Il fine vita e il legislatore pensante
1. Il punto di vista dei penalisti
Considerazioni di Beatrice Magro e Stefano Canestrari
Introduzione di Vincenzo Militello, professore ordinario di diritto penale dell'Università degli studi di Palermo
[v. Il fine vita e il legislatore pensante. Editoriale - Il fine vita e il legislatore pensante. 2. Il punto di vista dei comparatisti - Parte I (di Mario Serio, Giuseppe Giaimo, Rosario Petruso e Rosalba Potenzano)]
Introduzione
Le questioni che ruotano intorno al trattamento del fine vita sono talmente complesse e correlate a presupposti ideali e giuridici differenti da aver indotto una struttura aperta della tavola di domande sottoposta a due penalisti che da anni ne seguono attivamente l’evoluzione. Lo spunto di partenza comune è la riflessione sul particolare percorso segnato nel nostro ordinamento dalla crisi del rigido quadro di tutela assoluta della vita, scolpito nel codice del 1930 e progressivamente incrinato dapprima dalla giurisprudenza ordinaria e da ultimo da quella costituzionale, nella prolungata situazione di stallo del legislatore rispetto alle possibili alternative da percorrere e comporre.
Mentre nell’approccio di Stefano Canestrari, anche alla luce della sua pluriennale esperienza in seno al Comitato Nazionale per la Bioetica, l’attenzione è rivolta innanzitutto al distinguo tra un futuro intervento volto a regolamentare l’aiuto medico a morire e la disciplina prevista nella legge n. 219 del 2017, della quale si chiede fermamente di perseguire un’attuazione integrale in tutto il territorio nazionale; le considerazioni di Beatrice Magro si orientano essenzialmente a favore di un ampliamento del diritto a morire da riconoscere al singolo, fermandosi solo fino al limite di trasformarlo in una pretesa di intervento da parte dello stato per garantirne l’attuazione.
Ulteriori punti problematici sono quelli relativi alla rilevanza dell’obiezione di coscienza, che Canestrari sottolinea non doversi riconoscere espressamente in una modifica della legge sulle disposizioni anticipate di trattamento. Di queste ultime Magro preferisce piuttosto sottolineare i limiti rispetto alla possibilità di fondare la legittimità di un aiuto al suicidio in termini da non comprimere l’affermato diritto all’autodeterminazione alla propria morte. Ancora, pur se il dialogo a distanza si muove entro un comune richiamo ai valori costituzionali da attuare in materia di fine vita, e dal comune riconoscimento dell’importanza – ma anche dell’insufficienza per una soluzione integrale delle problematiche connesse – che assume in materia la cruciale sentenza della Corte Costituzionale n. 242 del 2019, le diverse accentuazioni dei due punti di vista di seguito riportati inevitabilmente determinano una non sovrapponibilità delle rispettive letture: Canestrari sembra condividere l’idea sostenuta dalla Corte nella sentenza relativa al noto caso del DJ Fabo di non innestare la disciplina dell’aiuto medico a morire all’interno della normativa della l. 219/2017, poiché questo comporterebbe equiparare i casi in cui il paziente rifiuta o rinuncia ai trattamenti sanitari alle fattispecie eutanasiche.
Ebbene proprio le diverse accentuazioni dei limiti di tutela penale al “più fondamentale” dei diritti nella ormai estesa fase del fine vita costituiscono una riprova che il riconoscimento del rilievo primario assunto dalle sentenze tanto ordinarie quanto costituzionali in materia, che pure hanno segnato il tramonto di un ordine troppo rigido nell’assetto del relativo intervento penale, è ben lungi dall’aver fornito un punto di arrivo soddisfacente alla soluzione delle numerose questioni in gioco. Più che in altri settori il diritto penale giurisprudenziale è servito qui per aprire una pista al riconoscimento di diritti costituzionalmente affermati di cui urgeva un qualche riconoscimento nella vita reale. Ma la corretta delimitazione dei bilanciamenti fra i vari interessi in gioco è questione ancora aperta e che urge per un numero crescente di situazioni: le prese di posizioni che seguono al contempo rappresentano un test significativo di quanto accidentato rimanga il percorso per giungere finalmente ad un quadro normativo aggiornato, in grado di assicurare le scelte individuali in materia e le responsabilità degli operatori che le supportano, ma anche di tutelare le posizioni di debolezza del singolo contro subdole forme di altrui sfruttamento utilitaristico.
Vincenzo Militello
Beatrice Magro, professore ordinario di diritto penale presso la Facoltà di Giurisprudenza, Università Guglielmo Marconi
1. Il valore “normativo” della sentenza Englaro e delle pronunzie della Corte costituzionale sull'aiuto al suicidio. Punto di arrivo o punto di partenza per il legislatore?
Certamente gli interventi giurisprudenziali della Corte di cassazione e della Corte costituzionale rappresentano solo alcune delle tappe del lungo percorso che culminerà, ne sono certa, all’approvazione di una normativa che esplicitamente riconosca a ciascuno di noi il diritto di potere decidere della propria morte nelle fasi finali della propria vita, pacificamente, senza disturbare nessuno, senza il clamore di azioni giudiziarie o di scoop mediatici, poiché non a tutti può essere data la fortuna di attendere la morte con serenità e dignità. Può accadere che l’attesa sia straziante, infinita, dolorosa così come è accaduto a Fabiano Antoniani, paraplegico da anni, condannato ad assistere impotente, ma vigile, alla degenerazione di un corpo che stenta a morire.
L’evoluzione giurisprudenziale sul tema del rifiuto di cure salvavita e, più recentemente, sul tema dell’assistenza sanitaria al suicidio segnala la chiara tendenza ad enucleare, o meglio ad esplicitare, quali contenuti normativi già insiti nel nostro ordinamento giuridico, una amplissima accezione del diritto di libertà all’autodeterminazione terapeutica, come diritto che non è condizionato dal rischio di morte e che non trova limite interno nel dovere di continuare a vivere.
In questo senso, le pronunce della Corte di cassazione sul caso Englaro e della Corte costituzionale sul caso Antoniani contribuiscono a tratteggiare il volto del diritto vivente, sortendo una chiara valenza normativa, sebbene minore rispetto quella propria del legislatore.
Invero, la libertà di autodeterminazione terapeutica - e il suo strumento operativo costituito dal consenso informato - vive attualmente un periodo particolarmente felice dovuto alla sua l’esplicita proclamazione sul piano dei principi per effetto della legge n. 219/2017, la quale dedica alla libertà di autodeterminazione del paziente l’intero art. 1 dell’articolato.
Non vi è dubbio che la nuova disciplina introdotta dalla legge n. 219/2017 sancisca la piena supremazia dell’autodeterminazione del paziente tanto nell’ovvia ipotesi di rifiuto di cure salvavita, ove invero il decorso causale che conduce alla morte si snoda “naturalmente” seguendo il suo corso fisiologico non riconducibile all’intervento umano, quanto maggiormente nella equiparata ipotesi di interruzione di trattamenti salvavita, in cui l’azione positiva umana interviene sul decorso causale della malattia che conduce alla morte, ed è nel pieno dominio di chi agisce. Per effetto di tale disciplina, il consenso informato, a maggior ragione durante la dolorosa e penosa fase del “fine vita”, manifesta la sua intima essenza di atto di padronanza di sé e su di sé, e consente persino di sterilizzare la valenza penale della condotta del medico che, portavoce della volontà del paziente, interrompe con condotta attiva quelle cure salvavita, anticipandone il decesso, con modalità che possono adattarsi al suicidio assistito (art. 580 c.p.) o all’omicidio del consenziente (art. 579 c.p.).
In tal senso, occorre evidenziare il fondamentale ruolo della normazione primaria scolpito dalla legge n. 219/2017, la cui valenza normativa è certamente più forte rispetto alla pronuncia giurisprudenziale (non vigendo nel nostro sistema il principio della valore vincolante del precedente), anche se il nostro legislatore è intervenuto solo a seguito di casi giurisprudenziali eclatanti per consacrare ex post la correttezza dell’impianto interpretativo, per chiarirne e cristallizzarne i principi.
A completare il quadro si colloca la già citata sentenza della Corte costituzionale n.242/2019, la quale amplia l’orizzonte dei trattamenti medici dei morenti includendo anche l’ipotesi dell’auto-somministrazione medicalmente assistita di un farmaco letale volto a accelerare il processo di morte, quando la mera interruzione delle terapie salvavita, anche se accompagnata dalla sedazione profonda, non determini una morte veloce, dignitosa, che rispecchi la visione spirituale del morente.
A seguito della suddetta pronuncia, molti commentatori, anche in ambito sanitario, ritengono si sia individuato un ambito di liceità del suicidio medicalmente assistito, ossia della condotta attiva del medico che co-somministra, con la partecipazione dello stesso paziente, il farmaco letale che cagiona una morte immediata ed indolore.
Occorre tuttavia evidenziare che la Corte costituzionale si è limitata ad intervenire su un caso specifico, peculiare, la cui incostituzionalità è sostenuta alla stregua dei criteri di ragionevolezza, uguaglianza, plausibilità, in termini di eccezione rispetto la regola generale che pone il divieto di partecipare al suicidio altrui; anzi, nel tessuto motivazionale della pronuncia, si percepisce la chiara intenzione di volersi mantenere strettamente al problema posto dal giudizio principale a prescindere da proclamazioni generali di principio, piuttosto, negando cittadinanza ad un presunto diritto a morire, sia pure medicalmente assistito. Fuori dalle condizioni individuate dalla Corte, nessun rilievo sull’autodeterminazione della persona su come e quando morire viene riconosciuto. Rimangono perciò non risolte una serie numerosa di questioni, tra cui si richiama, solo a mò di esempio, quella del paziente che non dispone neppure di un margine di autonomia per poter compiere l’ultimo atto della catena causale che conduce alla sua morte o del paziente oncologico, affetto da dolori per lui insopportabili, che non è dipendente da mezzi artificiali di sostegno vitale.
Il tenore della argomentazione - a mio avviso troppo ovattato e compromissorio - apre però un incolmabile vulnus all’assetto tradizionale delle norme poste a tutela della vita umana, certamente non calibrate criminologicamente su situazioni concernenti il c.d. fine vita, ossia quella condizione fenomenologica in cui lo statuto epistemologico della medicina ingloba una dimensione sociale e psicologica inerente alla percezione e alla rappresentazione individuale della malattia, della salute e della cura.
Premesso che non è compito della Corte costituzionale introdurre eccezioni a principi generali, ma semmai quello di enucleare e ed esplicitare principi immanenti nel sistema normativo, sono dell’idea che il metodo casistico tipico dell’incedere giurisprudenziale, in assenza di una chiara enunciazione dei principi di fondo, come una coperta troppo corta, non risolva la vastissima e differenziata fenomenologia delle situazioni di fine vita che si presenteranno all’interprete.
Da questa prospettiva si evidenziano i limiti ontologici di una decisione giurisprudenziale preoccupata di contemperare indirizzi interpretativi diametralmente opposti e irrimediabilmente confliggenti, più che di enunciare chiari e semplici principi costituzionali (o meglio ideologico- politici), necessari per la risoluzione dei vari casi che la fenomenologia presenta.
Spetta quindi al legislatore - l’unico deputato a effettuare scelte divergenti dal tessuto normativo di tipo statalista e collettivista, cui è storicamente intriso il diritto penale a tutela della vita umana - il difficile compito di articolare una normativa ad hoc che tenga conto delle peculiarità delle situazioni esistenziali in relazione a molte e differenziate situazioni di sofferenza, esonerando espressamente da responsabilità penale il medico che fornisca assistenza sanitaria a colui che scelga la propria morte, anche anticipandone il decorso ormai inevitabile, a condizione che tale volontà sia autentica, stabile, radicata, informata sui possibili sviluppi e sulle alternative, non condizionata da condizioni materiali di abbandono e di dolore fisico o di sofferenza psicologica, cioè che non sia il frutto di un momentaneo sconforto o di una diminuita capacità di volere.
Da questo punto di vista, si lamenta la totale sordità delle norme incriminatrici poste a tutela della vita umana rispetto a tali differenziate esigenze: norme concepite in contesti storici e sociali assai diversi, calibrate su fenomenologie che nulla hanno a che vedere con l’idea tanto laica quanto scontata della disponibilità della propria vita, di cui unico dominus è il titolare del diritto, idea ormai fatta propria dall’ordinamento giuridico moderno che brulica di istituti e discipline che ad essa si ispirano (penso all’interruzione della gravidanza, alla procreazione medicalmente assistita, etc.).
Fuori da contesti criminologici connotati da violenza, abusi, fini egoistici e illeciti, contesti di abbandono e di privazione, incapacità cognitive e volitive, la futuribile, auspicabile, nuova disciplina normativa posta a tutela della vita umana anche quando la vita sta spegnendosi più o meno lentamente, dovrebbe essere calibrata all’insegna di un unico scopo politico criminale: la tutela di tutti i soggetti (afflitti da condizioni di sfumata capacità o no), da condizioni esterne che possano accentuarne la vulnerabilità o approfittare di condizioni preesistenti di vulnerabilità, senza alcuna paura di una chiara e liberale affermazione dei principi di libertà.
2. La non punibilità dell’aiuto al suicidio secondo i criteri fissati dalla Corte costituzionale equivale o no ad un diritto a porre fine alla propria esistenza?
A mio avviso la non punibilità dell’aiuto al suicidio, sia pure nell’ambito ristretto tratteggiato dalla Corte costituzionale, sostanzialmente equivale alla proclamazione dell’esistenza del diritto di libertà a porre fine alla propria esistenza.
Consapevole del sapore assai provocatorio delle mie affermazioni, vorrei chiarire il mio pensiero.
Malgrado la Corte costituzionale abbia affrontato il dilemma etico e giuridico posto dal caso Antoniani come questione di diritti del malato e le eccezioni di incostituzionalità siano state ricondotte in relazione all’art. 32 comma 2 Cost., non condivido la posizione che scinde nettamente il diritto all’autodeterminazione terapeutica dal diritto di porre fine alla propria esistenza, essendo entrambi, a mio avviso, articolazioni del diritto all’identità personale e manifestazioni della personalità individuale.
La salute, e le decisioni a lei connesse, sono manifestazione della dignità umana, meglio declinata come manifestazione della propria identità personale. Il riconoscimento di diritto fondamentale dell’uomo all’autodeterminazione rispetto a trattamenti terapeutici è espressione della ricerca di un percorso anzitutto “esistenziale”, prima ancor che curativo, che ha fulcro e fine nel rispetto dell’identità del malato, dei suoi modelli mentali, della sua biografia.
Perciò, la salute può rappresentare una delle direttrici di ricerca del senso dell’esistenza umana, cui tutti quotidianamente aneliamo.
In questo senso, non è azzardato ritenere che anche la scelta verso una morte, inevitabile e più o meno prossima, non sia in antitesi con la vita, non costituisca un diritto autonomo e contrapposto rispetto quello alla vita o allo sviluppo della persona o alla salute e al benessere, ma una sua articolazione interna, una sua derivazione o espansione logico-giuridica.
Pertanto, sono dell’idea che sia l’autodeterminazione terapeutica che l’autodeterminazione alla morte siano manifestazione dello stesso humus culturale e giuridico che pone in posizione di preminenza assoluta l’individuo e la sua autodeterminazione come valori fondanti l’ordinamento giuridico. La premessa giuridico-filosofica sottesa alla proclamazione del diritto ad una morte autodeterminata è il trionfo della concezione personalista secondo cui la persona umana è un essere moralmente e intellettualmente capace di esercitare la propria libertà in modo responsabile e in piena autonomia, nel rispetto della dignità umana, da concepirsi come valore giuridico che mai può rappresentare un limite alla libertà di autodeterminazione perché ne è la sua ragione, il suo presupposto; le decisioni sulla propria vita e sulla propria morte, in quanto da esse promanate, trovano in essa ragione ontologica, poiché la libertà di morire non è in antitesi logica e giuridica rispetto l’autodeterminazione, ma una sua estrinsecazione.
Soprattutto la decisione di porre fine alla propria vita riveste un profondo ed insondabile significato esistenziale: essa è emanazione della propria identità personale. L’insopprimibile dignità dell’essere umano implica che questi debba essere sempre riconosciuto (salvo che sussistano condizioni che facciano presumere il contrario) quale soggetto autoresponsabile. In particolare, la dignità presuppone che l’essere umano non sia costretto a forme di vita che si pongono in un conflitto irrisolvibile con l’immagine che egli ha di sè.
Assumendo il modello gius-filosofico in base al quale morte e vita costituiscono eventi di libertà, da interpretare in termini di possibilità, e non in termini di imponderabile necessità, a piccoli passi e senza grandi enunciazioni di principi, l’evoluzione del sistema normativo sembra orientata a comporre quello che è stato tradizionalmente interpretato un ossimoro: il rapporto - conflittuale, inconciliabile ed assolutamente incompatibile - tra morire e salute, tra autodeterminazione alla morte e libertà di autodeterminazione terapeutica. Sembra cioè che, pur mantenendo ben saldo l’obiettivo superiore di tutelare la vita umana, si sia superato il pregiudizio che subordinava ogni interesse individuale a quello – pubblico e statalista – del mantenimento in vita e che assegnava alla vita biologica un primato assoluto, sempre prevalente in ogni condizione e a qualunque costo e sacrificio. Il classico dogma, secondo cui la vita debba prevalere sull’autodeterminazione, poiché non vi è libertà senza vita biologica, sembra perdere le sue radici ideologiche e mostrare la sua fragilità, in quanto emanazione di un datato protagonismo statualista, di una visione fortemente collettivistica e strumentale delle libertà individuali che, nell’appropriarsi di un concetto astratto e normativo di uomo, ne nega la sua concreta e materiale essenza, e di fatto ne comprime dignità e autodeterminazione.
3. E’ possibile equiparare sotto ogni profilo il diritto alla autodeterminazione terapeutica e il diritto ad autodeterminare la propria morte? Che spazio residua all’intervento regolatore dello Stato quando il risultato dell’esercizio di questa libertà può coincidere con il totale annientamento della persona umana?
Quale è il peso dell’autodeterminazione a porre fine alla propria esistenza e quali sono i suoi limiti strutturali? Dobbiamo concludere che, per un perverso gioco degli opposti, al primato della indisponibilità della vita si sia sostituito l’assioma dell’autodeterminazione (e l’illusione di un assoluto libero arbitrio) cui lo Stato deve supinamente soggiacere, non solo disinteressandosi di eventuali strumentalizzazioni, pressioni indirette, occulti condizionamenti a danno delle vittime più vulnerabili, ma anche restando obbligato a mettere a disposizione strutture sanitarie e servizi sociali che ne permettano l’effettivo esercizio?
Invero, occorre tracciare una profonda differenziazione tra libertà di autodeterminazione terapeutica e libertà di autodeterminazione alla morte, tale da sbaragliare il radicato paradigma di pensiero secondo cui il riconoscimento del diritto a non vivere equivalga alla corrispondete configurazione di un corrispondente dovere giuridicamente vincolante di prestazione positiva da parte di terzi (medici o estranei) a carico dell’amministrazione sanitaria. Paradigma che ha condizionato il discorso giuridico in tema di disponibilità della vita e l’analisi delle norme penali e che corrisponde coerentemente con il diritto alla salute, ma non con il diritto a non vivere tout court a prescindere da una condizione patologica.
La salute, nella sua dimensione di diritto umano, presenta delle forti ricadute sul piano dei doveri dell’amministrazione pubblica. La salute non costituisce solo un diritto di libertà negativa (a non essere sottoposto a trattamenti sanitari), ma rappresenta anche un diritto sociale alla cui tutela e promozione devono contribuire le istituzioni sociali in termini di diritti di cura e doveri di prestazioni sanitarie a carico dell’amministrazione pubblica. Questo piano della gestione delle risorse e delle politiche pubbliche rischia di ampliare a dismisura i compiti dello Stato, affinché siano assicurate le condizioni materiali per l’esercizio effettivo dei diritti e il soddisfacimento del sottostante bisogno.
L’attuazione del diritto alla salute, proprio per la sua peculiare conformazione e anche nella sua forma di libertà negativa dalla cura, passa attraverso la necessaria intermediazione dell’attività prestata dall’Amministrazione sanitaria e, quindi, attraverso la doverosità di tale prestazione e il contenuto obbligatorio di questa, non essendo il paziente, anche quello capace di esprimere la sua volontà, in grado di soddisfarlo da sé, senza la obbligatoria collaborazione del Servizio Sanitario Nazionale.
Diversamente, il diritto di libertà a autodeterminare la propria morte non si atteggia a diritto a prestazioni sociali, non impone alcuna prestazione positiva da parte dell’amministrazione sanitaria, né in capo a terzi privati né a soggetti pubblici. Al diritto ad autodeterminare la propria morte non corrisponde alcun dovere a supportare materialmente e solidaristicamente tale decisione, che perciò rimane affidata alla cooperazione spontanea.
In tal modo viene contemperato il principio di autonomia, tendenzialmente assoluto, con l’ovvia esigenza di salvaguardare la componente relazionale, e in particolare la valutazione tecno-scientifica del medico, in evidente assonanza con la legge n. 219/2017 che, pur valorizzando fortemente l’autodeterminazione, prevede rigorosi limiti alle richieste che il malato può fare all’ equipe curante art. 1 comma 6 e art. 4 comma 5).
A mio parere, ciò non significa negarne lo statuto di diritto di libertà. Anzi. Ad esso consegue l’illegittimità delle norme penali che puniscono ogni forma di partecipazione del terzo, se non ricorrono specifiche esigenze a difesa dalla suicidal vulnerability, e in assenza di evidenze scientifiche che indizino una valutazione negativa o scivolosa della pratica. Ma nulla più. Il diritto ad autodeterminare la propria morte, in quanto diritto di libertà negativa, non incardina una corrispondente pretesa di prestazione positiva in capo a terzi o allo Stato, neppure quando, per la sua concreta e materiale fruizione, sia richiesto il supporto di terzi.
Sono dell’idea che questa libertà, a differenza di quella di rifiutare in modo vincolante per i terzi le misure che mantengano in vita, esplichi una limitata efficacia vincolante che si estrinseca nella liceità del suo non impedimento, rimanendo la condotta collaborativa affidata esclusivamente all’apporto spontaneo e non obbligato del terzo: la libertà di morire (senza interferenze da parte d’altri) è una dimensione giuridica che non coincide affatto con il diritto di morire come pretesa esigibile nei confronti di terzi.
La differenza ontologica tra le due posizioni soggettive (diritto all’autodeterminazione terapeutica e diritto ad autodeterminare la propria morte) si coglie nella diversa condizione del titolare del diritto: solo un’insopportabile dolore o sofferenza totale può attivare un obbligo solidaristico in capo alla Stato. La libertà di autodeterminazione terapeutica incardina precisi obblighi in capo all’amministrazione sanitaria di accettarne le scelte anche nella consapevolezza della certa conseguente morte, non potendo addurre una propria ed autoritativa visione della cura o della prestazione sanitaria che contempli e consenta solo la prosecuzione della vita e non, invece, l’accettazione del processo naturale di morte da parte del consapevole paziente. Perciò, mentre si configura giuridicamente un diritto all’assistenza a morire del paziente (in quanto manifestazione dell’autodeterminazione terapeutica del malato) non si configura alcun diritto ad esigere l’assistenza al suicidio (in quanto manifestazione dell’autodeterminazione tout court che può prescindere da pregresse condizioni patologiche).
Sussistono, dunque ineliminabili differenze tra assistenza al suicidio tout court, a prescindere da condizioni di sofferenza e di malattia, e assistenza al suicidio prestata in favore di malati affetti da processo morboso irreversibile, incapaci di agire autonomamente e il cui decorso del processo di morte non rispecchierebbe la propria idea di dignità.
L’aiuto a morire, a differenza del diritto al suicidio, per definizione presuppone una condizione di dolore fisico o di sofferenza totale e un decorso mortale già avviato che può mancare nell’assistenza al suicidio, elementi che costituiscono la ragione ontologica e giuridica su cui si incardina il dovere di assistenza in capo all’amministrazione sanitaria. Questa condizione di sofferenza connota in modo differente il contenuto e la azionabilità delle due libertà: il diritto a morire del malato è espressione di un diritto sociale, il diritto a non vivere dell’individuo è emanazione di una sua libertà negativa. Perciò il “suicidio”, anche sul piano giuridico, è una libertà monadica non accompagnata da pretese di realizzazione o di partecipazione empatica.
4. Il dolore e la sofferenza in che misura incidono sul diritto all’identità personale e sulla dignità umana?
Per lungo tempo il processo di morte, come esperienza umana, è stato ignorato dalla professione medica. Si è anche sostenuto che non rientri tra gli scopi e gli obiettivi della medicina quello di rimuovere tutte le sofferenze umane possibili. Se in linea di principio si può essere d’accordo con queste affermazioni, si deve tuttavia ricordare che, durante la fase conclusiva della vita, uno degli obiettivi certamente non meno importanti della medicina è quello di alleviare la “sofferenza o il dolore intollerabile”.
Alcuni studi, diffusi soprattutto nei paesi anglosassoni, hanno esplorato le condizioni che determinano la “sofferenza insopportabile” di pazienti terminali o incurabili che avevano chiesto esplicitamente un aiuto al suicidio o che avevano rifiutato le cure consapevoli del processo di morte in atto, al fine di comprendere cosa s’intende per “sofferenza insopportabile”, cosa la determina, di quali elementi si compone, e quali sono le possibilità di farvi fronte e in che cosa essa si distingua dal dolore insopportabile. Invero, il dolore, concetto medico, va differenziato dalla sofferenza, concetto esperenziale, che indaga sulla intensità e misura soggettiva del dolore, che colpisce l’uomo nella sua identità e non solo un frammento del corpo.
Cosa emerge da questi dialoghi e da questo ascolto? Il medico e l'operatore sanitario osservano nel quotidiano i segni esteriori di quel processo patologico emotivamente estenuante che condurrà il paziente alla morte. Percepire la soglia del dolore attraverso la conoscenza medica è quasi impossibile e occorre affidarsi alle mutevoli percezioni umane. Il dolore è sempre un fenomeno duplice: una spiacevole sensazione fisica si associa ad una reazione emozionale; perciò per sottolineare la complessità del dolore si ricorre all’espressione “dolore totale” cioè alla sorgente somatica dello stimolo cui si associano gli aspetti psicologici, sociali spirituali che sappiamo accompagnare gli ultimi mesi della vita del malato.
E’ il paziente l’unico giudice del proprio dolore e solo lui ha il diritto di valutarne l’intensità ed il disagio da esso provocato.
Il dolore è una minaccia terribile al senso d’identità. Esso induce ad una parziale rinuncia di sè e dell’atteggiamento che si assume nelle normali relazioni sociali, si autorizza atti (smorfie, pianti etc.), parole che rompono incoerenti con i comportamenti abituali, oppure si ritrae in una solitudine estrema. Quando si sa che un dolore è passeggero che prima o poi finirà, esso potrà non intralciare il senso d’identità dell’individuo. La sofferenza diviene terrore quando il dolore minaccia di entrare nella carne in via definitiva, quando diviene cronico, e diviene una “malattia nella malattia”. Allora diviene un pensoso ostacolo all’esistenza. Il dolore è un’esperienza forzata che inaugura un modo di vita, un imprigionarsi dentro di sé che non lascia scampo perché tutto il mondo rigurgita dolore e depressione.
Ma anche senza dolore fisico, quando è in atto un processo che condurrà alla morte, la sofferenza del paziente può essere intollerabile. Il processo del morire mette a fuoco passato, presente e il futuro. In un lasso di tempo molto breve, il passato deve essere riconciliato, il presente deve essere realizzato e il futuro deve essere pianificato. Tutte le emozioni si intensificano quando la fine è prossima. Un paziente morente è totalmente dipendente dalla famiglia e dagli amici e ne percepisce più acutamente ansia, dolore, incomprensione e assai spesso anche rabbia. Gran parte della depressione clinica nei pazienti morenti e nelle loro famiglie sembra avere le sue radici in una sensazione di impotenza. Questa reazione depressiva talvolta può aumentare progressivamente fino a diventare di intensità patologica con preoccupazioni suicide, poiché non è tanto la morte quanto il tempo necessario per morire e la qualità di quella vita residua che può promuovere l'ideazione suicidaria e persino l'azione.
L’esperienza mostra che la timidezza nel curare il dolore o nell’anticiparne la venuta sono fonte di ansia acuta che avvelena gli ultimi momenti della propria esistenza. Iniezioni di morfina spesso non sincronizzate con le ondate di dolore lasciano il paziente nell’attesa penosa del prossimo momento di sollievo. Quando il dolore è troppo forte, si consente di “barattare” una morte precoce con il fatto di soffrire di meno.
Tutta questa gamma di emozioni, dall'ansia, alla paura, persino l’impazienza di fronte alla morte sono espressione di come si è, in precedenza, strutturata la personalità di ciascuno di noi, e come abbiamo messo in atto strategie di sopravvivenza e difesa di un Ego spesso troppo fragile e posticcio. Il concetto di identità personale, nella nostra cultura occidentale, non rinvia ad un Sè indipendente dalla biografia, ma descrive un processo di “identificazione” con desideri, bisogni, stati e modelli mentali di ciascuno di noi appartenenti alla nostra realtà sociale e culturale.
Ecco perché modificare questi modelli significa perdere la propria identità, perdere se stesso e abbandonare questa identità provoca una “sofferenza insopportabile”, persino maggiore del dolore fisico, talora maggiore dell’idea della morte stessa: negare quella storia biografica o quei modelli mentali equivale già a morire o a essere morto.
La nostra società ci rende molto più longevi, il tasso di mortalità è molto ridotto, aspiriamo quasi all’immortalità e al potenziamento delle nostre abilità psichiche e fisiche, abbiamo in mano tecnologie strepitose che ci consentono di realizzare molti dei nostri desideri, ma siamo più fragili dal punto di vista esistenziale perché stressati, competitivi, meno autonomi psicologicamente e sempre più dipendenti dal contesto esterno e dalla tecnologia. Nella nostra lotta ad essere "buoni" familiari, amici, medici, nel fare tutto ciò che è possibile, immobilizziamo i nostri pazienti e li rendiamo più indifesi e fragili psichicamente perché meno autonomi e, ormai prossimi alla morte, incapaci di conquistare quell’identità e quella centratura interiore magari mai esperite durante la fase ascendente della vita. E’ in questa fase che si manifesta in modo più dirompente il bisogno di ricostruire un’identità personale forse mai esperita prima.
5. Le DAT e l’aiuto al suicidio. Quali modifiche all’impianto normativo già esistente?
Secondo alcuni commentatori, la questioni poste all’indomani dalla sentenza della Corte costituzionale sul caso Antoniani evidenziano la necessità di accantonare il tema delle modifiche da apportare alle norme poste in tema di tutela della vita umana (tema che pur dovrebbe essere affrontato, posto che le norme che puniscono l’omicidio del consenziente e l’istigazione o aiuto al suicidio necessiterebbero di una profonda revisione dei loro presupposti applicativi e dei loro reciproci rapporti) e di incentrare l’attenzione sulla normativa in tema di Dat introdotta dalla legge n. 219/2017, l’unica effettivamente calibrata sul tema del fine vita e del trattamento medico dei morenti.
In questo senso, molti sostengono che sarebbero da implementare i contenuti dispositivi del consenso informato, includendo espressamente anche la richiesta all’assistenza al suicidio, la cui vincolatività dovrebbe essere subordinata al rispetto di una procedura volta a verificare autenticità e stabilità della richiesta, anche mediante colloqui psicologici, purché sia offerta la possibilità di fruire di cure del dolore o della sedazione terminale e purché ricorrano le condizioni poste dalla sentenza 242/2019 della Corte cost. Occorre cioè che la decisione di fine vita si realizzi in un contesto di assistenza psicologica, di comunicazione, di informazione, e di continua verifica delle condizioni di dipendenza da sostegno vitale e di sofferenza indicate dalla Corte.
Tuttavia non mi pare condivisibile l’idea che tali modifiche possano essere innestate nel tessuto normativo della legge sui DAT il cui valore innovativo concerne soprattutto la vincolatività delle dichiarazioni del paziente rese anticipatamente per il momento in cui sopraggiunga lo stato di incapacità. Per cui, non appare condivisibile l’idea che le modifiche possano concernere l’art. 4 della legge 219/2017, relativo alle dichiarazioni anticipate di trattamento, poiché esse, per definizione, riguardano l’ipotesi in cui il paziente non sia in grado di manifestare la propria volontà né sia in grado di agire autonomamente, sia pure per quel minimo richiesto per cooperare a cagionare la propria morte. E’ quindi quantomeno improprio parlare di assistenza al suicidio in simili situazioni.
Invero, va specificato che, per definizione, la condotta di assistenza materiale al suicidio così come scolpita dalla Corte costituzionale, presuppone il supporto vigile del paziente capace di intendere, e quindi non può essere inclusa tra i contenuti delle dichiarazioni anticipate, le quali esplicano la loro valenza per il futuro, nell’ipotesi in cui in cui sopraggiunga una malattia tale da escludere le capacità cognitive-volitive del paziente.
Nell’ipotesi in cui il paziente sia divenuto ormai totalmente incapace di esprimere la propria volontà, sia affetto da sindrome tale da impedirgli qualunque barlume di autonomia di agire, sia dipendente da trattamenti di sostegno vitale, ma abbia espressamente ed anticipatamente richiesto la somministrazione attiva e diretta del farmaco letale, in alternativa all’interruzione di trattamenti di sostegno vitale e alla sedazione terminale profonda, cui seguirebbe “naturalmente” la morte, sia pure in tempi meno rapidi, non sarebbe possibile più parlare di aiuto al suicidio nè di suicidio per mano altrui, ma, esplicitamente di eutanasia diretta.
Stefano Canestrari, professore ordinario di diritto penale presso il Dipartimento di Scienze giuridiche dell'Università di Bologna e componente del Comitato Nazionale per la Bioetica.
1. Il valore «normativo» della sentenza Englaro e delle pronunzie della Corte costituzionale sull’aiuto al suicidio. Punto di arrivo o punto di partenza per il legislatore?
(I) Con l’entrata in vigore della legge n. 219 del 2017 – «Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento» – la legislazione del nostro Paese si allinea alle scelte dei principali ordinamenti degli Stati costituzionali di derivazione liberale. La normativa citata sancisce con chiarezza il diritto inviolabile di vivere tutte le fasi della propria esistenza senza subire trattamenti sanitari contro la propria volontà – derivazione logica del diritto all’intangibilità della sfera corporea di ogni essere umano – e contiene disposizioni di fondamentale importanza.
Occorre avere piena consapevolezza del fatto che, oggi, nel nostro ordinamento giuridico abbiamo una disciplina organica – attesa da decenni – del consenso informato, del rifiuto e della rinuncia al proseguimento di trattamenti sanitari. Il richiamo esplicito dell’art. 1, comma 1, della l. 219/2017 ai principi costituzionali e a quelli convenzionali di riferimento individua una pluralità di diritti fondamentali che riconoscono la massima ampiezza dell’autodeterminazione terapeutica (in armonia con le note prese di posizione giurisprudenziali relative ai casi Welby ed Englaro).
In particolare, come ho da tempo sottolineato, era auspicabile che il legislatore sancisse in modo inequivoco la liceità e la legittimità della condotta attiva del medico (art. 1, comma 6) – necessaria per dare attuazione al diritto del paziente di rinunciare al proseguimento di un trattamento sanitario anche salvavita – soprattutto al fine di garantire un definitivo consolidamento delle radici costituzionali del principio del consenso/rifiuto informato nella relazione medico-paziente.
In assenza di una disposizione normativa così netta, la paura del malato di poter essere irrevocabilmente vincolato alla prosecuzione delle terapie provoca gravi distorsioni nella relazione di cura, accentuate nel contesto attuale dove sono diffusi atteggiamenti di medicina difensiva, che conducono il medico a non rispettare la volontà del paziente per evitare il rischio di contenziosi giudiziari. Mi limito a segnalare l’effetto tremendo e perverso – che ho posto più volte in evidenza nell’ambito del Comitato Nazionale per la Bioetica – di finire per dissuadere il paziente a intraprendere un trattamento sanitario salvavita per il timore di rimanere in una «condizione di schiavitù» in cui viene negato valore ad una revocabilità o ritrattabilità del consenso a proseguirlo.
Alle cure palliative e alla terapia del dolore la legge 219 del 2017 dedica il successivo art. 2 («Terapia del dolore, divieto di ostinazione irragionevole delle cure e dignità nelle fase finale della vita»).
In particolare, questa disposizione afferma, al comma 2, che: «Nei casi di persona malata con prognosi infausta a breve termine o di imminenza di morte, il medico deve astenersi da ogni ostinazione irragionevole nella somministrazione delle cure e dal ricorso a trattamenti inutili o sproporzionati. In presenza di sofferenze refrattarie ai trattamenti sanitari, il medico può ricorrere alla sedazione palliativa profonda continua in associazione con la terapia del dolore, con il consenso del paziente».
Come appare evidente, anche la persona malata che s’inserisce in un processo di fine vita a seguito del rifiuto o della rinuncia al proseguimento di trattamenti sanitari necessari alla propria sopravvivenza ha diritto di beneficiare di tutte le cure palliative praticabili e della terapia del dolore nonché, in caso di sofferenze refrattarie, della sedazione profonda e continua.
Mi limito poi a menzionare gli articoli 4 e 5 della legge n. 219/2017, i quali disciplinano le disposizioni anticipate di trattamento e la pianificazione condivisa delle cure. Quest’ultima costituisce un significativo rafforzamento dell’alleanza terapeutica tra medico e paziente, in quanto disciplina la possibilità di definire, in relazione all’evoluzione delle conseguenze di una patologia cronica ed invalidante o caratterizzata da inarrestabile evoluzione con prognosi infausta, un piano di cura condiviso tra il paziente e il medico, al quale il medico è tenuto ad attenersi in tutte le ipotesi nelle quali il paziente venga a trovarsi nella condizione di non poter esprimere il proprio consenso o in una condizione di incapacità.
Per ciò che riguarda l’assenza di un’apposita norma che regolamenti l’obiezione di coscienza del medico (e degli operatori sanitari) la scelta del legislatore appare assolutamente condivisibile. La previsione di un diritto all’obiezione di coscienza non sarebbe stata coerente con i presupposti di una disciplina che intende promuovere e valorizzare la relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico basata sul consenso informato, senza richiedere contemperamenti tra valori confliggenti. Diversamente rispetto alla legge sulla interruzione di gravidanza, nella legge n. 219 del 2017 non è necessario alcun bilanciamento tra beni meritevoli di tutela da parte dello Stato e in collisione tra loro.
Dunque, a mio avviso, la legge n. 219 del 2017 non deve essere modificata, bensì applicata in tutte le sue previsioni normative. E va difesa con convinzione ed energia dai ricorrenti attacchi provenienti da correnti di pensiero di frequente contrapposte.
Alcuni settori della letteratura bioetica e giuridica invocano una duplice modifica della legge n. 219 del 2017: (a) eliminare la chiara presa di posizione sulla qualificazione normativa della nutrizione artificiale e della idratazione artificiale come trattamenti sanitari (art. 5, comma 1); (b) introdurre l’istituto dell’obiezione di coscienza per i professionisti della salute.
Sul versante opposto, vi sono orientamenti che auspicano una «riscrittura» della legge n. 219/2017 volta a riconoscere una assimilazione del rifiuto/rinuncia ai trattamenti sanitari alle fattispecie eutanasiche. Anche tale proposta non può essere condivisa.
In proposito, val la pena ribadire che una simile equiparazione «non rispetta» e «non rispecchia» l’ampia varietà di motivazioni dei pazienti che rifiutano o rinunciano a trattamenti sanitari anche salvavita, le quali non sono sempre riconducibili ad una volontà di morire. Non intendo fare riferimento soltanto al rifiuto di sottoporsi alle trasfusioni ematiche per convinzioni religiose; penso alle vicende di tante persone malate che rifiutano trattamenti sanitari life saving (ad esempio, l’amputazione dell’arto o altri interventi chirurgici demolitori) o rinunciano al loro proseguimento (come un ulteriore ciclo di chemioterapia) con l’intenzione di garantirsi un percorso di vita, talvolta anche breve, in armonia con la propria sensibilità e con la propria identità personale.
A prescindere dalle motivazioni, occorre essere pienamente consapevoli che, nelle ipotesi in cui il paziente rifiuta o rinuncia al proseguimento di trattamenti sanitari anche necessari alla propria sopravvivenza, il diritto della persona malata assume la consistenza dei diritti dell’habeas corpus e trova la sua necessaria e sufficiente giustificazione nel diritto all’intangibilità della propria sfera corporea in tutte le fasi dell’esistenza. L’equiparazione di tale diritto al c.d. diritto di morire (comprensivo di suicidio assistito e eutanasia) ne determinerebbe un inevitabile ed intollerabile «affievolimento».
Come appare evidente dal fatto che i fautori dei due indirizzi che propongono modifiche contrapposte di “amputazione” o di dilatazione della legge n. 219 del 2017, finiscono tuttavia per convergere sulla necessità di introdurvi l’istituto dell’obiezione di coscienza (anziché limitarsi a prendere atto della facoltà del medico di astenersi prevista nell’ambito della normativa citata, seconda parte dell’art. 6).
Come ho avuto più volte occasione di ribadire, una simile modifica sarebbe in contrasto con l’idea ispiratrice e l’impianto complessivo di una legge che intende promuovere e valorizzare una relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico fondata sul consenso informato.
(II) La celebre sentenza n. 242 del 2019 della Corte costituzionale non ripropone l’idea – prefigurata nella precedente ordinanza n. 207 del 2018 – di introdurre il diritto della persona malata a richiedere l’assistenza al suicidio tramite una modifica della legge n. 219 del 2017: un «innesto» di difficile attuazione in un tessuto normativo che si è posto l’obiettivo di valorizzare l’«incontro» tra l’autonomia decisionale del paziente e l’autonomia professionale del medico, con la finalità di superare una pervicace visione paternalistica senza mettere in discussione l’immagine tradizionale del medico costitutiva dello sfondo archetipico della sua professione.
La relazione medico-paziente delineata nella sentenza n. 242 del 2019 non presuppone l’equivalenza tra la situazione in cui la morte sopravvenga per il decorso della malattia, in seguito all’interruzione di trattamenti di sostegno vitale, e l’assistenza al suicidio dove il decesso viene deliberatamente provocato.
La sentenza della Consulta ribadisce che la legge n. 219 del 2017 riconosce «il diritto di rifiutare o interrompere qualsiasi trattamento sanitario, ancorché necessario alla propria sopravvivenza» e, pertanto, «il medico è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente» (ricordo che tale affermazione è “rafforzata” dal comma 9 dell’art. 1 laddove prevede che: «Ogni struttura sanitaria pubblica o privata garantisce con proprie modalità organizzative la piena e corretta attuazione dei principi di cui alla presente legge»). Viceversa, introducendo il tema dell’obiezione di coscienza, la sentenza 242/2019 afferma che «la presente declaratoria di illegittimità costituzionale si limita ad escludere la punibilità dell’aiuto al suicidio nei casi considerati, senza creare alcun obbligo di procedere a tale aiuto in capo ai medici. Resta affidato, pertanto, alla coscienza del singolo medico scegliere se prestarsi, o no, a esaudire la richiesta del malato» (§ 2.3. Considerato in diritto).
Dunque, il legislatore del 2017 non ha contemplato un’apposita norma che regoli l’obiezione di coscienza da parte del personale sanitario perché tale opzione avrebbe in parte vanificato l’applicazione della disciplina normativa. Al contrario, la sentenza n. 242 del 2019 non ritiene necessaria l’introduzione dell’istituto dell’obiezione di coscienza perché non prevede alcun obbligo da parte del medico (e della struttura sanitaria) di utilizzare le proprie competenze per aiutare la persona malata a morire.
La sentenza n. 242/2019 della Corte costituzionale rappresenta comunque una tipologia inedita di decisione calibrata sulle peculiarità del caso concreto e, proprio in virtù della specificità della vicenda giudiziaria, rischia di generare ulteriore disorientamento nel dibattito etico e giuridico sulle questioni di fine vita.
Innanzitutto, non è agevole ricondurre la condizione esistenziale di Fabiano Antoniani (detto Dj Fabo), nel momento della richiesta di assistenza a morire, alla categoria del suicidio: siamo di fronte ad una persona malata che si è sottoposta per anni a trattamenti sanitari e a terapie sperimentali motivata da un tenace impulso “a vivere” anziché “a morire”. In queste ipotesi si dovrebbe pertanto riflettere sull’opportunità di superare «le trappole semantiche e concettuali legate alla pigra ripetizione del termine suicidio» (S. Rodotà, La vita e le regole. Tra diritto e non diritto, Milano, 2006, 255 nell’ambito di una riflessione generale sulle questioni di fine vita).
Di fronte all’impossibilità di procedere ad una differenziazione sul piano della tipicità, il malessere «è raddoppiato» dal fatto che è ancora vigente l’art. 580 c.p. formulato in un’epoca in cui era ancora lontana l’irruzione della tecnica in tutte le stagioni della nostra esistenza.
Non soltanto un suicidio «atipico» e inimmaginabile nel 1930, ma anche «non paradigmatico» rispetto al dibattito mondiale sulla legalizzazione o sulla depenalizzazione del suicidio medicalmente assistito: le ipotesi principali che vengono in rilievo non riguardano richieste di assistenza al suicidio di persone malate che rinunciano al proseguimento di un trattamento di sostegno vitale e, al contempo, rifiutano la sedazione palliativa profonda continua nell’imminenza della morte.
In proposito, occorre rimarcare il fatto che la sedazione palliativa profonda continua è un trattamento sanitario che avvia la persona malata ad una morte naturale e ha come effetto l’annullamento totale della coscienza e un «sonno senza dolore» fino al momento del decesso. La sedazione profonda continua può essere percepita come un’angosciosa conclusione – secondo le parole della sentenza 242/2019: «[...] vissuta da taluni come una soluzione non accettabile» (§ 2.3. Considerato in diritto) – ma non può certo essere ritenuta una modalità “non decorosa” per accompagnare il paziente nella fase finale della sua esistenza.
Anche su questo punto è necessario avere piena consapevolezza, per evitare che la sentenza 242/2019 generi equivoci. Il diritto di beneficiare in caso di sofferenze refrattarie della sedazione palliativa profonda non viene garantito in modo omogeneo ed efficace nelle diverse realtà sanitarie del nostro Paese, dove accade di frequente di morire senza un adeguato controllo delle sofferenze. Qui ribadisco con forza che il «diritto di dormire per non soffrire prima di morire» (secondo la formula della legge francese Leonetti-Claeys del 2 febbraio 2016) – sancito dall’art. 2, comma 2, della l. 219/2017 – deve ricevere una piena attuazione.
2. Le DAT e l’aiuto al suicidio. Quali modifiche all’impianto normativo già esistente?
Sebbene la legge n. 219 del 2017 sia diventata nota – soprattutto nel dibattito pubblico – come la «legge sul testamento biologico», in realtà la sua portata va ben oltre la previsione della disciplina delle disposizioni anticipate di trattamento (DAT), poiché coinvolge l’intera materia del consenso informato, andando a recepire i principi di matrice costituzionale – ribaditi, nel corso degli anni, dalla giurisprudenza –, che concernono l’alleanza terapeutica, da intendersi come il rapporto di fiducia “medico-paziente”.
A partire da questa premessa necessaria, si evidenzia che l’introduzione di una disciplina dell’assistenza medica a morire esige una decisione da parte del legislatore. Si tratta di effettuare un’autentica opera di bilanciamento, di fronte alla richiesta di essere aiutato a morire indotta da situazioni drammatiche, tra il diritto all’autodeterminazione del paziente e il diritto ad una tutela effettiva delle persone malate in condizioni di sofferenza: una richiesta consapevole di assistenza medica a morire è presente solamente in un contesto concreto in cui le persone malate godano di un’effettiva e adeguata assistenza sanitaria.
Accesso alle cure, strutture adeguate e risorse appropriate devono essere garantite a prescindere da quella che sarà la decisione legislativa in materia. Un’«onesta» opzione riformatrice presuppone allora una valutazione concreta ed approfondita della realtà sanitaria del nostro Paese da parte del Parlamento.
Ciò detto, sottolineo con chiarezza che la discussione pubblica su un eventuale intervento del legislatore sull’assistenza medica a morire deve ruotare intorno ad una questione ed apprezzarne appieno la complessità: in quali costellazioni di casi il paziente può essere considerato realmente autonomo e dunque la sua richiesta libera e responsabile?
In altri scritti ho affrontato funditus la questione e ripropongo in questa sede le conclusioni (parziali e provvisorie) cui sono pervenuto (sia consentito il rinvio a S. Canestrari, Una sentenza “inevitabilmente infelice”: la “riforma” dell’art. 580 c.p. da parte della Corte costituzionale, in La Corte costituzionale e il fine vita. Un confronto interdisciplinare sul caso Cappato-Antoniani, a cura di G. D’Alessandro- O. Di Giovine, Torino, 2020, 77 ss.). Nei casi «tradizionali» di suicidio caratterizzati dalle indecifrabili «ferite dell’anima» ho sostenuto che non sia possibile stabilire o tipizzare criteri sicuri, né identificare soggetti in grado di accertare la «autenticità» e la «stabilità» di una richiesta di agevolazione al suicidio. A mio avviso, dunque, è giustificato il divieto di aiuto al suicidio nei confronti di una richiesta avanzata per ragioni di sofferenza di matrice psicologica o esistenziale di una persona non afflitta da gravi condizioni patologiche (in una diversa prospettiva si colloca la sentenza del 26 febbraio 2020 della Corte costituzionale tedesca, che ho analizzato approfonditamente in uno scritto di prossima pubblicazione).
Nei casi delineati dalla Corte costituzionale italiana (modellati sulla vicenda Antoniani/Cappato) il corpo assume invece il ruolo di protagonista con i suoi diritti – il principio di intangibilità della sfera corporea ed il diritto a vivere tutte le fasi della propria esistenza senza subire trattamenti sanitari contro la propria volontà – e i suoi tormenti.
Tale centralità delle sofferenze e della condizione del corpo del malato mi hanno condotto ad effettuare considerazioni diverse rispetto a quelle relative alle «tradizionali» tipologie di suicidio indotto dal «male dell’anima». La sussistenza di presupposti «oggettivi» – l’esistenza di una patologia irreversibile fonte di sofferenze fisiche o psichiche intollerabili al paziente tenuto in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale – depone per la possibilità di verificare la libertà di autodeterminazione di una richiesta di assistenza a morire. Siamo in presenza di criteri di accertamento e di una figura in grado di svolgere il procedimento di verifica, che non può che essere il medico, magari con l’ausilio di uno psicologo clinico nel caso vi siano dubbi sul pieno possesso delle facoltà mentali della persona malata.
Nella vasta gamma di ipotesi nelle quali, invece, la richiesta di assistenza al suicidio proviene da un malato gravemente sofferente per via di patologie che non richiedono trattamenti sanitari di sostegno vitale suscettibili di essere interrotti – e dunque da un paziente anche non morente, né nella fase finale della sua esistenza – la questione si presenta estremamente complessa. Nelle variegate costellazioni di pazienti con una malattia grave e irreversibile ma in grado di far cessare da soli la propria esistenza mi sono limitato a porre in evidenza le difficoltà inerenti ad un processo di tipizzazione di una decisione libera e consapevole di richiedere un aiuto al suicidio. La verifica di una “lucida” e “stabile” richiesta di avvalersi dell’aiuto al suicidio non può certo dirsi del tutto preclusa, ma appare altamente problematica.
L’analisi di questa tematica richiede considerazioni approfondite: nessuno spazio dovrebbe essere concesso a «banalizzazioni» o ad asserzioni apodittiche. Dunque:
a) Nel dibattito tra discipline scientifiche, nel discorso pubblico, nel confronto (interno alle e) tra le forze politiche, nella discussione parlamentare devono essere valorizzate le competenze specialistiche. Su queste tematiche delicate e tragiche non devono essere tollerate «dettature» o «dittature» di incompetenti;
b) I diversi orientamenti dovrebbero convergere su un aspetto di fondamentale importanza scolpito dai principi costituzionali di libertà e di solidarietà posti a presidio delle prerogative di tutti i consociati: un’autentica libertà di scelta nelle decisioni di fine vita è presente solamente in un contesto concreto in cui le persone malate possano accedere a tutte le cure palliative praticabili – compresa la sedazione profonda continua – e nel quale siano supportati da una consona terapia medica, psicologica e psichiatrica.
In particolare, è mia profonda e radicata convinzione che l’indispensabile applicazione, valorizzazione e diffusione dei contenuti e degli istituti previsti dalla l. n. 219 del 2017 possa avere un potente effetto preventivo e dissuasivo nei confronti, in generale, delle condotte suicidarie dei pazienti e, in particolare, di moltissime anche se non di tutte le richieste di assistenza medica a morire.
La mia conclusione è sofferta e necessariamente problematica. Se nel nostro Paese non verrà approvata una disciplina sull’assistenza medica a morire di pazienti gravemente malati e sofferenti il legislatore continuerà a “non vedere” i casi di persone malate che maturano e perseguono la loro volontà suicidaria, trovandosi a concludere la propria esistenza in una tragica condizione di solitudine. Se, viceversa, verrà approvata una normativa sulla falsariga di quelle vigenti in alcuni Stati europei (Olanda, Belgio, Lussemburgo, Svizzera) i pericoli di una “china scivolosa” sarebbero accentuati: nella realtà sanitaria del nostro Paese per molte persone malate la richiesta di assistenza medica a morire potrebbe essere una “scelta obbligata” laddove uno stato di sofferenza, che oggettivamente sarebbe mutabile e riducibile, fosse reso difficilmente superabile dalla mancanza di supporto e assistenza adeguati.
Di fronte a questo drammatico dilemma il mio contributo – di un giurista penalista che ha collaborato alla stesura della legge n. 219 del 2017 e ne ha festeggiato l’approvazione – si limita ad una riflessione articolata ma umile. E consapevole dell’importanza delle competenze specialistiche di chi giurista non è.