Il contributo vuole sommariamente descrivere le problematicità ed i limiti di un’inchiesta che ha inteso individuare responsabilità penali nel mancato contenimento, al loro sorgere, da parte delle Autorità politiche e sanitarie, dei focolai epidemici che costituirono il fulcro della diffusione esponenziale del virus nel territorio bergamasco. L’indagine ha presentato aspetti problematici sui quali l’articolo vuole porre l’attenzione. Di fatto, si è risolta, come descritto nei paragrafi 2 e 3, e non poteva essere altrimenti, in un sindacato sugli effetti delle scelte politiche ed amministrative in materia di salute pubblica, con le allarmanti evidenze descritte nel paragrafo 4. È stata messa in discussione l’iniziativa della Procura di Bergamo che, operando di fatto un’indagine conoscitiva nella ricerca di responsabilità, sarebbe andata oltre i limiti istituzionali spettanti alla funzione del Pubblico Ministero. Altri aspetti di criticità dell’inchiesta hanno riguardato la ritenuta non configurabilità del reato di epidemia colposa (artt.438 e 452 CP) nella forma omissiva (paragrafo 5); la connotazione ‘politica’ delle scelte delle Autorità governative e amministrative, ritenute non sindacabili in sede giudiziaria (paragrafo 6); la difficile individuazione di specifici ruoli decisori cui imputare le gravi omissioni emerse (paragrafo 7); il problema del nesso di causalità tra le riscontrate gravi omissioni nella ‘preparedness’ del contenimento dei focolai locali e la successiva ‘esplosione’ del contagio nel territorio bergamasco e lombardo.
Sommario: 1. Premessa – 2. Oggetto dell’inchiesta – 3. Il ruolo della Procura e le critiche sull’iniziativa – 4. I fatti emersi – 5. L’inconfigurabilità del reato di pandemia colposa nella forma omissiva – 6. Le scelte politiche non sindacabili in sede giudiziaria – 7. La posizione dei tecnici e dei funzionari ministeriali – 8. Il problema del nesso causale.
1. Premessa
Il 18 marzo è il “giorno della memoria” delle vittime del Covid, il giorno dell’iconica e angosciosa sfilata lungo il viale del cimitero di Bergamo dei camion militari che trasportavano decine di bare di morti Covid verso altri luoghi, non essendovi più ricettività nei cimiteri, nelle chiese o nei crematori della zona, ormai saturi di cadaveri.
Non è di questa scena manzoniana che voglio parlare, ma condividere alcune riflessioni a margine dell’inchiesta penale che su tali vicende è stata condotta dalla Procura della Repubblica di Bergamo, inchiesta conclusasi con l’archiviazione emessa dal Tribunale dei Ministri di Brescia del procedimento per epidemia colposa, con riferimento alle posizioni del Presidente del Consiglio e del Ministro della Salute dell’epoca, delle alte cariche della Regione Lombardia, dei componenti del CTS e alcuni dirigenti del Ministero della Salute e di Organismi sanitari pubblici, posizioni tutte alla fine confluite avanti lo stesso Tribunale ministeriale a seguito della determinazione, assunta ex art.54 quater CPP dal Procuratore Generale di Brescia, di ritenere attratta alla competenza di quel Tribunale anche la posizione dei soggetti ‘laici’, cui veniva contestato il reato di cui agli arit.432 e 452 CP nella forma di ‘cooperazione colposa’ ex art.113 CP con i ministri, circostanza ritenuta dalla sovraordinata Autorità e accettata dal Tribunale dei Ministri come assimilabile ad un concorso ex art.112 CP.
Neppure intendo parlare delle polemiche (soprattutto giornalistiche e da parte delle Camere Penali, ma anche di colleghi e politici vari) che l’inchiesta suscitò, ma condividere, e farne oggetto di riflessione tecnica, alcuni dei numerosi profili di criticità sottesi al procedimento bergamasco.
2. Oggetto dell’inchiesta
L’oggetto dell’inchiesta riguardava la mancata istituzione della “zona rossa” nei Comuni di Alzano Lombardo e Nembro e la fulminea diffusione del contagio nei territori bergamaschi e lombardi a fine febbraio 2020, con un’escalation di morti ormai incontrollabile nei giorni a seguire.
Le indagini erano focalizzate sulla prima fase della pandemia, sulla risposta delle Autorità sanitarie nell’affrontare il rischio pandemico per arginare il primo propagarsi dell’epidemia proprio dai territori lombardi. L’inchiesta non aveva per oggetto la ricerca di una responsabilità colposa medica nella gestione e cura dell’epidemia, non riguardava malpractices mediche con riferimento alla diffusione delle nuove patologie legate ad agenti virali precedentemente sconosciuti, ma oggetto d’indagine era il livello di preparedness delle Autorità sanitarie, cioè di prevenzione, preparazione e gestione del rischio pandemico prima e dopo l’alert dell’OMS del 5 gennaio 2020 e fino al lockdown del 9 marzo 2020, una ricostruzione e valutazione, anche in termini di responsabilità penale, delle criticità e negligenze emerse nell’azione dei decisori politici e amministrativi per contrastare la propagazione di focolai epidemici nel territorio bergamasco e nelle zone limitrofe, nella errata valutazione del rischio pandemico e, in sostanza, nell’omesso impedimento del diffondersi della pandemia e degli eventi lesivi che ne erano derivati.
3. Il ruolo della Procura e le critiche sull’iniziativa
Il primo fattore di critica coinvolgeva (tema ancora di stretta attualità) il ruolo stesso e la funzione di una Procura della Repubblica: può il P.M., ci si è chiesto, utilizzare lo strumento dell’inchiesta penale per individuare eventuali responsabilità nella causazione o nel mancato contenimento e, quindi, nell’agevolazione, seppur colposa, di un evento catastrofico diffusosi progressivamente, quale è stato l’epidemia di Covid-19, che ha provocato decine di migliaia di vittime in Italia (e non solo)?
Si disse che non spettava ad una Procura ricercare le cause di una calamità ed accertare se erano individuabili delle responsabilità penali nel suo mancato impedimento e, soprattutto, sindacare sugli effetti delle scelte politiche in materia di salute pubblica, in quanto il PM era legittimato ad intervenire solo con indagini penali in presenza di una qualificata notitia criminis.
È il problema, osserviamo, delle grandi catastrofi (alluvioni, frane imponenti, disastri ambientali e simili), laddove si afferma che non compete al PM ricostruire gli eventi per la ricerca di responsabilità penali, dovendo limitarsi ad istruire un procedimento in relazione a specifiche denunciate ipotesi di reato.
Nel caso bergamasco e nel caso della situazione di pandemia diffusa era impossibile procedere ed inquadrare le indagini nell’ambito della previsione dell’art.589 C.P., in relazione ai singoli decessi, stante le dimensioni del fenomeno e l’intervento collettivo del personale sanitario (dove e se c’è stato) sui contagiati, nonché l’impossibilità di procedere ad esami autoptici. Il fenomeno era collettivo, coinvolgeva gran parte della popolazione e delle Autorità sanitarie a tutti i gradi, per cui l’indagine non poteva che orientarsi sulla ricerca delle cause del mancato contenimento dei focolai epidemici, quindi sul reato di epidemia colposa, e in tale prospettiva giungere necessariamente ad operare un sindacato sulle scelte ed eventuali omissioni delle Autorità in materia di salute pubblica, indagine che, pur di fronte alle pressanti istanze di informazione da parte dell’opinione pubblica bergamasca, nessuna autorità politica o sanitaria o scientifica aveva sistematicamente inteso svolgere.
Ma spettava ad una Procura una simile indagine?
Proprio per la scelta di svolgere tale più ampia indagine la Procura bergamasca, pur in presenza di centinaia di denunce di morte, venne fatta oggetto di aspre critiche e tacciata di fare “populismo giudiziario”, di essersi spinta oltre i propri compiti istituzionali, alla ricerca di un reato, più che allo svolgimento di un’istruttoria penale.
4. I fatti emersi
Le risultanze dell’indagine furono comunque sconcertanti.
In primo luogo furono accertati il mancato aggiornamento del Piano Pandemico anti-influenzale italiano, fermo addirittura al 2006, e la mancata adozione dei provvedimenti preventivi ivi comunque previsti, anche a livello regionale e locale, nonché la mancata adozione dei protocolli di precauzione già utilizzati in occasione di precedenti pericoli epidemici, quali la SARS-COV1 (2002-2003) e la MARS COV (2012), evidenziandosi la totale sottovalutazione del rischio pandemico da parte delle autorità sanitarie a tutti i livelli, centrale, regionale e locale, e la loro totale impreparazione a prevenire ed arginare la diffusione del virus, ad arginare i nascenti focolai locali, pur dopo l’alert lanciato dall’OMS ancora il 5 gennaio 2020.
Venivano inoltre riscontrate di sistema gravi criticità in questa prima fase di diffusione dei focolai pandemici, quali, sommariamente:
- il vuoto, la totale mancanza di organizzazione della medicina territoriale, con medici di famiglia lasciati senza direttive o indirizzi comportamentali, se non terapeutici, in pratica lasciati letteralmente allo sbando e non in grado di effettuare vigilanza epidemiologica attiva (la sbandierata “sorveglianza attiva”), di gestire l’isolamento domiciliare delle persone a rischio e cercare di far da filtro per contenere le spedalizzazioni massicce e incontrollabili (e spesso purtroppo impossibili);
- disposizioni ministeriali contradditorie e inefficienti, che comportarono molta perdita di tempo e di incisività dell’azione di contrasto, quali:
· la contradditoria definizione di “caso” ai fini della sorveglianza e nella strategia e previsione di testing e screening, ai fini di isolare i ‘veicoli’ di contagio;
· l’indicazione di non eseguire i tamponi agli asintomatici (che pur sono stati stimati causa del 40% dei contagi!);
· la mancata mappatura dei fabbisogni DPI, e DM e Posti Letto e la totale mancanza di tamponi, mascherine, tute, occhiali ed altri presìdi;
· la mancata formazione dei sanitari circa le precauzioni da osservare nella vestizione, nel trattamento dei pazienti e la mancata previsione di luoghi di triage separati, la mancata predisposizione di percorsi ‘puliti’ per l’accesso alle strutture sanitarie ed il movimento all’interno delle stesse;
· la promiscua gestione dei pazienti infetti (già denunciata dalla professoressa Capua) che conduceva in Lombardia ad attivare ospedali misti, con la contemporanea presenza di pazienti acuti, di cronici e di infetti, situazione che comportava la diffusione della infezione negli ospedali ed un numero elevato di personale sanitario contagiato (il 12% degli infetti, come riconosciuto dall’assessore regionale), fonte di ulteriori propalazioni esterne;
· la totale insufficienza dei fondamentali apparecchi di ventilazione, inutilmente sollecitati al CTS ancora a febbraio 2020 dall’allora sottosegretario alla salute, on.le SILERI di ritorno da Wuhan dove aveva curato il rimpatrio in Italia di cittadini italiani;
· la mancata ricognizione dei laboratori in grado di processare i tamponi;
· la ritenuta necessità di validazione dei casi da parte del laboratorio di riferimento dell’ISS a Roma, con conseguente farraginosità del sistema, con risposte che arrivavano dopo giorni, a discapito della sorveglianza epidemiologica e della rapidità di diffusione del contagio;
· i ritardi e disservizi sul numero verde centralizzato 1500 e nell’attivazione della piattaforma per caricare i dati finalizzati alla sorveglianza epidemiologica (per capire anche la crescita esponenziale del contagio e la necessità di tempestivi interventi);
· la mancata tempestiva istituzione della “zona rossa” ad Alzano Lombardo e Nembro, dove già il 27 febbraio, secondo le proiezioni matematiche dell’epidemiologo prof. Merler, rappresentate al CTS ed al Governo ancora nella prima decade del febbraio 2020, si versava in una situazione di epidemia conclamata (la R0 era arrivata pari a 2, cioè ‘piena pandemia’), chiusura che se tempestivamente disposta, alla data suddetta, secondo i calcoli epidemiologici del consulente della Procura, prof. Crisanti, avrebbe potuto portare ad un calo di mortalità del 67,5%, “con una probabilità del 95% che il risultato sia corretto. In questo scenario si sarebbero verificati 4148 decessi in meno rispetto all’eccesso di mortalità registrata in quel periodo”.
5. L’inconfigurabilità del reato di pandemia colposa nella forma omissiva
Su tali risultanze, e qui un secondo grave profilo di criticità e problematicità dell’inchiesta, il Tribunale dei Ministri, nel disporre l’archiviazione dei procedimenti, rilevava in modo tranchant la non configurabilità, in sé, del reato di epidemia colposa omissiva impropria, che costituiva, come detto, il fulcro della imputazione contestata dalla Procura di Bergamo agli indagati.
Facendo propri i principi enunciati nelle sentenze della Suprema Corte Sez. IV n.9133 del 12.12.2017 e Sez. IV n.20416 del 4.3.2021 (le uniche due pronunce all’epoca in materia), il Tribunale ritenne, alla radice, la non configurabilità, del reato di epidemia colposa omissiva impropria, in quanto il reato di epidemia avrebbe potuto essere integrato soltanto “da una condotta commissiva a forma vincolata”, da un comportamento attivo consistente appunto nella volontaria ‘diffusione’ di germi patogeni, sicché non poteva configurarsi il delitto di epidemia, di cui agli artt. 438 e 452, 1° comma, CP in una condotta come quella risultante dalle indagini, concretizzatasi in forma omissiva, trattandosi di modalità diversa da quella contemplata dalla norma incriminatrice, con conseguente inapplicabilità dell’art.40, 2°comma, CP, incompatibile con la forma commissiva vincolata del reato di riferimento.
L’assunto, di per sé del tutto ineccepibile, merita qualche riflessione.
Esso esclude il contagio quale mezzo di ‘diffusione’ del virus.
Ci si chiede se sia conforme al più generale principio di precauzione una lettura della norma che escluda la rilevanza penale della mancata adozione di misure previste (anche da normativa internazionale vincolante come la decisione del Parlamento Europeo 1082/2023/UE del 2013 e la successiva decisione della Commissione) per prevenire ed arginare emergenze sanitarie quali una pandemia, proprio per contenere la ‘diffusione’ del virus. Ciò a prescindere dal valore cogente o meno delle raccomandazioni OMS sulla pandemia, che pur l’Autorità sanitaria nazionale avrebbe dovuto osservare.
Ci si domanda anche se la “diffusione”, sul piano semantico come su quello epistemico, implichi necessariamente il ricorso ad una tipicizzata modalità attiva, cioè alla volontaria diffusione del morbo, evidenziandosi, di contro, come praticamente tutti i casi di mancato impedimento di un focolaio di Covid-19 siano riconducibili allo schema del concorso omissivo in un reato commissivo, cioè nel reato commissivo dei soggetti positivi che, se pur involontariamente, propagano il virus in quanto portatori dello stesso.
Ci si chiede altresì se il fatto tipico previsto dall’art.438 CP non possa invece ritenersi modellato secondo lo schema dell’illecito causalmente orientato, secondo il quale ad essere vincolata non sarebbe la condotta, bensì il mezzo -la diffusione- attraverso il quale si verifica l’evento, per cui il reato potrebbe essere considerato “a forma libera”, quindi anche tramite contagio.
Ci si domanda infine se il reato, quand’anche ritenuto a condotta vincolata, non possa comunque essere integrato nella sua declinazione omissiva, come già ammesso dalla Suprema Corte per il reato di truffa, reato quest’ultimo ritenuto a condotta vincolata, ma in relazione al quale la condotta di raggiro viene ritenuta integrata anche dal mero silenzio sul sopravvenuto verificarsi di un evento, come nella c.d. ‘truffa negoziale’.
A conclusione di tali riflessioni circa la non ritenuta configurabilità del reato di epidemia colposa omissiva impropria da parte del Tribunale dei Ministri di Brescia, segnalo l’orientamento di segno opposto rappresentato dalla recente Ordinanza n.42614/2024 del 19.9.2024 con la quale la IV Sezione Penale della Suprema Corte ha deciso la rimessione alle Sezioni Unite di un ricorso proprio sul tema di mancata configurabilità del reato di cui agli artt. 438-452, nel caso di amministratori ospedalieri che avevano omesso di fornire ai dipendenti i presidi previsti ed idonea formazione preventiva contro la diffusione del Covid-19.
L’ordinanza della IV Sezione lascia dunque spazio a quella prospettiva di overruling in cui la Procura di Bergamo aveva creduto, per un’interpretazione più attualistica e aperta ad un più generale principio di precauzione, principio per il quale è richiesto che le autorità competenti (ossia le amministrazioni preposte alla tutela dell’ambiente, della salute etc.) siano tenute ad adottare i provvedimenti più appropriati per prevenire taluni rischi potenziali per la sanità pubblica, per la sicurezza e per l’ambiente.
6. Le scelte politiche non sindacabili in sede giudiziaria
Il Tribunale dei Ministri di Brescia (altro fattore problematico dell’inchiesta che si intende segnalare) ha ritenuto l’omessa istituzione della “Zona Rossa” nella bergamasca una scelta di natura politica, non sindacabile in sede giurisdizionale, in quanto l’istituzione della “Zona Rossa” avrebbe comportato il sacrificio di diritti costituzionali, quali il diritto alla circolazione, il diritto di riunione, il diritto al lavoro, l’esercizio del diritto di culto, nonchè una limitazione al diritto di iniziativa economica, creando ricadute gravissime in termini di occupazione, di crisi sociale e di produzione del PIL nazionale.
Per il Tribunale non era esigibile, per la complessità e rapida evoluzione della situazione e la mancanza di informazioni scientifiche sufficienti, una pronta decisione di chiusura della zona bergamasca da parte della Presidenza del Consiglio, nonostante già il 27 febbraio in provincia di Bergamo si versasse in situazione di ‘pandemia conclamata’, secondo le proiezioni epidemiologiche illustrate al CTS da Merler ancora il 12 febbraio, ed allorchè il CTS stesso, modificando l’opinione espressa nella riunione del 26 febbraio circa la non necessità di ulteriori restrizioni, nella riunione del 2 marzo avesse sollecitato tale chiusura, chiusura non attuata perché il Presidente del Consiglio aveva richiesto ulteriore tempo di riflessione, chiusura che sarebbe stata disposta di necessità solo il successivo 8 marzo, stante la degenerazione della situazione, ritardo che, secondo la stima epidemiologica del consulente della Procura, avrebbe, anche nel breve, determinato l’aumento esponenziale dei contagi con le funeste conseguenze come sopra descritte, anche in termini di aumento dei decessi.
Parimenti il Tribunale escludeva responsabilità ministeriali nelle scelte ed omissioni nella fase di contrasto al diffondersi della pandemia, attribuendo al Presidente del Consiglio ed al Ministro della Salute una mera attività di “indirizzo politico” sulla scorta delle ripartizioni di funzioni di cui al D.Lgs. 30 marzo 2001 n.165/2001, precisando che gli stessi non avrebbero avuto alcun potere di controllo, di avocazione delle funzioni amministrative in capo ai dirigenti/funzionari, cui solo (art.4, 2°comma D-Lgs.165) spettava l’adozione di atti e provvedimenti amministrativi del caso, compresi tutti gli atti che impegnavano l’amministrazione verso l’esterno, nonché la gestione, finanziaria, tecnica e amministrativa mediante autonomi poteri di spesa e di organizzazione, non potendosi comunque ipotizzare un concorso dei ministri nel reato omissivo improprio ascrivibile ai direttori e funzionari, come prospettato dalla Procura, poiché simile ipotesi presupponeva l’esistenza di una fonte legale che prevedeva obblighi in capo ai ministri stessi di impedire l’altrui commissione di reati, fonte nella fattispecie non rinvenibile.
Quindi nessuna responsabilità ministeriale in relazione alle gravi criticità riscontrate nella preparedness delle Autorità sanitarie e nelle iniziative assunte (o non assunte) per arginare la diffusione del morbo.
Ad analoghe conclusioni giungeva il Tribunale anche con riferimento alla posizione delle Autorità politiche della Regione Lombardia, cui non veniva riconosciuta responsabilità nel mancato contenimento della diffusione pandemica nei territori di competenza.
In particolare veniva disconosciuto il potere della Regione Lombardia di disporre il lockdown nella valle bergamasca, la Valseriana, provvedimento che secondo il Tribunale spettava al Presidente del Consiglio dei Ministri, in quanto, come leggesi nella decisione del Tribunale (ed il presupposto dell’affermazione pare erroneo), “le aree rientranti nell’ambito di applicazione della disposizione non erano limitate alla Regione Lombardia”.
Il provvedimento di chiusura, chiosa il Tribunale, non era comunque esigibile, “e neppure auspicabile” che venisse assunto “senza un’adeguata ponderazione dei dati di conoscenza acquisiti, del loro grado di certezza e delle conseguenze derivanti dall’istituzione di una zona rossa”.
Come per i ministri, anche per le autorità politiche della Regione veniva esclusa ogni responsabilità in relazione alle gravi criticità riscontrate nella preparedness, non potendo essere loro imputato il mancato contenimento della diffusione pandemica, stante il principio della distinzione tra i compiti di indirizzo loro spettanti rispetto ai compiti di gestione amministrativa dei dirigenti, ai quali soli competeva “adottare ogni misura di contenimento e gestione adeguata e proporzionata all’evolversi della situazione epidemiologica”.
7. La posizione dei tecnici e dei funzionari ministeriali
Non veniva dal Tribunale ministeriale riconosciuta responsabilità alcuna anche in capo ai vertici del Servizio Nazionale della Protezione Civile, cui era demandata una “mera attività di coordinamento” degli interventi emergenziali, in quanto “tutte le condotte omissive in esame riguardano attività che non erano di pertinenza del Capo del Dipartimento della Protezione Civile” riguardando “misure di prevenzione e programmazione sanitaria finalizzate al contrasto delle emergenze igienico sanitarie che sono di esclusiva competenza del Ministero della Salute”.
Nessuna responsabilità neppure per i componenti del CTS (comitato Tecnico Scientifico) formato anche dai responsabili dell’Istituto Superiore di Sanità, del Consiglio Superiore di Sanità, dell’IRCCS per le malattie infettive Spallanzani, da alcuni capo-dipartimento del Ministero della Salute e da rappresentanti delle Regioni, stante la funzione meramente consultiva dell’organismo, di supporto alle scelte del Ministro e che aveva valutato, nel corso delle riunioni del 26, 27, 28, 29 febbraio e 1°marzo 2020, come non sussistenti le condizioni per l’estensione della c.d “zona rossa” ai comuni della Valseriana, nonostante l’incremento in misura esponenziale dei contagi e quel territorio versasse in situazione di conclamata pandemia.
Il Tribunale escludeva una responsabilità altresì di amministratori e funzionari, sia a livello locale che a livello centrale, nel rimpallo di responsabilità tra Ministero, Regioni ed Enti Locali ed in mancanza di una strutturata “catena di comando”, riconoscendo una frammentazione delle competenze e delle responsabilità, cui peraltro la Procura aveva inteso ovviare contestando l’ipotesi di cooperazione colposa ex art.113 CP, stante l’insufficienza delle singole omissioni e inefficienze a provocare, di per sé e quali condotte indipendenti, l’ingravescenza della diffusione pandemica.
Il Tribunale dava così conto di una segmentazione e parcellizzazione di competenze e di negligenze, di comportamenti colposi fra loro indipendenti, riferibili a soggetti disparati non specificamente individuabili, tali da essere difficilmente inseribili, di per sé soli, nel determinismo causale del diffondersi dell’epidemia:
- così per la costituzione di una riserva di antivirali, DPI, vaccini antibiotici, kit diagnostici, che, “sulla base del piano pandemico del 2006” (quello non aggiornato, né attuato!), sarebbe dovuta avvenire su impulso del Ministero, il quale avrebbe dovuto invitare le Regioni alla costituzione della scorta, raccomandazione dispersa nei meandri della burocrazia ministeriale e regionale, mentre, nel contempo, si affermava anche che per il fabbisogno dei presìdi di protezione, per i ventilatori, per l’utilizzo delle mascherine, per la formazione del personale avrebbero dovuto provvedere le singole strutture sanitarie, cioè le singole aziende, quali ‘datori di lavoro’, tutto ciò nella totale impreparazione ed inefficienza del sistema della medicina territoriale, con le autorità locali allo sbando e senza una ‘catena di comando’ individuata e riconosciuta;
- così per le scelte generalizzate, sempre nella prima fase pandemica, di non isolare al pubblico le RSA, di tenere reparti promiscui, anche per i posti di Pronto Soccorso, di non vietare gli assembramenti di persone (partita Atalanta-Valencia di Coppa UEFA del 19 febbraio), se non l’incitamento dei sindaci ad andare in piazza per l’aperitivo (“Bergamo non ha paura!”)… solo responsabilità parcellizzate, scelte inopportune di autorità locali e amministratori, dovute alla mancanza di informazioni sui rischi sanitari ed in mancanza di evidenze scientifiche e non provatamente poste in nesso causale con il successivo propagarsi del morbo.
8. Il problema del nesso causale
Questo, il problema del nesso di causalità tra l’assoluta mancanza di preparedness delle autorità a tutti i livelli ed il diffondersi della pandemia, costituisce l’ultimo grave elemento di criticità dell’inchiesta che intendo, per la sua importanza, meglio focalizzare.
In pratica, ci si deve chiedere: se fosse stato aggiornato ed attuato il piano pandemico, se fossero state rispettate le raccomandazioni precauzionali previste dalla normativa internazionale sanitaria, se fosse stata istituita la “zona rossa” nei comuni della Valseriana si sarebbe circoscritto il focolaio, il cluster pandemico ed arginata la diffusione del morbo nel territorio?
Si tratta del c.d. giudizio controfattuale, giudizio per il quale supponendo come tempestivamente realizzata l’azione precauzionale richiesta, può concludersi con elevata probabilità logica e credibilità razionale che il numero delle persone contagiate sarebbe stato fortemente ridotto (il calo di mortalità del 67,5% calcolato dal prof. Crisanti).
Afferma il Tribunale che “agli atti manca del tutto la prova che le 57 persone indicate nell’imputazione, che sarebbero decedute per la mancata estensione della zona rossa, rientrino tra le 4148 morti in eccesso che non ci sarebbero state se fosse stata attivata la zona rossa…Il Prof Crisantiha compiuto uno studio teorico ma non è stato in grado di rispondere circa il nesso di causa tra la mancata attivazione della zona rossa e la morte delle persone determinate”.
L’assunto è indiscutibile, ma valgano alcune osservazioni.
La mancanza del nesso, in tale prospettiva, appare limitata al rapporto specifico tra mancata istituzione della “zona rossa” e la morte di persone determinate, ma, a ben vedere, il Tribunale non affronta il problema, a monte, con riferimento all’evento nel reato di cui all’art.438 CP, della sussistenza di un nesso eziologico tra le omissioni sopra evidenziate ed il mancato contenimento del focolaio pandemico in Valseriana, in pratica della sussistenza di un rapporto di causalità tra la mancata adozione dei modelli di preparedness per arginare e controllare un cluster di malattia infettiva e l’evento epidemico, evento che consiste nella verificazione di un elevato numero di casi di infezione, cui deve accompagnarsi il pericolo di un'ulteriore diffusione della malattia, diffusione del morbo manifestatasi in Valseriana ed estesasi alla città.
Se le precauzioni fossero state adottate e seguite, ci chiediamo, il cluster pandemico sarebbe stato isolato e circoscritto e non ci sarebbero state le devastanti conseguenze descritte dal prof. Crisanti?
Domanda che è rimasta senza risposta.
Lo “studio teorico”, come definito dal Tribunale, del prof. Crisanti non può di certo ritenersi una “prova scientifica”, ma, va osservato, non può di certo essere ridotto ad una “congettura”; la sua, del consulente, è una proiezione matematica su basi epidemiologiche, quindi oggettiva salvo che i dati su cui si fondava non fossero veritieri (ma i dati erano quelli forniti dal Ministero della Salute): la progressione si sarebbe interrotta solo se fosse intervenuto un fatto interruttivo esterno, quale il lockdown o il mutamento genetico del virus o la vaccinazione (all’epoca non ancora approntata).
Non può di certo costituire una riprova il fatto che i contagi e le vittime siano stati purtroppo, nella realtà, ben superiori alle proiezioni epidemiologico-matematiche di Merler, presentate al CTS ancora nel febbraio 2020 e riprese dal consulente della Procura, Crisanti.
Però, e non so quanto questo possa valere ai fini del giudizio controfattuale, sta di fatto che nelle località, Codogno e zone limitrofe e Vò Euganeo, dove il lockdown venne disposto ancora il 23 febbraio 2020, i focolai vennero circoscritti e la loro diffusione bloccata.
È di questi giorni la notizia che il Ministero della Salute ha predisposto e varato un nuovo ed aggiornato Piano Pandemico. Spero che la sua attuazione, la preparedness, non sia più considerata un inutile costo ed il rischio pandemico di nuovo snobbato e comunque sottovalutato dai burocrati del Ministero della Salute.
Le bare di Bergamo siano comunque da monito.