La normativa in tema di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro a confronto con l’emergenza epidemiologica da covid-19 di Giuseppe de Falco
Sommario: 1. Considerazioni generali - 2. Rischio da covid-19: valutazione nell’ambito del documento di valutazione dei rischi (DVR) – 3. In particolare: le norme sulla valutazione del rischio da esposizione ad agente biologico- 4. Rischio da covid-19: aggiornamento del documento di valutazione dei rischi (DVR) - 5. Rischio da covid-19: aggiornamento del documento di valutazione dei rischi da interferenze (DUVRI) - 6. Le misure di prevenzione e protezione contro il rischio da covid-19 - 7. In particolare, il protocollo condiviso per l’attuazione delle misure di contrasto al covid-19
1.Considerazioni generali
La complessa emergenza epidemiologica che stiamo vivendo fa sorgere inevitabilmente interrogativi rilevanti anche sotto il profilo dell’organizzazione e gestione della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro; in tali ambiti, del resto, è risultato assai elevato il rischio di contrazione del virus, tanto che una parte essenziale delle linee guida che, a quanto consta, si stanno predisponendo in ambito governativo, con l’auspicabile intesa delle regioni, per l’avvio della cd. fase 2, concerne proprio la definizione di standard generali di sicurezza nei luoghi di lavoro.
Come è noto, nel nostro paese è vigente, in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, una normativa quanto mai complessa, estesa e rigorosa, emanata in linea con le direttive dell’Unione Europea ed incentrata essenzialmente nel corposo decreto legislativo 9 aprile 2008 n.81, che contiene una rilevantissima serie di obblighi di carattere giuridico e tecnico, senza dubbio in grado di fornire – se opportunamente osservati - un poderoso schermo protettivo alle esigenze di tutela dei lavoratori e di tutti coloro che, a qualsiasi, legittimo, titolo, frequentano i luoghi di lavoro.
Certamente l’emergenza pandemica che stiamo affrontando è un evento, imprevedibile e imprevisto, di dimensioni ed impatto straordinari, per cui si tratta di accertare se le norme prevenzionistiche vigenti forniscano o meno un parametro di riferimento congruo e pertinente.
La risposta appare in larga misura affermativa, sol che si considerino principi e disposizioni di carattere generale, oltre che alcune disposizioni più specifiche, del sistema normativo delineato dal d.lgs. n.81/2008, così come ci si propone di fare in questo scritto.
La conferma dell’appropriatezza di tale sistema può farsi derivare anche dalla considerazione che le disposizioni legislative dettate per fronteggiare l’emergenza in atto non apportano alcuna modifica al d.lgs. n.81/2008, mentre i decreti governativi emanati in attuazione della decretazione d’urgenza contengono indicazioni e raccomandazioni, specificamente ritagliate sulla necessità di contenere la pandemia in corso, parametrate anche sulle indicazioni di carattere sanitario e prudenziale in genere che l’OMS e il nostro Ministero della Salute hanno da tempo dettato e finalizzate, in modo diretto o implicito, anche a creare le più opportune – allo stato delle conoscenze scientifiche – condizioni di cautela nei luoghi di lavoro[1].
Così è a dire, quanto ai provvedimenti legislativi, delle disposizioni di cui all’art.1, comma 2, lett. z) e gg), del D.L. 25 marzo 2020, n. 19[2], che stabiliscono che le attività non sospese si svolgano previa assunzione delle misure idonee a garantire il rispetto della distanza di sicurezza interpersonale adeguata a prevenire o ridurre il rischio di contagio e che i servizi di pubblica necessità debbano adottare, qualora non sia possibile far rispettare detta distanza, protocolli di sicurezza anti-contagio e strumenti di protezione individuale.
Ma così è, più in particolare, a dire, quanto ai diversi DPCM, da ultimo della previsione di cui all’art. 2, comma 10, del DPCM 10 aprile 2020 (emanato in attuazione del D.L. 25 marzo 2020, n. 19 e abrogativo dei precedenti decreti del Presidente del Consiglio) che dispone che le imprese le cui attività non sono sospese rispettino “i contenuti del protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus covid-19 negli ambienti di lavoro sottoscritto il 14 marzo 2020 fra il Governo e le parti sociali” (protocollo su cui ci si soffermerà in seguito), nonché della previsione di cui all’art. 1, lett. ii) del medesimo DPCM, che con riferimento alle attività professionali, che proseguono, raccomanda, tra l’altro, di assumere protocolli di sicurezza anti-contagio, con adozione, “laddove non fosse possibile rispettare la distanza interpersonale di un metro come principale misura di contenimento”, di strumenti di protezione individuale, e di incentivare le operazioni di sanificazione dei luoghi di lavoro[3].
Non si tratta, dunque, di nuove disposizioni legislative in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, ma di indicazioni operative che certamente rilevano, come meglio si specificherà in seguito, anche alla stregua dell’attuale sistema normativo in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, con il quale, a giudizio di chi scrive, si armonizzano adeguatamente. Ciò, quanto meno, se si ha riguardo a pilastri di tale sistema, dai quali traspare il principio per cui la prevenzione sul lavoro non va circoscritta a rischi specifici, predeterminati, rispetto ai quali siano state dettate specifiche disposizioni normative, ma si estende anche alla tutela nei confronti di rischi nuovi, rispetto ai quali non sia possibile intervenire tempestivamente con l’emanazione di norme impositive di obblighi specifici. Ci si intende riferire alla disposizione fondamentale dell’art. 2087 del codice civile, che dispone che il datore di lavoro è tenuto ad adottare tutte le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro[4]; alla definizione stessa di “prevenzione”, intesa dall’art.2 lett. n) del d.lgs. n.81/2008 come “il complesso delle disposizioni o misure necessarie anche secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, per evitare o diminuire i rischi professionali nel rispetto della salute della popolazione e dell’integrità dell’ambiente esterno”; alla disposizione di cui all’art. 15 del d.lgs. n.81/2008, che delinea le misure generali di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori nei luoghi di lavoro e sulla quale si tornerà nel prossimo paragrafo.
Avviandoci dunque alla valutazione circa la pertinenza ed applicabilità delle disposizioni del d.lgs. n.81/2008 nell’attuale contesto emergenziale, deve necessariamente operarsi una duplice premessa. Va precisato, invero, da un lato che, a mente dell’art. 3, primo comma, del decreto legislativo, le disposizioni dello stesso si applicano “a tutti i settori di attività, privati e pubblici, e a tutte le tipologie di rischio”; dall’altro che, coerentemente, a mente dell’art.2, lett.c), del d.lgs. n.81/2008, il termine “azienda”, che costituisce il parametro di riferimento applicativo delle disposizioni del decreto stesso, ha riguardo al “complesso della struttura organizzata dal datore di lavoro pubblico o provato”, per cui è chiarissimo che la normativa di prevenzione trova applicazione nell’ambito di ogni organizzazione lavorativa, quale che ne sia l’oggetto[5].
2. Rischio da covid-19: valutazione nell’ambito del documento di valutazione dei rischi (DVR)
Il primo punto da affrontare nella valutazione dei rapporti tra il vigente sistema normativo in tema di salute e sicurezza del lavoro e l’emergenza epidemiologica che affligge l’intera popolazione concerne il modo in cui deve essere considerato, e apprezzato giuridicamente, il rischio da contagio del virus covid-19 alla stregua dei principi e delle disposizioni specifiche di detto sistema[6].
Cardine di tale sistema è, come è noto, l’istituto della valutazione dei rischi che connotano le singole attività lavorative, istituto introdotto, sulla scia delle direttive europee, dal d.lgs. n.626/1994 e poi ampiamente regolamentato in seno al d.lgs. n.81/2008.
Ciò che dunque rileva è essenzialmente il quesito circa la necessità o meno, per il datore di lavoro e quindi per i suoi collaboratori (in primis il medico competente, stante la specifica tipologia di rischio da contagio, ma anche il responsabile del servizio di prevenzione e protezione, RSPP ) di procedere, in ragione del manifestarsi di questo rischio di contagio, indubbiamente del tutto nuovo rispetto alla situazione che non solo le imprese, ma tutto il mondo era abituato a vivere sino a qualche tempo fa, a specifica valutazione del rischio da contagio del virus COVID-19 nei luoghi di lavoro.
Altro quesito, che deriva dal primo, per le attività già in essere al momento dell’insorgenza dell’emergenza epidemiologica, e dunque, può dirsi di fatto, per la totalità delle attività, è quello inerente la necessità o meno di procedere, in esito alla valutazione del rischio stesso, ad un aggiornamento del documento di valutazione dei rischi (DVR).
E, ancora, il quesito circa la necessità di procedere, nel caso dei cd. “appalti interni” di cui all’art.26 del d.lgs. n.81/2008, e cioè nei casi di affidamento di lavori, servizi o forniture ad imprese appaltatrici o a lavoratori autonomi nell’ambito dell’azienda (da intendere come sopra specificato) o di una unità produttiva[7] della stessa o comunque nell’ambito del ciclo aziendale, all’aggiornamento del documento unico di valutazione dei rischi da interferenze (DUVRI).
Le opinioni che, con riferimento al primo, essenziale, quesito, possono, non solo astrattamente, ma anche concretamente (posto che risulta che entrambe siano state, in ambiti diversi, espresse, come può evincersi anche dalla lettura dei contributi citati nella nota 6) manifestarsi sono diametralmente opposte tra loro, almeno per quanto concerne tutte le attività lavorative diverse da quelle in cui vengono svolte la professione medica, la professione infermieristica e l’attività di laboratorio che concerne l’analisi e il trattamento del virus, posto che in questi ultimi casi indubbiamente il rischio da contagio attiene direttamente proprio all’attività svolta, ed in particolare al contatto con pazienti positivi al COVID-19 o, comunque, con pazienti ad elevato rischio di contrazione del virus, ovvero attiene alla “gestione” del virus in laboratorio.
Per tutte le altre attività lavorative, invece, il ragionamento può muoversi lungo direttrici diverse: può argomentarsi, da un lato, che il rischio da contagio non deriva direttamente da agenti biologici usati nell’attività lavorativa, e non deve dunque – non essendo un rischio “professionale” - formare oggetto di specifica valutazione[8]; ovvero può al contrario ragionarsi nel senso che, essendo il rischio comunque connesso a contatti con persone (lavoratori e non) che avvengono nell’ambito dell’attività lavorativa (oltre che, ovviamente, a contatti che avvengono aliunde) e dunque all’organizzazione stessa dell’attività, il rischio vada espressamente valutato e poi cautelato dal datore di lavoro.
Pur trattandosi di un tema che indubbiamente trascende la realtà lavorativa e riflette problematiche proprie della “salute pubblica”, non pare davvero che possa prescindersi, per dare soluzione al quesito, dalla considerazione del sistema normativo in materia di salute e sicurezza sul lavoro, e dunque, essenzialmente dalle disposizioni del d.lgs. n.81/2008, e, in particolare, dall’analisi di come queste disposizioni delineano e regolamentano gli obblighi di carattere generale del datore di lavoro e, specificamente, l’istituto giuridico della valutazione dei rischi. Questa analisi deve consentirci di capire se, alla stregua del contenuto di tali disposizioni, il datore di lavoro sia o meno gravato da un obbligo di intervento diretto, in dipendenza della potenziale manifestazione del rischio da contagio, ovvero possa limitarsi ad attuare le indicazioni che, anche con riferimento alle compagini lavorative, si rinvengono, come visto, nei decreti leggi, nei decreti ministeriali e comunque negli atti delle autorità sanitarie.
Ebbene, sembra che una considerazione sistemica delle disposizioni del d.lgs. n.81/2008 (sia quelle di carattere generale che quelle più direttamente attinenti alla valutazione del rischio, e del rischio da agenti biologici in particolare) debba necessariamente approdare ad una risposta affermativa al quesito.
Deve necessariamente partirsi dalla considerazione delle già accennate misure generali di tutela di cui all’art.15, che indicano i principi e gli obiettivi di fondo della legislazione in materia. Tra tali misure la lettera a) menziona “la valutazione di tutti i rischi per la salute e la sicurezza” (la sottolineatura è di chi scrive); la lettera b) impone, per quanto in questa sede specificamente interessa, di integrare, nella prevenzione, l’influenza dei fattori dell’ambiente, generalmente inteso e quindi sicuramente riferibile anche ad emergenze sanitarie di carattere mondiale; la lettera c) indica l’esigenza di ridurre al minimo i rischi, ove non ne sia possibile, come accade con il rischio da contagio del virus covid-19, l’eliminazione totale, ancora una volta senza circoscrivere il principio a rischi specifici.
In particolare, l’apprezzamento della previsione normativa di cui all’art. 15 lett.b), in uno con la già ricordata definizione di “prevenzione”, porta generalmente i commentatori ad individuare una sorta di “permeabilità” tra organizzazione lavorativa e ambiente in senso ampio e ad elaborare, per altro aspetto, il concetto di “salute circolare”, alla cui stregua garantire al cittadino lavoratore il pieno risetto del diritto alla salute, ex art. 32 Cost. C’è o ci può essere, come altrimenti si dice, un rapporto reciproco bidirezionale tra i rischi “interni” e quelli “esterni” all’ambiente di lavoro.
Ma è il complesso della disciplina normativa specifica in tema di valutazione dei rischi che sembra non possa dare adito a dubbi. Viene subito in rilievo la definizione stessa di “valutazione dei rischi”, di cui all’art. 2, lett. q) del d.lgs. n.81/2008: “valutazione globale e documentata di tutti i rischi per la salute e sicurezza dei lavoratori presenti nell’ambito dell’organizzazione in cui prestano la propria attività, finalizzata ad individuare le adeguate misure di prevenzione e protezione e ad elaborare il programma delle misure atte a garantire il miglioramento nel tempo dei livelli di salute e sicurezza”.
La onnicomprensività del concetto traspare poi, quanto alla regolamentazione specifica dell’istituto, non solo dalla disposizione generale di cui all’art. 17, lett. a), che menziona, come obbligo del datore di lavoro non delegabile, “la valutazione di tutti i rischi con la conseguente elaborazione del documento previsto dall’art.28”, e che viene ribadita dall’art. 28, primo comma, che, nel definire l’oggetto della valutazione dei rischi, lo individua in “tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori”, delineando un’elencazione di rischi specifici che è da tutti interpretata come meramente esemplificativa e non certo esaustiva; ma, soprattutto, dalla disposizione di cui all’art.28, secondo comma, lett.a), che, nel dare specifica concretezza al documento che esita dalla valutazione dei rischi (il DVR appunto) stabilisce che esso deve contenere “una relazione sulla valutazione di tutti i rischi per la sicurezza e la salute durante l’attività lavorativa”.
E dunque devono formare oggetto di valutazione non solo i rischi che derivano direttamente dall’attività lavorativa, e cioè dalle caratteristiche, condizioni e modalità della stessa, dai prodotti impiegati, dall’uso di macchinari e strumenti, dall’esposizione che essa determina ad agenti, ecc., ma anche quelli che si originano “durante” l’attività stessa, senza che la norma menzioni, e dunque circoscriva, eventuali fonti di origine. E’ la dimensione per così dire temporale che in questo senso rileva: qualunque rischio che afferisca all’attività lavorativa, nel senso che derivi direttamente da essa o sia comunque connesso al tempo e al modo in cui l’attività viene espletata, deve essere valutato dal datore di lavoro. Ogni rischio che, in altre parole, trovi la propria “occasione” di manifestarsi nell’organizzazione di lavoro.
Appare dunque corretto ritenere che sia tale anche il rischio di possibile contagio determinato, nell’attuale contesto dell’emergenza pandemica, dalla frequentazione dei luoghi di lavoro da parte di soggetti, lavoratori e non, che possono essere portatori, anche asintomatici, del virus e che potrebbero dunque trasmetterlo ai lavoratori (così come ad altri frequentatori dell’ambiente di lavoro). Non si può, in altre parole, dubitare che le attuali condizioni, generalmente intese, in cui tutte le attività lavorative si svolgono si caratterizzino per la presenza di margini di rischio in passato inesistenti (salvo che per le attività in cui venivano impiegati o si era a contatto, per stare al tema che interessa, con agenti biologici) che devono formare oggetto di considerazione. Ciò a partire da lavori che prevedono un più frequente contatto con il pubblico (ad esempio, supermercati, banche, farmacie, trasporti, ecc.) per finire a quelli in cui il contatto è di solito inesistente; in tali ultimi casi, peraltro, la valutazione del datore di lavoro potrà, in ipotesi, condurre a ritenere l’inesistenza, in concreto, del rischio da contagio.
Giova precisare, al riguardo, anche per rispondere alla possibile obiezione circa l’esigenza di non gravare il datore di lavoro della valutazione, ad esempio, del rischio da “influenza” che annualmente si ripresenta, che attualmente si tratta di valutare le implicazioni di un rischio gravissimo, concreto, apprezzato a livello mondiale alla stregua di una vera e propria pandemia, come tale prevedibile, e la cui possibilità di manifestazione anche nell’ambito della compagine lavorativa non è meramente astratta ed ipotetica, ma ragionevole e concreta[9].
Il rischio che normalmente deriva da un agente biologico, di per sé assolutamente “generico” nell’ambito di attività lavorative in cui non sussista esposizione a detto agente, risulta però attualmente “aggravato” dalla specifica emergenza sanitaria in corso e pertanto meritevole di valutazione.
Come è noto, poi, il portato dell’elaborazione giurisprudenziale è nel senso di affermare che la valutazione dei rischi, per adempiere al disposto normativo, non deve essere generica e formale, ma specificamente mirata ai rischi concreti, da apprezzare direttamente quanto alle loro caratteristiche specifiche, così da poter garantire il conseguente approntamento di cautele effettive e, nei limiti del possibile, efficaci[10].
Ciò non significa, sia ben chiaro, richiedere al datore di lavoro, al RSPP e al medico competente chissà quale elaborazione scientifica e tecnica per l’individuazione delle cautele da approntare: significa solo richiedere che il rischio venga specificamente apprezzato con riguardo alle caratteristiche della singola organizzazione di lavoro (ad esempio con riguardo all’eventuale compresenza e afflusso di persone ed alla precarietà dei locali) e che si proceda, conseguentemente, all’adozione di quelle misure che, come si vedrà nel prosieguo di questo scritto, non sono assolutamente trascendentali ma riflettono indicazioni di tutela abbondantemente descritte in via generale dai citati atti normativi e protocolli di sicurezza e da adattare soltanto alla specifica attività.
3.In particolare: le norme sulla valutazione del rischio da esposizione ad agente biologico
Va ora aggiunto che, derivando il rischio di cui si discute da un agente biologico, assume rilievo il richiamo, operato dal terzo comma dell’art.28, a proposito del contenuto del DVR, alle indicazioni previste dalle specifiche norme sulla valutazione dei rischi contenute negli altri titoli del decreto legislativo, ed in particolare alle disposizioni del titolo X, in tema di esposizione ad agenti biologici, riferite, come stabilisce l’art. 266, “a tutte le attività lavorative nelle quali vi è rischio di esposizione ad agenti biologici”. Giova ricordare che la definizione di “agente biologico” di cui all’art. 267 lett. a) ha riguardo a “qualsiasi microrganismo anche se geneticamente modificato, coltura cellulare ed endoparassita umano che potrebbe provocare infezioni, allergie o intossicazioni”.
Per la verità, non tutte le disposizioni di cui al titolo X appaiono riferibili anche al rischio da contagio da agente biologico esterno, posto che alcune di esse (artt. 269-270) si riferiscono ad attività che comportano l’uso dell’agente biologico, mentre altre (artt. 274-275-276-277) si riferiscono ad attività o evenienze specifiche (strutture sanitarie e veterinarie, laboratori, processi industriali che comportano l’uso di agenti biologici, misure di emergenza in caso di dispersione nell’ambiente di agenti biologici). Peraltro, che le norme del titolo X in tema di valutazione dei rischi da agente biologico possano trovare applicazione – ad eccezione di previsioni specifiche - anche nelle fattispecie relative alla valutazione del rischio da contagio da covid-19 appare conclusione necessitata soprattutto alla luce della previsione di cui all’art. 271, comma quarto, che consente al datore di lavoro, per le attività che, pur non comportando la deliberata intenzione di operare con agenti biologici, “possono implicare il rischio di esposizione dei lavoratori agli stessi”, di prescindere dall’attuazione di talune misure delineate dalle norme del titolo X, qualora i risultati della valutazione dimostrino che le misure stesse non siano necessarie.
Quanto alle modalità di effettuazione della valutazione dello specifico rischio da contagio da covid-19 si rimanda, pertanto, alle indicazioni dell’art.271, precisando peraltro che in proposito sarebbero utili integrazioni o specificazioni di fonte normativa. Basti pensare, ad esempio, al rilievo che assume la classificabilità (per la quale il datore di lavoro non può, allo stato, che rifarsi alle indicazioni dei propri collaboratori tecnicamente competenti, medico competente e RSPP) del covid-19 quale agente biologico del gruppo 2 o del gruppo 3, secondo le definizioni dell’art. 268, comma 1, lett. b) e lett. c)[11], posto che dall’una o dall’altra opzione derivano differenti oneri attuativi.
4.Rischio da covid-19: aggiornamento del documento di valutazione dei rischi (DVR)
Apprezzata, dunque, la necessità di procedere alla valutazione del rischio da covid-19, potrebbe però astrattamente argomentarsi che l’obbligo in questione debba valere per le nuove attività, quelle cioè che nascono durante l’emergenza epidemiologica, mentre non vi sarebbe, alla luce della disposizione di cui all' art. 29, comma 3, in tema di aggiornamento della valutazione dei rischi, alcun obbligo di rielaborazione della valutazione per le attività già in essere al momento dell’insorgere dell’epidemia/pandemia.
La norma citata àncora invero l’obbligo di aggiornamento a modifiche del processo produttivo o dell’organizzazione del lavoro significative ai fini della salute e sicurezza, al grado di evoluzione della tecnica, della prevenzione o della protezione, ad infortuni significativi o agli esiti della sorveglianza sanitaria. Si potrebbe quindi ritenere, ancora una volta, che essa riguardi solo le attività che concernono prestazioni mediche ed infermieristiche o di laboratorio, posto che nell’ambito di queste la nuova patologia da combattere ha indubbiamente determinato un mutamento significativo dell’attività di diagnosi, cura, assistenza ed analisi.
Una tale lettura della norma, formalistica, sarebbe peraltro incongrua. A parte il paradosso di ritenere che, patrocinando la stessa, dovrebbero cautelare i propri dipendenti contro il contagio solo le aziende di nuova costituzione (in concreto pressocchè inesistenti nell’attuale contesto sociale) e non tutte le altre, oppure il paradosso di ritenere che bisognerebbe attendere il manifestarsi di un contagio in azienda o in ufficio per procedere a rielaborare il DVR, l’interpretazione letterale appena citata non tiene conto del fatto che un apprezzamento sistemico del concetto di “valutazione dei rischi” in seno alla normativa di prevenzione porta necessariamente a ritenere – come del resto osservato dalla concorde giurisprudenza[12] – che lo stesso, in quanto finalizzato alla tutela della salute e sicurezza dell’individuo e caratterizzato, come detto, dalla onnicomprensività dell’orizzonte valutativo, abbia natura dinamica e non statica, per cui debba necessariamente riflettere una concezione del rischio anch’essa dinamica, e debba dunque essere duttile, così da apprezzare qualsiasi mutamento che vada ad incidere sulle condizioni di esercizio dell’attività lavorativa, per qualunque ragione esso si determini.
Ma del resto, rimanendo alla stessa lettera della norma, non può non assumere comunque rilievo il fatto che l’attuale emergenza epidemiologica abbia apportato, se non altro per effetto dell’obbligo di ottemperare alle diverse misure di contenimento del virus dettate in sede legislativa o di normazione secondaria (DPCM, ordinanze, ecc.) un mutamento dell’organizzazione lavorativa significativo ai fini della salute e della sicurezza; è vero che, a stretto rigore, è il mutamento organizzativo che deriva dal nuovo rischio, e non il contrario, ma non v’è dubbio che, a sua volta, le implicazioni del mutamento organizzativo necessitano di essere valutate. Così pure, per altro verso, l’evoluzione del grado della prevenzione e della protezione, collegata sempre alle esigenze di contenimento del virus, è un altro presupposto che fonda, a mente dell’art. 29, comma 3, l’obbligo di aggiornamento del DVR.
Appare quindi opportuno affermare un dovere di rielaborazione della valutazione dei rischi per effetto dell’emergenza epidemiologica in atto, precisando peraltro che il termine di trenta giorni per la rielaborazione, che decorre dal manifestarsi dell’evenienza che impone la rielaborazione stessa (art. 29, terzo comma) non può che essere apprezzato con estrema cautela nell’attuale contesto emergenziale.
E’ evidente che il datore di lavoro deve ricorrere, ai sensi dell’art. 29, comma uno, ai suoi collaboratori istituzionali, RSPP e medico competente, e ciò vale ovviamente anche per il dirigente di un ufficio giudiziario, che non ha le competenze e le cognizioni tecniche e scientifiche per procedere al riguardo, ma può, e deve, solo essere a conoscenza, oltre che ovviamente della realtà del proprio ufficio, delle disposizioni legislative e di normazione secondaria che vengono emanate per il contenimento dell’emergenza in atto, nonché delle indicazioni contenute nelle direttive del Ministero della Giustizia.
5.Rischio da covid-19: aggiornamento del documento di valutazione dei rischi da interferenze (DUVRI)
Risposta affermativa appare preferibile dare anche al quesito circa la necessità di procedere, nel caso dei cd. “appalti interni” di cui all’art.26 del d.lgs. n.81/2008, e cioè nei casi di affidamento di lavori, servizi o forniture ad imprese appaltatrici o a lavoratori autonomi nell’ambito dell’azienda (da intendere come sopra specificato) o di una unità produttiva della stessa o comunque nell’ambito del ciclo aziendale, all’aggiornamento del documento unico di valutazione dei rischi da interferenze (DUVRI).
Va premesso, al riguardo, che il rischio da interferenze è non solo quello che deriva dal contatto fisico tra lavoratori di compagini lavorative diverse, ma, come la giurisprudenza tradizionalmente afferma, anche quello che attiene alla “concreta interferenza tra le organizzazioni che operano sul medesimo luogo di lavoro e che può essere fonte di ulteriori rischi per l'incolumità dei lavoratori delle imprese coinvolte”[13]. Basti pensare, per quanto concerne ad esempio la realtà degli uffici giudiziari, alle imprese di pulizie, di vigilanza e, nell’attualità, alle imprese eventualmente chiamate ad operare la sanificazione dei locali.
Il concetto onnicomprensivo di rischio da valutare, che si è dapprima patrocinato, vale a far comprendere l’esigenza di riflettere circa l’opportunità di informare le imprese e i lavoratori autonomi affidatari di opere o servizi circa le misure di prevenzione e protezione messe in atto per fronteggiare il pericolo di contagio e di adottare misure analoghe o, se del caso, ulteriori anche in dipendenza della presenza, sul luogo di lavoro, di compagini lavorative diverse. Una delle cautele più ovvie è quella che consiste nell’evitare o ridurre al minimo la compresenza di personale appartenente ad organizzazioni lavorative diverse.
6.Le misure di prevenzione e protezione contro il rischio da covid-19
Nel sistema generale della sicurezza del lavoro alla valutazione dei rischi deve seguire, all’interno del DVR, l’indicazione delle misure di prevenzione e protezione da attuare (art. 29, comma 2); all’indicazione deve poi ovviamente fare seguito la concreta attuazione delle misure.
Le considerazioni che in proposito si delineano nel presente scritto hanno, ovviamente, contenuto meramente giuridico, competendo in linea di massima ai collaboratori tecnici l’individuazione specifica delle cautele da adottare, anche se sulla base dei principi generali e delle disposizioni specifiche contenute nel d.lgs. n.81/2008 nonché alla stregua delle indicazioni tipiche contenute nella normativa dettata per il contenimento della pandemia, cui si è fatto cenno nel primo paragrafo.
Vale la pena aggiungere che, anche a voler seguire l’opinione che non giudica necessario l’aggiornamento del DVR e del DUVRI per effetto della pandemia in corso, nondimeno non può certo escludersi l’obbligo del datore di lavoro, se non altro alla stregua della disposizione di cui all’art. 2087 cod. civ., nonché delle ricordate indicazioni della normativa emergenziale, latu sensu intesa, di adottare le necessarie misure di sicurezza.
In questo senso va precisato che, alla stregua dei principi di carattere generale in materia, le misure di sicurezza possono e devono essere sia di carattere organizzativo e procedimentale, che di carattere per così dire “materiale” (con finalità di tutela collettiva dei luoghi di lavoro e dell’insieme dei lavoratori, ovvero di tutela individuale dei singoli). Il tutto tenendo presente, da un lato, l’esigenza di conformarsi ai risultati del sapere scientifico e tecnologico (ovviamente in continua evoluzione nel campo del contenimento coronavirus) e, dall’altro, la considerazione per cui eventuali difficoltà di carattere economico non potrebbero mai giustificare l’omessa adozione delle necessarie cautele di prevenzione. Sul punto, peraltro, un’ulteriore notazione si impone: come è noto, nell’attuale contesto emergenziale si verifica purtroppo spesso una contingente indisponibilità, o difficoltà di approvvigionamento, di taluni presidi di prevenzione (ad esempio le ormai famose mascherine); tale circostanza, se non può esimere il datore di lavoro da ogni capillare ricerca in proposito, certamente vale a giustificare, in casi specifici nei quali il datore di lavoro si sia comunque adoperato al massimo per adempiere all’onere di prevenzione, eventuali inadeguatezze o incompletezze nell’osservanza dei precetti di prevenzione, sotto il profilo della concreta inesigibilità del comportamento doveroso omesso.
Delle difficoltà che derivano dall’attuale contesto emergenziale sembra, del resto, che si sia reso conto lo stesso legislatore, allorquando, proprio con riferimento a quei dispositivi di protezione individuale (DPI) che sono le mascherine protettive, ha stabilito, negli artt. 15 e 16 del D.L. n.18/2020, che “è consentito produrre, importare e immettere in commercio mascherine chirurgiche e dispositivi di protezione individuale in deroga alle vigenti disposizioni” e che “per i lavoratori che nello svolgimento della loro attività sono oggettivamente impossibilitati a mantenere la distanza interpersonale di un metro, sono considerati dispositivi di protezione individuale (DPI) le mascherine chirurgiche reperibili in commercio”. Una sorta di minus, quindi, rispetto al target ottimale di protezione, giustificato dalla contingenza del delicato momento che stiamo attraversando e comunque in qualche modo in linea con il principio della riducibilità del rischio, in caso di impossibilità di eliminazione.
Ciò detto, e tornando al tema dell’individuazione delle cautele e delle protezioni da adottare, si deve necessariamente prendere le mosse da quelle indicazioni/raccomandazioni contenute nei DPCM che si sono succeduti in materia ed ai quali si faceva cenno nel paragrafo iniziale, dal momento che si tratta di previsioni specifiche dettate per fronteggiare i nuovi rischi che si profilano.
Tali indicazioni/raccomandazioni, che riflettono, a loro volta, indicazioni provenienti dall’OMS e dal Ministero della Salute, possono agevolmente raccordarsi, sotto il profilo sistematico, al generale disegno del nostro sistema normativo in tema di sicurezza del lavoro, se non altro per il tramite della già ricordata norma aperta di cui all’art. 2087 cod. civ., suscettibile di essere riempita di contenuto, nell’attuale contesto emergenziale, proprio con il riferimento alle citate indicazioni di prevenzione e protezione.
Inoltra giova osservare che, anche per effetto delle ricordate disposizioni di cui al D.L. n. 19/2020, assume specifico rilievo – oltre a rinvenire una sorta di copertura legislativa - il contenuto del protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus covid-19 negli ambienti di lavoro, sottoscritto il 14 marzo 2020 fra il Governo e le parti sociali, al quale pure si è fatto riferimento nel primo paragrafo.
L’analisi delle raccomandazioni del protocollo, cui ora si procederà in modo sintetico, consente inoltre di apprezzare come le stesse si raccordino, in buona sostanza, con principi e precetti propri del sistema di prevenzione disegnato dal d.lgs. n.81/2008, delle cui previsioni costituiscono in taluni casi esplicitazioni, con riguardo alla specificità del nuovo rischio.
7.In particolare, il protocollo condiviso per l’attuazione delle misure di contrasto al covid-19
Il protocollo definisce il covid-19 come un “rischio biologico generico” e si propone di fornire “indicazioni operative finalizzate a incrementare, negli ambienti di lavoro, non sanitari, l’efficacia delle misure precauzionali di contenimento adottate per contrastare l’epidemia di covid-19”. Fa espresso riferimento alle misure restrittive specifiche delineate, per il contenimento del virus, dal DPCM 11 marzo 2020 (come visto attualmente superato dal DPCM 10 aprile 2020, che peraltro, come già detto, richiama le medesime misure e dà l’indicazione di applicare il protocollo) e stabilisce ulteriori misure di precauzione da applicare, prevedendo espressamente che le stesse possano essere integrate con altre equivalenti ovvero più incisive, secondo la peculiarità delle singole organizzazioni lavorative[14], previa consultazione delle rappresentanze sindacali aziendali, “per tutelare la salute delle persone presenti all’interno dell’azienda e garantire la salubrità dell’ambiente di lavoro”[15].
Nonostante il formale riferimento ad imprese ed aziende, non v’è dubbio – ed è confermato dalle previsioni del citato decreto legge - che le indicazioni del protocollo possano essere recepite anche nell’ambito di uffici pubblici, per la sostanziale analogia dei rischi, delle condizioni di lavoro e delle esigenze e finalità di prevenzione e protezione.
La prima misura è rappresentata dal dovere di informazione, nei confronti dei lavoratori e di chiunque entri nei luoghi di lavoro, circa le disposizioni e le raccomandazioni delle autorità sanitarie finalizzate a fronteggiare il rischio da contagio, con particolare riguardo alle cautele da osservare in presenza di sintomi che riflettono una situazione di pericolo per la propria e l’altrui persona. L’informazione concerne anche l’impegno ad osservare le disposizioni di cautela dettate in sede nazionale o nell’ambito della singola compagine lavorativa.
Si tratta, in buona sostanza, di una esplicitazione del generale obbligo di informazione dei lavoratori circa i rischi dell’attività lavorativa delineato dall’art. 36 del d.lgs. n.81/2008 e, con riguardo all’esposizione ad agenti biologici, ma con più diretto riferimento alle attività lavorative che impiegano agenti siffatti, dall’art. 278.
Il dovere di informazione non richiede necessariamente l’effettuazione di colloqui con i singoli lavoratori, potendo risultare sufficiente l’affissione di avvisi circa comportamenti e cautele da osservare.
La seconda misura riguarda le precauzioni da prendere circa le modalità di ingresso delle persone nei luoghi di lavoro, con particolare riferimento alla possibilità di rilevare la temperatura corporea, nel rispetto delle cautele inerenti la tutela della privacy. Non si tratta di una misura ad attuazione obbligatoria, ma di una indicazione cautelare che, anche alla luce delle concrete possibilità di approvvigionamento degli strumenti necessari, potrà nei congrui casi essere adottata.
Considerazioni in gran parte analoghe possono esprimersi a proposito della terza misura, relativa alle modalità di accesso dei fornitori esterni. Sul punto possono assumere rilievo anche le previsioni stabilite, nelle singole strutture di lavoro, con l’aggiornamento del DUVRI.
La quarta misura ha riguardo alle operazioni di pulizia, giornaliera, e sanificazione, periodica, dei luoghi, intesi in modo esteso, e delle postazioni di lavoro di lavoro. Si tratta di una misura che certamente esplicita, con riguardo alla specificità del rischio che ci troviamo ad affrontare, le misure tecniche, organizzative e procedurali delineate dall’art. 272 del d.lgs. n.81/2008 per le attività che comportano esposizione ad agenti biologici[16].
Le precauzioni igieniche personali (lavaggio delle mani, uso di gel igienizzanti) delineate con la quinta misura, non fanno altro che ribadire le raccomandazioni che, per tutta la popolazione, le autorità sanitarie da tempo esprimono in tutto il mondo[17].
La sesta misura ha riguardo al delicato tema dei dispositivi di protezione individuale (DPI). Sul punto giova premettere che il d.lgs. n.81/2008 dedica al tema un intero capo, il secondo, del titolo terzo, precisando all’art. 74 che “si intende per dispositivo di protezione individuale…qualsiasi attrezzatura destinata ad essere indossata e tenuta dal lavoratore allo scopo di proteggerlo contro uno o più rischi suscettibili di minacciarne la sicurezza o la salute durante il lavoro, nonché ogni complemento o accessorio destinato a tale scopo”. E’ ben evidente, dunque, come le mascherine, i guanti, gli occhiali protettivi, le cuffie, le tute, i camici che valgono a proteggere dal rischio di contagio rientrano a pieno titolo in tale definizione. E’ però fondamentale, al riguardo, citare la disposizione di cui all’art. 75: “I DPI devono essere impiegati quando i rischi non possono essere evitati o sufficientemente ridotti da misure tecniche di prevenzione, da mezzi di protezione collettiva, da misure, metodi o procedimenti di riorganizzazione del lavoro”. Non, dunque, un obbligo di uso indiscriminato, ma una appropriata valutazione circa l’inadeguatezza, nei congrui casi, di misure di tutela diverse dal DPI. E le indicazioni del protocollo, come quelle, già citate, dei DPCM, precisano che l’obbligo di impiego dei DPI si configura, per le attività diverse da quelle sanitarie, infermieristiche e simili, “qualora il lavoro imponga di lavorare a distanza interpersonale minore di un metro e non siano possibili altre soluzioni organizzative”[18].
Giova, da ultimo, sottolineare come il protocollo, facendosi carico delle notorie difficoltà che sono in questi tempi sotto gli occhi di tutti, si faccia carico di precisare che l’adozione dei DPI, pur essendo “fondamentale”, è, “vista l’attuale situazione di emergenza, evidentemente legata alla disponibilità in commercio”. Ecco, questa previsione è, in verità, poco coerente con i principi generali del nostro ordinamento giuridico in tema di sicurezza del lavoro, ma può indubbiamente comprendersi con le difficoltà di approvvigionamento che sono purtroppo sotto gli occhi di tutti e che è auspicabile vengano al più presto meno.
La settima misura concerne la necessità di una gestione accorta degli spazi comuni (mensa, spogliatoi, aree fumatori, distributori di bevande) in modo da evitare assembramenti e garantire ventilazione e pulizia. Va anch’essa ricondotta alle previsioni generali di sicurezza circa i luoghi di lavoro; pare opportuno estenderla all’utilizzo degli ascensori.
L’ottava misura è particolarmente interessante, perché esplicita un principio generale proprio dell’ordinamento giuridico in tema di sicurezza del lavoro, e cioè quello per cui le misure di prevenzione possono avere anche natura organizzativa e procedimentale. Si raccomanda, infatti, così come è progressivamente avvenuto in seno ai diversi DPCM e decreti leggi finalizzati a delineare misure di contenimento della pandemia, di operare una riorganizzazione del lavoro che valga, sulla base di intese con gli organismi sindacali, a disporre la chiusura di reparti (lo stesso può dirsi per gli uffici) non essenziali, a favorire il lavoro agile[19], ad attuare turnazioni dei lavoratori, ad incentivare il ricorso a strumenti giuridici che giustificano l’assenza dal lavoro (ferie, permessi, ecc.) ad evitare trasferte dei lavoratori.
E’ evidente che le decisioni in proposito devono essere modulate a seconda della specificità delle singole lavorazioni, in termini sia di essenzialità dei servizi che di concreta adottabilità di forme alternative al lavoro in presenza, ma è importante ribadire che le misure organizzative sono forse le più efficaci per far fronte all’attuale rischio da contagio negli ambiti lavorativi[20].
Tra le misure di tipo organizzativo può, in via generale, citarsi quella, di carattere generale, come tale da applicare anche in ambiti non lavorativi, relativa al distanziamento sociale[21].
Anche la nona e la decima misura hanno natura organizzativa, in quanto hanno riguardo, la prima, all’esigenza di una gestione accorta dell’entrata e dell’uscita dei dipendenti, volta a dilazionarli nel tempo, al fine di evitare assembramenti e, la seconda, alle modalità di gestione degli spostamenti interni, delle riunioni, degli eventi interni e della formazione; si raccomanda l’impiego di strumenti digitali di collegamento a distanza per riunioni e formazione, garantendo, nei casi in cui ciò sia impossibile e vi sia urgenza di provvedere, il distanziamento sociale.
L’undicesima misura ha riguardo alle modalità di gestione di una persona sintomatica nei luoghi di lavoro ed è, in qualche modo, riconducibile al tema della gestione delle emergenze di cui agli artt. 43 e segg. del d.lgs. n.81/2008. Fondamentali sono, al riguardo, la preventiva informazione data ai lavoratori e poi la pronta collaborazione con l’autorità sanitaria.
La dodicesima misura riguarda un campo assai delicato, come è quello della sorveglianza sanitaria. Nel nostro sistema normativo in tema di salute e sicurezza del lavoro non per ogni attività è prevista la sorveglianza sanitaria (definita dall’art. 2 lett. m) del d.lgs. n.81/2008 come “insieme di atti medici, finalizzati alla tutela dello stato di salute e sicurezza dei lavoratori, in relazione all’ambiente di lavoro, ai fattori di rischio professionali e alle modalità di svolgimento dell’attività lavorativa”) ma, a mente dell’art. 41, comma 1, lett.a) del d.lgs. n.81/2008, solo per quelle attività previste da specifiche disposizioni di legge o indicate dalla Commissione consultiva permanente per la salute e sicurezza su lavoro, istituita presso il Ministero del lavoro. Peraltro, a mente della lett.b) del medesimo comma, la sorveglianza sanitaria è effettuata anche quando il singolo lavoratore ne faccia richiesta e la stessa sia ritenuta dal medico competente correlata ai rischi lavorativi. Inoltre, con specifico riferimento ai casi di esposizione ad agente biologico, l’art. 279, primo comma, stabilisce che “qualora l’esito della valutazione del rischio ne rilevi la necessità, i lavoratori esposti ad agenti biologici sono sottoposti alla sorveglianza sanitaria di cui all’art.41”, così ampliando il numero delle fattispecie di controllo, a fini sanitari, sui lavoratori.
Ebbene, il protocollo in esame sollecita a non interrompere, ma anzi ad incentivare, con le dovute precauzioni, la sorveglianza sanitaria e, per altro verso, stimola il medico competente a proporre al datore di lavoro tutte le misure di regolamentazione legate all’emergenza in atto e a segnalare all’azienda, perché se ne possa prendere cura, eventuali situazioni di specifica fragilità di singoli lavoratori.
Va aggiunto, in via generale, che nelle attività diverse da quelle sanitarie, infermieristiche e simili, il lavoratore che contragga il covid-19 non deve essere, una volta guarito, necessariamente sottoposto a visita medica prima di riprendere il lavoro, a meno che la malattia non si sia protratta per oltre 60 giorni (art.41, primo comma, lett. e-ter).
La tredicesima misura prevede l’istituzione di comitati aziendali, con la partecipazione della rappresentanze sindacali aziendali e dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza (RLS) per il monitoraggio dell’applicazione del protocollo. La misura si colloca nell’ambito delle previsioni della vigente normativa in tema di partecipazione e collaborazione dei lavoratori all’attuazione efficace delle misure di sicurezza.
Ma oltre alle specifiche indicazioni del protocollo siglato in sede nazionale, altri principi generali in tema di prevenzione devono trovare applicazione per un efficace organizzazione, nelle singole compagini di lavoro, del sistema globale di protezione avverso la nuova minaccia biologica. Al riguardo è sufficiente fare menzione di obblighi fondamentali del datore di lavoro, come quello inerente la vigilanza sui lavoratori, onde assicurarsi che i lavoratori prestino osservanza alle disposizioni generali e specifiche in materia di sicurezza, anche con riguardo all’uso dei DPI. Di assoluta importanza, in un contesto come quello attuale, è del resto il dovere di ogni lavoratore di prendersi cura della propria salute e sicurezza, ma anche di quella di ogni altra persona presente sul luogo di lavoro (art. 20, primo comma, d.lgs. n.81/2018).
Ma anche il dovere di formazione del lavoratore (art.37 d.lgs. n.81/2008) assume un indubbio rilievo, al fine di mettere in grado il lavoratore stesso di porre in essere eventuali comportamenti doverosi per la limitazione della diffusione del contagio, comportamenti che possono essere, se del caso e a seconda della specifica prestazione lavorativa svolta, anche ulteriori rispetto a quelli prescritti nelle diverse indicazioni e raccomandazioni di cui si è più volte fatta menzione in questo scritto e che comunque è auspicabile che costituiscano ormai patrimonio comune di ogni cittadino.
In conclusione, una volta esaurita la disamina delle cautele e tutele, certamente non trascendentali, che è opportuno porre in essere per fronteggiare il rischio di contagio nella maggior parte degli ambiti lavorativi, viene spontaneo chiedersi, ritornando al quesito circa la necessità o meno di operare la valutazione del rischio da covid-19: ma alla base della determinazione di attuare le indicate cautele e tutele non sta forse, quanto meno come antecedente logico ineludibile, un giudizio valutativo, seppur informale o implicito, circa le implicazioni, nei luoghi di lavoro, del rischio di contagio, e dunque null’altro che una valutazione del rischio stesso….?
[1] Esula dal presente scritto l’analisi delle previsioni normative e delle problematiche di sicurezza relative alle attività sanitarie e infermieristiche e alle attività dei laboratori che analizzano il coronavirus.
[2] E’ il decreto legge che si è prefisso di operare una sorta di “sistemazione” del diluvio di disposizioni emanate dalle diverse istituzioni a seguito del manifestarsi dell’emergenza da covid-19, garantendo al contempo una copertura legislativa alle disposizioni stesse.
[3] Le disposizioni citate ribadiscono quelle dei precedenti DPCM, ed in particolare quelle di cui all’art.1, punto 7, del DPCM 11 marzo 2020, che ha disposto il cd. lockdown sull’intero territorio nazionale.
[4] Non a caso l’art. 2087 cod. civ., norma di grandissima civiltà giuridica, è spesso definita come la norma di chiusura dell’ordinamento giuridico in tema di salute e sicurezza del lavoro, una norma cioè, a contenuto “aperto”, che viene in rilievo ogniqualvolta non si rinvengano disposizioni che valgano a delineare specifici obblighi di prevenzione, anche a fronte di situazioni di rischio ancora non normate.
[5] Così è a dire, ad esempio, per i diversi uffici giudiziari, il cui dirigente rileva, come è noto, alla stregua di “datore di lavoro” ai fini dell’applicazione delle norme di salute e sicurezza del lavoro.
[6] Tra i tanti contributi già elaborati in argomento giova citare CANNELLA, Il Coronavirus sui luoghi di lavoro: profili di responsabilità e privacy, in ambl@v-news, n. 12; CATANOSO, La valutazione dei rischi e il DVR ai tempi del Coronavirus, in Puntosicuro, 27.02.2020; CORSARO-ZAMBRINI, Compliance aziendale, tutela dei lavoratori e gestione del rischio pandemico, www.giurisprudenzapenale.com, 2020; DUBINI, COVID-19: sulla valutazione dei rischi da esposizione ad agenti biologici, in Puntosicuro, 02.03.2020; GALLO, La sicurezza sul lavoro al tempo del coronavirus tra incertezze e vuoti normativi, in Guida al lavoro, 11, 21-30; GUARINIELLO, La sicurezza sul lavoro al tempo del coronavirus, Wolters Kluver, 2020; LAZZARI, Per un (più) moderno diritto della salute e della sicurezza sul lavoro: primi spunti di riflessione a partire dall’emergenza da Covid-19, in Diritto della Sicurezza sul Lavoro, 1/2020, I, 136-149; NATULLO, Covid-19 e sicurezza sul lavoro: nuovi rischi, vecchie regole?, in WP CSDLE “Massimo D’Antona”.IT –413/2020; PASCUCCI, Ancora su coronavirus e sicurezza sul lavoro: novità e conferme nello ius superveniens del d.P.C.M. 22 marzo 2020 e soprattutto del d.l. n. 19/2020, in Diritto della sicurezza sul lavoro, 1/2020, I, 117-135; PELUSI, Tutela della salute dei lavoratori e COVID-19: una prima lettura critica degli obblighi datoriali, in Diritto della sicurezza sul lavoro, 2/2019, I, 122-137
[7] La definizione di “unità produttiva” si rinviene nell’art.2, lett. t) del d.lgs. n.81/2008: “stabilimento o struttura finalizzati alla produzione di beni o all’erogazione di servizi, dotata di autonomia finanziaria e tecnico funzionale”.
[8] Nell’ambito di questa opinione taluni ritengono sufficiente che delle misure di contrasto alla diffusione del virus si siano fatti carico, trattandosi di tematica che attiene alla “salute pubblica”, il legislatore e gli organi di Governo.
[9] Giova ricordare che nell’interpello 25 ottobre 2016, n.37412, la Commissione per gli interpelli, istituita presso il Ministero del lavoro ai sensi dell’art. 12 del d.lgs. n.81/2008, ha dato risposta affermativa al quesito circa il dovere del datore di lavoro di valutare anche i rischi ambientali legati alla caratteristiche del paese in cui la prestazione lavorativa deve essere svolta, quali i cd. rischi generici “aggravati” dalla situazione geopolitica del paese o dalle condizioni sanitarie del contesto geografico di riferimento.
[10] Circa l’onnicomprensività della valutazione dei rischi e la specificità della stessa basti citare la fondamentale sentenza delle Sezioni Unite n. 38343 del 24/04/2014 Ud. (dep. 18/09/2014 ) P.G., R.C., Espenhahn e altri, che ha concluso la triste vicenda della Thysenkrupp: “In tema di prevenzione degli infortuni, il datore di lavoro, avvalendosi della consulenza del responsabile del servizio di prevenzione e protezione, ha l'obbligo giuridico di analizzare e individuare, secondo la propria esperienza e la migliore evoluzione della scienza tecnica, tutti i fattori di pericolo concretamente presenti all'interno dell'azienda e, all'esito, deve redigere e sottoporre periodicamente ad aggiornamento il documento di valutazione dei rischi previsto dall'art. 28 del d.lgs. n. 81 del 2008, all'interno del quale è tenuto a indicare le misure precauzionali e i dispositivi di protezione adottati per tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori”. Quanto alla specificità della valutazione, è emblematica Cass. Pen., sez. IV, n. 20129 del 10/03/2016 Ud. (dep. 16/05/2016 ), Serafica e altro: “In tema di prevenzione degli infortuni, il datore di lavoro ha l'obbligo di analizzare e individuare con il massimo grado di specificità, secondo la propria esperienza e la migliore evoluzione della scienza tecnica, tutti i fattori di pericolo concretamente presenti all'interno dell'azienda, avuto riguardo alla casistica concretamente verificabile in relazione alla singola lavorazione o all'ambiente di lavoro, e, all'esito, deve redigere e sottoporre periodicamente ad aggiornamento il documento di valutazione dei rischi previsto dall'art. 28 del d.lgs. n. 81 del 2008, all'interno del quale è tenuto a indicare le misure precauzionali e i dispositivi di protezione adottati per tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori”. Giova aggiungere che l’obbligo di procedere alla valutazione dei rischi prescinde integralmente dall’eventuale conoscenza del rischio da parte dei lavoratori e dalla capacità degli stessi di prendersi cura di sé e dei colleghi (cfr. Cass. Pen., sez. IV., n. 40718 del 26/04/2017 Ud.,dep. 07/09/2017, Raimondo).
[11] Agente biologico del gruppo 2: “un agente che può causare malattie in soggetti umani e costituire un rischio per i lavoratori: è poco probabile che si propaghi nella comunità; sono di norma disponibili efficaci misure profilattiche o terapeutiche”. Agente biologico del gruppo 3, classificazione che appare per la verità più pertinente: “un agente che può causare malattie in soggetti umani e costituire un serio rischio per i lavoratori: l’agente biologico può propagarsi nella comunità, ma di norma sono disponibili efficaci misure profilattiche o terapeutiche”.
[12] Tra le tante si veda Cass. pen, sez. IV, ud. 5 giugno 2018 (dep. 30 agosto 2018) n. 39283: “E' noto che in tema di prevenzione degli infortuni, il datore di lavoro non solo ha l'obbligo di redigere il documento di valutazione dei rischi previsto dall'art. 28 del d.lgs. n. 81 del 2008, analizzando ed individuando con il massimo grado di specificità - secondo la propria esperienza e la migliore evoluzione della scienza tecnica - tutti i fattori di pericolo concretamente presenti all'interno dell'azienda, ma è tenuto anche a sottoporre a periodico aggiornamento il suddetto documento”.
[13] Così, tra le più recenti, Cass. Pen., sez. IV , sentenza n. 1777 del 06/12/2018 Ud. (dep. 16/01/2019 ) Perano.
[14] Risulta che siano stati stipulati protocolli integrativi per settori specifici, come quello per i settori sanità, servizi socio sanitari e socio assistenziali, o quello per il settore dei trasporti, il quale ultimo contiene, tra l’altro, l’indicazione di procedere ad aggiornamento del DVR.
[15] Quanto ai primi commenti sul protocollo giova citare COMETTO, Coronavirus, protocollo a tutela dei lavoratori: è una misura efficace?, in Salvis Juribus; MENDUTO, COVID-19: il nuovo protocollo per tutelare la salute nei luoghi di lavoro, in Puntosicuro, 16.03.2020; PASCUCCI, Coronavirus e sicurezza sul lavoro, tra “raccomandazioni” e protocolli. Verso una nuova dimensione del sistema di prevenzione aziendale?, in Diritto della sicurezza sul lavoro, 2/2019, I, 98-121.
[16] Specifiche indicazioni circa l’attività di pulizia, sanificazione, igienizzazione dei locali sono contenute, per gli uffici giudiziari, nella direttiva del Dipartimento dell’Organizzazione Giudiziaria del Personale e dei Servizi del Ministero della Giustizia in data 6 marzo 2020, paragrafo 3, che richiama le disposizioni della circolare del 22 febbraio 2020 del Ministero della salute.
[17] Giova richiamare sul punto il paragrafo 2 della direttiva citata nella precedente nota.
[18] Nel paragrafo 4 della direttiva del DOG del 6 marzo 2020 si specifica che l’uso dei DPI negli uffici pubblici, anche se aperti al pubblico, non deve considerarsi generalizzato, ma va attuato alla stregua delle prescrizioni dell’autorità sanitaria.
[19] Non ci si può in questa sede soffermare, per evidenti limiti di spazio, sulla specifica tematica della sicurezza del lavoro agile e degli oneri che in proposito possono gravare sul datore di lavoro.
[20] Per gli uffici pubblici la circolare n.2/2020 del Ministro per la Pubblica Amministrazione ha specificamente indicato forme di riorganizzazione del lavoro che hanno una eminente finalità di prevenzione. Si tratta dell’incentivazione dello smart working, dell’adozione di forme di rotazione dei dipendenti per le attività per cui è indispensabile la presenza fisica in ufficio, della gestione razionale delle attività di ricevimento del pubblico (con prenotazione degli appuntamenti, possibile assistenza virtuale, scaglionamento degli accessi) oltre che di strumenti che attengono direttamente ad istituti giuridici propri del diritto del lavoro, sui quali non è questa la sede per soffermarsi. Misure analoghe sono indicate anche nella direttiva del DOG in data 10 marzo 2020 e in quella successiva del 19 marzo 2020.
[21] La direttiva del DOG del 10 marzo 2020 fa menzione dell’esigenza di adottare accorgimenti logistici, tra cui la distanza di scurezza interpersonale, per evitare una prossimità fisica potenzialmente nociva, soprattutto negli uffici che hanno relazioni con il pubblico.