La colpa medica: un work in progress[1]
di Francesco Palazzo
Sommario: 1. Premessa – 2. Medicina difensiva e non punibilità del sanitario – 3. Ambiguità ed incertezze legislative – 4. I criteri di delimitazione della colpa: il criterio “quantitativo” – 5. Il criterio “qualitativo” adottato dalla legge Gelli-Bianco e le manipolazioni giurisprudenziali – 6. Un buon risultato paralegislativo.
1. Premessa
Queste note hanno ad oggetto la recente evoluzione legislativa e giurisprudenziale in materia di responsabilità penale del medico per gli eventi avversi – morte o lesioni – verificatisi nell’esercizio della sua professione. Intendiamo assumere quella complessa problematica ad esempio paradigmatico per mettere in luce come talvolta, per non dire spesso, la disciplina legislativa e il testo legale costituiscano solo il primo mattone dell’edificio normativo alla cui costruzione contribuisce in misura determinante l’opera della giurisprudenza. E quest’ultima sovente procede per tentativi ed aggiustamenti successivi, nel corso dei quali l’intervento del massimo organo di nomofilachia, la Corte di cassazione a Sezioni riunite, reca un contributo decisivo ma non sempre immediatamente risolutivo.
Il ruolo svolto dall’opera della giurisprudenza, che ormai pacificamente produce un vero e proprio “diritto giudiziario” parallelo quando non antagonistico a quello legislativo, implica una forte esigenza di prevedibilità della decisione giudiziaria che, però, si pone al centro di una contraddizione non facilmente risolvibile. Da un lato, infatti, l’esigenza di prevedibilità costituisce il prodotto di una sorta di surrogazione per la quale alla tradizionale legalità della legge si surroga, appunto, la prevedibilità della decisione giudiziaria al fine di appagare, seppure per altra via, la stessa fondamentale istanza di garanzia consistente nella possibilità e libertà di autodeterminazione del cittadino dinanzi ai precetti comportamentali del diritto penale. Dall’altro lato, però, non è affatto facile assicurare realmente la prevedibilità della decisione giudiziaria proprio in ragione delle stesse caratteristiche del diritto giudiziario, che – come mostrerà limpidamente il nostro esempio – spesso rivela una grande mobilità e instabilità, suscitata anche dalle imperfezioni dei testi legislativi e comunque orientata all’individuazione della soluzione più confacente alle esigenze sostanziali della materia: insomma, è difficile che il diritto giudiziario non si formi attraverso una serie più o meno lunga e talvolta tortuosa di tentativi e aggiustamenti. E, sotto questo profilo, le soluzioni patrocinate di recente, ad esempio con la riforma dell’art. 618 c.p.p. sul giudizio di cassazione, pur apprezzabili per lo scopo di accentuare la prevedibilità del diritto giudiziario, possono per contro preoccupare proprio per il rischio di un eccessivo irrigidimento di quest’ultimo.
2. Medicina difensiva e non punibilità del sanitario
Il contenimento della responsabilità penale del medico per gli eventi avversi prodottisi nell’esercizio della sua attività è un’esigenza politico-giuridica che nasce dall’eccessivo ricorso da parte dei sanitari alla c.d. medicina difensiva. Com’è ben noto, la medicina difensiva è una pratica messa in atto, a sua volta, per contrastare gli eccessi con cui, in un recentissimo passato, la giustizia penale si muoveva a colpire presunti errori colpevoli dei sanitari e più in generale episodi di c.d. malasanità. Dinanzi all’innalzamento del c.d. “rischio penale” i medici si “cautelano” con due atteggiamenti difensivi. In senso attivo (medicina difensiva positiva), i medici tendono ad eccedere nel ricorso a mezzi diagnostici e interventi terapeutici, di cui non vi sia effettiva necessità o utilità curativa ma la cui prescrizione serve a cautelarsi contro un eventuale rimprovero di trascuratezza. Con la conseguenza però, non solo di gravare sui bilanci delle strutture sanitarie pubbliche, ma anche di intasarle producendo così ritardi e liste d’attesa pregiudizievoli per la salute dei cittadini. In senso passivo (medicina difensiva negativa), i medici tendono a “scaricare” su altri sanitari il paziente che possa essere a rischio, in modo da evitare l’attribuzione del possibile evento avverso: e anche ciò evidentemente, rallentando e complicando l’intervento terapeutico, può essere nocivo per la salute dei cittadini.
L’esigenza di contrastare la pratica della medicina difensiva è, dunque, reale; così come è reale l’esigenza di un più oculato e controllato esercizio dello strumento penale per contrastare i casi di effettiva malpractice medica. Per far fronte a queste indiscutibili esigenze si è preferito imboccare la via legislativa di prevedere espresse clausole di esclusione della punibilità del medico, invece di privilegiare la via giudiziaria di un uso più sorvegliato e accorto degli istituti e dei principi in materia di responsabilità colposa. Probabilmente, l’opzione a favore della via legislativa è stata motivata anche dello scopo di assicurare alla materia una maggiore certezza applicativa. Come vedremo, invece, è stato raggiunto l’effetto esattamente contrario, poiché l’incertezza ha contrassegnato non solo l’applicazione giurisprudenziale delle nuove norme, ma addirittura l’azione dello stesso legislatore che è intervenuto ben due volte in materia e a distanza di pochi anni, suscitando così anche aggiuntive incertezze di diritto intertemporale.
Può essere utile riprodurre i due testi legislativi con cui si è inteso circoscrivere la punibilità del medico. Il primo è costituito dall’art. 3 del d.l. 13 settembre 2012, n. 158 (convertito in l. 8 novembre 2012, n. 189) (c.d. decreto Balduzzi) e dispone quanto segue: «L’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e a buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui all’articolo 2043 del codice civile. Il giudice, anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo periodo». Il secondo testo è costituito da un nuovo articolo del codice penale, l’art. 590 sexies, introdotto dalla l. 8 marzo 2017, n. 24 (c.d. legge Gelli-Bianco), che recita: «Se i fatti di cui agli articoli 589 e 590 sono commessi nell’esercizio della professione sanitaria, si applicano le pene ivi previste salvo quanto disposto dal secondo comma. ǀǀ Qualora l’evento si sia verificato a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi della legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alla specificità del caso concreto».
Senza poter scendere qui nell’analisi dettagliata delle due disposizioni, appare abbastanza chiara l’idea di fondo loro comune, e cioè l’esclusione della responsabilità nel presupposto dell’osservanza delle leges artis sufficientemente consolidate, provvedendo peraltro la legge Gelli-Bianco a costruire un complesso meccanismo pubblicistico di accreditamento e pubblicazione delle linee guida. In sostanza, il messaggio generico sotteso al duplice intervento legislativo è che il medico non può soggiacere all’incertezza (se non all’alea) della responsabilità penale una volta che egli abbia osservato le leges artis “codificate”.
3. Ambiguità ed incertezze legislative
Poste così le necessarie premesse del discorso, possiamo passare ora a delineare sinteticamente l’evoluzione della vicenda che c’interessa, non senza aver sottolineato che si tratta di questione grandemente rilevante. E ciò non solo perché attiene alla disciplina giuridica di un settore, quello medico appunto, che riguarda in sostanza l’intera popolazione e al quale – com’è naturale – siamo tutti molto sensibili. Ma anche perché la questione tocca uno dei sancta sanctorum del diritto penale contemporaneo qual è appunto quello della responsabilità colposa e dei suoi limiti.
La recente vicenda della disciplina penale della responsabilità medica è una vicenda anomala, quanto meno perché si presenta assai poco lineare. Come già si può notare dalla semplice lettura dei due testi legislativi, il legislatore è stato, da un lato, ben determinato nella sua decisione di intervenire per via legislativa contro indubbi eccessi giurisprudenziali, ma dall’altro lato si è rivelato incerto e quasi timoroso, tornando ben presto sui suoi passi per ridurre la portata dell’esclusione di punibilità. Per parte sua, la giurisprudenza, dopo un’iniziale accoglienza sostanzialmente ostile all’innovazione legislativa, e anche dopo molte oscillazioni in gran parte dovute all’imperfezione dei testi, sembra oggi convincersi sempre più della necessità di una delimitazione della responsabilità, consolidando – come vedremo – un orientamento che non esita a forzare il dato legislativo pur di dare coerenza alla disciplina.
Probabilmente l’anomalia di questa vicenda non è casuale. Al contrario, essa nasce forse da una certa qual contraddizione interna alla questione. Da un lato, in linea di principio, siamo quasi istintivamente portati a nutrire sospetto verso le cause speciali di esclusione della punibilità: esse, infatti, non solo creano necessariamente un vuoto di tutela nei confronti dei beni protetti, ma rischiano talvolta di rivelarsi dei privilegi. Insomma, per superare queste diffidenze occorre che le cause di non punibilità superino un vaglio di ragionevolezza (e costituzionalità) sia dal lato passivo dei beni tutelati sia da quello attivo dei soggetti esonerati. Dall’altro lato, però è anche vero, e qui sta l’apparente contraddizione, che nella peculiare materia dell’attività medica, la causa di non punibilità non si pone in antitesi con la tutela dei beni finali della vita e salute dei pazienti. Anzi, rispetto a tale tutela è perfettamente consentanea, visto e considerato che la pratica della medicina difensiva costituisce un ostacolo alla migliore tutela dei cittadini. E la causa di non punibilità nasce proprio per contrastare la pratica della medicina difensiva.
Anche per quanto riguarda il lato attivo dei soggetti esonerati, è improprio parlare di “privilegio” della classe medica, visto e considerato – come non ha mancato di sottolineare la giurisprudenza – che la delimitazione della loro responsabilità penale per colpa risponde ad un principio generale dell’ordinamento espresso dall’art. 2236 c.c. con riguardo a tutti i professionisti che si trovano ad operare su casi specialmente complessi, come sono sicuramente quelli oggetto di trattamento medico («Se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d’opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o di colpa grave»).
4. I criteri di delimitazione della colpa: il criterio “quantitativo”
In linea generalissima, la recente evoluzione sia dottrinale che giurisprudenziale della colpa penale ha messo in luce il carattere che si potrebbe dire “sincretistico” della colpa penale: alieno, cioè, da eccessive distinzioni e suddistinzioni concettuali. Questo processo storico-culturale è avvenuto mediante la forte valorizzazione della violazione delle regole cautelari quale nucleo essenziale della colpa, finendo così per mettere in ombra la dimesione psichica di questa davvero complessa forma di imputazione soggettiva del reato. A riprova di quanto andiamo dicendo basta rammentare come, in sede teorica, è diventata quasi recessiva la distinzione un tempo fondamentale tra colpa generica e colpa specifica; così come è addirittura quasi scomparsa dai manuali l’altra distinzione che tripartisce la colpa generica nelle tre specie della negligenza, dell’imprudenza e dell’imperizia. Al più, queste distinzioni sono utilizzate solo per differenziare, ove necessario, le diverse tipologie di regole cautelari violate. Ma ciò che resta essenziale è appunto l’individuazione di una regola che abbia natura realmente cautelare, della sfera del pericolo cui la regola intende far fronte, della corrispondenza tra evento avverso prodotto e sfera del pericolo considerato dalla regola, nonché infine della efficacia impeditiva del comportamento alternativo lecito.
Anche in sede applicativa il dominante sincretismo della colpa è ben visibile nella formulazione di molti capi d’imputazione che spesso affastellano nella contestazione colposa tutte le possibili forme di colpa delineate dall’art. 43 c.p. e che raramente è dato scindere ed individuare separatamente almeno in sede preliminare di formulazione dell’accusa. Può darsi che dietro questo diffusissimo modus procedendi vi sia anche una componente di sciatteria, ma non è affatto improbabile che ciò riveli anche una certa impraticabilità di quelle pur apparentemente lineari e tramandate distinzioni codicistiche.
Ebbene, le riforme del decreto Balduzzi e della legge Gelli-Bianco vanno in direzione esattamente opposta alla tendenza sincretistica che oggi caratterizza la colpa: esse distinguono implicitamente tra colpa generica e colpa specifica, isolano l’imperizia tra le varie forme di colpa generica, rilanciano la distinzione tra colpa grave e colpa lieve che per lungo tempo era stata abbandonata dalla giurisprudenza penale che la utilizzava solo in sede di commisurazione della pena a norma dell’art. 133 c.p. Orbene, questa frammentazione della colpa in varie distinzioni e suddistinzioni, divenuta rilevante a seguito delle riforme non più solo per graduare la responsabilità colposa ma ancor prima per affermarne l’esistenza, ha logicamente prodotto la conseguenza di aggravare notevolmente l’onere motivazionale del giudice, costringendolo a calare nell’accertamento probatorio del fatto una griglia di distinzioni ardue già da un punto di vista concettuale, come abbiamo visto. Esemplare in questo senso è, ad esempio, tra le più recenti, la sentenza della IV sezione della Cassazione n. 4892/2020, Scuderi: «una motivazione che tralasci di indicare se il caso concreto sia regolato da linee-guida o, in mancanza, da buone pratiche clinico-assistenziali, di valutare il nesso di causa tenendo conto del comportamento salvifico indicato dai predetti parametri, o di specificare di quale forma di colpa si tratti, se di colpa generica o specifica, eventualmente alla luce di regole cautelari racchiuse in linee-guida, se di colpa per imperizia, negligenza o imprudenza, ma anche una motivazione in cui non sia appurato se ed in quale misura la condotta del sanitario si sia discostata da linee-guida o da buone pratiche clinico-assistenziali non può, oggi, essere ritenuta satisfattiva né conforme a legge».
Per cercare di orientarsi meglio sulle ragioni profonde di questo modo di procedere del legislatore che va in cerca di una delimitazione – per così dire verso il basso – della colpa penale in campo medico, può essere utile considerare quali opzioni si presentavano astrattamente possibili al riformatore. In linea di principio le vie percorribili erano due. La prima potrebbe esser detta quantitativa, facendo riferimento alla tradizionale distinzione tra colpa grave e colpa lieve per giungere ad espungere la seconda dall’area della rilevanza penale. La seconda potrebbe dirsi qualitativa, in quanto basata sulla distinzione – appunto qualitativa – tra le varie specie di colpa e le diverse tipologie di regole cautelari violate. E’ chiaro, poi, che i due criteri – quantitativo e qualitativo – possono essere anche fra loro commisti, ancorché l’ispirazione di fondo della soluzione rimanga riconducibile all’una o all’altra prospettiva.
Il criterio quantitativo, in virtù del quale la colpa lieve viene espunta dall’area di rilevanza penale, presenta pregi e difetti. Il suo maggior difetto è l’indeterminatezza derivante proprio dalla sua natura quantitativa. Ma è pur vero che questa indeterminatezza significa nello stesso tempo duttilità del criterio e sua capacità di adeguarsi al caso concreto, alle sue proteiformi manifestazioni nella realtà effettuale com’è appunto avviene specialmente in campo medico. I suoi pregi sono numerosi. Intanto si tratta di un criterio largamente conosciuto nella nostra tradizione giuridico-penale e consacrato dall’art. 2236 c.c. per quanto riguarda la responsabilità civile. Ma soprattutto corrisponde a quel carattere "sincretistico" della colpa che abbiamo già evidenziato e in ragione del quale la colpa risulta essere un giudizio complesso effettuato alla stregua di numerosi parametri. E qui arriviamo, in effetti, al pregio fondamentale del criterio quantitativo della colpa lieve, e cioè la possibilità – appunto “sincretistica” – che esso offre al giudice di avvalersi di più e diversi parametri congiuntamente: il giudizio di colpa lieve/grave deve infatti tener conto certamente delle “speciali difficoltà” del caso ma anche delle caratteristiche di contesto in cui è chiamato ad operare il medico (l’urgenza, le scarse risorse tecniche, ecc.) nonché delle condizioni personali dell’operatore (la stanchezza accumulata, il grado di esperienza maturata, ecc.), fino ad arrivare alla c.d. misura soggettiva della colpa intesa in termini di soggettiva e contingente esigibilità dell’osservanza delle regole cautelari.
Ebbene, delle due riforme il decreto Balduzzi era chiaramente ispirato in modo prevalente al criterio quantitativo, visto che faceva riferimento espresso alla colpa lieve senza peraltro distinguere tra le varie specie di colpa. E, invero la giurisprudenza aveva conseguentemente ritenuto di poter configurare la colpa lieve anche al di là del perimetro segnato dall’imperizia, includendo anche la negligenza e l’imprudenza.
5. Il criterio “qualitativo” adottato dalla legge Gelli-Bianco e le manipolazioni giurisprudenziali
La legge Gelli-Bianco va invece in direzione decisamente opposta, optando per il criterio qualitativo e abbandonando la distinzione tra colpa grave/colpa lieve. La riforma s’impegna invero in una implicita ma evidente differenziazione delle tipologie di regole cautelari e leges artis rilevanti.
L’art. 590 sexies, comma 2, c.p. individua innanzitutto due tipologie di regole cautelari, o leges artis, la cui osservanza è condizione essenziale perché possa operare la causa di non punibilità. Recita infatti quella disposizione che «la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalla linee guida [come definite e pubblicate ai sensi della legge] ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto». Si può dunque dire che, affinché possa scattare la causa di non punibilità, debbono essere rispettate, in primo luogo, le regole generali relative all’inquadramento diagnostico-terapeutico del caso in questione (ad es. l’inquadramento della patologia oncologica in una certa specie di tumore per il quale i protocolli prevedono in generale un determinato trattamento): a questo tipo di regole fa riferimento la legge quando parla di “linee guida” (definite e pubblicate conformemente alle procedure previste dalla legge) ovvero di “buone pratiche clinico-assistenziali”. In secondo luogo, e a differenza di quanto invece disponeva – o meglio non disponeva – il decreto Balduzzi, la non punibilità è subordinata all’osservanza delle “regole di adeguamento” al caso concreto, che ben possono, e solitamente sono, anche in deroga a quelle generali d’inquadramento diagnostico-terapeutico (ad es. correttamente inquadrata la patologia oncologica, le particolari condizioni del paziente suggeriscono di allontanarsi dalle linee guida [o buone pratiche] del trattamento terapeutico previsto da queste ultime).
In presenza di un siffatto quadro normativo si pone subito un arduo problema interpretativo, anzi quello che fu ritenuto un vero e proprio rebus interpretativo ai limiti della insolubilità. Posto, infatti, che la causa di non punibilità presuppone l’osservanza delle leges artis d’inquadramento del caso nonché quelle di adeguamento alle sue specificità concrete, quale spazio residua per l’operatività della causa di non punibilità? Quest’ultima implica pur sempre che il comportamento del medico sia colposo, ma se al contempo la condizione per la sua applicazione è l’osservanza di ben due categorie fondamentali di regole cautelari, quali potranno essere le leges artis la cui inosservanza caratterizzerà il comportamento colposo rientrante nella fattispecie di non punibilità? Insomma, la formulazione dell’art. 590 sexies c.p. è tale per cui, almeno ad una prima lettura, l’ambito della non punibilità sembra coincidere con ipotesi originariamente non colpose: se così fosse realmente, la norma sarebbe del tutto inutile.
E’ stata la giurisprudenza ad impegnarsi nell’ardua opera d’individuazione della tipologia di quelle regole cautelari la cui inosservanza è suscettibile di dare corpo ad una colpa non punibile ai sensi dell’art. 590 sexies c.p. Questa tipologia di regole fu individuata nelle c.d. regole esecutive o di attuazione: esecutive o attuative delle regole d’inquadramento generale o di adeguamento al caso. Così, ad esempio, inquadrato esattamente il caso e programmato l’intervento terapeutico tenendo conto delle specifiche caratteristiche del paziente, il chirurgo erra nell’esecuzione dell’operazione (Cass. Sez. IV, n. 50078/2017, Cavazza: la causa di non punibilità è «operante, ricorrendo le condizioni previste dalla disposizione normativa (rispetto delle linee guida o, in mancanza, delle buone pratiche clinico-assistenziali, adeguate alla specificità del caso), nel solo caso di imperizia, indipendentemente dal grado della colpa, essendo compatibile il rispetto delle linee guida e delle buone pratiche con la condotta imperita nell’applicazione delle stesse»).
La ricostruzione giurisprudenziale dell’art. 590 sexies c.p. è senz’altro meritoria poiché conferisce un senso alla disposizione, ma certamente ne delinea – ed è già molto dato il suo tenore letterale – un campo applicativo ad un tempo eccessivamente limitato e potenzialmente troppo largo. Eccessivamente limitato perché la categoria delle norme esecutive o attuative è davvero particolarissima e molto residuale, e sembra inoltre essere stata individuata pensando prevalentemente al settore della chirurgia; troppo largo perché anche nell’esecuzione materiale del trattamento possono manifestarsi comportamenti colposi di estrema gravità (come, ad es., quello del chirurgo che commetta un grossolano errore esecutivo).
In secondo luogo, la legge Gelli-Bianco introduce un ulteriore forte limite alla non punibilità, assente nel decreto Balduzzi. A tenore del nuovo art. 590 sexies c.p. la causa di non punibilità è limitata alla sola colpa per imperizia. E con ciò le difficoltà interpretative si accentuano ulteriormente. E’ probabile che la ragione sostanziale di questa limitazione stia nella convinzione del legislatore che, mentre la negligenza e imprudenza esprimono due atteggiamenti soggettivi di indifferenza se non di ostilità nei confronti dei beni giuridici, l’imperizia è invece un difetto cognitivo o esecutivo, un errore, come tale meritevole di essere trattato con maggiore benevolenza nel campo medico caratterizzato da incertezza.
Pur essendoci del vero in questa convinzione, ciò nondimeno non per questo la disposizione cessa di essere di difficoltosa interpretazione e di produrre l’effetto di una sorta di sterilizzazione delle sue potenzialità applicative. La dottrina già da tempo aveva messo in luce la scarsa autonomia concettuale dell’imperizia in generale: come semplice difetto delle conoscenze e delle abilità necessarie, l’imperizia non è in grado di dare compiuta consistenza alla colpa e al rimprovero che essa implica. Oggi, poi, è intervenuta nella specifica materia della responsabilità medica un’importantissima sentenza della Cassazione che ha fatto chiarezza sulla natura dell’imperizia. Si tratta della sentenza della Quarta sezione n. 15258/2020, nella quale sono stati chiariti due aspetti fondamentali. Innanzitutto, si è messo bene in luce come l’imperizia s’identifichi in sostanza con l’errore professionale come tale non necessariamente colpevole («si deve rimarcare che dopo aver accertato la violazione della regola cautelare, occorre accertare che quella violazione sia stata colposa; in questo secondo step deve darsi massimo spazio alla realtà dell’autore fisico e alle condizioni concrete nelle quali si è materializzato il fatto»). L’imperizia sta in sostanza ad indicare l’oggettivo scostamento del comportamento dalle regole cautelari caratteristiche delle attività tecnico-professionali, nelle quali le regole cautelari implicano l’osservanza delle leges artis, la cui violazione dà luogo appunto ad imperizia. In secondo luogo, si è affermato esattamente che l’errore professionale, cioè il comportamento imperito, trasmoda in colpa solo quando l’incapacità di adeguarsi alle leges artis tecnico-professionale sia accompagnata da un atteggiamento colpevole di negligenza o imprudenza. Questo significa che anche nella colpa per imperizia refluiscono componenti negligenti o imprudenti («in linea di massima, l’agire dei professionisti, e quindi anche dei sanitari, si presta ad esser valutato primariamente in termini di perizia/imperizia; per definizione le attività professionali richiedono l’uso di perizia, cioè il rispetto delle regole che disciplinano il modo in cui quelle attività devono essere compiute per raggiungere lo scopo per il quale sono previste; ciò non esclude che l’evento possa essere stato determinato da un errore originato da negligenza o da imprudenza»). Con la conseguenza, dunque, che, mentre il richiamo effettuato dall’art. 590 sexies c.p. all’imperizia deriva dal fatto che esso concerne un’attività tecnico-professionale come quella medica, la presenza di negligenza o imprudenza nel comportamento non può per ciò solo escluderlo dall’ambito applicativo della fattispecie di non punibilità.
A questo punto, dopo aver visto come la giurisprudenza ha chiarito i requisiti della fattispecie di non punibilità costituiti dall’osservanza delle regole d’inquadramento e di adeguamento e dalla imperizia, nell’itinerario interpretativo dell’art. 590 sexies c.p. s’inserisce l’ultimo passaggio logico compiuto dalle Sezioni Unite con la notissima sentenza n. 8770/2018, Mariotti. Diciamo subito che con questa pronuncia viene recuperato il limite della colpa grave, in modo da escluderla dall’ambito applicativo della fattispecie, nonostante che l’art. 590 sexies c.p. nulla dica espressamente al riguardo. Sembra qui riaffiorare quella certa qual diffidenza verso la non punibilità, di cui abbiamo detto all’inizio, dovuta al timore di un eccessivo indebolimento della tutela. E in effetti è ben possibile che un errore terapeutico sia dovuto a negligenza o imprudenza anche molto gravi e dunque intollerabili, ancorché esso si radichi nell’inosservanza di regole “semplicemente” esecutive o attuative. Addirittura, l’indebolimento della tutela potrebbe far sorgere dubbi di costituzionalità, qualora si riveli così macroscopico da apparire ingiustificato e pertanto irragionevole.
Dunque le Sezioni Unite avvertono il bisogno, per “salvare” la causa di non punibilità, di ricorrere ad una sua interpretazione conforme a Costituzione, consistente nel reinserimento del limite della colpa grave nella fattispecie. Un’operazione ermeneutica, questa, tanto apprezzabile negli intenti e nelle conseguenze quanto opinabile per il percorso argomentativo prescelto (ma, forse, obbligato?).
Lasciamo stare qui le riserve che sono state espresse autorevolmente e in via generale nei confronti dell’interpretazione conforme in quanto tale, tacciata di favorire forzature del testo legislativo proprio in quanto orientata a ottenere un determinato risultato ermeneutico prefigurato in partenza, piuttosto che fungere da metodo euristico dell’esito interpretativo. Seppure ci sia del vero in questi rilievi critici, rimane indubitabile che, se ben praticata, l’interpretazione conforme a Costituzione è un veicolo prezioso per far circolare direttamente nel tessuto normativo dell’ordinamento i valori costituzionali.
Come è ben noto, l’invalicabile confine che trova l’interpretazione conforme è il significato linguistico del testo legale. Nel senso che, pur nell’intento di armonizzare la disposizione legale con la Costituzione, non è possibile per l’interprete attribuire ad essa un significato che sia incompatibile con quello linguistico del testo. Orbene, la sentenza Mariotti, inserendo il limite della colpa grave nel testo dell’art. 590 sexies c.p., ritiene di stare entro i confini dell’interpretazione conforme in quanto avrebbe operato non già contra legem bensì praeter legem. E, da un certo punto di vista, ciò non è inesatto, in quanto l’operazione interpretativa si risolve non già nel sostituire un elemento di fattispecie con altro ma nell’aggiungere – oltre il disposto normativo – un elemento non previsto, sul quale il testo è dunque silente. Vero ciò, è altrettanto indubitabile però che l’operazione si rivela fortemente manipolativa del testo e davvero ai confini dell’interpretazione conforme consentita. In effetti, quando si parla di quest’ultima, normalmente ci si riferisce al carattere polisemico di una disposizione legislativa e alla conseguente scelta dell’interprete che, tra i plurimi significati dell’espressione linguistica, sceglie quello conforme (o maggiormente conforme) a Costituzione: in questo senso il significato della disposizione non viene tradito poiché il giudice, con la sua scelta, rimane pur sempre all’interno del campo semantico sotteso alla disposizione.
Nel nostro caso, invece, è avvenuto qualcosa di diverso. La Corte di cassazione, infatti, non ha scelto tra i possibili significati dell’espressione linguistica, ma ha inserito ex novo nella struttura linguistica della fattispecie un elemento non previsto espressamente, e cioè quello della colpa lieve. Così operando, fra l’altro, una scelta destinata a ridondare a svantaggio del reo, perché limitante l’ambito applicativo della causa di non punibilità.
6. Un buon risultato paralegislativo
Nonostante la forzatura presente nel percorso argomentativo della sentenza Mariotti, tuttavia è difficile disconoscere il pregio dei risultati così conseguiti, tali da delineare un assetto normativo di grande interesse per la colpa medica. Non si tratta solo di aver delimitato la sfera della non punibilità in modo più coerente con la tradizione del nostro ordinamento e con le sostanziali esigenze di tutela. Con questo pronunciamento, soprattutto se letto insieme alla successiva e già ricordata sentenza n. 15258/2020, la Cassazione ha compiuto un’importante operazione di rivitalizzazione della colpa grave, cioè del criterio quantitativo, quale discrimine della responsabilità colposa del medico.
In effetti, la clausola della colpa grave, facendo pernio sull’intensità del rimprovero colposo nel suo insieme, è innanzitutto capace di “mangiarsi” per così dire quel limite dell’imperizia, la cui ragion d’essere – come abbiamo visto – è molto opinabile. In secondo luogo, e soprattutto, la clausola della colpa grave è potenzialmente idonea a travolgere anche il limite costituito dalla tipologia di regole cautelari di cui è richiesta l’osservanza dall’art. 590 sexies c.p.: le regole d’inquadramento diagnostico-terapeutico e quelle di adeguamento al caso concreto. Infatti, una volta che faccia ingresso il criterio selettivo dell’intensità del rimprovero colposo nel suo complesso, non ha più senso limitare la non punibilità alla sola inosservanza delle regole esecutive ed attuative. Un rimprovero trascurabile è ben concepibile senza dubbio anche nell’inosservanza delle regole d’inquadramento o di adeguamento: tutto dipende, come al solito, dalle caratteristiche del caso. Ma c’è di più. Nell’ipotesi in cui il caso sia talmente nuovo o speciale per cui non esistano linee guida o buone pratiche, a stretto rigore la causa di non punibilità non potrebbe essere mai applicabile per mancanza di un suo requisito. Orbene, si tratta di un risultato incongruo, essendo evidente che un’esigenza di eventuale non punibilità è molto più probabile in una siffatta, davvero difficilissima, situazione, anziché in quella in cui l’errore terapeutico abbia riguardato la solitamente più semplice fase dell’esecuzione o attuazione dell’intervento.
In definitiva, la soluzione “quantitativa” della colpa grave si rivela suscettibile di una più ampia e ragionevole sfera di applicazione rispetto allo schema di non punibilità un po’ arzigogolato delineato dalla legge Gelli-Bianco. Rimane aperto il problema se questa dilatazione del campo di applicazione attraverso la colpa grave come rievocata dalla sentenza Mariotti, possa operare già de lege lata oppure se abbia bisogno di una nuova e più adeguata – ma anche più semplice – formulazione legislativa. In effetti, estendere la causa di non punibilità oltre i requisiti espressamente indicati dall’art. 590 sexies c.p. (alle ipotesi di inesistenza di leges artis consolidate) ovvero contro di essi (alle ipotesi di colpa lieve nell’inosservanza delle leges artis), apparirebbe una nuova forzatura del testo, anche se ispirata a conferire ad esso una sostanza valoriale e una ragionevolezza ben maggiori di quelle esibite dal testo vigente. Indubbiamente, potrebbe essere forte la tentazione per la giurisprudenza che ha fatto trenta (con la sentenza Mariotti) di fare anche trentuno ampliando alle ipotesi non previste: e questa volta per di più in senso favorevole al reo.
E’ chiaro, inoltre, che la delimitazione della punibilità alla colpa grave potrebbe egregiamente prestarsi a risolvere la stragrande maggioranza dei casi originati dall’emergenza pandemica del coronavirus, senza avventurarsi nella difficile forgiatura legislativa di un apposito “scudo” ritagliato sulla contingenza sanitaria. Indubbiamente, però, se una più o meno confessata sfiducia nella magistratura (soprattutto del pubblico ministero) unita alla lunghezza dei processi dovessero far optare per una disposizione di “sbarramento” capace di bloccare sul nascere l’azione penale, allora bisognerebbe pensare ad una vera e propria causa di non punibilità di problematico confezionamento. Essa, infatti, dovrebbe essere congegnata prescindendo da quell’accertamento di fatto pur sempre indispensabile per graduare la colpa, e puntando su un dato obiettivo per così dire “esterno” alla tipicità del fatto colposo (la sua ‘concomitanza’ con l’epidemia?) ictu oculi riconoscibile dal pubblico ministero al momento dell’acquisizione della notitia criminis. Ma il rischio sarebbe allora quello di fare d’ogni erba un fascio, coprendo con la causa di non punibilità anche eventuali fatti gravemente colpevoli sol perché commessi nella contingenza epidemica.
Infine, a parte ciò, sembra proprio che la clausola della colpa grave possa aprire interessanti prospettive di politica penale per il futuro. Intanto, potrebbe proseguire quel processo che pare essere già in atto nella giurisprudenza, di affrancamento della colpa grave dall’art. 2236 c.c., o per meglio dire di suo progressivo superamento: i parametri di accertamento della colpa grave/lieve potrebbero del tutto ragionevolmente ed opportunamente andare oltre quello della “speciale complessità” del caso per comprendere anche quelli relativi al contesto obiettivo, alle condizioni personali del soggetto, alla misura soggettiva della rimproverabilità.
Inoltre, è lecito pensare che un futuro sviluppo dei confini tra responsabilità civile e penale possa andare nel senso di fare della colpa grave il confine generale tra illecito civile e illecito penale, al di là dunque del campo della responsabilità del medico e forse anche al di là del campo della responsabilità del professionista. Così facendo sarebbe data reale attuazione al principio fondamentale che vuole l’intervento penale quale ultima ratio della tutela dei beni.
La conclusione finale che si può trarre da questo nostro excursus sulla colpa medica è che si tratta probabilmente di un campo ancora in divenire. Ma soprattutto un campo in cui la disciplina giuridica, sebbene sospinta da interventi legislativi espressivi di esigenze reali ma formulati in modo spesso infelice, è stata forgiata dalle mani della giurisprudenza non raramente in direzione diversa da quella presa dal legislatore. Un processo, questo che vede sinergicamente operanti diritto legale e diritto giudiziario, che si è svolto senza scandalo e forse con soddisfazione diffusa.
[1] Il lavoro è destinato agli Scritti in onore del prof. Antonio Fiorella