del Ministero della giustizia (punto 5.4 della sentenza in commento).
Né, peraltro, risulta che la difficoltà sia recente, essendosi appunto detto come, sin dalla inaugurazione delle REMS, le stesse abbiano sofferto di una carenza di posti-letto divenuta esponenziale e cronica nel corso degli anni.
Ed al riguardo, pare senz’altro utile richiamare i moniti che, già nell’aprile 2017, il Consiglio Superiore della Magistratura aveva divulgato a proposito delle criticità che, già all’epoca, affliggevano il sistema delle REMS, all’esito di un’articolata indagine conoscitiva condotta presso tutti gli uffici giudiziari italiani[27].
Né, evidentemente, come del resto sottolineato dalla stessa Corte costituzionale (punto 5.4 della sentenza in commento), può sottacersi il crescente interesse che per la materia sta manifestando la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, quanto meno nei confronti dei soggetti che, in attesa del ricovero in REMS si trovino ad essere ristretti in istituto di pena e, dunque, in contesti detentivi notoriamente non appropriati alla loro condizione psicopatologica.
Constano al riguardo almeno due provvedimenti cautelari emessi dalla C.E.D.U. ai sensi dell’art. 39 del Regolamento della Corte concernenti altrettanti detenuti ristretti in due diversi penitenziari, nei confronti dei quali il Giudice sovranazionale ha ordinato l’immediato ricovero in strutture idonee. Stante peraltro la peculiarità di tali provvedimenti, la più attenta dottrina non ha mancato di rilevare come gli stessi possano verosimilmente costituire il “prologo” per più consistenti decisioni idonee a mettere in mora il Governo italiano per l’adozione di provvedimenti di carattere più strutturale[28].
5. I reali termini del problema: dal superamento degli OPG alla neutralizzazione, praeter legem, delle misure di sicurezza detentive. La necessità, non più eludibile, di potenziare adeguatamente la rete delle REMS e i sistemi territoriali di tutela della salute mentale dei pazienti psichiatrici autori di reato
L’introduzione di strumenti normativi ed organizzativi finalmente funzionali ad una vera e propria risistemazione della materia, da cui possano scaturire circuiti realmente virtuosi nella cura, nel trattamento ed anche nel contenimento dei pazienti psichiatrici autori di reato, non è dunque più rinviabile, come da ultimo opportunamente ribadito dalla Corte costituzionale.
A distanza di quasi sette anni dall’entrata in vigore della riforma che ha sancito il superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari, si è venuta a creare una situazione “patologica” per cui non solo è da considerarsi “superata” l’esperienza degli OPG, ma risultano di fatto non più utilmente applicabili – per lo meno in alcune realtà regionali – le norme che, a tutt’oggi, in presenza di determinati presupposti, continuano a prevedere la possibilità di sottoporre gli infermi di mente a misure di sicurezza di tipo detentivo.
L’esistenza delle liste di attesa pocanzi indicate, almeno in alcune parti del territorio nazionale, fa sì che l’applicazione di una misura di sicurezza detentiva nei confronti di un infermo di mente si presenti ormai come un’opzione non più utilmente esperibile, sebbene, in concreto, nella pratica, continuino ovviamente a presentarsi svariati casi in cui, essendosi verificati i presupposti previsti dalla legge, l’adozione di tali misure risulterebbe chiaramente necessitata, tanto più in considerazione della persistente vigenza delle norme penali relative all’applicazione ed all’esecuzione delle misure di sicurezza detentive.
Tale situazione, com’è noto, produce evidenti distorsioni.
Considerando il numero dei soggetti destinatari di misura di sicurezza detentiva ed in attesa di internamento, si ravvisa il rischio che il processo di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari si traduca non già nella individuazione di istituti di cura e custodia realmente adeguati alle necessità degli infermi di mente giudicati socialmente pericolosi, bensì in una sorta di rinuncia, da parte dei pubblici poteri, a soddisfare il dovere, loro assegnato, di sostenere e contenere i cittadini che abbiano commesso reati in uno stato di non imputabilità, derivante da un vizio totale di mente.
E questa sorta di dismissione di competenze, come detto, si è concretizzata nella formazione di liste di attesa per l’ingresso in REMS, più o meno nutrite, in tutte le Regioni italiane.
Il concetto di “lista d’attesa”, peraltro, non è affatto sconosciuto ed è anzi connaturato all’ambito sanitario, per ciò che concerne l’erogazione delle prestazioni mediche di carattere esclusivamente pubblicistico e, a distanza di oltre sei anni dall’attuazione della riforma di cui si discute, può oggi ragionevolmente affermarsi che i sistemi sanitari regionali abbiano tendenzialmente accettato il rischio che anche per i ricoveri nelle REMS si creassero per l’appunto dei tempi di attesa più o meno prolungati.
Tale scelta, tuttavia, come lucidamente sottolineato dalla Corte costituzionale, non appare compatibile con l’erogazione di prestazioni che, a differenza di ogni altro trattamento sanitario, corrispondono non solo ad una finalità di tipo terapeutico ma dipendono direttamente da un ordine impartito dall’Autorità giudiziaria, dotato per definizione di esecutorietà e, dunque, meritevole di una esecuzione che, seppur non immediata, deve senz’altro potersi effettuare in tempi ragionevoli e, soprattutto, prevedibili. Al riguardo, riprendendo sul punto le considerazioni svolte dalla Consulta, giova rammentare come proprio dalla compiuta esecuzione di tali ordini giurisdizionali dipenda la salvaguardia di irrinunciabili valori costituzionali, attinenti, da un lato, alla tutela della salute degli infermi di mente destinatari delle misure di sicurezza e, dall’altro, alla protezione dei diritti – concernenti nella maggior parte dei casi la sicurezza pubblica e l’incolumità individuale – di cui sono titolari le vittime dei reati per cui si procede.
Ne consegue che, in assenza di riforme normative con un carattere più pervasivo, la “gestione esclusivamente sanitaria” delle Residenze introdotta con il d.l. n. 211/2011 non avrebbe dovuto, né potuto, interpretarsi come produttiva di un inedito sistema di applicazione delle misure di sicurezza detentive, che, allo stato, e per lo meno in alcune realtà regionali, parrebbe basarsi su una sorta di impropria condivisione del potere di internamento tra Autorità giudiziarie e Autorità sanitarie locali.
Per quanto sinora detto, infatti, ben lungi dal voler espungere o ridimensionare l’istituto delle misure di sicurezza detentive, il legislatore ha semplicemente previsto forme e modalità di esecuzione delle stesse diverse e maggiormente incentrate sull’obiettivo del recupero psichiatrico dei pazienti autori di reato, senza tuttavia attribuire ai rappresentati dei sistemi sanitari regionali poteri di veto o di inibizione delle decisioni adottate dalle Autorità giudiziarie. E tali riflessioni, peraltro, paiono tanto più vere, ove si consideri quanto detto poc’anzi a proposito dell’attuale contesto normativo che, pur con l’importante novità costituita dalla positivizzazione del principio della R.E.M.S. come extrema ratio, continua stabilmente a considerare come atto giudiziario l’applicazione dell’internamento.
In questo contesto, pare piuttosto chiaro che, accanto ad una realizzazione di un numero complessivo di posti-letto in REMS evidentemente sottodimensionato rispetto alla domanda effettiva, un ruolo di peso nella formazione delle liste di attesa sia stato esercitato anche dal principio del “numero chiuso” degli accessi, introdotto peraltro, come detto, neppure per via normativa, bensì nell’ambito degli accordi intervenuti tra lo Stato e gli enti territoriali.
È bene precisare, tuttavia, anche qui rifacendosi alle considerazioni della Consulta, come, indipendentemente dalle singolari modalità con cui detto principio ha fatto la sua comparsa nell’ordinamento, non pare affatto auspicabile un suo superamento, con la contestuale accettazione di rinnovate dinamiche di sovraffollamento delle REMS oggi presenti sul territorio nazionale.
Né, tanto meno, le considerazioni sin qui svolte mirano a sottrarre ai rappresentanti dei sistemi sanitari ogni potere di interlocuzione con l’Autorità giudiziaria in merito alla effettiva appropriatezza dei singoli ricoveri in REMS, oltre che della permanenza nelle Residenze dei soggetti già internati e che, a giudizio dei responsabili sanitari, abbiano raggiunto buoni livelli di compenso psichico.
Tuttavia, (e senza revocare in dubbio l’introduzione delle R.E.M.S. quali luoghi non penitenziari ove dare esecuzione alle misure di sicurezza detentive, la valorizzazione del contenuto sanitario di dette misure e la qualificazione delle stesse come extrema ratio) si ritiene che la vera attuazione della riforma passi necessariamente per un rinnovato investimento nella stessa, anche in termini finanziari[29].
Continuare a mantenere una dimensione artificiosamente contenuta del numero dei posti-letto in R.E.M.S. lascerebbe invero supporre la surrettizia finalità di indirizzare forzatamente le scelte dell’Autorità giudiziaria verso l’applicazione di misure di sicurezza di tipo non detentivo, il che, tuttavia, si presenza come un’operazione in alcun modo conforme all’attuale contesto normativo.
Il principio del “numero chiuso” degli accessi in REMS, semmai, potrà conciliarsi con i provvedimenti giurisdizionali, solo nel momento in cui tutte le Regioni saranno dotate di un numero di posti-letto effettivamente adeguato e pienamente parametrato ai requisiti tecnici individuati con il D.M. primo ottobre 2012[30]; si ritiene, infatti, che solo in tal modo l’ordinamento potrà produrre una efficace risposta, in termini di cura e contenimento, per quei pazienti psichiatrici autori di reato nei cui confronti sia ineludibile l’applicazione delle misure di sicurezza detentive al fine di fronteggiarne la pericolosità sociale, pur nella piena considerazione del principio del ricovero in R.E.M.S. quale extrema ratio.
Del resto, già l’Accordo del 26 febbraio 2015 esplicitava nelle premesse lo specifico impegno, in capo alle Regioni ed alle Province Autonome, a provvedere “ad una idonea programmazione che tenga conto delle esigenze in corso e a venire, con specifico riguardo alla evoluzione del numero dei propri pazienti”.
Preso atto della situazione sin qui descritta, deve constatarsi come, almeno in talune Regioni, detta programmazione non sia stata adeguatamente effettuata.
Le risorse non dovrebbero peraltro destinarsi alla sia pur ineludibile implementazione della rete delle Residenze, ma anche al rafforzamento del complessivo sistema di cura ed accoglienza dei pazienti psichiatrici autori di reato, incentrato sui dipartimenti di salute mentale presenti sull’intero territorio nazionale.
Infatti, il principio della REMS come extrema ratio è sinora sostanzialmente rimasto lettera morta anche per la limitatezza di soluzioni alternative all’applicazione delle misure di sicurezza detentive. In questo senso, da più parti, si è anche denunciata una certa tendenza dell’Autorità giudiziaria nel ricorrere al ricovero in REMS anche in casi in cui l’applicazione di misure gradate, quali la libertà vigilata con prescrizioni, potrebbe rivelarsi sufficiente ai fini della corretta instaurazione di percorsi di cura e contenimento dei singoli pazienti. D’altro canto, si è anche rilevato come la mancata applicazione delle misure di sicurezza non detentive sia talora derivata dall’assenza di adeguate risposte operative da parte dei dipartimenti di salute mentale, specialmente per quanto concerne l’individuazione di strutture cliniche di assistenza ove prevedere l’esecuzione di progetti riabilitativi di tipo residenziale o semi-residenziale.
Ne consegue che, accanto al potenziamento della rete delle REMS, come d’altra parte segnalato anche dalla Corte costituzionale, andranno necessariamente implementati anche i servizi psichiatrici territoriali, così da poter mantenere fermo il principio del “numero chiuso” per l’accesso nelle Residenze, dotando contestualmente i Giudici competenti di misure alternative applicabili nei confronti dei pazienti connotati da pericolosità più attenuata, nonché per coloro che, già ristretti in REMS, abbiano raggiunto buoni livelli di compenso psichico. Proprio in questo modo, infatti, si favorirebbe un più accentuato turn-over tra i pazienti già accolti in REMS e quelli da accogliere, scongiurando il rischio che il fenomeno delle liste di attesa si riproduca nuovamente in futuro, anche nel momento in cui dovesse incrementarsi la dotazione di posti-letto nel territorio nazionale.
6. Il tema della “appropriatezza” della misura di sicurezza detentiva
Un’altra problematica, non sempre chiaramente esplicitata e che, come sopra accennato, sembra agitarsi nel dibattito relativo al sistema delle REMS, è quella relativa all’appropriatezza di tali strutture nei confronti di talune specifiche categorie di pazienti psichiatrici autori di reato. La questione risulta peraltro in più punti affacciarsi anche nell’ambito della sentenza della Corte costituzionale in commento (si vedano, tra gli altri, i punti 5.12 del “Ritenuto in fatto” e 5.3.2 del “Considerato in diritto”).
Al riguardo, si è precisato come le Residenze, in quanto strutture votate in modo pressoché esclusivo alla recovery sanitaria dei loro ospiti, si connoterebbero per requisiti di sicurezza non particolarmente elevati e comunque adatti solo per una utenza selezionata, composta da pazienti che abbiano dimostrato un’adeguata consapevolezza di malattia e, soprattutto, una buona accettazione di percorsi terapeutici di tipo residenziale; e si è anche sottolineato, nella medesima ottica, come le REMS, proprio perché non meramente succedanee dei vecchi ospedali psichiatrici giudiziari, dovrebbero caratterizzarsi per la predisposizione di piani terapeutici evoluti e senz’altro distinti dai vecchi principi della “contenzione” fisica degli internati[31].
Si è quindi puntualizzato come determinate categorie di soggetti, in atto stabilmente destinati alle REMS, non sarebbero in realtà clinicamente idonei per il ricovero nelle Residenze, in quanto gravemente dipendenti dalle sostanze stupefacenti, ovvero connotati da personalità violente ed anti-sociali, intolleranti alle regole, minacciosi, “tendenti a mentire”, “prevaricatori, oppositivi, aggressivi verso il personale e gli altri malati”[32]. Secondo alcuni studi, i pazienti con queste caratteristiche costituirebbero addirittura il 20-30% dell’utenza delle REMS, andando così ad alimentare numerose problematiche, sia in termini di incremento delle liste di attesa con soggetti che, da un punto di vista clinico, non sarebbero da considerarsi idonei per i percorsi di cura erogabili in REMS, sia in termini di sicurezza interna alle Residenze, nei casi in cui si sia proceduto al loro effettivo internamento[33].
Orbene, anche quest’ultimo aspetto del dibattito dimostra in modo obiettivo come le modalità approssimative con cui tra gli anni 2011 e 2015 è stata attuata la riforma abbiano prodotto il “terreno di coltura” ideale per fare affiorare le contraddizioni del sistema di cura e trattamento per i pazienti psichiatrici autori di reato attualmente vigente in Italia.
Pare infatti chiaro che, in assenza di una compiuta riflessione politica e giuridica in merito al sistema delle misure di sicurezza detentive ed alle norme codicistiche che individuano l’ampia platea degli infermi di mente sottoponibili alle stesse, taluni ambiziosi obiettivi sono destinati a rimanere “lettera morta”.
Ed invero, l’affermazione secondo cui le R.E.M.S. dovrebbero strutturarsi in modo diverso dai vecchi OPG, rivolgendosi ad una utenza maggiormente selezionata e che mostri una tendenziale compliance rispetto alle cure proposte, mal si concilia con una norma, quale il citato art. 3-ter, co. 4, d. l. n. 211/2011, a tenore del quale, in modo indistinto, tutte le misure di sicurezza del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario e dell’assegnazione a casa di cura e custodia sono da eseguirsi presso le Residenze di nuova concezione, sia pure con il caveat costituito dal principio dell’assegnazione in R.E.M.S. come extrema ratio; peraltro, proprio quest’ultima “valvola di sfogo”, in forza della quale le Autorità giudiziarie dovrebbero sempre prediligere misure di sicurezza non custodiali, neppure pare applicabile ai casi da ultimo presi in considerazione, concernenti i soggetti connotati da profili di pericolosità estremamente elevati i quali, per definizione, non possono che risultare incompatibili con un regime blandamente restrittivo, quale è quello della libertà vigilata.
È dunque coerente che taluni degli operatori che sottolineano l’inappropriatezza delle REMS per la tipologia di utenza più pericolosa, contestualmente auspichino un rinnovato ricollocamento di questi pazienti all’interno delle strutture penitenziarie, sia pure ipotizzando nello stesso tempo un congruo rafforzamento delle aree che erogano prestazioni sanitarie negli Istituti di pena[34]. Quest’ultima opzione presupporrebbe però una radicale rivisitazione della normativa che regola la materia della imputabilità, verosimilmente anche sul piano costituzionale, essendo ben noto che, allo stato, i principi e le norme dedicate agli infermi di mente autori di reato esprimano una insofferenza sia per il loro ingresso in carcere, sia, tanto più, per la loro permanenza negli ambienti inframurari[35]. Del resto, la tendenziale inappropriatezza del contesto carcerario per il trattamento delle infermità psichiatriche, per lo meno nelle loro forme più severe, è stata di recente riaffermata dalla stessa Corte costituzionale, con la nota sentenza della Corte costituzionale 14 aprile 2019, n. 99[36].
Chiamato a valutare la legittimità dell’art. 47-ter, co. 1-ter, ord. pen. nella parte in cui non prevedeva che il tribunale di sorveglianza, in caso di grave infermità psichica sopravvenuta, potesse concedere al condannato la detenzione domiciliare anche in deroga ai limiti di cui al comma 1 del medesimo art. 47-ter, il Giudice delle leggi ha colto l’occasione per soffermarsi su varie problematiche di sistema relative al trattamento delle patologie psichiatriche all’interno degli Istituti di pena; ed al riguardo, pur non escludendo aprioristicamente che anche i penitenziari possano essere sede di aree specificamente destinate alla cura delle infermità mentali, ha comunque chiaramente riconosciuto come, per lo meno per i casi patologici connotati da maggiore gravità, debba ravvisarsi una sostanziale incompatibilità tra carcere e disturbo mentale[37].
Peraltro, l’ipotesi di ricondurre una parte dei pazienti psichiatrici autori di reato all’interno dei penitenziari, sia pure presso aree ad esclusiva gestione sanitaria, parrebbe obiettivamente contraddire il percorso di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari[38], al netto delle annose problematiche che, peraltro, tutt’oggi continuano ad affliggere il sistema di tutela della salute psichica delle persone detenute, nonostante gli sforzi profusi dall’Amministrazione penitenziaria e dai sistemi sanitari regionali.
Ad ogni modo, dal 2011 ad oggi, non si è registrata l’approvazione di alcuna riforma organica né del sistema delle misure di sicurezza detentive, né, tanto meno, dei criteri che regolano l’imputabilità e ciò si è inevitabilmente ripercosso sul sistema delle REMS, nella misura in cui si è dovuto disporre il ricovero in dette strutture di tutti i pazienti psichiatrici autori di reato, giudicati incapaci di intendere e di volere al momento del fatto e socialmente pericolosi in grado tale da meritare la misura custodiale, indipendentemente dalle specificità delle loro condizioni psicopatologiche e dalla effettiva appropriatezza del percorso di cura esperibile in REMS rispetto alle situazioni cliniche individuali.
Se dunque è questo il contesto entro cui confrontarsi, è bene però nuovamente precisare che neppure la problematica da ultimo esaminata potrà adeguatamente fronteggiarsi mantenendo artificiosamente bassi i numeri dei posti-letto disponibili in REMS, così da indurre l’Autorità giudiziaria, in modo pressoché forzato, a ricercare percorsi di cura alternativi per i pazienti affetti da patologie non correttamente trattabili nelle Residenze.
In questo senso, deve infatti ricordarsi che, a legislazione invariata, continua a mancare qualsivoglia criterio organizzativo o normativo che consenta legittimamente alla Magistratura o alle Amministrazioni sanitarie regionali di effettuare una selezione in entrata dei soggetti non imputabili attinti da misura di sicurezza detentiva, sicché gli stessi, allo stato, continuano inevitabilmente ad essere indirizzati nelle REMS prescindendo da specifiche valutazioni in merito alla loro compatibilità personologica con l’ambiente residenziale. Né, come detto, tendenzialmente, tali valutazioni riescono ad effettuarsi in modo efficace prima della emissione dei provvedimenti che dispongono l’applicazione della misura detentiva, a causa dell’assenza di offerte terapeutiche alternative alla REMS parimenti rassicuranti con riguardo alle possibilità di contenimento dei pazienti.
Dunque, il sotto-dimensionamento della rete delle Residenze presenti sul territorio nazionale, ben lungi dall’innescare meccanismi virtuosi di ricerca di soluzioni alternative, finisce semplicemente, almeno in alcune realtà regionali, per privare di adeguate forme di assistenza i pazienti psichiatrici autori di reato, determinando contestualmente la mancata esecuzione dei provvedimenti che li riguardano.
Una più efficace selezione in entrata dei pazienti da ammettere in REMS potrebbe al più prefigurarsi – ed auspicarsi – con riguardo ai soli soggetti connotati da una ridotta pericolosità sociale e, come tali, adeguatamente trattabili nel regime tipico della libertà vigilata, ma non anche in relazione ai pazienti più aggressivi che, con ogni probabilità, dovrebbero comunque continuare ad indirizzarsi verso soluzioni terapeutiche extracarcerarie ma comunque di tipo detentivo.
Reputando auspicabile non già un abbandono dell’esperienza delle REMS bensì un reale potenziamento della stessa, dovrebbe semmai rivalutarsi il tema della sicurezza interna ed esterna delle Residenze, tenendo in adeguata considerazione le problematiche gestionali che l’esperienza degli ultimi anni ha lasciato affiorare in relazione al trattamento dei soggetti più violenti e pericolosi e, dunque, ipotizzando di coniugare in modo diverso e più efficace le esigenze di cura di tutti i soggetti sottoposti a misura di sicurezza detentiva con la domanda di sicurezza proveniente dagli operatori e dagli ospiti delle strutture connotati da profili di aggressività più attenuata.
7. Conclusioni
Com’è noto, nessuno dei progetti di riforma del sistema delle misure di sicurezza elaborati nel corso degli ultimi anni ha superato il vaglio dell’approvazione parlamentare[39]; e ciò dimostra come, da ormai troppo tempo, su alcuni nodi problematici della materia di cui si discute gli esperti non riescano a trovare una soluzione equilibrata che soddisfi in egual misura le “esigenze” della giustizia e le istanze dei sistemi sanitari dedicati al trattamento delle patologie psichiatriche.
Si è dunque tentato di illustrare le ragioni per cui si ritiene che tale compromesso difficilmente potrà mai raggiungersi, qualora si continuerà a non cogliere la specificità di una materia in cui, comunque, viene in rilievo la necessaria esecuzione di provvedimenti giurisdizionali che trovano la propria giustificazione non solo nelle doverose esigenze di cura dei pazienti psichiatrici autori di reato, ma anche nella domanda di sicurezza pubblica e privata connaturata nella collettività e chiaramente rilevante sul piano costituzionale, al pari del diritto alla salute riconosciuto ai pazienti.
Ad avviso di chi scrive, dovrà necessariamente prendersi atto del fatto che, nella materia in questione, le ontologiche competenze giudiziarie potranno senz’altro essere rimodellate, così da assicurarsi meccanismi di più ampia collaborazione con gli specialisti della salute mentale, ma non potranno continuare ad essere neutralizzate, né direttamente, né, tanto meno, indirettamente, mediante la eccessiva compressione del numero complessivo dei posti-letto in R.E.M.S., sinora verificatasi.
In questo senso, stante la molteplicità degli obiettivi perseguiti e la complessità delle problematiche accumulatesi in ragione di riforme approssimative e disorganiche, in definitiva, si ritiene che il decisore politico debba finalmente rivolgere uno sguardo attento e convinto sui pazienti psichiatrici autori di reato, con la piena consapevolezza – come opportunamente segnalato dai più attenti commentatori – che le questioni sin qui poste non potranno risolversi “a costo zero” e sulla base di clausole di invarianza finanziaria[40], ravvisandosi la necessità di investimenti che siano effettivamente proporzionati all’ambizione delle riforme che ci si proporrà di attuare.
Su questi ed altri temi ha da ultimo espresso la sua autorevole posizione anche la Corte costituzionale con la sentenza in commento e di tale posizione non potrà, evidentemente, non tenersi conto nell’immediato futuro.
[1] Il presente contributo costituisce un estratto aggiornato dell’articolo Il sistema delle R.E.M.S. Limiti, contraddizioni e prospettive di una riforma, pubblicato dallo stesso Autore in Temi di esecuzione penale (rivista della Scuola Superiore dell’Esecuzione Penale “Piersanti Mattarella”), dicembre 2021.
[2] In questo senso, l’art. 3-ter, co. 1, d. l. 211/2011 fa esplicito riferimento al “termine per il completamento del processo di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari già previsto dall’allegato C del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 1° aprile 2008 (…) e dai conseguenti accordi sanciti dalla Conferenza unificata (…)”. Il legislatore del 2011 ha dunque ritenuto di introdurre un termine perentorio per il compimento di un “percorso di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari”, in realtà sino a quel momento mai indicato come obiettivo dalla normativa primaria, ma solo nell’Allegato C del D.P.C.M. primo aprile 2008, a sua volta dedicato non già al “superamento degli O.P.G.”, bensì al trasferimento delle funzioni gestionali in materia di O.P.G. al servizio sanitario nazionale, al pari di ogni altra funzione in materia di medicina penitenziaria.
[3] Accordo concernente disposizioni per il definitivo superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari in attuazione al D.M. 1 ottobre 2012, emanato in applicazione dell’articolo 3ter, comma 2, del decreto legge 22 dicembre 2011, n. 211 convertito, con modificazioni, dalla legge 17 febbraio 2012, n. 9 e modificato dal decreto legge 31 marzo 2014 n. 52, convertito in legge 30 maggio 2014, n. 81 – Rep. Atti n. 17/CU del 26/02/2015.
[4] Accordo, ai sensi dell’articolo 9 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, concernente la definizione di specifiche aree di collaborazione e gli indirizzi di carattere prioritario sugli interventi negli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (OPG) e nelle Case di Cura e Custodia (CCC) di cui all’Allegato C al D.P.C.M. 1° aprile 2008 – Rep. n. 81 – CU del 26 novembre 2009, pubblicato in Gazzetta Ufficiale – Serie Generale n. 2, del 04/01/2010.
[5] Pubblicata sul sito www.dirittopenaleuomo.org, con il commento di A. Calcaterra, Misura di sicurezza con ricovero in R.E.M.S.: il ritorno al passato no!
[6] Tra i commenti, si segnala l’interessante dibattito a più voci intercorso tra M. Patarnello, Le Rems: uscire dall’inferno solo con le buone intenzioni, in Questione Giustizia, 02/06/2020; G. Nicolò, Rems, oltre le buone intenzioni, no al ritorno al passato e problema di legittimità costituzionale. Quindi quale futuro?, in Questione Giustizia, 04/02/2021; P. Pellegrini, Il superamento degli OPG e le REMS. Oltre le buone intenzioni, in www.sossanità.org.
[7] In questi termini, si esprime M. Patarnello, Le Rems: uscire dall’inferno solo con le buone intenzioni, cit.
[8] Tale evenienza è rappresentata da P. Pellegrini, Il superamento degli OPG e le REMS. Oltre le buone intenzioni, cit.
[9] K. Poneti, La Consulta e le pulsioni neo-manicomiali, in www.sossanità.it.
[10] Ai sensi dell’art. 12 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
[11] Segnalata in www.giurisprudenzapenale.com.
[12] Cass., Sez. Un., sent. 8 marzo 2005, n. 9163, in Dir. pen. proc., 2005, 837 ss., con nota di M. Bertolino, L’infermità mentale al vaglio delle Sezioni unite.
[13] Date queste premesse, le Sezioni Unite hanno anche aggiunto che, d’altro canto, nessun rilievo, ai fini dell'imputabilità, deve essere dato ad altre anomalie caratteriali o alterazioni e disarmonie della personalità che non presentino i caratteri sopra indicati, nonché agli stati emotivi e passionali, salvo che questi ultimi non si inseriscano, eccezionalmente, in un quadro più ampio di "infermità".
[14] In linea generale, il tema è trattato da A. Massaro, Tutela della salute mentale e sistema penale: dalla possibile riforma del doppio binario alla necessaria diversificazione della risposta “esecutiva”, in Questione Giustizia, 13 maggio 2021; della stessa Autrice, sempre sul tema della tutela della salute mentale degli autori di reato, si veda altresì in questa Rivista, 17 aprile 2021, La pazza gioia: il “cinema folle”, la società civile e il diritto penale.
[15] Dati acquisiti presso la Direzione generale dei detenuti e del trattamento del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria.
[16] A. Cardinali, Rems: una riforma in divenire, in Rivista Italiana di Medicina Legale (e del Diritto in campo sanitario), fasc. 1, 1 febbraio 2019, 405 ss. indica in 1.700-1.800 la media dei pazienti presenti negli OPG in epoca anteriore alla riforma.
[17] Tra le altre, può ricordarsi la sentenza della Corte costituzionale n. 253 del 18 luglio 2003, con la quale veniva dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 222, cod. pen., nella parte in cui non consente al giudice, nei casi previsti, di adottare, in luogo del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario, una diversa misura di sicurezza, prevista dalla legge, idonea ad assicurare adeguate cure dell’infermo di mente e a far fronte alla sua pericolosità sociale.
[18] Il tema risulta ampiamente sviscerato, tra gli altri, da A. Cardinali, Rems: una riforma in divenire, in Rivista Italiana di Medicina Legale (e del Diritto in campo sanitario), cit.
[19] Recante “Modalità e criteri per il trasferimento al Servizio sanitario nazionale delle funzioni sanitarie, dei rapporti di lavoro, delle risorse finanziarie e delle attrezzature e beni strumentali in materia di sanità penitenziaria”.
[20] I dati acquisiti presso la Direzione generale dei detenuti e del trattamento del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria comprovano in effetti come, in netta controtendenza rispetto alle medie annuali precedenti, si sia passati dai 1.276 pazienti ospitati in O.P.G. nel 2011 ai 689 presenti al 31 marzo 2015.
[21] In questi termini si esprime G. Nicolò, Rems, oltre le buone intenzioni, no al ritorno al passato e problema di legittimità costituzionale. Quindi quale futuro?, cit.
[22] Sempre dai dati acquisiti presso la Direzione generale dei detenuti e del trattamento, risulta che al 14 dicembre 2015 erano già 96 provvedimenti giurisdizionali in attesa di esecuzione. Questo numero è aumentato esponenzialmente nel corso degli anni, passandosi a 265 provvedimenti in attesa di esecuzione al 31 dicembre 2016, a 457 al 28 novembre 2017, a 667 al 9 gennaio 2019, a 705 al primo aprile 2019, a 813 al 27 ottobre 2020 ed infine a 762 al 27 settembre 2021. È bene ad ogni modo rammentare che, sulla base della normativa vigente che prevede la gestione esclusivamente sanitaria delle REMS, la responsabilità istituzionale circa la corretta tenuta delle singole liste di attesa non può che ricadere sulle Autorità regionali.
[23] Dati acquisiti presso la Direzione generale dei detenuti e del trattamento.
[24] In linea generale, una effettiva diversificazione delle misure sanzionatorie, quale strumento per alleggerire la pressione sulle REMS, viene invocata, tra gli altri, da A. Massaro, Tutela della salute mentale e sistema penale: dalla possibile riforma del doppio binario alla necessaria diversificazione della risposta “esecutiva”, cit., laddove è appunto definita “urgente” la “diversificazione delle misure sanzionatorie, in modo da rendere effettiva la natura residuale ed eccezionale delle misure custodiali”.
[25] In questi termini si esprime P. Pellegrini, Il superamento degli OPG e le REMS. Oltre le buone intenzioni, cit., il quale appunto segnala come, a fronte di un buon livello di turn-over attuato nelle Residenze nel periodo 31 marzo 2015-11 marzo 2019 (essendo stato dimesso il 65,1% dei complessivi 1.580 pazienti internati nel periodo in disamina), il 35% dei pazienti ospitati in REMS avrebbe commesso reati di scarso rilievo, nei cui confronti dovrebbero auspicarsi altre tipologie di intervento.
[26] Si veda, sul punto, sempre P. Pellegrini, Il superamento degli OPG e le REMS. Oltre le buone intenzioni, cit.
[27] Ci si riferisce alla delibera del Consiglio Superiore della Magistratura, “Fasc. 37/PP/2016”, pubblicata nell’aprile del 2017, avente ad oggetto “Direttive interpretative e applicative in materia di superamento deli Ospedali psichiatrici giudiziari e di istituzione delle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (REMS), di cui alla legge n. 81 del 2014”. Tra l’altro, nel documento si legge quanto segue:
“Per esigenze di sintesi non è possibile riportare integralmente la molteplicità di informazioni pervenute dai diversi uffici interessati, pur dovendosi dare atto che le problematiche evidenziate dalla maggior parte degli uffici attengono, principalmente, alla carenza di posti presso le nuove strutture REMS, con inevitabile formazione di liste di attesa per l’accettazione di nuovi pazienti e conseguente dilatazione dei tempi di esecuzione delle misure disposte; alla collocazione territoriale di alcune REMS, negativamente incidente sulla possibilità per le forze dell’ordine di intervenire tempestivamente nell’ipotesi in cui uno o più internati pongano in essere atti aggressivi o si diano alla fuga; all’individuazione dei soggetti deputati ad assicurare il trasferimento degli internati dalla Rems ai Presidi Sanitari Territoriali; nonché alla inadeguatezza della sorveglianza interna ed esterna alle strutture”.
[28] Tale valutazione è stata di recente espressa da A. Massaro, Tutela della salute mentale e sistema penale: dalla possibile riforma del doppio binario alla necessaria diversificazione della risposta “esecutiva”, cit.
[29] Al riguardo, M. Patarnello, Le Rems: uscire dall’inferno solo con le buone intenzioni, cit., evidenzia condivisibilmente quanto segue: “A ben vedere, in un mondo attento ed avveduto, il dibattito culturale intorno al tema avrebbe dovuto creare la condizione per un inevitabile e indispensabile intervento correttivo o integrativo del Legislatore (forse anche regionale) o almeno per l’impegno senza risparmio di risorse da parte della politica e delle amministrazioni regionali per il reperimento – quanto meno – di un numero di posti vagamente comparabile alle esigenze concrete, per la realizzazione di soluzioni architettoniche e immobiliari adatte alle diverse esigenze e per l’individuazione di una forza di polizia o di personale finalizzato a garantire la sicurezza interna”. Anche sul “fronte” della psichiatria, il tema della implementazione dei posti-letto in R.E.M.S. risulta preso in considerazione, per lo meno da parte di taluni esponenti; tra questi si segnala G. Nicolò, Rems, oltre le buone intenzioni, no al ritorno al passato e problema di legittimità costituzionale. Quindi quale futuro?, cit. che, tra le soluzioni auspicabili per il superamento dei problemi connessi al sistema delle R.E.M.S., prospetta appunto “l’implementazione dei posti letto forensi adeguandoli agli standard europei ovvero di 1 ogni 15.000 abitanti. Non solo posti REMS, ma percorsi strutturati a gradiente di sicurezza progressivamente ridotto, come REMS attenuate fino a gruppi appartamento per chi conclude il percorso strettamente monitorate da equipe forensi. Ogni dipartimento di salute mentale dovrebbe avere delle equipe e dei percorsi dedicati con specifiche competenze forensi”.
[30] Decreto primo ottobre 2012 adottato dal Ministro della salute, di concerto con il Ministro della giustizia, venivano delineati i “requisiti strutturali, tecnologici e organizzativi delle strutture residenziali destinate ad accogliere le persone cui si applicate le misure di sicurezza del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario e dell’assegnazione a casa di cura e custodia”.
[31] Sul punto, si rinvia alle considerazioni di A. Cardinali, Rems: una riforma in divenire, in Rivista Italiana di Medicina Legale (e del Diritto in campo sanitario), cit.
[32] A. Cardinali, Rems: una riforma in divenire, in Rivista Italiana di Medicina Legale (e del Diritto in campo sanitario), cit.
[33] Le considerazioni sono di A. Cardinali, Rems: una riforma in divenire, in Rivista Italiana di Medicina Legale (e del Diritto in campo sanitario), cit., il quale, a sua volta, sul punto, richiama P. Pellegrini, La chiusura degli OPG è vicina e quella delle REMS?, in www.quotidianosanità.it, 03/11/2016. Quest’ultimo Autore, nell’articolo da ultimo citato, a distanza di circa un anno e mezzo dalla entrata a regime della riforma, già ammoniva sui rischi connessi ad un uso troppo disinvolto della misura di sicurezza di sicurezza detentiva, declinata nel ricovero in REMS; segnatamente, da un lato, invitava ad introdurre metodiche volte a prevenire gli ingressi nelle Residenze, così da evitare la creazione di liste di attesa che già all’epoca contavano “circa 200” persone in attesa di internamento. E, sul punto, segnalava che, a suo avviso, “la magistratura che prima aveva remore verso la collocazione in OPG, oggi sembra non averne per il ricovero in REMS”. Ancora, esprimeva forti perplessità in merito alla possibilità di conciliare le funzioni della cura e quelle della custodia all’interno delle R.E.M.S., che, appunto, risultavano istituite in modo da rendere “fortemente presenti” le funzioni di custodia, “contrastando fino a soffocare quelle di cura”, posto che queste ultime hanno “bisogno di respiro, consenso, libertà o una prospettiva di libertà”. Il problema della sicurezza all’interno delle R.E.M.S. e della compatibilità con tali strutture di soggetti connotati da elevati tratti di pericolosità è affrontato anche da G. Nicolò, Rems, oltre le buone intenzioni, no al ritorno al passato e problema di legittimità costituzionale. Quindi quale futuro?, cit., nei termini che seguono: “La ridotta capienza delle strutture al massimo 20 posti, fa sì che all’interno della stessa struttura si ritrovino utenti con necessità assistenziali completamente diverse e con livello di pericolosità completamente diversi. Quando in questi contesti capita un utente fisicamente dotato e con tratti psicopatici e antisociali per tutti, utenti e operatori, sarà un problema. Potrà serenamente minacciare operatori, personale e infrangere le poche regole di convivenza, difficilmente si ha la capacità di fermarlo. Sarà il boss della struttura inducendo una regressione totale dei processi di cura a danno di tutti. In alcuni casi, commetterà dei reati, e come è già successo, dovrà essere curato dagli stessi operatori che lo hanno denunciato, contro ogni buon senso e codice deontologico”.
[34] Ci si riferisce, tra l’altro, alla proposta di legge n. 2939, presentata l’11 marzo 2021 alla Camera dei Deputati, di iniziativa del deputato Magi, il cui testo è disponibile nel sito www.societadellaragione.it. La proposta si snoda attraverso plurime direttrici, tra le quali, anzitutto, l’eliminazione della non imputabilità e della semi-imputabilità per vizio di mente, con la conseguente abolizione delle misure di sicurezza correlate; logico presupposto di tale scelta è quello di riconoscere soggettività e responsabilità al malato di mente, anche autore di reato, valutando l’attribuzione della responsabilità, anche penale, come un atto che può rivestire anche una valenza terapeutica. Da tali premesse discende la sostanziale abolizione del sistema del doppio binario, con l’eliminazione dell’attuale divaricazione di trattamento tra soggetti capaci di intendere e di volere ed incapaci e prevedendo la soggezione alla sanzione penale anche nei confronti di questi ultimi. In tale contesto, si promuoverebbe l’introduzione di una nuova circostanza attenuante per le condizioni di svantaggio determinate da disabilità psicosociale e si delineano inoltre vari strumenti finalizzati a scongiurare l’ingresso in carcere dei soggetti affetti da patologie psichiatriche, così da indirizzarli verso misure dal più elevato contenuto terapeutico. In accordo con le sopra richiamate premesse, tuttavia, viene contemplata la possibilità che i pazienti psichiatrici autori di reato siano condannati ad espiare le pene detentive presso gli Istituti di pena ed a questo proposito si precisa nella relazione illustrativa che “all’esito di una lunga discussione, è emersa la necessità di non prevedere alcuna istituzione speciale per i detenuti con disabilità psicosociale, i quali dovranno essere curati dai dipartimenti di salute mentale, in locali ad esclusiva gestione sanitaria all’interno degli istituti penitenziari”. Infine, per quanto concerne le REMS, evidentemente non più utilizzabili quali luoghi di esecuzione delle misure di sicurezza detentive, se ne propone la riconversione in “strutture ad alta integrazione socio-sanitaria quali articolazioni dei dipartimenti di salute mentale delle aziende sanitarie locali”. Sul tema, P. Pellegrini, Il superamento degli OPG e le REMS. Oltre le buone intenzioni, cit., evidenzia come, a suo avviso, per le persone con alta pericolosità, a prescindere dalla presenza o meno di un disturbo mentale, “sono possibili altre impostazioni, centrate sulla limitazione della libertà personale, sulla tutela della comunità sociale, sulla costrizione che vedono precise leggi e competenze. In questa ambiti la cura psichiatrica è quella possibile, talora quasi nulla o solo sintomatica”.
[35] È noto, in questo senso, che l’ordinamento italiano riserva agli infermi di mente socialmente pericolosi un percorso di sostanziale irresponsabilità penale – sancita anzitutto dall’art. 85, cod. pen. – tuttavia contemperato dall’applicazione della misura di sicurezza detentiva del manicomio giudiziario (in seguito denominato ospedale psichiatrico giudiziario) in ciò perseguendo almeno due finalità: da un lato, quella di contenere la pericolosità sociale dei soggetti incapaci resisi autori di reati e, d’altro lato, quella di promuoverne il trattamento psichiatrico, tanto più a seguito della introduzione dei principi di rango costituzionale che impongono allo Stato di perseguire la finalità rieducativa e trattamentale nell’ambito di qualsiasi percorso di tipo sanzionatorio. Al riguardo, pur senza pretesa di esaustività, pare utile richiamare F. Mantovani, Diritto penale – parte generale, Padova, 686 ss., il quale, in merito al soggetto non imputabile, fa riferimento alla categoria generale del “delinquente irresponsabile”, sottolineando come il problema della imputabilità vada risolto non solo sulla base dell’art. 85 del codice penale, “ma alla luce del superiore principio della responsabilità personale, la quale richiede per potersi punire sia l’imputabilità sia la colpevolezza”. Ancor più incisive appaiono al riguardo le parole di F. Antolisei, Manuale di diritto penale, Milano, 2000, 614, parole a cui pare utile ed opportuno affidarsi: “A nostro avviso la ragione giustificatrice dell’istituto (l’imputabilità, n.d.r.) deve reperirsi nella concezione comune della responsabilità umana. Secondo l’opinione che nell’epoca attuale è profondamente radicata nella coscienza collettiva, affinché un uomo possa essere chiamato a rispondere dei propri atti di fronte alla legge penale è necessario che sia in grado di rendersi conto del valore sociale degli stessi e non sia affetto da anomalie psichiche che gli impediscano di agire come dovrebbe: si richiede, in sostanza, che egli abbia un certo sviluppo intellettuale e sia sano di mente. La pena è una sofferenza; implica una notevole restrizione dei beni della persona e importa degli effetti che ne ledono l’onore, ripercuotendosi anche sul suo avvenire. (…). In conseguenza la reazione psico-sociale che nasce dai delitti commessi dagli individui di cui trattasi è diversa da quella che si verifica nei casi ordinari: può sorgere, bensì, allarme e, quindi, il riconoscimento della necessità di provvedimenti cautelativi nell’interesse della comunità, ma non si ha quella riprovazione morale che giustifica l’inflizione di un castigo”.
[36] V., fra gli altri, M. Bortolato, La sentenza n. 99/2019 della Corte costituzionale: la pari dignità del malato psichico in carcere, in Cass. pen., 9/2019.
[37] Pare utile, sul punto, riportare testualmente le parole della Corte: “La malattia psichica è fonte di sofferenze non meno della malattia fisica ed è appena il caso di ricordare che il diritto fondamentale alla salute ex art. 32 Cost., di cui ogni persona è titolare, deve intendersi come comprensivo non solo della salute fisica, ma anche della salute psichica, alla quale l’ordinamento è tenuto ad apprestare un identico grado di tutela (tra le molte, sentenze n. 169 del 2017, n. 162 del 2014, n. 251 del 2008, n. 359 del 2003, n. 282 del 2002 e n. 167 del 1999), anche con adeguati mezzi per garantirne l’effettività. Occorre, anzi, considerare che soprattutto le patologie psichiche possono aggravarsi e acutizzarsi proprio per la reclusione: la sofferenza che la condizione carceraria inevitabilmente impone di per sé a tutti i detenuti si acuisce e si amplifica nei confronti delle persone malate, sì da determinare, nei casi estremi, una vera e propria incompatibilità tra carcere e disturbo mentale. Come emerge anche dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (tra le altre, Corte EDU, seconda sezione, sentenza 17 novembre 2015, Bamouhammad contro Belgio, paragrafo 119, e Corte EDU, grande camera, sentenza 26 aprile 2016, Murray contro Paesi Bassi, paragrafo 105), in taluni casi mantenere in condizione di detenzione una persona affetta da grave malattia mentale assurge a vero e proprio trattamento inumano o degradante, nel linguaggio dell’art. 3 CEDU, ovvero a trattamento contrario al senso di umanità, secondo le espressioni usate dall’art. 27, terzo comma, della Costituzione italiana”.
[38] Sul tema, è utile rinviare ai contenuti delle varie circolari emanate dall’Amministrazione penitenziaria negli ultimi anni e degli Accordi in materia di sanità penitenziaria stipulati in sede di Conferenza Unificata Stato-Regioni, segnalando, tra le altre, la circolare 6 giugno 2007, n. 0181045-2007 avente ad oggetto “I detenuti provenienti dalla libertà: regole di accoglienza”, nonché l’Accordo del 19 gennaio 2012, relativo alle “Linee di indirizzo per la riduzione del rischio autolesivo e suicidiario dei detenuti, degli internati e dei minorenni sottoposti a provvedimento penale” ed infine l’ulteriore Accordo, approvato dalla Conferenza il 27 luglio 2017, recante il “Piano nazionale per la prevenzione delle condotte suicidiarie nel sistema penitenziario per adulti”. Si rinvia altresì alle considerazioni svolte in questa Rivista, 7 luglio 2020, da F. Gianfilippi, Citraro e Molino c. Italia. La responsabilità dello Stato per la vita delle persone detenute ed un suicidio di venti anni fa.
[39] Oltre al già citato disegno di legge “Magi”, e per limitarsi alle proposte più recenti, ci si riferisce ai lavori del Tavolo tematico n. 11, dedicato alle misure di sicurezza, nell’ambito degli Stati generali dell’esecuzione penale i cui documenti finali sono tuttora reperibili sul sito internet del Ministero della giustizia; alle previsioni contenute nelle lettere c) e d) del punto 16 dell’art. 1, della legge-delega 23 giugno 2017, n. 103, recante modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario, attuata peraltro solo in parte e non nelle porzioni dedicate alle misure di sicurezza; ed infine ai lavori della “Commissione per la riforma del sistema normativo delle misure di sicurezza personali e dell’assistenza sanitaria in ambito penitenziario, specie per le patologie di tipo psichiatrico, e per la revisione del sistema delle pene accessorie”, istituita con D.M. 19.07.2017, presieduta dal Prof. Marco Pelissero, i cui elaborati finali sono rinvenibili, tra l’altro, in archiviodpc.dirittopenaleuomo.org. Proprio i lavori della Commissione “Pelissero” sono stati da ultimo ripresi ed esplicitamente condivisi dalla “Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario”, istituita con D.M. 13 settembre 2021 e presieduta dal Prof. Marco Ruotolo, la cui relazione finale è attualmente disponibile sul sito internet del Ministero della giustizia.
[40] In questi termini si esprime, condivisibilmente, A. Massaro, Tutela della salute mentale e sistema penale: dalla possibile riforma del doppio binario alla necessaria diversificazione della risposta “esecutiva”, cit.