Diritto di informazione e dovere di verità al tempo di COVID-19
di Giovanni Magrì
Sommario: 1. Nuove tecnologie e dimensione “orizzontale” del diritto di informazione - 2. Il dibattito sui “diritti aletici”: una rassegna- 3. Un esempio dal coronavirus: “fatti”, teorie, decisioni politiche
1. Nuove tecnologie e dimensione “orizzontale” del diritto di informazione
È quasi un luogo comune della filosofia politica e del diritto pubblico comparato: nella tradizione liberale (diciamo, semplificando: soprattutto anglosassone) i natural rights, e più tardi i fundamental rights, vengono sanciti e fatti valere essenzialmente nei confronti del potere; più precisamente del potere politico, che – costituito per stabilire (con le leggi) e conservare (con il monopolio della forza legittima) un ordine entro cui a ciascuno sia garantita la sicurezza della vita e a tutti la pace, onde meglio perseguire i propri interessi individuali – rischia di contraddire il suo stesso fondamento di legittimazione se, in nome dell’ordine e della pace sociale, nega e comprime quelle stesse libertà individuali, cui ordine e pace dovevano in ultima analisi essere funzionali. È, in buona sostanza, lo spauracchio del potere assoluto, che opera tanto al cuore dello stesso meccanismo logico e giuridico liberale di legittimazione del potere (il contrattualismo), quanto nella memoria storica dei popoli anglosassoni, degli inglesi come degli americani.
È di meno immediata comprensione, entro quella tradizione politico-culturale, l’idea che i diritti fondamentali possano essere lesi, e perciò meritino di essere protetti, anche da altri soggetti privati che tengano comportamenti i quali peraltro, rientrando nella loro sfera di libertà rispetto al potere politico, in prima approssimazione dovrebbero essere inquadrati come atti di esercizio di un loro diritto. Insomma: «se è riconosciuto ad un diritto fondamentale effetto diretto, tale riconoscimento dovrebbe essere caratterizzato da una doppia dimensione: quella verticale (autorità vs. libertà) e quella orizzontale (nei rapporti tra privati)»[1]; ma le Corti anglosassoni tradizionalmente resistono a trarre le conseguenze applicative del riconoscimento di tale ultima dimensione “orizzontale”, nell’assunto che «the judicialisation of relations between private persons [is] as an intolerable intrusion of the state into the sphere of private autonomy»[2].
L’assunto è arcinoto, discusso e studiato da diverse prospettive (di diritto costituzionale, di diritto internazionale e, da ultimo, anche di diritto civile). Ad abundantiam, valga la testimonianza autorevole di un intellettuale che, pure, non ha una formazione giuridica. Circa vent’anni fa, Jürgen Habermas, il grande sociologo e filosofo tedesco epigono della Scuola di Francoforte, cominciò a formulare le sue tesi su “i rischi di una genetica liberale” ed ebbe l’occasione di discuterle nel seminario di “Law, Philosophy & Social Theory” diretto da due altrettanto illustri colleghi, Ronald Dworkin e Thomas Nagel, presso la New York University Law School. Ne riportò l’impressione di una «differenza interessante» tra l’approccio dei filosofi tedeschi e quello dei colleghi americani[3], e ipotizzò che essa derivasse «da una fiducia ininterrotta nello sviluppo scientifico e tecnico, nonché dall’ottica di una tradizione liberale che risale a John Locke. La tutela delle libertà individuali dei soggetti di diritto viene fatta valere contro le interferenze dello stato, mentre – nell’analisi di ogni nuova sfida – si sottolineano soprattutto le minacce portate alla libertà nelle relazioni che collegano verticalmente i membri privati della società al potere dello stato. Di fronte al pericolo principale di una illecita invadenza del potere politico, passa in secondo piano la paura dell’abusivo potere esercitabile da privati contro privati nella dimensione orizzontale delle loro relazioni. Il diritto del liberalismo classico è estraneo all’idea di un “effetto su terzi” (Drittwirkung), ossia all’idea di un’efficacia orizzontale dei diritti fondamentali nei confronti di soggetti privati»[4].
Credo di non sbagliare se dico che un analogo “strabismo” si sarebbe potuto osservare, fino a poco tempo fa, anche nella discussione pubblica intorno al diritto/dovere di informazione. In proposito, la prima “minaccia” a cui tutti per decenni abbiamo pensato è stata quella della censura, o più in genere della limitazione o manipolazione delle informazioni da parte del potere politico; ci siamo rappresentati come caso-limite le modalità operative seguite da Goebbles nella Germania nazista[5] e abbiamo guardato con ironia alla testata sovietica Pravda (letteralmente, la “Verità”) o ai dazibao o tazebao maoisti. I più avvertiti tra noi hanno sempre saputo che, almeno in tempi di guerra, anche i regimi democratici non si astengono dall’esercitare un certo controllo sull’informazione, sulla divulgazione culturale e persino sull’intrattenimento; ma hanno anche sperato che, in tempo di pace, la libertà di informazione (appunto: libertà “verticale”, dalla censura e dal controllo del potere politico), insieme con il pluralismo delle fonti, fosse un antidoto sufficiente a quella “inclinazione” apparentemente irrefrenabile di qualsiasi potere politico.
La dimensione “orizzontale” della tutela del diritto di informazione è stata per lo più circoscritta, invece, alla protezione, anche in sede civile, dei diritti della personalità (nome, immagine, integrità morale, onore e reputazione, più avanti identità personale e riservatezza) nei confronti di chi sia individuato come civilmente responsabile dei danni cagionati diffondendo informazioni false o riservate. Tutti abbiamo studiato, fin dall’inizio dei nostri percorsi di formazione giuridica, le posizioni rispettive del “direttore responsabile” e dell’editore di una testata giornalistica, come destinatari di provvedimenti di tutela preventiva (inibitoria, rettifica) e successiva (risarcimento del danno, patrimoniale e non patrimoniale) dei diritti della personalità eventualmente lesi, o posti in pericolo, da un’attività “imprenditoriale” o comunque “professionale” nell’ambito dell’informazione[6].
Anche in questa materia, le nuove tecnologie hanno recato con sé un cambiamento radicale. Il “tradizionale” pluralismo delle fonti, infatti, muta essenzialmente di portata (e, per evocare di nuovo e per l’ultima volta Mao, la quantità si trasforma in qualità), laddove ogni privato cittadino può diventare “fonte di informazione”, a vario titolo: di solito perché la riceve e la reinvia (ai suoi “contatti” sociali, in una connessione di “rete”), abbastanza spesso anche perché la rielabora e, volendo, la “manipola”, infine (relativamente meno di frequente, forse) perché la produce, in qualità di vera e propria “sorgente” (nella terminologia canonica di Shannon e Weaver), creando un messaggio del tutto nuovo. In ognuna di queste eventualità, ciascuno di noi può incidere sulla forza di propagazione e sulla credibilità del messaggio, se non altro perché tutte le sue azioni in rete vengono computate dagli algoritmi che fanno funzionare i cd. motori di ricerca e così ci restituiscono, in un certo ordine, le informazioni che cerchiamo tra quelle rese disponibili sul web (ma i meccanismi di selezione delle “notizie” sui social network, coi relativi algoritmi, hanno reso le cose ancor più complicate e potenzialmente pericolose).
Ora, la tradizione giuridica liberale si è comportata davanti a questi nuovi fenomeni… esattamente come ci si poteva aspettare che si comportasse. Attrezzatissima a difendere il diritto di informazione del singolo dalle ingerenze “verticali” del potere politico, per il resto ha trattato per lo più l’emissione indiscriminata di informazioni in rete come una radicalizzazione delle vecchie questioni di giustizia che si erano già poste ai tempi dei giornali di carta e, tutt’al più, dei network televisivi privati. Negli Stati Uniti, il principio generale seguito dalla Corte Suprema è rimasto quello per cui «con particolare riferimento al I Emendamento che riconosce la libertà di espressione (right to free speech), l’efficacia orizzontale (inter privatos) dello stesso è negata dall’applicazione della c.d. state action doctrine, in forza della quale le garanzie previste dai diritti sanciti dal Bill of Rights federale possono essere fatte valere soltanto nei confronti dei poteri pubblici e non dei privati»[7]. Perciò, ricordiamo tutti che a lungo uno dei problemi giuridici più dibattuti è stato se Facebook, nella persona del suo co-fondatore e CEO Mark Zuckerberg, potesse o no essere considerato responsabile (alla stregua di “editore”) delle notizie che circolano sul network; e la risposta è stata per molti anni negativa, dovendosi considerare Facebook un ambiente libero e completamente “orizzontale” (paritario, “P2P”), in cui ogni singolo utente decide (ed è responsabile) dell’attendibilità e delle conseguenze delle notizie che “posta” e condivide.
In tutto questo, è sfuggito a lungo che i diritti della personalità non sono gli unici “contro-valori” in gioco nella produzione e diffusione di informazioni; che la circolazione, e l’amplificazione nelle “camere di risonanza” virtuali[8], di informazioni false può limitare altresì l’esercizio di fondamentali diritti civili e politici, alterare l’esito di consultazioni elettorali, indurre a scelte errate e dannose per la convivenza[9] e, ad esempio – ma l’esempio non è mai stato così pertinente come in questi giorni –, per il diritto alla salute.
2. Il dibattito sui “diritti aletici”: una rassegna
Poi, ovviamente, anche su questo piano qualcosa è cambiato, sia nel dibattito pubblico, sia in sede teorica e dottrinale. Vorrei portare senza indugi l’attenzione sulla proposta di una filosofa, Franca D’Agostini, che, a partire da un articolo uscito sulle pagine di “Biblioteca della libertà”, ha elaborato una teoria complessiva dei cd. “diritti aletici”[10]. Questi sarebbero da intendere, in prima approssimazione, come articolazioni e specificazioni di un presunto e generalmente accettato «diritto alla verità» degli individui e dei popoli, necessarie per evitare che l’appello a quel diritto «valga solo come un accenno generico o un ”retorico strumento salvifico”»[11]. Per D’Agostini, dunque, «non si tratta soltanto del diritto di conoscere la verità, o di essere informati in modo veridico, ma di un gruppo di beni e valori diversi, tutti riportabili al rapporto di adeguatezza (o corrispondenza) tra le credenze e la realtà che esprimiamo con il predicato “è vero”». A titolo indicativo, l’autrice propone di isolare sei “diritti aletici”: essi «riguardano tre aree in cui il bene verità si rivela essere un bene socialmente importante: l’area dell’informazione, l’area della scienza e della conoscenza condivisa, l’area della cultura»; e sono, secondo D’Agostini, «progressivamente correttivi, nel senso che la salvaguardia dell’uno serve a correggere o limitare la sproporzionata osservanza dei precedenti»[12]. Tanto premesso, questi sono i sei diritti aletici proposti da D’Agostini: 1. «diritto di essere informati in modo veridico»; 2. «diritto di essere nelle condizioni di giudicare e cercare la verità»; 3. «diritto di essere riconosciuti come fonti affidabili di verità»; 4. «diritto di disporre di autorità aletiche affidabili, dunque di avere un sistema scientifico i cui criteri di valutazione sono truth-oriented»; 5. «diritto di vivere in una società che favorisca e salvaguardi ove necessario l’acquisizione della verità»; 6. «il diritto di vivere in una cultura (e una società) in cui è riconosciuta l’importanza della verità (in positivo e in negativo) per la vita privata e pubblica degli agenti sociali»[13].
Franca D’Agostini è una filosofa, con un particolare interesse per la logica e la filosofia della scienza. Non è una giurista. E non lo sono neanche alcuni di coloro che, sullo stesso fascicolo di “Biblioteca della libertà”, hanno discusso la sua proposta. Così, non deve stupire una qualche incertezza nell’identificare i “diritti aletici” come situazioni giuridiche soggettive con un preciso standard di tutela: nei commenti si oscilla tra la posizione “minimalista” di Elisabetta Galeotti, secondo cui «c’è un diritto collettivo, nel senso di un interesse generale fondamentale, a non avere informazioni false, manipolate e tendenziose»[14], e la posizione “massimalista” di Maurizio Ferrera, il quale interpreta il testo di D’Agostini nel senso per cui diritto aletico è una regola «che titola un attore sociale a pretendere giustificatamente verità dagli altri attori sociali (asse orizzontale) e dalle autorità politiche (asse verticale)»; ma nota che questa è un’accezione «debole» del concetto, mentre l’accezione forte configurerebbe «i diritti come poteri garantiti», cioè provvisti di «enforcement autoritativo»[15]. L’autrice sembra confermare l’interpretazione di Ferrera, sia pure con una riserva («non parlerei esattamente di ‘pretendere’ verità»[16]) di cui non chiarisce il senso.
Tuttavia, alcuni degli interlocutori di Franca D’Agostini hanno invece una formazione giuridica, e non possono che essere portatori di una nozione scientificamente determinata di “diritto” (soggettivo): non è un caso, dunque, se siano proprio costoro che, anziché chiedersi cosa intenda l’autrice per “diritti” aletici, sollevano dubbi per lo più fondati sull’opportunità, e sulla perseguibilità “tecnica”, di una strategia di “giuridificazione” così pervasiva della materia della “verità” nell’informazione. Come riferisce la stessa D’Agostini, «la perplessità più ovvia riguarda il fatto che non sempre si vuole sapere la verità e non sempre è giusto e utile saperla o ricordarla, da cui segue che un “diritto incondizionato alla verità” non è difendibile. Rodotà[17] segnala precisamente questa difficoltà, che è alla base di almeno due ordini di diritti opposti ai DA: il diritto individuale alla privacy, o a non conoscere verità sgradevoli; e il diritto collettivo alla pace sociale, dunque a dimenticare verità che potrebbero generare conflitto. In secondo luogo, frode, calunnia, falsa testimonianza sono tipiche fattispecie che coinvolgono la verità: ma è difficile isolare l’atto di “far credere” il falso o il non vero come un crimine, comportante un danno di per sé. Un caso esemplare è la legge sul “plagio” nel codice italiano (art. 603 del C.p.)»[18].
Se intuisco bene, vanno in una direzione convergente con questa i rilievi critici di Alessandra Facchi. La quale esordisce mettendo in chiaro qualcosa che, per noi giuristi, dovrebbe essere abbastanza ovvio: «che la verità costituisca un bene danneggiabile e espropriabile non implica che questo bene possa tradursi in un diritto soggettivo alla verità, inteso come pretesa legittimata e garantita in norme giuridiche. Non soltanto non è necessario ricorrere ai diritti individuali per sostenere un interesse collettivo, ma quest’ultimo non è sufficiente per sostenere un diritto soggettivo: ci vogliono bisogni e interessi individuali»[19]. Poi, però, Facchi si sposta sul terreno “epistemologico” più proprio di D’Agostini: «Innanzitutto mi pare importante circoscrivere l’oggetto del diritto: su cosa può vertere il diritto alla verità? Correttezza, esaustività, sincerità… rispetto a quali proposizioni o rappresentazioni possono essere giuridicamente tutelate?». E risponde: «A me pare che un ipotetico diritto alla verità come riferimento per giudici e legislatori possa vertere su proposizioni falsificabili. Si può cioè pretendere di sapere se è vera o falsa in modo giuridicamente rilevante l’affermazione che qualcosa si è verificato o si verificherà o no e con quali caratteri, o l’affermazione che un’opinione è stata espressa o no, in quali contesti e in quali forme; o l’affermazione che una norma – giuridica e/o sociale – esiste (è valida e/o vincolante). In tutti questi casi si tratta di fatti. Di una norma giuridica non si può dire se è vera, ma solo se è valida, cioè se esiste secondo i criteri dell’ordinamento in cui è inserita. Di un’espressione di fede non si può dire se è vera ma solo se esiste all’interno di un sistema di credenze». E Facchi conclude (questa parte del ragionamento) con una domanda che non può non richiamare alla memoria di tutti noi la fondazione “hobbesiana” del diritto positivo moderno: «Possiamo auspicare un ordinamento che in nome del diritto alla verità punisca o anche solo ostacoli una fede assumendola falsa, indipendentemente da altri danni che ha provocato o può provocare? È facile immaginare come potrebbe finire»[20].
Non me ne vorranno i lettori se abbandono qui la cronaca del dibattito. I testi sono tutti disponibili in rete, sul sito web del Centro Einaudi. Ai nostri fini, però, abbiamo già molta carne al fuoco. Tutt’al più, può essere utile riportare un’ultima affermazione di Franca D’Agostini, la quale, proprio in risposta ad Alessandra Facchi, coglie puntualmente un’esigenza teoretica assai stringente quando scrive, forse un po’ temerariamente, che «il fatto che la falsificazione di credenze complesse non sia facile non vuol dire che sia impossibile; il fatto che verità sottodeterminate non siano valutabili come verità categoriche non significa che non abbiano nessun valore di verità»[21]. E, soprattutto, vale la pena di riferire un ultimo passaggio di Alessandra Facchi, che, nel concedere a D’Agostini una premessa comune, afferma: «Correttezza, sincerità, esaustività, trasparenza hanno un ruolo centrale nella comunicazione, nella fiducia e nella cooperazione sociale, nella partecipazione democratica, nella salvaguardia della dignità e dell’autodeterminazione delle persone […] credenze condivise e stabili nel tempo contribuiscono all’integrazione sociale. Dal punto di vista soggettivo la verità è strettamente legata alla sicurezza, sapere di conoscere la verità ha una funzione di stabilità sociale e benessere individuale»[22]. Ecco una bella esemplificazione di tutti quei beni, interessi, valori, eccedenti la tutela in senso stretto di un diritto della personalità, che potrebbero meritare di essere tutelati non solo nei confronti del potere politico, ma anche in una “dimensione orizzontale”, di rapporti tra soggetti privati e pari ordinati. Ed ecco, soprattutto, un’ottima rassegna (compilata in tempi non sospetti, come si dice!) di tutti i profili del “bene giuridico” informazione (o, se si vuole: verità nell’informazione) che in qualche modo sono venuti in gioco nella recente vicenda dell’epidemia da COVID-19.
3. Un esempio dal coronavirus: “fatti”, teorie, decisioni politiche
Infatti, nel selezionare testi, opinioni, argomenti, ho avuto finora davanti sempre l’attuale stato delle cose, e del dibattito, intorno alla “corretta” informazione sul coronavirus. Di questo dibattito ora, a volo d’uccello, richiamerò alcuni profili, ritengo noti a tutti. In un primo momento, si è tornati a discutere del controllo politico sull’informazione: dei danni globali (ma, anche, ad avviso di qualcuno, dei vantaggi comparativi su scala nazionale) ascrivibili alla censura cinese; della strategia informativa seguita dall’amministrazione tedesca, che secondo alcune fonti di stampa avrebbe iniziato ad adottare provvedimenti restrittivi locali senza dare evidenza generale ai primi contagi, evitando in questo modo che all’emergenza sanitaria si sommasse fin da subito un’emergenza economica; o, ancora, dei “casi” rappresentati dalla Corea del Nord, dall’Iran, in misura diversa dalla Russia (in paesi connotati da una così scarsa trasparenza informativa, è possibile credere ai dati ufficiali sulla diffusione del virus?). In un secondo momento, si è iniziata una – difficile – operazione di fact checking sulle notizie immesse e condivise in rete da (sempre più numerosi) privati cittadini senza particolare competenza né scientifica né istituzionale, e lo si è fatto soprattutto con l’intento di persuadere la generalità degli “utenti” a conformarsi alle indicazioni delle autorità sanitarie e amministrative, senza lasciarsi fuorviare da fake news più o meno interessate. Sullo sfondo, tuttavia, è rimasta la generica convinzione che “loro sanno, e non ci dicono tutto quel che sanno”, via via specificantesi in svariate, e tra loro contraddittorie, “teorie del complotto” (virus prodotto in laboratorio per obiettivi strategici cinesi, e sfuggito di mano? Virus prodotto in laboratorio dagli Stati Uniti, o per loro conto da Israele, per ostacolare le strategie “imperiali” di Pechino? Virus diffuso dal “capitale internazionale” per piegare alcune economie nazionali, per completare il passaggio dall’industria manifatturiera all’economia digitale, per conculcare le libertà civili? E così via).
Vorrei allora isolare, e discutere brevemente, un esempio, che ritengo possa consentirmi di porre in evidenza i fondamentali problemi, sia epistemologici, sia giuridico-sociali, cui il dibattito teorico che ho riportato continuamente allude, ma che forse meritano di essere messi ancora più precisamente a fuoco.
L’esempio riguarda le politiche seguite, fino a pochi giorni fa, dal governo britannico presieduto da Boris Johnson. Mi pare che, ad oggi (20 marzo), nel Regno Unito non siano ancora state adottate misure coercitive di cd. “distanziamento sociale” per arginare la diffusione del coronavirus. Ma hanno fatto scalpore alcune dichiarazioni del premier, rilasciate lo scorso 12 marzo in conferenza stampa a Downing Street: l’ormai tristemente famoso «molte famiglie perderanno i loro cari», punta d’iceberg di un ragionamento più articolato secondo cui «il Paese si trova di fronte alla più seria emergenza sanitaria in una generazione» e tuttavia «prendere misure “draconiane” non farebbe grande differenza e potrebbe addirittura risultare controproducente»[23]. Il ragionamento sembrava chiarirsi alla luce della tesi espressa l’indomani a Sky News da Sir Patrick Vallance, medico, membro della Royal Society ma, soprattutto, Consigliere scientifico capo del governo del Regno Unito: secondo cui il Covid-19 «è una brutta malattia ma nella maggioranza dei casi ha soltanto sintomi lievi, […] il virus sarà stagionale e tornerebbe anche il prossimo inverno. Per questo è importante sviluppare un’immunità di gregge, per tenere sotto controllo il virus a lungo termine» e «con il 60% della popolazione infetta dal virus, avremmo una immunità di gregge»[24].
Nei giorni successivi, per lo meno in Italia, è stato tutto un mettere in discussione, nella comunità scientifica, la fondatezza delle tesi del dottor Vallance, evidenziando come il 60% di contagi ipotizzato per sviluppare l’immunità di gregge sia una percentuale del tutto aleatoria, in presenza di un virus del quale ancora non conosciamo il comportamento nel lungo periodo, che l’organismo umano non ha ancora mai imparato a riconoscere e contro il quale non disponiamo, ad oggi, di alcun vaccino; e come, d’altra parte, il numero di decessi cui si andrebbe incontro, mentre si attende di conseguire quella percentuale di contagi stimata utile per l’immunità di gregge, sia a tutti gli effetti incalcolabile, e forse molto superiore a quello che la popolazione britannica sarebbe disposta a tollerare.
Dibattito scientificamente del tutto legittimo, interessantissimo e molto utile; ma, questa è la mia impressione, dibattito che ha pochissimo a che vedere con una qualsiasi declinazione giuridica del tema della correttezza dell’informazione, o con il contenuto di un qualsiasi “diritto alla verità” della stregua di quelli ipotizzati da Franca D’Agostini. Per due ordini di motivi. Il primo: i “dati” presentati da Vallance non sono stati oggetto di una rilevazione empirica, ma sono stati generati da modelli matematici che presuppongono una “teoria” scientifica sull’evoluzione dell’epidemia. Ebbene, nei suoi aspetti “qualitativi” la teoria presupposta da Vallance (ed evidentemente accolta, almeno in un primo momento, dall’amministrazione Johnson) è pressoché identica a quella presupposta dagli scienziati di molte altre parti del mondo: secondo cui la curva del numero dei contagi può essere più “ripida” se non si adottano misure di cosiddetto “lockdown” (da noi, “quarantena”) ed esserlo molto meno se si adottano quelle misure; ma il numero complessivo delle persone che dovranno essere contagiate prima che l’epidemia raggiunga il suo “picco” non varia, mentre varierà il tempo occorrente per raggiungerlo, molto più lungo nel secondo caso, con evidenti effetti positivi per le capacità di cura del sistema sanitario ed evidenti effetti negativi per le capacità produttive della comunità nazionale (oltre che per l’esercizio delle libertà individuali). È in virtù di questa stessa (forma generale della) teoria, che l’OMS già da molte settimane ha raccomandato di adottare misure di contenimento per “rallentare” il contagio o “ritardare” il raggiungimento del picco, perché altrimenti i sistemi sanitari nazionali rischierebbero di non reggere all’impatto di troppe richieste di presa in cura e dovrebbero negare l’assistenza ad alcuni, o a molti. Rispetto a quest’ultimo punto, che è quello cruciale per la valutazione politica richiesta alle società democratiche, è certamente vero che con più tempo a disposizione si potrebbero escogitare e sperimentare protocolli terapeutici e di vaccinazione, o che il clima più caldo potrebbe mitigare la virulenza dell’epidemia: ma su entrambi questi aspetti ci troviamo attualmente in una situazione di assoluta incertezza, in cui (per definizione) è impossibile assegnare un valore numerico alla probabilità che gli eventi sperati si verifichino[25], e perciò è corretto non tenerne conto nell’elaborare una teoria scientifica con ambizioni predittive. In conclusione: quella che Vallance ha presentato è in buona sostanza una teoria, e come tale può e deve, in effetti, essere comunicata. E le teorie scientifiche si verificano (secondo l’epistemologia neo-empirista o neo-positivista, ancora in buona parte seguita nelle prassi della “comunità scientifica” in medicina o in biologia), ovvero si falsificano (secondo l’impostazione popperiana), ovvero, ancora, resistono finché ha presa nella società un insieme più generale di rappresentazioni con cui quelle teorie sono solidali, e che chiamiamo, con Thomas Kuhn, paradigma. Ma, allo stato attuale, nelle grandi linee, nulla di “definitivo” sappiamo della teoria corrente sulla propagazione del Covid-19; sicché non c’è materia per lamentare la violazione di un diritto alla verità dell’informazione, fino a quando le tesi di Vallance sono presentate, appunto, come dipendenti da una teoria. Purché l’utente (o meglio, dal mio punto di vista, il cittadino) sia preparato a capire cosa sia e che valore abbia, appunto, una “teoria”: ed è questo ciò di cui, semmai, si può e si deve dubitare.
Quel che ho detto finora, circa il sostanziale consenso sulle linee “qualitative” della teoria, non toglie che invece molto si possa discutere dei suoi aspetti “quantitativi”: che un’immunità di gregge prevista al 60 o al 90% di contagiati possa fare molta differenza, così come certamente la fa un numero atteso di 80, 8mila o 8 milioni di morti. Ma, così, veniamo al secondo ordine di motivi per cui il problema della “verità”, o anche solo della “trasparenza”, dell’informazione in questo caso è assolutamente marginale o, così come lo si vuole impostare abitualmente, è fuorviante. Ed è che, come sopra ho accennato, vi è una scelta politica la cui responsabilità grava sui governi e, indirettamente, sull’opinione pubblica delle società democratiche: ma questa scelta non è immediatamente tra economia e salute, o tra più morti probabili e meno morti sicuri. Piuttosto, se su un piatto della bilancia c’è la facile previsione di un forte rallentamento del ciclo economico, addirittura di un depauperamento della capacità produttiva dei paesi in termini di capitale umano e di infrastrutture, sull’altro piatto della bilancia c’è, se vogliamo limitarci a quel che possiamo razionalmente prevedere, la deliberata scelta (o quanto meno l’assunzione consapevole di un rischio elevato) di mettersi nella situazione in cui dover negare a qualcuno quel diritto all’assistenza sanitaria che, nelle nostre Costituzioni e nelle nostre culture civili, è configurato come diritto universale. Poiché i diritti, e specialmente quelli cd. “sociali”, hanno sempre un costo, ed è fattualmente possibile trovarsi in una situazione di scarsità di risorse, affermare che un diritto è universale significa orientare le politiche pubbliche in modo che ci siano sempre risorse per soddisfare le pretese di chiunque, derivanti dal riconoscimento di quel diritto (“pretese”, e non “aspettative”, è dunque il termine appropriato, con buona pace di Franca D’Agostini). E un diritto sancito come universale è violato quando anche una sola persona rimane senza cura per una scelta amministrativa discrezionale, sia pure dovuta ad obiettiva scarsità di risorse. Non importa quale aspettativa di vita abbia quell’unica persona. Non importa se alla scelta seguirà o no la morte di quell’unica persona. Non importa se a quella persona ne seguiranno altri milioni, o non ne seguirà nessun’altra. È questo, nella sua purezza, il conflitto di valori che ci si para davanti, in cui siamo chiamati a scegliere se rimanere fedeli alla nostra identità, costituzionale e culturale, ovvero optare per nuovi equilibri. I criteri di cui possiamo servirci per “inquadrare” l’alternativa, e scioglierla, si ritrovano nella tradizione secolare dell’etica normativa (penso, ad esempio, alla distinzione tra “uccidere” e “lasciar morire”) come del diritto della responsabilità civile e penale (penso, ad esempio, all’ardua distinzione tra “colpa cosciente” e “dolo eventuale”). Nella prassi, è perfino ovvio che gli aspetti quantitativi di una previsione possibile incidono, eccome, sulla nostra scelta; che più numerosi, e più vicini a noi, saranno i morti, più inclineremo a dare peso, nel bilanciamento, alla tutela del diritto all’assistenza sanitaria come diritto universale; che nessun diritto “sociale” può mai essere coerentemente tutelato in universale e che qualsiasi società si fa carico del rischio (calcolabile) di un certo numero di morti in nome della prosperità economica e del libero accesso dei più a beni anche voluttuari[26]. Ma, in linea di principio, i numeri in cui si concretano le capacità di previsione di una teoria “scientifica” non fanno alcuna differenza, rispetto all’opzione di valore che Johnson e i cittadini britannici (ma, anche e specularmente: Conte e i cittadini italiani) si stanno trovando a dover adottare. E, di nuovo, l’informazione è “corretta” se riesce ad isolare e ad evidenziare quest’opzione di valore, che una conoscenza dei “fatti” la più ampia possibile può supportare, ma dalla responsabilità della quale nessuna “notizia” ci può esonerare.
Per riassumere: oggi il capo del Governo presenta alla cittadinanza uno scenario prevedibile e le decisioni politiche che intende adottare (o non adottare) in vista di quello scenario; domani il suo consigliere scientifico presenta delle ragioni teoriche che sembrano suffragare la previsione di quello scenario, e indirettamente l’adozione di quelle decisioni politiche. Quanto ai profili della veridicità e della trasparenza, il dovere di una fonte di informazione è di presentare la seconda comunicazione come una teoria, con l’autorevolezza e i limiti di una teoria; e la prima come una decisione, che non è mai (per definizione, proprio in quanto è “decisione”) la conseguenza automatica di una teoria scientifica, ma il frutto di un bilanciamento di valori; e di chiarire quali siano questi valori, cioè quale sia, come si dice, la posta in gioco. Che queste distinzioni vengano recepite dai destinatari dell’informazione, sembra molto difficile, in virtù di una nostra tendenza spontanea a cercare “risposte” definitive che ci sollevino dall’onere di interpretare il messaggio e di attribuire (sotto la nostra responsabilità) un “peso” e un “valore” alle diverse possibilità. Ma non è una difficoltà che si superi attraverso l’istituzionalizzazione di una pretesa azionabile alla verità dei contenuti informativi.
Ce n’è abbastanza per abbozzare qualche conclusione. Credo che abbia perfettamente ragione Alessandra Facchi: un ipotetico diritto alla verità come riferimento per giudici e legislatori può vertere solo su proposizioni falsificabili. E non credo che colga nel segno Franca D’Agostini, quando obietta che «il fatto che la falsificazione di credenze complesse non sia facile non vuol dire che sia impossibile»[27]. Sul piano teoretico, io sarei ancor più prudente di quanto lo sia Facchi: non solo tra le credenze “complesse”, ma anche tra quelle più “semplici”, sono pochissime quelle rigorosamente “falsificabili” e, al tempo stesso, ricche di contenuto informativo. Ma, in più, direi che il piano su cui siamo invitati a discutere non è tanto quello teoretico, ma quello normativo: non si tratta di “cosa c’è davvero” (ed eventualmente di “com’è fatto quel che c’è”), ma di quali ragioni (più o meno forti o valide e coerenti) abbiamo per qualificare normativamente una proposizione, attribuendole la modalità deontica del vietato o dell’obbligatorio o del facoltativo, attraverso le specifiche sanzioni. Ora, tra i professionisti intellettuali che lavorano con il linguaggio, il giurista è probabilmente, per formazione e per esperienza, il più attrezzato a comprendere due tesi (in sé non strettamente giuridiche, ma di filosofia teoretica), di cui sono profondamente convinto, e che adesso enuncerò. La prima: che è molto più facile determinare (tipizzare, per il giurista; semantizzare, per il logico) cosa sia “dire il falso”, e sanzionarlo per il danno che, eventualmente, può produrre, piuttosto che determinare cosa sia “dire il vero”; e questo, tra l’altro, perché non tutte le proposizioni che non sono false sono allora, per ciò solo, vere, dato che esiste un gran numero di proposizioni, in ogni momento nel tempo, che non sono né (sicuramente) false né (sicuramente) vere (per esempio, secondo Facchi «si può pretendere di sapere se è vera o falsa in modo giuridicamente rilevante l’affermazione che qualcosa […] si verificherà o no», ma il vecchio problema metafisico dei “futuri contingenti”, discusso già da Aristotele, dovrebbe dimostrare il contrario, e il molto più recente paradosso quantistico del “gatto di Schrödinger” dovrebbe dare il colpo di grazia a questa pretesa). Ed ecco la seconda tesi: nella vita sociale i “fatti”[28], o gli “stati di cose”, su cui vertono le proposizioni puramente descrittive (cd. verofunzionali), si intrecciano continuamente con livelli molteplici di qualificazione, o di attribuzione di senso, che possono essere “interpretativi” (i concetti e i relativi “piani di immanenza concettuale”, di cui parla Deleuze; le “teorie”; le “rappresentazioni”; in fin dei conti, qualsiasi vera “informazione”, in quanto messa-in-forma[29]) o “prescrittivi” (i giudizi di valore o di disvalore su certi comportamenti, cui si imputano normativamente determinate conseguenze); da questi molteplici livelli di qualificazione i fatti non saranno magari “inestricabili”, ma, senza di essi, sono ben poco interessanti, ben poco utili e per lo più, a dire il vero, anche ben poco dannosi.
Proprio da queste due tesi derivano come conseguenza logica, a me pare, due conclusioni, che in ultimo sottopongo alla discussione: che la strategia dei doveri negativi (di punire chi, dicendo il falso, arreca un danno) sia giuridicamente più percorribile rispetto alla strategia dei diritti (di pretendere la verità delle comunicazioni cui siamo esposti, in via generale e astratta); e che un’eccessiva enfasi sui fatti e sulla loro comunicazione veritiera rischia di indebolire l’appello alla responsabilità degli utenti-cittadini per i giudizi che, a partire dalle informazioni ricevute, essi sono chiamati a formulare, facendosene carico, senza che nessuno possa somministrare loro soluzioni preconfezionate, sull’assunto (falsamente) fattualistico che “non c’è alternativa”.
[1] O. Pollicino, L’efficacia orizzontale dei diritti fondamentali previsti dalla Carta. La giurisprudenza della Corte di giustizia in materia di digital privacy come osservatorio privilegiato, in MediaLaws – Rivista dir. media, 3, 2018, pp. 138-163, qui p. 139 con riferimento a R. Alexy, Teoria dei diritti fondamentali, tr. it. Il Mulino, Bologna 2012, pp. 570 s.; ma nello stesso testo si può trovare un’ampia bibliografia, rappresentativa del più recente dibattito (specie in lingua inglese) su un tema fondamentale del diritto costituzionale comparato.
[2] M. Tushnet, Shelley v. Kraemer and Theories of Equality, in New York Law School Law Review, 33, 1988, pp. 383 ss.
[3] «Mentre i filosofi tedeschi, facendo uso di un concetto di persona normativamente saturo e di un concetto di natura metafisicamente sostanzioso, discutono con un certo scetticismo se sia il caso di sviluppare ulteriormente la tecnica genetica (soprattutto per quanto riguarda la coltivazione di organi e la medicina riproduttiva), i colleghi americani si preoccupano invece di come si possa implementare uno sviluppo che in linea di principio non viene più messo in discussione e che, passando per le terapie genetiche, sembra destinato a sfociare nello “shopping in the genetic supermarket”. Queste tecnologie produrranno senz’altro interferenze sconvolgenti nel nesso delle generazioni. Ma agli occhi dei colleghi americani – che la pensano in modo pragmatico – le nuove pratiche, lungi dal sollevare questioni di tipo inedito, si limitano a radicalizzare vecchie questioni di giustizia distributiva».
[4] J. Habermas, Il futuro della natura umana. I rischi di una genetica liberale, tr. it. Einaudi, Torino 2002, pp. 77 s. Sulla «teoria di matrice tedesca» della Drittwirkung dei diritti fondamentali, che «dopo aver preso il via dalla giurisprudenza coraggiosa, appunto, delle corti tedesche a partire dagli anni ’50, è diventata familiare anche per altre corti costituzionali europee ma anche per la Corte europea dei diritti dell’uomo nonché […] per la Corte di giustizia dell’Unione europea» (O. Pollicino, op. cit., p. 140), v. ora, in italiano, almeno gli Atti del Convegno a cura di E. Navarretta, Effettività e Drittwirkung. Idee a confronto, Pisa, 24-25 febbraio 2017, Giappichelli, Torino 2017.
[5] Ma nel nostro dibattito storico-politico si è affermata come formula emblematica quella del “MinCulPop”, abbreviazione per il “Ministero per la Cultura Popolare”, succeduto nel 1937 al Ministero per la Stampa e la Propaganda ed affidato a lungo ad Alessandro Pavolini.
[6] Nel diritto civile italiano, i riferimenti sono, da un lato, l’art. 21 Cost., dall’altro gli artt. 7-10 cod. civ., la l. 22 aprile 1941, n. 633 (sul diritto d’autore), la l. 8 febbraio 1948, n. 47 (sulla stampa), la l. 3 febbraio 1963, n. 69 (sull’ordinamento della professione di giornalista), con i successivi aggiornamenti; v., per un primo e generalissimo inquadramento, F. Gazzoni, Manuale di diritto privato, ESI, Napoli 200310, pp. 175-189. A partire dal D. lgs. 30 giugno 2003, n. 196 (recante il “Codice in materia di protezione dei dati personali”), si è poi aggiunta una legislazione copiosa ed eterogenea sul “diritto alla privacy”.
[7] O. Pollicino, op. cit., p. 139.
[8] Sugli effetti di quei fenomeni che nella letteratura anglosassone si chiamano “echo chambers” e “filter bubbles” v., in prima approssimazione, S. Bentivegna-G. Boccia Artieri, Le teorie delle comunicazioni di massa e la sfida digitale, Laterza, Roma-Bari 2019; importanti prospettive critiche in P. Dominici, Dentro la società interconnessa. La cultura della complessità per abitare i confini e le tensioni della civiltà ipertecnologica, FrancoAngeli, Milano 20192.
[9] Per alcuni esempi in questa direzione, in una bibliografia vastissima mi piace suggerire il breve e puntuale articolo di S. Panero, Libertà di stampa e responsabilità dei media, postato il 25 novembre 2019 sul sito del Movimento Studentesco per l’Organizzazione Internazionale: v. https://www.msoithepost.org/2019/11/25/liberta-di-stampa-e-responsabilita-dei-media.
[10] F. D’Agostini, Diritti aletici, “Biblioteca della libertà”, LII, n. 218, gennaio-aprile 2017, pp. 5-42; v. anche Ead., Risposte, chiarimenti e ipotesi, ivi, pp. 89-126.
[11] Ead., Diritti aletici, cit., p. 6, con riferimento a S. Rodotà, “Il diritto alla verità”, in Il diritto di avere diritti, Laterza, Bari-Roma 2012, pp. 211-231, qui 217.
[12] Ead., Diritti aletici, cit., pp. 14 s.
[13] Ivi, pp. 15-25.
[14] A. E. Galeotti, La difficile convivenza di veritò e inganno, “Biblioteca della libertà”, LII, n. 218, gennaio-aprile 2017, pp. 81-87, qui p. 84.
[15] M. Ferrera, L’anima aletica della democrazia liberale, ivi, pp. 67-79, qui p. 74.
[16] F. D’Agostini, Risposte, chiarimenti e ipotesi, cit., p. 101.
[17] Il riferimento è a S. Rodotà, “Il diritto alla verità”, cit., pp. 226 e ss.
[18] F. D’Agostini, Diritti aletici, pp. 7 s.
[19] A. Facchi, La verità come interesse collettivo, “Biblioteca della libertà”, LII, n. 218, gennaio-aprile 2017, pp. 51-65, qui p. 53.
[20] Ivi, pp. 55 s.
[21] F. D’Agostini, Risposte, chiarimenti e ipotesi, cit., p. 102.
[22] A. Facchi, La verità come interesse collettivo, cit., p. 51.
[23] Così la corrispondenza di Luigi Ippolito sul “Corriere della Sera” del 14 marzo 2020.
[24] I virgolettati sono tratti dalla corrispondenza di Antonello Guerrera su “La Repubblica” del 13 marzo 2020.
[25] Sulla distinzione tra “rischio” e “incertezza”, fissata dall’economista F. H. Knight nel 1921, v. dal punto di vista epistemologico almeno S. O. Funtowicz-J. R. Ravetz, Uncertainty and Quality in Science for Policy, Kluwer, Dordrecht 1990, nonché, degli stessi autori, Uncertainty, complexity and post-normal science, “Environmental Toxicology and Chemistry”, vol. 13, n. 12, 1994, pp. 1881-1885.
[26] Lo ha dimostrato Guido Calabresi in due libri fondamentali, Scelte tragiche (Tragic Choices, con Philip Bobbitt, W.W. Norton & Company, New York 1978; tr. it. Giuffrè, Milano 1986), e soprattutto Il dono dello spirito maligno (“The gift of the Evil Deity”, in Ideals, Beliefs, Attitudes and Law, Syracuse University Press, New York 1985; tr. it. Giuffrè, Milano 1996; un’interessante ripresa è in S. Amato, Coazione, coesistenza, compassione, Giappichelli, Torino 2002). Sulla situazione attuale v. lo scritto breve ma folgorante di Luciano Sesta, Conte per l’epidemia, Johnson per la tabaccheria, disponibile all’indirizzo https://sfero.me/article/conte-epidemia-johnson-tabaccheria.
[27] Sulle buone ragioni teoretiche che inducono Franca D’Agostini a questa replica v., oltre ai suoi scritti (in particolare, e in prima approssimazione, Introduzione alla verità, Bollati Boringhieri, Torino 2011), il dibattito contenuto in M. De Caro-M. Ferraris (a cura di), Bentornata realtà. Il nuovo realismo in discussione, Einaudi, Torino 2012 in cui sono discusse molte cose interessanti e che trova forse il suo punto filosoficamente meno soddisfacente proprio nel contributo di Maurizio Ferraris (del quale comunque v., proprio sul nostro tema, Postverità e altri enigmi, Il Mulino 2017).
[28] Uso le virgolette, per alludere alla tesi (che sostengo) per cui la stessa “empiricità” del fatto è sempre frutto di un’interpretazione. Questo, nessuno lo sa bene come i giudici; ma, nella letteratura filosofica, v. per esempio le lezioni di Wilfrid Sellars del 1956, The Myth of the Given, poi in Empiricism and Philosophy of Mind (1963), ora con introduzione di R. Rorty e un saggio di R. Brandom, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1997; tr. it. Empirismo e filosofia della mente, Einaudi, Torino 2004. V. anche D. Sacchi, Evidenza e interpretazione. Argomenti per una riflessione sulla struttura originaria del sapere, Vita e Pensiero, Milano 1988; e, per un approfondimento storico, i due testi epocali di M. Cacciari, Krisis. Saggio sulla crisi del pensiero negativo da Nietzsche a Wittgenstein, Feltrinelli, Milano 1977, e A. G. Gargani, Il sapere senza fondamenti, Einaudi, Torino 1975.
[29] Come ha ricordato Bruno Montanari nel suo contributo di una settimana fa a “Giustiziainsieme”, Informazione e comunicazione: tra reattività e riflessione.Giovanni Magrì