Contratto e Covid-19. Dall'emergenza sanitaria all'emergenza economica.
Vincenzo Roppo e Roberto Natoli
Giustizia Insieme ha il piacere di raccogliere le riflessioni di due autorevoli studiosi del diritto civile che indagano a tutto tondo il rapporto contrattuale per coglierne sapientemente la forza di resistenza, ma anche il lato più debole e vulnerabile rispetto agli effetti prodotti dall’emergenza epidemiologica.
L’analisi di Roppo e Natoli si alimenta in questo modo di contributi importanti che per un verso indugiano sulle risposte di ordine normativo della legislazione dell’emergenza per verificarne la congruità e coerenza con l’originario impianto -prevalentemente codicistico- del contratto e, per altro verso, si soffermano sul come la fissità del regolamento negoziale voluto dalle parti in una condizione di normalità possa essere messa in discussione per le sopravvenienze pandemiche per l’appunto non soltanto correlate a fattori sanitari, ma anche e soprattutto rivolte a scrutinare il mutamento di contesto economico e sociale nel quale il rapporto contrattuale è destinato a vivere.
La ricerca di risposte ulteriori rispetto a quelle che le parti avevano predeterminato, all’atto della conclusione del contratto, con un orizzonte non comprensivo dell’emergenza, volge così lo sguardo attento dei due giuristi verso altri territori che mettono in gioco le categorie giuridiche tradizionali, attingendo ai principi costituzionali, croce e delizia dei civilisti.
In questa prospettiva, il rinvio ai canoni della solidarietà e della buona fede sembra così confermare una prospettiva che amplia il contenuto del rapporto e che, pur guardando comunque alla libertà negoziale come elemento cardine della negoziazione, affida al legislatore ed al decisore di turno ruoli e compiti di straordinaria rilevanza, mettendo non soltanto in discussione la fisionomia stessa dell’intesa e di chi è chiamato a ridefinirla, ma anche delineando una configurazione del contratto che entra in dialogo con il tradizionale dogma della «sanctity of contract».
Il tempo futuro sarà probabilmente quello in cui si misureranno le spinte che Roppo e Natoli hanno sapientemente ipotizzato, senza peraltro dimenticare che l’impianto codicistico venuto alla luce nel ’42 ha resistito, indenne, alla seconda guerra mondiale proprio attraverso l’opera adeguatrice del diritto vivente, capace di introiettare progressivamente i canoni costituzionali all’interno del contratto, offrendone una visione idonea a salvaguardare comunque i diritti della persone, oggi più che mai considerati per l’effetto concentrico prodotto dalle Carte nazionali e sovranazionali.
Il compito del giurista e del giudice si arricchirà dunque, come sempre più spesso siamo soliti constatare, di ulteriori complessità.
Forse alla teorizzazione , assai intrigante, seguirà ancora una volta un segmento non secondario che andrà lasciato ai singoli casi ed alle dinamiche che, volta per volta, consentiranno di misurare i principi, gli istituti e le categorie vecchie e nuove.
Roberto Conti
1) Qual è, a vostro avviso, l’impatto di Covid-19 sul diritto dei contratti? Si apre una stagione dell’emergenza contrattuale?
Vincenzo Roppo
Il contratto su cui l’emergenza Covid-19 impatta con il massimo di forza e di estensione è ovviamente il contratto di lavoro. L’impossibilità di rendere materialmente e materialmente ricevere nei modi tradizionali la prestazione lavorativa altera nel profondo il fisiologico svolgimento del rapporto contrattuale, inducendo laddove possibile una significativa trasformazione delle sue modalità (smart working). Per altro verso, la situazione di difficoltà economica e finanziaria in cui molte imprese si trovano (e/o si troveranno al momento della “ripresa”) minaccia di pregiudicare la continuità aziendale e con essa la conservazione del rapporto (licenziamenti), chiamando massicciamente in causa gli ammortizzatori sociali che lo presidiano. Tutto questo non in modo puntiforme, ma a scala di massa. I giuslavoristi avranno di che farsi fumare il cervello a ripensare la loro materia, ben più dei civilisti.
Quanto ai contratti di “puro” diritto civile o commerciale, direi che Covid-19 segna il trionfo dei regimi delle sopravvenienze (impossibilità ed eccessiva onerosità sopravvenuta) e dell’inadempimento.
Penso soprattutto all’inadempimento di obbligazioni pecuniarie: banalmente, le imprese che contano su flussi di cassa generati dall’attività quotidiana, nel momento in cui subiscono il blocco dell’attività e quindi il blocco dei flussi finanziari in entrata, si trovano in un difetto di liquidità che gli rende impossibile pagare i fornitori di beni e servizi. Noi insegniamo che l’impotenza finanziaria non giustifica l’inadempimento delle obbligazioni pecuniarie, assistite da un regime di responsabilità oggettiva che prescinde per definizione dalla colpa del debitore. Ma saremmo disposti ad applicare senza battere ciglio questo principio ai mancati pagamenti che ho appena richiamato? O invece la straordinarietà della “fattispecie Covid-19” ci indurrebbe a cercare vie concettuali per sfuggire al suo rigore?
Per ciò che riguarda le prestazioni contrattuali non pecuniarie, Covid-19 è la tipica “sopravvenienza” che da un lato giustifica l’inadempimento sollevando da responsabilità il debitore inadempiente, dall’altro può mettere in discussione il rapporto contrattuale: nella sua persistenza (prospettiva risolutoria) ma anche e soprattutto nei suoi contenuti (modifiche della prestazione dovuta).
Il produttore che non esegue le forniture promesse in quanto la capacità produttiva della sua impresa è azzerata per l’ordine dell’autorità che chiude le aziende, è evidentemente esonerato da responsabilità per l’impossibilità di prestare – a lui non imputabile – determinata dal factum principis. E per sapere se il contratto si scioglie o vive, si applicherà la norma sull’impossibilità temporanea (art.1256, comma 2 c.c.).
Covid-19 moltiplica altresì le fattispecie di impossibilità sopravvenuta ex latere creditoris, quando cioè la sopravvenienza mette il creditore nell’impossibilità di fruizione della prestazione: fattispecie non prevista normativamente, ma trattata in giurisprudenza secondo criteri che l’accostano alla disciplina della sopravvenuta impossibilità di prestare. Del tema si è occupato specificamente il legislatore dell’emergenza, con norme che ricorderemo più avanti.
E chissà che per certe situazioni non possa venire in gioco la vecchia buona figura della presupposizione. Penso ai contratti di locazione immobiliare. Per le locazioni abitative la pandemia valorizza la prestazione attesa dal conduttore (state tutti a casa!). Esattamente il contrario per le locazioni aziendali: se l’attività d’impresa è bloccata, il conduttore non se ne fa nulla di avere a disposizione l’immobile; e se ciononostante paga il canone, questa per lui è una perdita secca, senza corrispettivo di utilità.
Ebbene, per queste ultime non potrebbe soccorrere la presupposizione? Forse che il contratto non è stato stipulato “sul presupposto” di un impiego dell’immobile per l’effettivo svolgimento di attività produttiva? Forse che la fattispecie non è abbastanza simile ai coronation cases (locazione di finestre per assistere al corteo reale, poi cancellato per indisposizione del sovrano) che si considerano un po’ i progenitori – in ambiente di common law – della presupposizione di diritto continentale? E se si applica la presupposizione, quali le conseguenze sul rapporto contrattuale? Magari a quest’ultimo interrogativo mi capiterà di rispondere con la prossima domanda.
Infine. Nelle cronache sportive di queste settimane si è letto che Roberto Stellone, allenatore dell’Ascoli, è stato “esonerato” dalla società (e sostituito in panchina da Guillermo Abescal fino a quel momento allenatore della Primavera) con la motivazione che Covid-19 avrebbe determinato a carico della società la “eccessiva onerosità” del rapporto col tecnico. Per dare un giudizio bisognerebbe saperne di più.
Roberto Natoli
Indubbiamente sì. Covid-19 ha messo in crisi intere filiere produttive e le filiere produttive sono regolate da contratti. L’impossibilità di adempiere prestazioni contrattuali — o impedite per fatto dell’autorità, o impedite di fatto da difficoltà finanziarie impreviste e imprevedibili — ha generato un pernicioso effetto domino. L’emergenza, dunque, non riguarda il singolo contratto e sarebbe sbagliato intenderla in modo atomistico. Tanto per dire che, di fronte a un’emergenza sistemica, il diritto contrattuale è niente più che un ufficiale di complemento per un duplice ordini di ragioni. A un livello generale, perché è un diritto della microrelazione economica, tendenzialmente disinteressato all’intrecciarsi delle relazioni contrattuali tra soggetti diversi (pur se si registra qualche apertura recente, ad esempio in tema di prestiti personali finalizzati, in cui l’inadempimento del fornitore reagisce, travolgendolo, sul finanziamento: art. 125-quinquies TUB). A un livello particolare, perché, almeno nella parte generale (la disciplina dei contratti tipici è, infatti, assai più variegata), i rimedi sinallagmatici prestano poca attenzione alla “cura” del contratto, privilegiando opzioni risolutorie: di fronte all’alterazione dell’economia dello scambio (per impossibilità o per eccessiva onerosità sopravvenute della prestazione), la tradizionale risposta codicistica è nel senso di sciogliere il vincolo, piuttosto che di mantenerlo in vita, adeguandolo al mutato scenario.
Rispetto all’emergenza economica figlia dell’emergenza sanitaria generale, i contratti sono, al più, uno strumento di attuazione della politica economica generale. Lo sono, in particolare, i contratti di credito, posto che l’helicopter money, cioè il trasferimento diretto di risorse monetarie, è stato attuato solo in favore delle famiglie (la nota misura dei 600 euro), mentre, per il trasferimento alle imprese, la cinghia di trasmissione delle politiche economiche emergenziali è offerta, more solito, dalle banche. In questo scenario, un ruolo determinante hanno le regole di condotta precontrattuale: penso, anzitutto, alla valutazione del merito di credito, che oggi, nell’emergenza, dovrebbe rispondere a criterî meno stringenti di quelli tradizionalmente utilizzati, e ciò a maggior ragione in presenza di garanzie forti come quella statale, diretta e/o indiretta (per il tramite della SACE). È notizia di stampa che le procedure standardizzate con cui operano le banche rappresenta però un grave ostacolo all’erogazione di credito “emergenziale”, lasciando già intravedere l’ampio contenzioso che con ogni probabilità si aprirà nel dopo emergenza, quando non poche imprese lamenteranno di non essere state prontamente soccorse dal sistema bancario (sul tortuoso iter nel quale si imbatte un’impresa che abbia diritto al credito agevolato, tutt’altro che semplificato, v. Dario di Vico sul Corriere Economia del 20 aprile 2020: Coronavirus e decreto liquidità: cosa si chiede a un’azienda per avere il prestito).
D’altro lato, però, ci sono i contratti in essere, “pensati” per la normalità economica e stravolti dall’emergenza, il cui funzionamento si è inceppato a causa del lock down: rispetto ai quali le recenti regole dettate dal legislatore d’urgenza mi sembrano ancora più inappaganti delle regole codicistiche. Ma di questo dirò più avanti.
2) In che modo i principi costituzionali, oggi, possono venire in soccorso del civilista?
Vincenzo Roppo
Quali principi? Non ho esitazione nell’indicarne uno su tutti gli altri, come particolarmente prezioso per gestire le problematiche civilistiche – e soprattutto quelle contrattuali – aperte da Covid-19: il principio di “solidarietà… economica e sociale” che l’art. 2 Cost. indica come materia di “doveri inderogabili” cui tutti sono tenuti.
Proviamo ad applicarlo al caso della locazione non abitativa, vanificata per il conduttore dall’impossibilità di usare l’immobile aziendale; e immaginiamo di approdare all’idea che – in forza della presupposizione – non sia civilisticamente né razionale né giusto fare finta di nulla, cioè lasciare che il contratto proceda indisturbato, e che il conduttore (abbia o non abbia la possibilità di usare l’immobile, poco importa) continui a essere tenuto al pagamento del canone contrattuale. E che si debba trovare una soluzione diversa, più conforme a razionalità e giustizia. Bene, ma quale?
Mi viene da rispondere: una soluzione ispirata al principio costituzionale di solidarietà. Una soluzione cioè che parta dal rilievo che il fenomeno della pandemia non solo non è imputabile né all’una né all’altra parte, ma per la sua natura “globale” neppure può dirsi intervenuto nella sfera di una parte piuttosto che nella sfera dell’altra. E su questa base allochi le conseguenze negative in modo appunto “solidaristico”, secondo la logica per cui le perdite derivanti dall’evento siano sopportate non da una sola parte e totalmente evitate dall’altre, ma distribuite “un po’ per uno”.
Questa impostazione da un lato esclude che il rapporto contrattuale resti intatto e proceda come se nulla fosse, perché il risultato sarebbe addossare tutta la perdita al conduttore, mentre il locatore ne uscirebbe totalmente immune da perdite. Ma a mio avviso dovrebbe escludere anche un’indiscriminata facoltà del conduttore di sciogliere il contratto (salve, naturalmente, le eventuali previsioni che gli accordino un diritto di recesso): una soluzione che al contrario metterebbe l’intero peso della sopravvenienza di Covid-19 a carico del locatore.
Come può tradursi in regole operative? Limitandomi a un paio di indicazioni grossolane (un’esplorazione più approfondita della questione è offerta, peraltro in prospettiva un po’ diversa, da A. A. Dolmetta, Locazione di esercizio commerciale (o di studi professionali) e riduzione del canone per misure di contenimento pandemico, in il caso.it, 23 aprile 2020), direi così:
* accordare al conduttore, interessato a proseguire la locazione in vista della “riapertura”, una riduzione del canone per il tempo dell’impossibilità di utilizzare l’immobile (di quanto? in mancanza di altri più appropriati e attendibili criteri, direi del 50%, espressione aritmetica di una “solidarietà” perfettamente paritaria);
* se invece il conduttore fosse interessato a chiudere il rapporto, sottoporre la sua pretesa risolutoria a uno scrutinio secondo buona fede, che porti a respingerla tutte le volte che si riveli come una pretesa puramente opportunistica (cioè tutte le volte che lo sbocco risolutorio non sia giustificato dall’incidenza di Covid-19 sul business del conduttore, ma corrisponda a qualche suo particolare interesse – non tutelato dal contratto – che prescinde dall’evento pandemico).
Ho richiamato la buona fede: ed è noto che i migliori maestri legavano strettamente la buona fede civilistica alla solidarietà costituzionale.
Roberto Natoli
Premetto che non ho mai nutrito particolare affezione per l’uso che dei princìpi costituzionali si è fatto negli ultimi anni, nel ragionamento civilistico non solo teorico ma, soprattutto, pratico. Sostengo da tempo l’idea (che ancora recentissime pronunce della Cassazione, come quella delle sezioni unite sulle c.d. nullità selettive, mi confermano) che l’evocare i princìpi costituzionali serva fin troppo spesso a sottrarsi alla fatica del concetto, raggiungendo per vie brevi soluzioni che si potrebbero razionalmente argomentare attraverso il richiamo puntuale a norme positive. Tanto premesso, sono però convinto che se c’è un momento nel quale i princìpi costituzionali possono venire in soccorso del civilista, quel momento è l’attuale. E non mi riferisco soltanto al principio di solidarietà, giustamente evocato dai non pochi autori (me compreso: v. Benedetti – Natoli, Coronavirus, emergenza sanitaria e diritto dei contratti: spunti per un dibattito, in dirittobancario.it, Editoriale del 25 marzo 2020) che si sono fin qui cimentati nel tentativo di articolare riflessioni civilistiche per affrontare il tempo dell’emergenza; penso, forse ancor prima, al principio lavorista, fondativo della nostra comunità repubblicana, dal quale, credo, emergano fondamentali corollarî per affrontare il tempo attuale e quello che verrà. Ho già detto che la crisi dei contratti è una crisi di sistema, conseguente alla drammatica contrazione del prodotto interno lordo nazionale ed estero: sì che la contrazione della ricchezza prodotta si riflette direttamente sull’intera catena produttiva, coinvolgendo indistintamente tutti i suoi anelli. Ora, di fronte a una simile emergenza, è necessario operare una scelta di fondo e decidere chi, e in che misura, debba sopportare una distruzione di ricchezza che a nessuno può essere imputata. Trattandosi di una scelta di fondo, non operabile tramite il richiamo a norme e istituti pensati per la normalità economica, l’interprete non può che farsi guidare dalle opzioni di vertice dell’ordinamento giuridico. La prima delle quali è la tutela del lavoro, in tutte le sue forme (subordinato o autonomo). Se la possibilità del lavoro si comprime per fatti straordinari e imprevedibili, non si può chiedere al lavoratore di attingere ai propri risparmi per preservare la possibilità dell’attività futura. Così, per esemplificare e dare corpo al ragionamento: nel conflitto tra il proprietario dell’immobile che reclama il suo canone e il conduttore che oppone la chiusura (di diritto o semplicemente di fatto: si pensi ai professionisti legali, la cui attività giudiziale è stata sostanzialmente sospesa) dell’attività, accordare tutela al proprietario, sul rilievo che l’obbligazione di corresponsione del canone, avendo natura pecuniaria, non è mai impossibile, significa privilegiare, contro i principi fondativi del sistema, la rendita sul lavoro. Con l’aggravante che, superata l’emergenza, la rendita potrà riprendere il suo corso, mentre il lavoro potrà nel frattempo essere scomparso. Ed è probabilmente superfluo aggiungere che nel prossimo futuro, considerato il crescente indebitamento cui lo Stato dovrà ricorrere per affrontare l’attuale fase avversa del ciclo economico, occorrerà fare di tutto per preservare ogni attività capace di creare ricchezza e produrre gettito fiscale.
3) Come giudicate le prime risposte normative in materia privatistica?
Vincenzo Roppo
La legislazione dell’emergenza Covid-19 ha toccato diverse aree del diritto privato (lato sensu inteso): dalla già menzionata materia del lavoro alla materia societaria (blocco degli obblighi di ricapitalizzazione a fronte di perdite di capitale, neutralizzazione del criterio di continuità aziendale, disapplicazione della postergazione dei finanziamenti soci e intragruppo); dalle crisi d’impresa (slittamento di un anno dell’entrata in vigore del “codice Rordorf”) a numerosi interventi in materia contrattuale. Ha minacciato di toccare anche la responsabilità sanitaria, e lo avrebbe fatto se fossero passati emendamenti intesi a deresponsabilizzare operatori e strutture sanitarie per eventi infausti legati al contagio da coronavirus.
Io però vorrei concentrarmi sugli interventi nella materia contrattuale. La previsione in apparenza più notevole, per la sua portata sistemica, è quella introdotta dall’art. 91 del decreto legge 18/2020, per cui “Il rispetto delle misure di contenimento di cui al presente decreto è sempre valutata ai fini dell’esclusione, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1218 e 1223 c.c., della responsabilità del debitore, anche relativamente all’applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti”. Norma che (a parte le perplessità suscitate da alcuni passaggi, come quello relativo alle “decadenze”) mi sembra avere due difetti. Da un lato, il richiamo all’art. 1218 c.c. appare perfettamente superfluo. Anche in assenza di essa, quale giudice – senza bisogno di sentirselo dire espressamente dal legislatore - avrebbe mancato di “valutare” il rispetto delle misure di contenimento del contagio (impossibilità di spostamenti, blocchi produttivi ecc.) quali possibili cause di esclusione della responsabilità? Dall’altro lato, il richiamo all’art. 1223 c.c. si presenta oscuro e difficilmente decifrabile. La norma riguarda il nesso di causalità “giuridica” (fra danno-evento e danno-conseguenza) ai fini della determinazione del risarcimento dovuto e della necessaria selezione fra danni risarcibili e non risarcibili. Cosa significa che il lockdown deve essere valutato al fine di escludere la risarcibilità del danno? L’unica risposta sensata sembra essere: che il lockdown interrompe il nesso di causalità giuridica, rendendo irrisarcibili i danni che il creditore (o in genere il danneggiato) avrebbe ugualmente subito per effetto dell’inadempimento (o dell’illecito extracontrattuale) anche in assenza di lockdown. Ma se è così, il richiamo appare di nuovo superfluo memento di una chiara regola già esistente.
Più fornita di senso l’introduzione di una norma settoriale come l’art. 28 del decreto legge 9/2020. Essa riguarda tutti coloro che abbiano acquistato titoli di viaggio (biglietti ferroviari, aerei, per autobus di linea, navi, traghetti ecc.) e non siano in grado di utilizzarli per ragioni di impedita mobilità da misure anti-contagio (soggetti in quarantena, abitanti in zone rosse, diretti in paesi stranieri che negano l’ingresso) oppure non abbiano più interesse a utilizzarli per altre ragioni legate a dette misure (il concorso o la manifestazione o lo spettacolo per cui intendevano spostarsi sono stati cancellati o rinviati). La previsione è che il vettore rimborsi il prezzo del biglietto o emetta un voucher di pari importo da utilizzare entro un anno. Ovvio che (trattandosi di obbligazione alternativa, in cui la scelta spetta al debitore ex art. 1286, comma 1) il vettore sceglierà di emettere il voucher piuttosto che restituire i soldi (mentre il viaggiatore altrettanto ovviamente preferirebbe i soldi). Ma è la soluzione più equa perché, salvando il contratto di viaggio anziché cancellarlo, ripartisce il peso dell’evento in modo “solidaristico”. Non sono sicuro che possa dirsi lo stesso per la regola sui pacchetti turistici, per cui è dato sì al viaggiatore diritto di recesso, ma in tal caso l’organizzatore è facoltizzato ad attribuirgli – in luogo del denaro da lui pagato come prezzo del pacchetto – un voucher di pari importo da utilizzare entro un anno: data la differenza empiricamente registrabile fra l’acquisto di un pacchetto turistico e quello un semplice titolo di viaggio, la soluzione mi pare un po’ sbilanciata a favore dell’organizzatore (che certamente si libererà col voucher) e a danno del viaggiatore: un migliore equilibrio si sarebbe raggiunto prevedendo un voucher di valore in qualche misura (10%? 20?) superiore al prezzo del pacchetto.
L’art. 88 del decreto legge 18/2020 estende questa disciplina ai contratti di soggiorno (in strutture alberghiere o assimilate), ai contratti per l’accesso a spettacoli di ogni genere, nonché a musei o altri luoghi della cultura.
Si può notare una cosa: il legislatore riconduce tutte queste situazioni sotto l’ombrello dell’impossibilità sopravvenuta della prestazione, richiamando espressamente l’art. 1463 c.c. In realtà qui vengono in gioco casi in cui è impossibile non già l’erogazione della prestazione ad opera del debitore ma la fruizione di essa da parte del creditore. Il legislatore non è così sottile da distinguere: ma nella sostanza non fa altro che allinearsi alla giurisprudenza, la quale riconduce entrambe le fattispecie sotto il medesimo ombrello normativo.
E può porsi una domanda: si possono lamentare omissioni, buchi di disciplina che sarebbe stato bene riempire? Forse sì, forse almeno uno. La legislazione dell’emergenza si fa carico delle difficoltà finanziarie indotte dalla pandemia a carico di chi risulta debitore periodico di moneta nell’ambito di contratti di durata: e così stabilisce una moratoria nel pagamento delle rate e dei canoni in determinati contratti di mutuo e di leasing. Non dispone nulla di analogo a favore dei conduttori, e si può capire: qui il creditore non è una robusta entità finanziaria come una banca o una società di leasing, ma può essere una persona fisica che vive dei proventi del suo immobile locato. Però il legislatore avrebbe almeno dovuto codificare quella riduzione dei canoni delle locazioni non abitative, che ho patrocinato sopra: se la soluzione convince, conviene che sia affidata a una puntuale previsione normativa di applicazione facile e sicura, piuttosto che all’alea e alle varietà delle decisioni giudiziali.
Un altro problema civilistico emerso con la pandemia riguarda, nei casi di separazione o divorzio, le modalità di frequentazione dei figlia da parte del genitore non affidatorio: problema aperto soprattutto dai divieti di mobilità. Ma qui il mancato intervento del legislatore appare giustificato: le modalità alternative alla frequentazione fisica (sessioni skype o quant’altro) potranno emergere dall’accordo fra i genitori interessati, o nei casi estremi (e si confida rari) di mancato accordo essere fissate dal giudice.
Roberto Natoli
A parte una disposizione nel primo d.l. dell’emergenza sul rimborso dei titoli di viaggio (art. 28, d.l. 9/2020), e una disposizione sui contratti di prestazione dei servizi direttamente travolti dall’emergenza sanitaria (spettacoli, musei e altri luoghi culturali: art. 88, d.l.18/2020), la risposta che ambirebbe a essere generale è contenuta nell’art. 91 del d.l. 18/2020, c.d. Curaitalia. Si tratta, però, di norme non solo disorganiche e frammentate, ma potenzialmente produttrici di più problemi di quanti siano in grado di risolvere. Il punto è che il diritto civile è un sistema e, quando si interviene su di esso, anche in un’ottica emergenziale, bisogna tenerlo a mente. Provo a spiegarmi con un esempio. Dicevo che il legislatore d’urgenza è intervenuto con una norma (l’art. 91 cit.) di portata tendenzialmente generale, perché non confinata nel perimetro di alcun singolo contratto; anzi, neppure confinata nel perimetro della parte generale del contratto perché, ancora più a monte, ha ad oggetto la disciplina generale dell’obbligazione. Con questa norma, dettata sotto la rubrica “Disposizioni in materia ritardi o inadempimenti contrattuali derivanti dall’attuazione delle misure di contenimento”, si dispone che “il rispetto delle misure di contenimento di cui presente decreto è sempre valutato ai fini dell’esclusione, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1218 e 1223 c.c., della responsabilità del debitore, anche relativamente all’applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti”.
La norma, proprio per il suo richiamo alla disciplina della responsabilità da inadempimento e del conseguente danno, è o assai banale o potenzialmente sovversiva. Il riferimento all’esclusione dell’art. 1218 c.c. in caso di rispetto delle misure di contenimento è banale perché ribadisce quanto già previsto dall’art. 1256, cpv., c.c. (“se l’impossibilità è solo temporanea, il debitore, finché essa perdura, non è responsabile del ritardo nell’adempimento”). Il richiamo all’art. 1223 c.c. è, invece, potenzialmente sovversivo perché la disattivazione del dispositivo dell’art. 1218 porta con sé anche la disattivazione della conseguente responsabilità per l’ovvia ragione che se non c’è responsabilità, non può esserci danno: pertanto, un’interpretazione che potrebbe dare un senso alla norma, altrimenti di dubbia utilità, è di estendere il richiamo all’art. 1223 alla responsabilità da fatto illecito, giusta l’espresso rinvio operato — per regolare il quantum debeatur aquiliano — dell’art. 2056 c.c. Non si tarda però a comprendere che, ritenendo la sospensione dell’art. 1223 c.c. operante anche in quell’àmbito, se ne dovrebbe dedurre — con un’interpretazione probabilmente ostile alla mens legis, ma non al dato testuale e sistematico — come il rispetto delle misure di contenimento escluda la possibilità, per il danneggiato, di ottenere il risarcimento del danno che sia conseguenza immediata e diretta della condotta, pur gravemente colposa, del danneggiante: con tutte le ovvie ripercussioni sul futuro (e già prevedibile) contenzioso in materia di responsabilità medico-sanitaria.
Certamente più opportuna sarebbe stata, invece, una norma relativa ai rimedi sinallagmatici, tesa a stabilire se, e in che misura, l’emergenza (che non è data solo dal rispetto delle misure di contenimento, posto che nelle filiere produttive tutto si propaga) possa giustificare la sospensione della prestazione, sterilizzando così non tanto la richiesta di risarcimento, quanto la domanda di risoluzione: magari distinguendo contratto da contratto, perché — com’è evidente — non tutte le operazioni economiche sono uguali, e per tipologia e per qualifica dei soggetti contraenti.
La Germania, ad esempio, è prontamente intervenuta con la “Legge per la mitigazione delle conseguenze della Pandemia COVID-19 nel diritto civile, fallimentare e della procedura penale” del 27 marzo 2020, prontamente tradotta su dirittobancario.it (https://www.dirittobancario.it/sites/default/files/allegati/articoli_1_-_5_legge_tedesca.pdf), il cui art. 5 ha introdotto delle “Norme contrattuali contingenti alla pandemia Covid-19” che consentono, ad esempio, una sospensione dei pagamenti a consumatori e microimprese (come disciplinate dalla Raccomandazione della Commissione Europea 2003/361/EC del 6 maggio 2003); un termine di grazia per i conduttori di immobili non in condizioni di corrispondere il canone; un differimento di tre mesi dell’ammortamento dei prestiti al consumo. Un’attenzione molto opportuna, nella legislazione tedesca dell’emergenza (invece assente nell’analoga legislazione italiana), è dedicata a reprimere fenomeni di moral hazard dei debitori, in questa fase straordinariamente inclini a sospendere o ridurre il flusso dei pagamenti anche se non versano in una crisi di liquidità, adducendo quale pretesto l’emergenza sanitaria. La sospensione dei pagamenti da parte dei consumatori è, infatti, subordinata alla duplice dimostrazione che la difficoltà di adempiere è conseguenza di circostanze connesse alla pandemia e che l’adempimento regolare metterebbe in pericolo il livello di vita adeguato per sé e per la propria famiglia. In generale, si tratta di norme apprezzabili perché ancorate a parametri misurabili (dunque giudizialmente sindacabili ex post) e perché espressive di valori di rango costituzionale, come la dignità personale, che, in quanto tali, offrono solide basi all’effetto redistributivo che producono.
Non solo per il pessimo confronto nel paragone comparatistico, il legislatore italiano dell’urgenza ha dunque dato pessima prova di sé nel dettare norme privatistiche. E, purtroppo, non c’è neppure da stupirsi, se si considera che, nella compagine delle innumerevoli task force chiamate a governare l’emergenza (certamente non nella commissione Colao), non mi pare compaiano civilisti, giuscommercialisti, né processualcivilisti.
4) Covid-19 può essere l’occasione per ripensare alcune categorie ordinanti del diritto civile o per costruirne di nuove?
Vincenzo Roppo
In un certo senso le categorie, le regole, i principi contenuti nel codice (specie quelli su inadempimento, responsabilità e sopravvenienze), con le integrazioni e gli affinamenti operati dagli interpreti, potrebbero sembrare idonei a coprire le esigenze e i problemi aperti da Covid-19, senza necessità di rilevanti innovazioni sistematiche. È significativo che lo stesso legislatore dell’emergenza dichiari (sia pure in modo ridondante) l’applicabilità – nella presente congiuntura – di norme fondamentali del codice come gli artt. 1218, 1223 e 1463. E come non ricordare che dopotutto il codice del 1942 è stato elaborato e varato nel bel mezzo di una guerra mondiale?!
Questo però vale nella sola misura in cui – di fronte a inadempimenti e soprattutto sopravvenienze – l’unico rimedio concepibile per affrontare questi fattori di disturbo del rapporto contrattuale sia lo scioglimento di questo. È la logica del codice. Ma è logica insufficiente, nel momento in cui emerge che in tante occasione il rimedio appropriato per gestire i disturbi del rapporto non è la sua cancellazione ma piuttosto la sua manutenzione con aggiustamenti: in principalità per via di rinegoziazione, in subordine per via di aggiustamento giudiziale. Ecco, questo mi pare il più significativo “ripensamento ordinamentale” ricavabile dall’emergenza (e v. in tal senso anche l’editoriale di A. M. Benedetti e R. Natoli, Coronavirus, emergenza sanitaria e diritto dei contratti: spunti per un dibattito, in dirittobancario.it, 25 marzo 2020). Che però non sarebbe una novità assoluta, visto che lo si trova assunto come una delle linee direttive da impartire al legislatore delegato in base al disegno di legge delega dell’anno scorso (n. 1151/2019) per la riforma del codice civile.
Ma voglio aggiungere che annusando l’aria che si respira con la pandemia, soprattutto nella prospettiva delle sue conseguenze economiche di medio periodo, forse può cogliersi il preannuncio (o almeno la possibilità) di un’altra notevolissima novità di forte impatto sistemico, destinata a incidere profondamente sui “fondamentali” dell’ordinamento privatistico. E non solo di quello italiano.
Nella sua lettera aperta al Financial Times, pubblicata dal quotidiano inglese il 25 marzo 2020, Mario Draghi delinea gli scenari dell’economia mondiale che saranno presumibilmente determinati dall’esigenza di affrontare le conseguenze della pandemia. Fra l’altra rileva che “livelli di debito pubblico molto più alti diventeranno un aspetto permanente delle nostre economie”, ma soprattutto – questo mi sembra più impressionante – “saranno accompagnati da una cancellazione di debiti privati” (“will be accompanied by private debt cancellation”). Verso la fine del suo contributo, l’ex presidente della BCE riprende il concetto in termini ancora più specifici e circostanziati: osserva che alcune imprese le quali pensino di riuscire ad assorbire la crisi potranno essere indotte ad “aumentare il loro indebitamento per poter mantenere la propria manodopera occupata”, ma “se l’esplosione del virus e i conseguenti lockdown dovessero protrarsi” allora queste imprese “potrebbero realisticamente rimanere sul mercato solo se i debiti fatti per mantenere nel tempo l’occupazione fossero alla fine cancellati” (“… only if the debt raised to keep people employed during the time were eventually cancelled”).
Non c’è bisogno di aggiungere molto. Quella che Draghi ipotizza con estrema chiarezza è una gigantesca esdebitazione di massa: di portata – sembra di capire – enormemente più estesa di quella che siamo abituati ad associare all’esito di procedure concorsuali (pur con le notevoli estensioni del meccanismo prefigurate dal nuovo codice delle crisi d’impresa). Se l’ipotesi si avverasse, ci sarebbe da rimeditare nel profondo la figura stessa dell’obbligazione, col suo carattere di vincolatività e col presidio della garanzia patrimoniale che l’assiste.
Roberto Natoli
Assolutamente sì, e lo dimostra proprio quanto ho detto fin qui. Da un lato nella parte generale del contratto non v’è alcuna tensione verso la manutenzione dei contratti (in particolare, di durata) e questo è un limite (da tempo denunciato dalla moderna dottrina civilistica) che, nella drammaticità del momento attuale, sta emergendo con prepotenza. Dall’altro lato, le risposte del legislatore dell’urgenza tradiscono la fretta indotta dall’emergenza e si risolvono, nella migliore delle ipotesi, in un sostanziale nulla di fatto.
La prima categoria ordinante del diritto contrattuale che andrebbe sottoposta a revisione è quindi quella espressa nella formula pacta sunt servanda: proprio il dibattito svoltosi negli ultimi due decenni (che proprio in questo periodo di emergenza contrattuale ha sùbito ripreso piede) sull’obbligo di rinegoziazione è spia della necessità, se non del superamento del principio, quanto meno di un suo contemperamento con altri non meno rilevanti, come quello rebus sic stantibus. Tutto ciò mostra l’opportunità di introdurre per via legislativa un generale obbligo di rinegoziazione che non debba cercare la sua fonte nelle pieghe della fin troppo usurata buona fede integrativa e il suo rimedio in obblighi di contrarre di dubbia plausibilità. Si potrebbe, al riguardo, accelerare l’approvazione della norma sul tema contenuta nell’art. 1, lettera i), del d.d.l. delega n. 1151 del 2019 di riforma del codice civile, magari stralciandola dalla complessiva riforma per introdurla immediatamente: «prevedere il diritto delle parti di contratti divenuti eccessivamente onerosi per cause eccezionali e imprevedibili di pretendere la loro rinegoziazione secondo buona fede o, in caso di mancato accordo, di chiedere in giudizio l’adeguamento delle condizioni contrattuali in modo che sia ripristinata la proporzione tra le prestazioni originariamente convenuta dalle parti».
Il ripensamento generale che l’allentarsi del principio pacta sunt servanda sottende collima con le esigenze delle filiere produttive, nelle quali i contratti sono per lo più destinati a spiegare i propri effetti nel tempo e che pertanto sono esposti al variare anche significativo delle circostanze sulla cui base furono conclusi. Si tratta, del resto, di un meccanismo già noto all’ordinamento, sebbene sperimentato nel territorio del diritto della famiglia: lì dove l’art.710 c.p.c. dà sempre la possibilità, tanto all’obbligato quanto al creditore, di chiedere al giudice la revisione delle condizioni della separazione. La necessità di un rimedio per adeguare il contenuto dei contratti all’impreveduto mutamento di circostanze, che l’attuale emergenza ha fatto affiorare, potrebbe dunque portare in dono al futuro diritto dei contratti questo frutto: uno strumento informato al principio di conservazione del valore economico della relazione contrattuale, da mantenere in vita anziché da abbandonare a una risoluzione che, in tanti casi, altro non comporta se non distruzione di ricchezza e perdita di investimenti che neppure il ritorno al mercato (idea implicita nella risoluzione ex art. 1467 c.c.) potrebbe consentire di recuperare se non, ma non sempre, in parte.
Al di là di ciò, credo che andrebbe definitivamente ripensato il rapporto tra diritti e tecniche, soprattutto non processuali, di attuazione. L’incredibile sospensione delle attività giurisdizionali (sostanzialmente limitate, per il settore civile, ai soli procedimenti che investano diritti fondamentali della persona: art. 83, comma 3, lett. a, d.l. 18/2020), oltre ad aver messo a nudo l’inadeguatezza tecnologica (anzitutto in termini di cybersecurity) delle infrastrutture che governano il PCT, ha altresì dimostrato che l’astratta proclamazione di diritti, in assenza di pronti rimedi per attuarli, è un vano esercizio retorico. Il risultato sotto gli occhi di tutti è che da mesi, nell’emergenza e dunque quando ci sarebbe più bisogno di regole, gli operatori economici sono abbandonati a sé stessi. A una tale esigenza di regole — non necessariamente eteroimposte ma, anzitutto ed auspicabilmente, negoziate tra i contraenti — potrebbero fruttuosamente rispondere sistemi di ADR governati da terze parti (penso, ad esempio, a camere arbitrali amministrate) o affidati agli stessi avvocati (penso, in questo caso, alla negoziazione assistita).
Un altro frutto che l’emergenza potrebbe portare in dono è dunque la definitiva messa a punto di un serio, organico e coerente quadro di sistemi di risoluzione alternativa delle controversie, che non siano visti dalle parti come inutile e costoso ostacolo all’esercizio del diritto di azione costituzionalmente tutelato, ma come effettivo strumento di rapida ed efficace soddisfazione di interessi che troppo spesso appaiono soltanto astrattamente tutelati dalle norme sostanziali.
Purtroppo, però, allo stato — al di là di alcune condivisibili iniziative promosse dal mondo accademico (v., ad es., il Manifesto della Giustizia Complementare alla Giurisdizione, pubblicato il 28 marzo 2020 a firma del Prof. Mauro Bove e di altri colleghi: in http://giustiziacivile.com/arbitrato-e-processo-civile/editoriali/manifesto-della-giustizia-complementare-alla-giurisdizione) — il legislatore dell’urgenza, nella sua bulimia normativa, pur avendo immediatamente pensato a serrare le porte dei Tribunali persino per i procedimenti cautelari, non ha, almeno fin qui, ritenuto di introdurre un meccanismo di negoziazione assistita tra debitori e creditori o qualsiasi altra forma di ADR per affrontare l’emergenza (per alcune proposte in merito v. Rabitti, Pandemia e risoluzione delle future controversie. Un’idea “grezza”, in dirittobancario.it, Editoriale del 23 aprile 2020).