La sicurezza dei lavoratori in vista della fase 2 dell’emergenza da Covid-19.
di Salvatore Dovere
Sommario: 1. Dalla sanità pubblica alla salute dei lavoratori, in particolare – 2. Il Protocollo del 14.3.2020. La forza delle cose – 3. Un altro passo, nella medesima direzione – 4. L’intreccio comincia a districarsi? – 5. A proposito di sanzioni – 6. Il convitato di pietra: la responsabilità da reato degli enti morali.
1. Dalla sanità pubblica alla salute dei lavoratori, in particolare.
L’agognato apparire della luce in fondo al tunnel (flebile? nitida? Mentre scrivo non è ancora noto), travisato in una locuzione dall’apparente neutralità (‘fase 2’), si è annunciato anche con una crescente produzione di prescrizioni che vedono quale destinatario il datore di lavoro. Ma anche con un chiaro mutamento di prospettiva.
Riepiloghiamo brevemente. Con il d.l. n. 6 del 23.2.2020 si impose alle autorità competenti di adottare ogni misura di contenimento e gestione adeguata e proporzionata all'evolversi della situazione epidemiologica, fornendo una elencazione esemplificativa delle possibili misure, nella quale un posto di primo piano aveva la sospensione di molte attività; tra queste le attività lavorative per le imprese, a esclusione di quelle che erogano servizi essenziali e di pubblica utilità e di quelle compatibili con la modalità domiciliare.
Sulla scorta di tale previsione il d.p.c.m. dell’8 marzo dispose, per le aree del Paese maggiormente interessate alla diffusione del virus, la sospensione di molte attività e per tutte quelle non sospese (pertanto anche per le imprese poste altrove), raccomandò ai datori di lavoro pubblici e privati di promuovere, durante il periodo di efficacia del decreto, la fruizione da parte dei lavoratori dipendenti dei periodi di congedo ordinario e di ferie e di fare ricorso al lavoro agile, rendendo solo eventuale il previo accordo individuale con i lavoratori e alleviando il connesso obbligo informativo.
Furono quindi utilizzati gli strumenti della raccomandazione e della facilitazione del ricorso a istituti volti a favorire la assenza dei prestatori d’opera dal luogo di lavoro.
Un intervento più penetrante fu fatto l’11 marzo - nel frattempo con il d.p.c.m. del 9 marzo le misure erano state estese a tutto il territorio nazionale -, quando con altro d.p.c.m. furono dettagliamente individuate le attività economiche sospese e per quelle non sospese, oltre a ribadire la sollecitazione al massimo utilizzo del lavoro agile e all’incentivazione delle ferie e dei congedi retribuiti, si raccomandò la sospensione delle attività dei reparti aziendali non indispensabili alla produzione; l’assunzione di protocolli di sicurezza anti-contagio e, laddove non possibile il rispetto della distanza interpersonale di un metro come principale misura di contenimento, l’adozione di strumenti di protezione individuale; l’incentivazione di operazioni di sanificazione dei luoghi di lavoro; la limitazione al massimo degli spostamenti all'interno dei siti e il contingentamento dell’accesso agli spazi comuni nelle attività produttive.
Con encomiabile sollecitudine il 14 marzo le parti sociali definirono il “Protocollo condiviso di regolazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro”, con il quale si sono formulate con nettezza vere e proprie prescrizioni a contenuto cautelare[1], alla cui osservanza i datori di lavoro delle associazioni di categoria sottoscrittrici erano tenuti sul piano civilistico ma che ben presto, in forza della previsione contenuta nel d.p.c.m. del 22.3.2020, ha assunto natura vincolante per tutti i datori di lavoro, essendo stato disposto, in uno alla drastica limitazione del novero delle attività non sospese, che questi hanno l’obbligo di rispettare i contenuti del descritto protocollo (art. 1, co. 3).
2. Il Protocollo del 14.3.2020. La forza delle cose.
In quel primo accordo le misure definite sono comunque esplicitamente segnalate come ‘non esaustive’, giacchè suscettibili di essere integrate da altre equivalenti o più incisive, secondo le peculiarità della specifica organizzazione. Tali misure, alcune delle quali chiaramente facoltative (come il controllo della temperatura corporea del personale all’acceso in azienda), nel complesso sono riconducibili all’informazione ai lavoratori e a chiunque entri in azienda; alla disciplina degli accessi in e delle uscite dall’azienda; alla pulizia e sanificazione degli ambienti di lavoro e delle aree accessorie; alle precauzioni igieniche personali da adottare; all’utilizzo dei dispositivi di protezione individuale; alla gestione degli spazi comuni; alla ri-organizzazione delle attività aziendali; alla mobilità interna e alle attività in presenza; alla gestione di una persona sintomatica in azienda; alla prosecuzione dei servizi di sorveglianza sanitaria e alla costituzione in azienda di un Comitato per l’applicazione e la verifica delle regole del protocollo di regolamentazione, con la partecipazione delle rappresentanze sindacali aziendali e del RLS.
La struttura delle disposizioni è quella delle linee guida; esse svolgono in primo luogo una funzione di descrizione di un ambito ‘sensibile’, meritevole di essere governato (“Per l’accesso di fornitori esterni individuare procedure di ingresso, transito e uscita, mediante modalità, percorsi e tempistiche predefinite, al fine di ridurre le occasioni di contatto con il personale in forza nei reparti/uffici coinvolti”); in secondo luogo hanno una funzione di supporto, offrendo indicazioni operative ritenute pertinenti ed utili al governo del rischio, e tuttavia lasciando ampi spazi alla discrezionalità dei datori di lavoro in merito alle modalità della sua attuazione (“l’accesso agli spazi comuni, comprese le mense aziendali, le aree fumatori e gli spogliatoi è contingentato, con la previsione di una ventilazione continua dei locali, di un tempo ridotto di sosta all’interno di tali spazi e con il mantenimento della distanza di sicurezza di 1 metro tra le persone che li occupano”; infine, alcune di esse presentano la struttura tipica del comando (“l’azienda mette a disposizione idonei mezzi detergenti per le mani”).
Quale sia lo scopo di tali misure è dichiarato sin da principio: “La prosecuzione delle attività produttive può infatti avvenire solo in presenza di condizioni che assicurino alle persone che lavorano adeguati livelli di protezione… È obiettivo prioritario coniugare la prosecuzione delle attività produttive con la garanzia di condizioni di salubrità e sicurezza degli ambienti di lavoro e delle modalità lavorative”. E’ pur vero che nel documento si può leggere che “l’obiettivo del presente protocollo condiviso di regolamentazione è fornire indicazioni operative finalizzate a incrementare, negli ambienti di lavoro non sanitari, l’efficacia delle misure precauzionali di contenimento adottate per contrastare l’epidemia di COVID-19” e che “il COVID-19 rappresenta un rischio biologico generico, per il quale occorre adottare misure uguali per tutta la popolazione”. Ma tanto mi sembra alluda al fatto che le misure da adottare sono quelle previste in generale; tuttavia, si aggiunge, esse vanno calate nella specificità dell’ambiente di lavoro. In altri termini, l’obiettivo delle misure, in ambito lavorativo, non è (solo) quello di evitare che dall’ambiente di lavoro fuoriescano vettori di contagio che accentuino la diffusione del virus; ma è prioritariamente quello di evitare che i lavoratori, dovendo prestare la loro opera, e quindi non potendo ‘godere’ delle misure previste per la restante parte dei consociati, vengano esposti al rischio (che non li investirebbe nella medesima misura se rimanessero nei rispettivi domicili).
Ma ben oltre le enunciazioni teleologiche vanno le specifiche previsioni del Protocollo; ad esempio quella, già menzionata, secondo la quale “nella declinazione delle misure del Protocollo all’interno dei luoghi di lavoro sulla base del complesso dei rischi valutati e, a partire dalla mappatura delle diverse attività dell’azienda, si adotteranno i DPI idonei”. L’evocazione di una valutazione dei rischi è connessa alla ‘declinazione delle misure’, nel senso che deve tener conto dei rischi già censiti. Le misure vanno attuate tenendo presente i rischi presenti nel luogo di lavoro, in modo da non risultare disfunzionali. V’è la consapevolezza della interazione tra le misure ‘precauzionali’ di nuovo conio e quelle ‘cautelari’ che vanno a costituire il sistema di gestione della sicurezza del lavoro. Ben si attaglia alla situazione venutasi a determinare quanto si legge nel recente “Documento tecnico sulla possibile rimodulazione delle misure di contenimento del contagio da SARS-CoV-19 nei luoghi di lavoro e strategia di prevenzione” predisposto dall’Inail: “il sistema di prevenzione nazionale ed aziendale realizzatosi nel tempo, con il consolidamento dell’assetto normativo operato dal D. Lgs 81/08 e s.m.i., offre la naturale infrastruttura per l’adozione di un approccio integrato alla valutazione e gestione del rischio connesso all’attuale emergenza pandemica”.
Le parti sociali hanno mostrato di avere pronta consapevolezza dell’intreccio delle dimensioni pubblica e lavorativa; tanto che anche quando sul versante datoriale si è ritenuto di non aggiornare la valutazione dei rischi ci si è affrettati a ipotizzare la necessità di addenda, di integrazioni, di appendici al relativo documento. Nei fatti, gli imprenditori hanno applicato il patrimonio di conoscenze sedimentato nel quarto di secolo che ormai ci separa dal d.lgs. n. 626/1994.
3. Un altro passo, nella medesima direzione.
Nei giorni successivi il quadro si è arricchito di nuovi tasselli.
Dapprima le parti sociali hanno sottoscritto un ulteriore Protocollo; quindi è intervenuto il D.P.C.M. del 26 aprile 2014, il cui art. 2, al comma 6, stabilisce: “Le imprese le cui attività non sono sospese rispettano i contenuti del protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus covid-19 negli ambienti di lavoro sottoscritto il 24 aprile 2020 fra il Governo e le parti sociali di cui all'allegato 6, nonché, per i rispettivi ambiti di competenza, il protocollo condiviso dì regolamentazione per il contenimento della diffusione del covid-19 nei cantieri, sottoscritto il 24 aprile 2020 fra il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, il Ministero del lavoro e delle politiche sociali e le parti sociali, di cui all'allegato 7, e il protocollo condiviso di regolamentazione per il contenimento della diffusione del covid-19 nel settore del trasporto e della logistica sottoscritto il 20 marzo 2020, di cui all'allegato 8. La mancata attuazione dei protocolli che non assicuri adeguati livelli di protezione determina la sospensione dell'attività fino al ripristino delle condizioni di sicurezza”[2].
Tenuto conto del fatto che anche questo d.p.c.m. costituisce attuazione di un potere regolamentativo attribuito al Presidente del Consiglio dal decreto legge[3], non sembra dubitabile che la disposizione sopra riportata imponga un obbligo di osservanza ai suoi destinatari: le misure previste dai protocolli sono doverose.
Sul piano dei contenuti il nuovo Protocollo in primo luogo ribadisce quanto già era stato affermato con il precedente; non sostituisce quello adottato nel marzo scorso ma esprime la vocazione ad integrarne le previsioni.
Esso non fa che riproporre le misure già individuate, articolandone alcune con maggior dettaglio. Non è quindi mutata la filosofia dell’accordo, inteso a fornire linee guida condivise tra le parti per agevolare le imprese nell’adozione di protocolli di sicurezza anti-contagio.
Gli obblighi informativi vengono ulteriormente denotati, essendo previsto che l’informazione impartita deve essere “adeguata sulla base delle mansioni e dei contesti lavorativi, con particolare riferimento al complesso delle misure adottate cui il personale deve attenersi in particolare sul corretto utilizzo dei DPI per contribuire a prevenire ogni possibile forma di diffusione di contagio”. Si tratta di una previsione che riecheggia quanto previsto dall’art. 36 TUSL, che per l’appunto impone una informazione ‘adeguata’, che oltre ad afferire al generale contesto entro il quale si colloca il lavoratore, lo renda edotto dei rischi specifici ai quali egli è esposto a causa delle mansioni espletate; e sempre tenendo presente – e quindi modulandosi secondo – le capacità di comprensione del lavoratore, considerando in specie eventuali difficoltà linguistiche.
Anche l’accesso in azienda dei lavoratori risulta oggetto di ulteriormente attenzione, prevedendosi nuovi compiti del datore di lavoro, tenuto a fornire la massima collaborazione all’autorità sanitaria competente che abbia disposto misure aggiuntive specifiche, per prevenire l’attivazione di focolai epidemici, nelle aree maggiormente colpite dal virus.
Dall’ulteriore previsione, secondo la quale l’ingresso in azienda di lavoratori già risultati positivi all’infezione da COVID 19 deve essere preceduto da una preventiva comunicazione avente ad oggetto la certificazione medica da cui risulti la “avvenuta negativizzazione” del tampone secondo le modalità previste e rilasciata dal dipartimento di prevenzione territoriale di competenza, è ragionevole ricavare che il datore di lavoro sia tenuto a vietare l’accesso di quei lavoratori se non abbiano presentato la pertinente certificazione medica.
Per ciò che concerne la presenza in azienda di terzi, il nuovo accordo articola con maggior dettaglio la relazione con le aziende terze che operano nello stesso sito produttivo (quali, ad esempio, i manutentori, fornitori, addetti alle pulizie o vigilanza). In primo luogo, viene previsto che ove lavoratori da esse dipendenti risultassero positivi al tampone COVID-19, l’appaltatore dovrà informare immediatamente il committente ed entrambi dovranno collaborare con l’autorità sanitaria fornendo elementi utili all’individuazione di eventuali contatti stretti.
In secondo luogo, si stabilisce che l’azienda committente è tenuta a dare, all’impresa appaltatrice, completa informativa dei contenuti del Protocollo aziendale e deve vigilare affinché i lavoratori della stessa o delle aziende terze che operano a qualunque titolo nel perimetro aziendale, ne rispettino integralmente le disposizioni.
Anche questa previsione riecheggia disposizioni del TULS; segnatamente l’art. 26 TULS, che pone obblighi di informazione in capo ai datori di lavoro committenti in caso di affidamento di lavori, servizi e forniture all'impresa appaltatrice o a lavoratori autonomi all'interno dell’azienda, o di una singola unità produttiva della stessa, nonchè nell'ambito dell'intero ciclo produttivo dell'azienda medesima, sempre che abbiano la disponibilità giuridica dei luoghi in cui si svolge l'appalto o la prestazione di lavoro autonomo. Per tale contesto è espressamente previsto che il datore di lavoro committente fornisca all’impresa appaltatrice o al lavoratore autonomo “dettagliate informazioni sui rischi specifici esistenti nell'ambiente in cui sono destinati ad operare e sulle misure di prevenzione e di emergenza adottate in relazione alla propria attività”.
La salubrità degli ambienti è perseguita con un aggiuntivo obbligo posto a carico dei titolari o gestori di imprese site nelle aree geografiche a maggiore endemia o nelle quali si sono registrati casi sospetti di COVID-19; per essi è previsto che, alla riapertura, sia eseguita una sanificazione straordinaria degli ambienti, delle postazioni di lavoro e delle aree comuni, ai sensi della circolare 5443 del 22 febbraio 2020.
L’obiettivo della massima igiene personale ha suggerito di aggiungere, al previsto l’obbligo per l’azienda di mettere a disposizione dei detergenti per le mani, quello di collocare tali detergenti in modo che siano accessibili a tutti i lavoratori anche grazie a specifici dispenser collocati in punti facilmente individuabili.
L’adozione dei DPI viene meglio specificata, prevedendo che essa sia modulata “sulla base del complesso dei rischi valutati e, a partire dalla mappatura delle diverse attività dell’azienda”; con il che sembra escluso che possa essere sufficiente la fornitura a tutti i lavoratori di uno stesso tipo di DPI, dovendo all’inverso essere individuato quello più adeguato al livello di rischio al quale è esposto il singolo lavoratore. Una valutazione sul piano generale è però fatta dall’accordo stesso, il quale prevede che per tutti i lavoratori che condividono spazi comuni deve essere previsto l’utilizzo di una mascherina chirurgica.
Nell’ambito degli interventi che attengono all’organizzazione aziendale, viene previsto in modo innovativo che ai fini del rispetto della regola del distanziamento sociale devono essere rimodulati gli spazi di lavoro, sia pure compatibilmente con la natura dei processi produttivi e degli spazi aziendali. Anche l’articolazione del lavoro entra nel fuoco delle misure adottabili, essendo previsto che essa “potrà essere ridefinita con orari differenziati che favoriscano il distanziamento sociale riducendo il numero di presenze in contemporanea nel luogo di lavoro e prevenendo assembramenti all’entrata e all’uscita con flessibilità di orari”.
Ancorché il Protocollo lasci libertà di decisione al datore di lavoro circa la adozione o meno di orari differenziati (o la rimodulazione degli spazi), non sembra dubitabile che esso positivizzi quelle che – per le parti, ma anche per l’Esecutivo – sono le regole cautelari imposte dal tipo e livello di rischio e risultano allo stato concretamente attuabili. Pertanto, mentre la discrezionalità esclude che una eventuale omissione possa di per sé essere ragione di sanzione, non si potrà escludere che siffatte linee guida vengano intese come fonti di regole cautelari la cui violazione può sostanziare un addebito per colpa in caso di evento infausto. Ovviamente, è ben possibile vincere questa sorta di presunzione, dimostrando che la previsione non ha efficacia cautelare, diversamente dalla misura in concreto adottata.
Meno salda è l’estensione di una simile conclusione anche alla ulteriore previsione del nuovo Protocollo, secondo la quale, al fine di evitare aggregazioni sociali anche in relazione agli spostamenti per raggiungere il posto di lavoro e rientrare a casa, “andrebbero incentivate forme di trasporto verso il luogo di lavoro con adeguato distanziamento fra i viaggiatori e favorendo l’uso del mezzo privato o di navette”. Davvero troppo rarefatto il contenuto precettivo e modale dell’enunciato per poterne derivare un obbligo datoriale dal definito profilo.
In relazione alla gestione in azienda di un lavoratore sintomatico, si dispone che questi al momento dell’isolamento deve essere subito dotato, ove già non lo fosse, di mascherina chirurgica.
Accresciuta attenzione si manifesta anche a riguardo del coinvolgimento del medico competente, per il quale si prevede l’obbligo di applicare le indicazioni delle Autorità Sanitarie. Si rimarca, prospettando una ‘possibilità’ che in realtà non oscura il dovere, che il medico competente “potrà suggerire l’adozione di eventuali mezzi diagnostici qualora ritenuti utili al fine del contenimento della diffusione del virus e della salute dei lavoratori”. Si prevede che alla ripresa delle attività il medico competente sia coinvolto (“è opportuno…”) per le identificazioni dei soggetti con particolari situazioni di fragilità e per il reinserimento lavorativo di soggetti con pregressa infezione da COVID 19 e che la sorveglianza sanitaria ponga particolare attenzione ai soggetti fragili anche in relazione all’età.
Senza dubbio prescrittiva è la previsione secondo la quale per il reintegro progressivo di lavoratori dopo l’infezione da COVID19, il medico competente, previa presentazione di certificazione di avvenuta negativizzazione del tampone secondo le modalità previste e rilasciata dal dipartimento di prevenzione territoriale di competenza, effettua la visita medica precedente alla ripresa del lavoro, a seguito di assenza per motivi di salute di durata superiore ai sessanta giorni continuativi, al fine di verificare l’idoneità alla mansione”, anche per valutare profili specifici di rischiosità e comunque indipendentemente dalla durata dell’assenza per malattia.
4. L’intreccio comincia a districarsi?
Molto si è discusso sulla natura di simili previsioni, in specie considerando la ‘appropriazione’ fattane dall’Esecutivo. Ancor più controversa è la relazione che simili misure intrattengono con il complesso sistema di tutela della sicurezza del lavoro incentrato sul d.lgs. n. 81/2008.
Fatti salvi gli operatori del comparto sanitario, per i quali nessuno ha dubitato che la particolare contingenza abbia elevato il rischio professionale, così da imporre la piena attuazione delle procedure e delle misure previste dal d.lgs. n. 81/2008, per tutti gli altri lavoratori addetti ad attività non sospese, il dispiegamento di una regolamentazione fortemente connotata dalle sottostanti ragioni di salute pubblica e dalla chiamata in campo di istituzioni per solito prive di competenza in materia di sicurezza del lavoro ha ragionevolmente indotto a sostenere che l’apparato prevenzionistico venuto a configurarsi risulti ‘altro’ rispetto a quello incentrato dal d.lgs. 81/2008 sulla valutazione dei rischi, con l’effetto di escludere l’obbligo datoriale di aggiornarla, di precludere la vigilanza da parte degli organi ordinariamente deputati al settore, di rendere inapplicabile il consueto corredo sanzionatorio[4]. In verità almeno l’estromissione degli organi ispettivi e l’interdizione delle sanzioni recate dal TULS sembrerebbero previsti letteralmente dal d.l. n. 19/20; ma l’una e l’altra risultano connessi alle sole misure previste dal legislatore dell’emergenza. Sicchè è proprio implicazione della ipotesi negatoria, per la quale non ci sono spazi per l’aggiornamento della valutazione dei rischi, a condurre ad un risultato che somiglia alla definizione di una enclave temporale nella tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori.
In altra occasione ho esaminato quella tesi ed esposto le mie obiezioni[5]. L’ulteriore dispiegamento di misure di prevenzione, con la sempre maggiore inerenza delle stesse al rischio che investe il lavoratore in quanto tale, mi sembra confermi la fondatezza di quella posizione critica[6]. Vero è che il rischio di contagio è prima di tutto un rischio ubiquitario, che investe l’intera popolazione; e che quindi, in linea di massima, le misure che fronteggiano tale rischio svolgono la loro funzione anche per i lavoratori. Allo stesso tempo, il rischio che incombe negli ambienti di lavoro minaccia, ove non fronteggiato, di produrre i suoi effetti ben oltre il perimetro aziendale, potendo divenire il lavoratore un vettore dell’agente biologico verso l’esterno e quindi la collettività. Sicchè, ben si comprende che le misure adottate per governare il rischio al quale sono esposti i lavoratori nello svolgimento della loro attività finiscono per assumere valenza anche per la salute pubblica. Ma questa pluralità di funzioni non è del tutto nuova. In fin dei conti, anche le norme che il TULS dedica alle misure per il rischio da agenti biologici (la cui presenza è connessa al processo produttivo) rappresentano uno scudo a protezione del lavoratore ad essi esposto ma indirettamente anche uno strumento di prevenzione della diffusione dell’agente biologico all’esterno dell’azienda.
Ma a sgombrare il campo da ogni residuo dubbio mi sembra venga ora una delle previsioni del Protocollo cantieri. Si dispone che “Il coordinatore per la sicurezza nell'esecuzione dei lavori, ove nominato ai sensi del Decreto legislativo 9 aprile 2008 , n. 81, provvede ad integrare il Piano di sicurezza e di coordinamento e la relativa stima dei costi”. Si prevede quindi esplicitamente una integrazione del PSC, che rappresenta il principale documento di valutazione dei rischi per lo specifico contesto dei cantieri temporanei e mobili[7].
5. A proposito di sanzioni.
Anche su questa Rivista si è riflettuto sulla legittimità di una responsabilità penale che mette radici nei provvedimenti germinati dall’emergenza pandemica[8]. E’ possibile che l’eco costituzionale della disciplina dispiegatasi con i d.p.c.m. risuoni nelle aule giudiziarie alle prime occasioni. Intanto a tutti gli operatori si propone anche la questione che attiene alla ricostruzione dei rapporti tra illecito penale e illecito amministrativo. L’art. 4, comma 1, del d.l. n. 19/2020, dispone: “salvo che il fatto costituisca reato, il mancato rispetto delle misure di contenimento di cui all'articolo 1, comma 2, individuate e applicate con i provvedimenti adottati ai sensi dell'articolo 2, comma 1, ovvero dell'articolo 3, è punito con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 400 a euro 3.000 e non si applicano le sanzioni contravvenzionali previste dall'articolo 650 del codice penale o da ogni altra disposizione di legge attributiva di poteri per ragioni di sanità, di cui all'articolo 3, comma 3”.
Non sembra dubbio che il convincimento sotteso alla disposizione sia quello di aver definito misure di contenimento anti-contagio valevoli “su specifiche parti del territorio nazionale ovvero, occorrendo, sulla totalità di esso”, come si esprime l’incipit del primo comma dell’art. 1 del d.l. n. 19/2020. Pertanto, la volontà è stata quella di stabilire sanzioni per violazioni di misure volte alla tutela della salute pubblica. Lo denuncia a chiare lettere anche l’esplicita esclusione della applicabilità dell’art. 650 cod. pen. e delle disposizioni di legge attributive di poteri per ragioni di sanità.
Senonché, come dimostra il dibattito che si è acceso intorno al rapporto tra regolamentazione emergenziale e disciplina della sicurezza del lavoro, ci troviamo di fronte a piani che si intersecano (persino aggrovigliano) e che richiedono quindi un attento tracciamento di confini[9].
La clausola di sussidiarietà che apre il primo comma dell’art. 4, in combinazione con l’esplicita abiura dell’art. 650 cod. pen., è emblematica; la sua funzione è quella di sedare in via preventiva il conflitto tra norme. In realtà finisce per aprire alla competizione tra universi.
Per chi ritiene che le misure delle quali si scrive abbiano delineato un “sistema speciale di gestione dell’emergenza” che si impone all’ordinario sistema di gestione del rischio da lavoro, è giocoforza concludere che le relative violazioni “non paiono soggette all’apparato sanzionatorio di cui al d.lgs. n. 81/2008”. La clausola di sussidiarietà importerebbe che “la prevalenza delle sanzioni penali del d.lgs. n. 81/2008 potrebbe forse postularsi solo ove le misure previste dai Protocolli coincidessero con i precetti penalmente sanzionati del d.lgs. n. 81/2008”[10].
In modo speculare, se si ritiene che quelle misure siano destinate ad inserirsi nel sistema delineato dal d.lgs. n. 81/2008, a cominciare dalla loro considerazione nel contesto della valutazione dei rischi di cui agli artt. 15, 17, 28 e 29 TULS, allora è agevole concludere che sarebbe “irragionevole, proprio considerando la natura di reati’ di molti degli obblighi di prevenzione, sostenere che l’apparato regolativo “Covid-19” comporti, con riguardo alle misure di prevenzione emergenziali sui luoghi di lavoro, la non applicazione della specifica normativa prevenzionistica, escludendo dunque sia la competenza degli organi di vigilanza speciali (ASL, INL, ecc.), sia la possibile applicazione del sistema sanzionatorio di cui al TUS (per non parlare ovviamente del codice penale)”. In questa prospettiva, il sistema di controlli e di sanzioni prefigurato dall’art. 4 atterrebbe “alle misure, diciamo così, più squisitamente di ordine pubblico (sospensione attività, divieti circolazione, etc.)”[11].
A mio avviso la ricostruzione interpretativa deve procedere in senso inverso. Invero, la clausola di sussidiarietà che apre il comma 1 dell’art. 4 d.l. n. 19/2020 (“salvo che il fatto costituisca reato”) risolve l’ipotetico concorso apparente di norme a favore del precetto penale. Nel far ciò non seleziona tipologicamente le norme incriminatrici destinate a prevalere. Al pari di altre clausole del medesimo genere, essa evoca la comparazione di specifiche fattispecie. Comparazione che denuncerà il concorso (apparente) a condizione che le fattispecie siano strutturalmente coincidenti. Orbene, per quanto ampio sia il catalogo delle contravvenzioni previste dal TULS, principale sospettato di competizione, specie tenuto conto delle previsioni dei protocolli già stipulati, appare improbabile che le misure ritagliate sulle peculiarietà del rischio da Covid-19 possano specchiarsi nelle disposizioni del d.lgs. n. 81/2008. Il quesito, quindi, non pare dover trovare soluzione a partire dall’opzione sui fondamentali; sia che le misure previste dai d.p.c.m. e dai Protocolli vengano considerate come trama di un sistema congiunturale sia che esse intrattengano relazioni (di integrazione, di inclusione, di specificazione et similia) con il sistema incentrato sul TULS, quel che rileva, almeno per l’applicazione della sanzione, è che il fatto integrato dalla violazione delle misure sia anche violazione di una (almeno per ora) preesistente norma incriminatrice[12].
6. Il convitato di pietra: la responsabilità da reato degli enti morali.
E’ noto che ormai dal 2007 la tutela della sicurezza dei lavoratori si avvale anche del sistema disciplinare delineato dal d.lgs. n. 231/2001. Non sfugge, quindi, che la discussione sulla riconoscibilità di un sistema emergenziale a carattere speciale valevole anche per i luoghi di lavoro o, specularmente, sulla necessità di integrare le misure nell’ordinario impianto del sistema di gestione della sicurezza del lavoro, mette in gioco anche gli obblighi discendenti dal decreto 231. In altri termini: l’attuazione delle misure previste dai d.p.c.m. e dai Protocolli ha riflessi sugli adempimenti in tema di modello organizzativo di gestione previsto dal d.lgs. n. 231/2001?
Alcuni hanno espresso decisa opinione positiva: “la predisposizione del ‘protocollo anticontagio” – si è scritto – “va ad integrare il modello adottato” e impone la “rivalutazione complessiva dei processi e … (la) implementazione dei modelli di organizzazione e gestione”[13].
Sono dell’avviso che la ricognizione del dato normativo fornisce solide basi a una simile tesi.
Si può prendere le mosse dall’art. 6 del decreto 231, il quale prevede tra i compiti dell’organismo di vigilanza anche quello di curare l’aggiornamento del modello organizzativo. La disposizione non specifica quali siano i presupposti che impongono l’aggiornamento del modello; che pertanto resterebbe connesso alla sola generica necessità di mantenerlo efficace. Tuttavia, già l’art. 7, co. 4 del medesimo decreto dispone che “L'efficace attuazione del modello richiede: a) una verifica periodica e l'eventuale modifica dello stesso quando sono scoperte significative violazioni delle prescrizioni ovvero quando intervengono mutamenti nell'organizzazione o nell'attività…”.
Risultano quindi enunciate le situazioni fattuali che impongono la rivisitazione del modello. Il limite di tali previsioni è nel fatto che l’aggiornamento del modello per effetto di mutamenti dell’organizzazione o dell’attività è disposto solo dall’art. 7, ovvero dalla disposizione che definisce i presupposti della responsabilità dell’ente in caso di reato commesso da soggetto sottoposto a poteri altrui. Il dato assume rilevanza, alla luce della diffusa opinione circa la alterità dei due modelli.
Ma decisivo ai nostri fini è il comma 4 dell’art. 30 TULS, che non solo impone di adottare un modello che preveda un idoneo sistema di controllo sulla sua attuazione e sul mantenimento nel tempo delle condizioni di idoneità delle misure adottate; ma ribadisce esplicitamente – e questa volta non più con riferimento al solo caso del reato commesso dal soggetto sottoposto -, che il riesame e l'eventuale modifica del modello organizzativo devono essere adottati quando siano scoperte violazioni significative delle norme relative alla prevenzione degli infortuni e all'igiene sul lavoro, ovvero in occasione di mutamenti nell'organizzazione e nell'attività in relazione al progresso scientifico e tecnologico.
Se ne può ragionevolmente dedurre che l’adozione delle misure anti-contagio in azienda impone l’aggiornamento del modello almeno se e in quanto quella determini dei mutamenti organizzativi. Se si conviene su tale affermazione, potrebbe risultare persino privo di rilievo che le misure in questione attengano esclusivamente alla dimensione della salute pubblica piuttosto che anche all’area della salute dei lavoratori.
[1] Non deve ingannare il riferimento, nel testo del Protocollo, alla natura precauzionale delle misure e alla ‘logica della precauzione’ alla quale esse sarebbero improntate. A chi opera nel campo del diritto penale il termine ‘precauzione’ evoca immediatamente forti contrapposizioni culturali, alternativi modelli disciplinari, pericoli di deviazione dallo standard costituzionale della responsabilità per fatto proprio colpevole. Ma escluderei che le parti sociali abbiano inteso alludere a materia tanto complessa. D’altronde, anche nel d.lgs. n. 81/2008 si menzionano frequentemente le ‘precauzioni’, intendendo le cautele.
[2] Il Protocollo per i cantieri costituisce specificazione di settore rispetto alle previsioni generali contenute nel Protocollo del 14 marzo 2020, come integrato il successivo 24 aprile 2020; le linee guida oggetto dell’accordo stipulato il 20 marzo prevedono adempimenti per ogni specifico settore nell’ambito trasportistico, ivi compresa la filiera degli appalti funzionali al servizio ed alle attività accessorie e di supporto correlate.
[3] Si veda, per i primi d.p.c.m., l’art. 3 del d.l. n. 6 del 23.2.2020, convertito con modificazioni dalla legge 5.3.2020 n. 13; il d.l. n. 19 del 25.3.2020 ha abrogato tutte le disposizioni del d.l. n. 6/2020, eccezion fatta per l’art. 1, co. 6-bis e l’art. 4. Ma con esso si è riproposto – all’art. 2 – il già utilizzato schema, ovvero il conferimento a successivi decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri della funzione di adottare le misure descritte dall’art. 1 del d.l.
[4] P. Pascucci, Ancora su coronavirus e sicurezza sul lavoro: novità e conferme nello ius superveniens del d.P.C.M. 22 marzo 2020 e soprattutto del d.l. n. 19/2020, in DSL, 2020, fasc. 1, 117 ss. e in part. 128 ss.
[5] S. Dovere, Covid-19: sicurezza del lavoro e valutazione dei rischi, in questa rivista, 22.4.2020.https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-dell-emergenza-covid-19/1016-covid-19-sicurezza-del-lavoro-e-valutazione-dei-rischi
[6] Propendono, con varietà di argomenti, per la applicazione delle previsioni del TUSL, a cominciare da quelle in tema di valutazione dei rischi, A. Ingrao, C’è il COVID ma non adeguati dispositivi di prevenzione: sciopero o mi astengo?, in giustiziacivile.com, 18.3.2020, 4; [6] F. Bacchini, Controlli sanitari sui lavoratori al tempo del COVID-19, in giustiziacivile.com, 18.3.2020, 4; G. De Falco, Salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, in questa rivista, 22.4.2020; R. Guariniello, La sicurezza del lavoro al tempo del coronavirus, (e-book), WKI, 2020, 5. https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-dell-emergenza-covid-19/1025-salute-e-sicurezza-nei-luoghi-di-lavoro-covid
[7] Per incidens, nel documento il controllo della temperatura corporea del lavoratore in ingresso al cantiere sembra divenuto obbligatorio.
[8] Sui dubbi di tenuta costituzionale della legislazione emergenziale, in particolare di quella inerente il diritto penale, T. Epidendio, Il diritto nello “stato di eccezione” ai tempi dell’epidemia da coronavirus, in questa rivista, 30.3.2020 e 19.4.2020.
[9] G. Natullo, Covid-19 e sicurezza sul lavoro: nuovi rischi, vecchie regole?, in WP CSDLE “Massimo D’Antona”.IT – 413/2020, scrive : “l’assoluta novità della vicenda è determinata proprio dalla “promiscuità” del nuovo rischio, dall’incrocio quasi inestricabile, in questo caso, tra effetti, e relativi rimedi, del rischio “Covid-19” sulla generalità della popolazione ed effetti, e rimedi, nei luoghi di lavoro”.
[10] E’ il ragionamento sviluppato da P. Pascucci in S. Dovere- P. Pascucci, Covid-19 e sicurezza dei lavoratori, in D.l.r.i., 2020, in corso di pubblicazione.
[11] G. Natullo, op. cit., 16.
[12] Con questa precisazione rettifico in parte quanto ho affermato, più recisamente, in S. Dovere, op. cit.
[13] C. Corsaro – M. Zambrini, Compliance aziendale, tutela dei lavoratori e gestione del rischio pandemico, in Giurisprudenza Penale Web, 2020, 3.