Sommario: 1. Gli affari con Israele e la tesi del Lawfare. 2. Alcune recenti iniziative sui rapporti di affari con Israele per le insidie del Lawfare “inverso”. 3. Illecito permanente e nullità dei rapporti di affari.
1. Gli affari con Israele e la tesi del Lawfare
È possibile fare affari con uno Stato che viola sistematicamente il diritto internazionale (generale, pattizio e umanitario) ed è addirittura sotto accertamento giudiziale per crimini di guerra, contro l’umanità e persino per genocidio?
Stando alla storia delle sanzioni internazionali e nazionali, si dovrebbe senza indugio rispondere di no (del resto, basti pensare alla vicenda degli embarghi verso il Sud Africa dell’apartheid)[1].
Ci si riferisce, però, a Israele, verso il quale queste sanzioni non sembra che siano utilizzate.
Tutto parte dal Parere consultivo della Corte Internazionale di Giustizia del luglio 2024 (case 186), dove, per la prima volta, sono delineati gli obblighi degli Stati terzi, aderenti all’ONU, nell’agire per non aiutare un altro Stato, per l’appunto Israele, autore di illeciti internazionali. Secondo il ragionamento della Corte (paragrafi 273-283), tali obblighi sarebbero sostanziali, quindi non eludibili per “buona fede” nelle relazioni internazionali, e comunque vincolanti nel porre fine a violazioni di norme di ius cogens. Ne deriverebbe il dovere di sospensione o interruzione di qualsiasi affare con quello Stato.
Questo inedito enunciato è stato letto in due modi totalmente contrapposti.
Da un lato, esso è considerato coerente con il diritto internazionale generale e con la stessa tradizione giuridica del secondo Dopoguerra, risultando comprovato, per di più, da innumerevoli accertamenti delle condotte israeliane nel negare ai palestinesi il diritto all’autodeterminazione, legittimando forme di apartheid, occupando e colonizzando territori estranei alla sua sovranità, violando le regole umanitarie negli attacchi militari e nell’occupazione territoriale, per di più non da oggi ma dal 1967, dunque nella modalità dell’ “illecito continuato e permanente”[2].
Dall’altro, secondo i difensori di Israele, a partire dagli USA, il parere sarebbe privo di efficacia non solo perché non vincolante, ma soprattutto perché arbitrario, in quanto manifestazione di Lawfare[3]. Detto altrimenti, le denunce a carico dello Stato ebraico certificherebbero un “uso strumentale del diritto come arma” (appunto Lawfare), nelle modalità originariamente teorizzate e – tuttora – praticate paradossalmente dagli USA, e successivamente fatte proprie dalla Cina con la formula equivalente “falu zahn”[4], ovvero come guerra asimmetrica (nelle aule di giustizia o nei consessi internazionali), per colpire “legalmente” – senza ricorrere alla violenza e alla forza militare – paesi le cui decisioni, ancorché democraticamente assunte, contrasterebbero con interessi dominanti a livello mondiale. Contro Israele, il Lawfare sarebbe mosso dall’interesse a negarne il “diritto di esistere”, negazione comprovata dalla provenienza delle più recenti iniziative, attivate da nemici “storici” dell’ebraismo (rectius, del sionismo), come il Sud Africa, il Nicaragua e soprattutto l’Iran, quest’ultimo notoriamente favorevole ad Hamas, Hezbollah e Houthi[5]. Al contrario, proprio a causa della manifesta strumentalizzazione Lawfare, la condotta israeliana, in particolare dopo gli attacchi terroristici dell’ottobre 2023, rappresenterebbe una “legittima difesa” consapevolmente sproporzionata e non conforme al diritto “degli altri”, ma resa necessaria dalla “sopravvivenza” dello Stato nell’accerchiamento mediorientale dei suoi nemici. In proposito, un giornalista italiano, convinto assertore della tesi, ha evocato una storica formula di Golda Meir, che sinterizzerebbe l’assunto: «vi perdoneremo perché ci avete uccisi, ma non vi perdoneremo perché ci avete costretti a uccidere i vostri figli»[6]. La “necessità” – ancorché sproporzionata – prevarrebbe sulla “legalità”.
Ora, certamente il Lawfare nasce come strumentalizzazione del diritto, in primis internazionale, da parte di uno o più Stati, contro le decisioni democraticamente assunte da un altro Stato. E, in effetti, Israele è uno Stato, le cui decisioni sono votate democraticamente. Da ultimo, per esempio, l’annessione della Cisgiordania è stata democraticamente deliberata a larghissima maggioranza dalla Knesset, il parlamento israeliano.
Alcuni ineludibili dettagli, però, sfuggono alla tesi del Lawfare a danno di Israele.
Sono tre.
In primo luogo, lo Stato “vittima” del Lawfare deve essere caratterizzato, oltre che dal decidere democraticamente, anche da quello di rispettare il diritto e le relazioni internazionali con tutti gli altri Stati, inclusi i suoi “nemici” (si pensi al Brasile della Presidente eletta Dilma Rousseff e ai suoi rapporti con gli USA nella promozione, del tutto legale, dei BRICS, ostacolata poi dalle vicende giudiziarie che hanno colpito la sua maggioranza, rivelatesi in gran parte infondate, costruite ad arte e sollecitate da interessi, soprattutto statunitensi, contrapposti ai BRICS[7]).
Rispetto a tale requisito, Israele è uno Stato democratico “a metà”, non solo per la sua matrice religiosa, che comunque permea di sé il diritto e le sue figurazioni giuridiche alimentando inevitabilmente asimmetrie fra ebrei e musulmani[8], ma soprattutto perché esso esplicitamente rifiuta l’apertura al diritto internazionale, in primis umanitario e di pace, quale parametro integrativo della legittimità delle proprie azioni, riconoscendosi, così, in un costituzionalismo denominato “di esclusione” (per il dato di escludere, dallo spettro della legittimità e della tutela dei diritti umani, i parametri internazionali umanitari e di pace verso altri soggetti diversi dagli ebrei)[9].
In secondo luogo, il Lawfare si attiva in contesti di pace e non invece di conflitto (dove entrano in gioco lo ius in bello e lo ius ad bellum), ancor meno se risalente e cronico come quello israelo-palestinese, segnato da complessità giuridiche internazionali senza pari nel panorama mondiale[10].
In terzo luogo e infine, il Lawfare si fonda sulla violazione del principio di proporzionalità nelle proprie azioni a danno degli altri, non certo nel suo contrario, vale a dire nella rivendicazione del rispetto della proporzionalità a garanzia di tutti, come esattamente fanno, non da oggi, le Istituzioni ONU nei confronti di Israele. Di fatto, è Israele che viola il principio di proporzionalità, tra l’altro evocando costrutti paradossali come quello della legittima difesa necessariamente fondata sulla “legittima sproporzione” per annientare il nemico (categoria di matrice nazista, inventata – come noto - da Albert Speer[11]).
2. Alcune recenti iniziative sui rapporti di affari con Israele per le inside del Lawfare “inverso”
In definitiva, sul piano della semantica e della comparazione costituzionali, la tesi del Lawfare appare molto debole, se non inconsistente.
Questo spiega perché, dopo quella decisione del 2024 della Corte Internazionale di Giustizia, la doppia tesi della legittimità delle condotte israeliane in Palestina e a Gaza, e della natura Lawfare delle misure contro di esse, emerga sempre meno convincente sia in dottrina[12] che in giurisprudenza[13].
Particolarmente interessante, in merito, è il dibattito in Olanda e in Norvegia.
Nel febbraio 2024, la Corte d’Appello dell’Aja ha ordinato al Governo olandese di interrompere l’esportazione di componenti dell’aereo F-35 verso Israele, a seguito di un reclamo presentato da tre ONG. Questa decisione è stata impugnata dinanzi alla Corte Suprema olandese, che ha esaminato il caso il 6 settembre 2024 ed è ancora pendente. A seguito della sentenza dell’Alta Corte, tuttavia, le autorità olandesi hanno sospeso le esportazioni dirette a Israele[14]. I ricorrenti, però, hanno intentato, dopo il parere della Corte Internazionale, una nuova causa, sostenendo che il Governo olandese stesse in realtà eludendo la sentenza, attraverso una tipica “triangolazione” contrattuale, cioè inviando quelle componenti dell’F-35 negli Stati Uniti, a loro volta impegnati a destinarle comunque a Israele. Anche questo secondo caso risulta ancora pendente.
La vicenda è emblematica, nella misura in cui mette in luce un processo decisionale esattamente inverso alla tesi del Lawfare a danno di Israele: si elude, strumentalizzandolo, il diritto nazionale e internazionale, nella riscontrata modalità della “triangolazione” contrattuale, non contro Israele, bensì a suo favore e a discapito delle misure o sanzioni, indicate dalle autorità internazionali competenti.
Non a caso, un tal genere di logica da Lawfare “inverso” è stato denunciato da diversi esperti ONU perché espressivo del potenziale sovvertimento dell’ordine giuridico internazionale, esautorandolo nella sua funzione addirittura di ius cogens oltre che di parametro condiviso di “buona fede” nelle condotte statali[15].
La medesima preoccupazione di Lawfare “inverso” ha spinto il più grande e ricco Fondo sovrano del mondo, quello norvegese, a vendere le sue quote di Caterpillar, nota azienda statunitense di mezzi da costruzione, escludendola pure dai propri investimenti, per il fatto di fornire, sempre in “triangolazione” contrattuale, i suoi prodotti e servizi a Israele nella demolizione degli edifici di Gaza e della Cisgiordania[16].
Sulla medesima linea di preoccupazione, infine, si sono mossi i 209 diplomatici europei, che hanno scritto ai Leader UE affinché decidano finalmente di sospendere tutti i rapporti di affari con Israele, in forza dell’art. 2 dell’Accordo di associazione tra UE e Israele del 2000, dove si richiede il permanente rispetto dei diritti umani in tutti i contesti, condizione evidentemente non rispettata con gli illeciti permanenti accertati dall’ONU[17].
Nel dettaglio, la richiesta diplomatica invita a sospendere o revocare unilateralmente:
- le licenze di esportazione di armi verso Israele;
- il finanziamento di progetti cofinanziati a livello nazionale che coinvolgono entità israeliane;
- gli accordi di ricerca congiunta con istituzioni e organismi di ricerca israeliani;
- il commercio di beni e servizi con gli insediamenti illegali;
- i collegamenti societari con entità operanti negli insediamenti illegali;
- l’uso dello spazio aereo europeo per navi e aerei militari israeliani;
- i centri dati e le piattaforme, con sede in Europa, utilizzate da Israele[18].
3. Illecito permanente e nullità dei rapporti di affari
In effetti, è una circostanza molto rara, nel panorama del diritto internazionale, quella di uno Stato che opera in modalità di “illecito continuato e permanente”. Conviene spiegarlo sinteticamente. Nel diritto internazionale, tra i quattro crimini di genocidio, contro l’umanità, di guerra e di aggressione non sussiste né c.d. “gerarchia” né c.d. “esclusività”. Che cosa significa? Lo spiegano le Convenzioni in materia e le Corti internazionali che le hanno applicate[19]. Ma indirettamente lo ha spiegato anche la Corte costituzionale italiana nella famosa sentenza n. 238/2014, riferita alla Germania per i suoi crimini nazisti[20].
In breve, vuol dire tre cose.
- L’assenza di “gerarchia” implica che nessuno di questi crimini detiene una precostituita maggiore rilevanza o priorità punitiva rispetto agli altri, dato che tutti, anche se singolarmente considerati, identificano “i più gravi illeciti in assoluto” per la comunità internazionale, offendendo, tutti, la dignità del genere umano.
- L’assenza di “esclusività”, invece, comporta che ogni singolo atto dello Stato e ogni singola condotta dei suoi organi e agenti (inclusi i militari) può costituire elemento contemporaneamente identificativo di più di uno dei quattro crimini internazionali, senza che l’accertamento di un tipo (per es. il crimine di aggressione) implichi l’esclusione dell’altro (per es. il genocidio).
- Infine, questi due caratteri possono coesistere con la commissione di altri illeciti internazionali, dalla semplice violazione del diritto internazionale pattizio e generale all’occupazione illegale, alla violazione sistematica di specifici diritti umani.
Ecco allora che, se, nel tempo, le condotte di uno Stato maturano come “cumulo” di tutti questi illeciti internazionali, quello Stato finisce col versare in una situazione di “illecito continuato e permanente”.
Israele detiene siffatto non invidiabile primato.
Di qui, la puntualizzazione della domanda di apertura: è possibile intrattenere relazioni di profitto con l’autore di un “illecito continuato e permanente”?
Per Governo e imprese italiane, la risposta alla domanda è: sì, si possono, anzi si devono fare affari con Israele, perché, ha testualmente spiegato la Presidente del Consiglio dei Ministri, in questo modo si «mantiene il dialogo» per una soluzione dei problemi su Gaza[21].
Dunque, in nome del “dialogo”, risultano confermati e non invece sospesi, men che meno revocati, gli accordi di cooperazione internazionale, a contenuto commerciale e militare, fra Italia e Stato israeliano, a partire dal Memorandum d’intesa, ratificato con la l. n. 95/2005[22], per risalire all’Accordo di sicurezza, del 1987, mai ratificato con legge e tenuto segreto per oltre vent’anni[23], e giungere a quello di Pubblica sicurezza, ratificato con la l. n. 86/2017, tutti – tra l’altro – produttivi di oneri a carico della finanza pubblica, come testualmente si deduce dai loro contenuti.
Allo stesso modo, come spiegato sempre dal Governo in sede parlamentare[24], restano in vita i contratti privati di fornitura di prestazioni, militati e non, fra imprese italiane e israeliane, con la sola (inconcludente) misura di non promuoverne di nuovi.
Insomma: con uno Stato che versa in una condotta di “illecito continuato e permanente”, nulla cambia rispetto al passato.
E tutto questo con buona pace di una specifica disposizione di legge, l’art. 1, comma 6, della l. n. 185/1990, con cui si vieta «l’esportazione ed il transito di materiali di armamento ai Paesi in stato di conflitto armato, la cui politica contrasti con i principi dell’articolo 11 della Costituzione, e verso i Paesi i cui governi sono responsabili di accertate violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti dell’uomo», dove, si badi bene, per “materiali d’armamento” si intende qualsiasi tipo di prestazione negoziale (di diritto pubblico o privato), utile appunto ad “armare” ossia a confezionare strumenti e modalità di offesa militare: quindi, anche attività come cessione di know-how, formazione tecnologica, scambio di buone pratiche, esercitazioni ecc… Insomma tutto.
Eppure quell’art. 1 evoca l’art. 11 della Costituzione, il quale, a sua volta, nel ripudiare la guerra, ripudia anche l’offesa alla libertà degli altri popoli, offesa in corso in Palestina e Gaza con l’ “illecito continuato e permanente” di Israele.
Ma niente: il “dialogo” con Israele si pone al di sopra della Costituzione. Il che, se può aver qualche margine di ammissibilità per uno Stato sovrano, diventa incomprensibile per le imprese private, il cui statuto giuridico non è certo quello di “dialogare” bensì di fare profitti.
Stando così le cose, però, tre domande si pongono all’attenzione.
La prima: perché lo stesso trattamento di “dialogo”, da parte di Governo e imprese italiane, non è stato offerto anche alla Russia, altro Stato agente in violazione deliberata del diritto internazionale? Su questo, nessuno ha fornito risposte, sicché l’enigma resta.
L’enigma, poi, si infittisce con la seconda domanda: nella vicenda dell’Ucraina, la fornitura di materiali d’armamento al Governo di Kiev ha funzionato allo stesso modo? Qui la risposta è no ed è paradossale, se non surreale, nel suo contenuto. In quella vicenda, difatti, Governo e imprese, per aiutare lo Stato aggredito, hanno richiesto un’apposita normativa in “deroga” alla citata l. n. 185/1990 (che impedisce affari commerciali in contesti di conflitto e violazione dell’art. 11 Cost.), procedendo, come noto, con il d.l. n. 14/2022, convertito in l. n. 28/2022, dove – tra l’altro – le prestazioni contrattuali sono state tassativamente identificate in quelle «non letali» e di «sola protezione». Ecco il surreale: per un verso, nei confronti di uno Stato aggredito e non incriminato di alcun “illecito continuativo e permanente” (come l’Ucraina), si provvede a fare affari, ma con apposita legge di deroga e nei limiti delle forniture “non letali”; per l’altro verso, nei riguardi di uno Stato aggressore incriminato addirittura di “illecito continuato e permanente” (come Israele), si continua a fare affari senza apposita legge di deroga e senza vincoli di “sola protezione” e di usi “non letali”, in nome del … dialogo con … l’aggressore.
La terza domanda diventa ineludibile: fare affari con uno Stato incriminato di “illeciti continuati e permanenti” è legittimo nell’ordinamento giuridico internazionale e in quello nazionale italiano?
Prima di rispondere a questa domanda, è necessaria una precisazione. Nella vicenda di Israele a Gaza, si sta consumando una sorta di “sostituzione” delle categorie giuridiche. Come accennato, Israele sostiene di esercitare un legittimo diritto di difesa nei confronti di Hamas, qualificato “gruppo terroristico” a seguito degli attacchi subiti il 7 ottobre 2023. Tel Aviv, in sintesi, dichiara di operare in un contesto non di “guerra fra Stati” né di “aggressione territoriale”, bensì di “guerra al terrorismo”, legittimante l’invasione militare di Gaza. Eppure la fattispecie della “guerra al terrorismo” non esiste nel diritto internazionale: è una “invenzione” degli USA, dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001.
Ciononostante, il costrutto lessicale ha coinvolto pure l’Unione europea e, in particolare la Francia.
La UE ha messo al bando Hamas come “gruppo terroristico”, con connesse sanzioni economiche nei suoi riguardi. A sua volta, il Presidente francese Macron, subito dopo il 7 ottobre 2023, ha fatto di più: ha equiparato il governo di Hamas, a Gaza, con lo Stato islamico dell’ISIS (Daesh), tra Iraq e Siria.
Israele, in continuità con la sua visione del Lawfare, si è appropriata di tali classificazioni “a-legali”, producendo un cortocircuito giuridico, i cui effetti devastanti riempiono la cronaca di questi ultimi mesi.
In primo luogo, gli inquadramenti euro-americani, come accennato, non sono in nulla conformi al diritto internazionale, alla luce di un importante risoluzione della Corte Internazionale di Giustizia del 2004 (case 131), in cui l’autorità giurisdizionale ONU aveva chiarito che, se uno Stato ha il diritto e il dovere di rispondere ad atti di violenza contro la sua popolazione civile (quali sono stati gli attacchi del 7 ottobre), le misure adottate «devono comunque rimanere conformi al diritto internazionale» (§ 141 della risoluzione), in particolare con l’art. 48 del Protocollo I della Convenzione di Ginevra del 1977, secondo cui «allo scopo di assicurare il rispetto e la protezione della popolazione civile e dei beni di carattere civile, le Parti in conflitto dovranno fare, in ogni momento, distinzione fra la popolazione civile e i combattenti, nonché fra i beni di carattere civile e gli obiettivi militari, e, di conseguenza, dirigere le operazioni soltanto contro obiettivi militari»: il che vuol dire non inventarsi “guerre” non previste dal diritto, come quella “al terrorismo”.
In secondo luogo, la parificazione di Hamas al Daesh ha fatto venir meno la prevista distinzione fra civili e militari, sicché chiunque dipenda da Hamas, per esempio come semplice funzionario di una sua struttura amministrativa, finisce con l’essere rubricato quale “terrorista”. Non a caso, Israele, nel contesto di Gaza, utilizza volutamente un’altra formula linguistica, sconosciuta al diritto internazionale, quella di “militante di Hamas”, per dar concretezza a siffatta corrispondenza e annichilendo alla radice la differenza tra civile e militare (considerato che, in assenza di certezza sul parametro precostituito di definizione, chiunque può assurgere a “militante” di Hamas).
In terzo luogo, con questa confusione, le sanzioni europee contro Hamas si sono tradotte in uno stigma su Gaza a favore di Israele, mettendo in difficoltà le cancellerie europee nel modificare questo regime sanzionatorio, per estenderlo allo Stato che viola il diritto internazionale.
In questo scenario, l’Italia ha ritenuto implicitamente di riconoscersi nelle qualificazioni unilaterali della vicenda di Gaza, con Hamas terrorista e Israele vittima, ignorando, in tal modo, il diritto internazionale[25].
Non a caso, dopo il vertice dei Ministri degli Esteri europei del 29 agosto 2025 sullo stato di carestia a Gaza, anch’esso denunciato dall’ONU[26], il Governo ha annunciato l’introduzione di sanzioni non contro Israele né contro il Governo o i suoi ministri, bensì contro i coloni “violenti” [27]: categoria assai indeterminata – quella dei coloni “violenti” – di cui non si comprende nulla di come sarà individuata, sulla base di quali parametri (italiani? israeliani?), a seguito di quali condotte (in Israele, in Cisgiordania, altrove?) e sulla base di quali accertamenti (per mezzo delle autorità israeliane o di un corpo internazionale?), dato anche il numero infimo di controlli e procedimenti israeliani a carico per l’appunto dei coloni[28].
Lo hanno fatto anche le imprese private italiane, in particolare Leonardo Spa[29], che continua a inserire Israele tra i “paesi normali”, ossia rispettosi del diritto e dei diritti, con cui fare affari.
C’è un piccolo particolare, però.
Non solo Israele versa, proprio in base al diritto internazionale, in una condotta, come accennato, di “illecito continuato e permanente”, ma il diritto che viola rientra nello ius cogens non derogabile né dagli Stati né dai privati, perché risalente al 1945: si tratta dello ius cogens del mantenimento della pace e del rispetto del genere umano.
Pertanto, è mai possibile fare affari nella violazione dello ius cogens? Evidentemente no.
Lo si desume dagli artt. 53 e 27 della Convenzione di Vienna sulla interpretazione dei trattati, del 1969: qualsiasi accordo, sia internazionale che di diritto interno, che miri a eludere lo ius cogens è nullo ab initio. Questo vale per gli accordi tra Italia e Israele ma vale anche per i contratti di diritto privato delle imprese, dato che lo ius cogens corrisponde alla “norme imperative”, indicate per la nullità dei contratti dagli artt. 1418 e 1419 Cod. civ., e a quelle “ad applicazione necessaria”, previste dalla disciplina dei contratti internazionali (cfr., per es., l’art. 16 della l. n. 218/1995, e l’art. 9 del Regolamento UE c.d. “Roma I”).
Nullo ab initio sta a indicare che, di fronte allo ius cogens, non vale neppure il principio del tempus regit actum ossia della considerazione del “quando” l’accordo o il contratto è stato stipulato o ha prodotto i suoi effetti, rispetto alla violazione appunto dello ius cogens.
D’altra parte, se la condotta israeliana versa in un “illecito continuato e permanente”, risalente addirittura al 1967, non c’è “quando” successivo che possa giustificare la violazione italiana dello ius cogens. A maggior ragione neppure la citata l. n. 185/1990 può fungere da “cappello protettivo” degli affari con Israele, risultando comunque successiva al 1967.
La nullità ab initio colpisce inesorabilmente tutto: causa, motivi ed effetti di accordi e contratti.
Ma allora come si spiega che l’Italia continui a fare affari con Israele?
Invero, la risposta è molto semplice e, in parte, già fornita. Per quanto concerne lo Stato, esso elude lo ius cogens attraverso l’uso di categorie non presenti nel diritto internazionale (nel senso di dire che si “dialoga con” – rectius, si aiuta – Israele perché porta avanti una legittima “guerra al terrorismo”). Per quanto concerne le imprese, esse eludono lo ius cogens attraverso il classico stratagemma delle “scatole cinesi”, del tutto simile alla richiamata “triangolazione” contrattuale denunciata in Olanda come Lawfare “inverso”: un’impresa italiana fa un contratto con un contraente intermedio che, a sua volta, fa il contratto con Israele e le sue imprese, per portare a compimento gli affari di quella italiana; il contraente intermedio può coincidere con un’impresa controllata da quella italiana (nel caso, per esempio, di gruppi societari) oppure in un’impresa straniera non israeliana (per esempio, francese), vincolata a corrispondere o condividere parte dei suoi profitti, di derivazione israeliana, con quella italiana.
Esistono rimedi contro queste elusioni? Si, tanto a livello internazionale che nazionale.
A livello internazionale valgono i richiami al “concorso” degli Stati agli illeciti e persino ai crimini di altri Stati, di cui ha fatto cenno la decisione della Corte Internazionale di Giustizia del luglio 2024. A livello nazionale italiano, entrano in gioco, oltre agli artt. dal 1418 al 1421 Cod. civ., gli artt. 1343 e 1344 Cod. civ. secondo cui tutti i contratti che eludono lo ius cogens sono illeciti sia nella “causa” (che è quella di fare affari con uno Stato che consuma “illeciti continuati e permanenti”) sia nella “frode alla legge” (dato che la modalità contrattuale delle “scatole cinesi” diventa il «mezzo per eludere l’applicazione della norma imperativa»)[30].
Se il rimedio internazionale può essere attivato solo dagli Stati, quello nazionale sulla nullità, invece, può essere promosso da qualsiasi soggetto che abbia “interesse” a far rispettare quello ius cogens, ovvero da qualsiasi essere umano. Scenari futuri di azione contro questi contratti nulli sembrano prefigurarsi anche in Italia, come minimo per tre ragioni:
- perché – sia detto a conclusione – l’Italia si riconosce nel “ripudio” non solo della guerra ma anche dell’offesa alla libertà di altri popoli (art. 11 Cost.) e gli illeciti israeliani consistono in un’offesa alla libertà di un altro popolo;
- perché l’Italia si riconosce nel diritto umano alla pace[31], ignoto al costituzionalismo israeliano;
- e la pace è il “bene della vita” che tutti hanno il dovere di far salvaguardare in tutte le sedi, anche davanti ai tribunali.
[1] Cfr. G. Felbermayr, A. Kirilakha, C. Syropoulos, E. Yalcin e Y.V. Yotov, The Global Sanctions Data Base (Gsdb); H. Attia e J. Grauvogel, International Sanctions Termination, 1990–2018: Introducing the IST dataset, in Journal of Peace Research, 60 (4), 2022, 709-719.
[2] Cfr., per il quadro d’insieme, UN, The question of Palestine.
[3] In Italia, l’ipotesi del Lawfare è sostenuta da D. Elber, Due pesi e due misure: il diritto internazionale e Israele, Livorno, Belfiore, 2020. Per un utile inquadramento delle implicazioni connesse all’utilizzo di questa categoria giuridico-morale, si v. E. Loefflad, The United States, Israel, and the Affective Lives of Moral Injury A Genealogy of Lawfare’s Emotional Presuppositions, in Athena. Critical Inquiries in Law, Philosophy and Globalization, 5(1), 1–55.
[4] O.F. Kittrie, Lawfare: law as a weapon of war, New York, Oxford Univ. Press, 2016.
[5] S. Saeidi, Iran’s Hezbollah and Citizenship Politics: The Surprises of Islamization Projects in Post-2009 Iran, in Women and the Islamic Republic: How Gendered Citizenship Conditions the Iranian State, Cambridge, Cambridge Univ. Press, 2022, 163-188; T. Juneau, Iran’s policy towards the Houthis in Yemen: a limited return on a modest investment, in International Affairs, 92 (3), 2016, 647-663; E. Skare, Iran, Hamas, and Islamic Jihad: A marriage of convenience, in European Council of Foreign Relations, 18 dicembre 2023.
[6] Si tratta di Giuliano Ferrara, in un editoriale de Il Foglio del 28 agosto 2025, riprodotto da Adriano Sofri nella sua pagina FB.
[7] V. Vegh Weiss, What does Lawfare mean in Latin America? A new framework for understanding the criminalization of progressive political leaders, in Punishment & Society, 2023, 25(4), 909–933.
[8] Cfr. in merito, A. Perrilli, Laicità “non-occidentali”. Tradizioni religione e costruzione della sfera pubblica in Israele e Turchia, Bologna, Bologna Univ. Press, 2025.
[9] Cfr. M. Masri, The Dynamics of Exclusionary Constitutionalism, London, Hart, 2017.
[10] Cfr. N. Erakat, Justice for Some: Law and the Question of Palestine, Stanford, Stanford Univ. Press, 2019.
[11] Cfr. A. Speer, Lo Stato schiavo. La presa di potere delle SS, trad. it., Milano, Mondadori, 1985.
[12] Cfr., in Italia, M. Carducci, I contratti italiani di vendita d’armi a Israele sono nulli?, in www.LaCostituzione.info, 9 aprile 2024.
[13] J. Hartmann, L. Köhne, V. Widdig, Arms Exports and Access to Justice: Enforcing International Law through Domestic Courts, in EJIL: Talk!, 25 ottobre 2024.
[14] Si v. il sito https://opiniojuris.org/.
[15] Cfr. UN experts warn international order on a knife’s edge, urge States to comply with ICJ Advisory Opinion, in https://www.ohchr.org/en/statements-and-speeches/2024, 18 settembre 2024.
[16] Norges Bank, Decisions on exclusion, 25 agosto 2025.
[17] Cfr. CEPS, Open Letter Calling for immediate implementation of EU measures against Israel’s unlawful actions in Gaza & the West Bank, in https://www.ceps.eu/, 26 agosto 2025. Sulla vicenda dell’Accordo UE-Israele, cfr. M. Gatti, La mancata sospensione dell’Accordo di cooperazione UE-Israele, in SidiBlog, 30 giugno 2025.
[18] La traduzione in italiano delle richieste si legge in Pressenza. International Press Agency, del 28 agosto 2025.
[19] Cfr. K.J. Heller et al. (eds), The Oxford Handbook of International Criminal Law, Oxford, Oxford Academic, 2020.
[20] In particolare, nei passaggi della decisione, che collegano ius cogens, rispetto della dignità della persona umana e inammissibilità di qualsiasi crimine internazionale come fattispecie insindacabile e non giustiziabile.
[21] Cfr. Camera dei Deputati, Respinta mozione opposizioni su cooperazione militare con Israele, 17 luglio 2025.
[22] Cfr. i commenti di Action for Peace e di Manlio Dinucci in Jura gentium (La questione palestinese, a cura di F. Ciafaloni, C. Nachira), 2005.
[23] Cfr. L’accordo di collaborazione militare tra Italia e Israele finalmente pubblico grazie ad un’azione legale, 2 agosto 2025.
[24] Cfr., per esempio, Camera dei Deputati, atto n. 491 del 7 maggio 2025.
[25] Se leggano le difese dell’Avvocatura dello Stato a giustificazione del mancato seguito italiano al parere della Corte Internazionale di Giustizia del luglio 2024, nel giudizio amministrativo intentato da un avvocato contro il Governo (cfr. la documentazione in Comitato per la Difesa del Diritto Internazionale in Palestina).
[26] Cfr. IPC, Famine confirmed in Gaza Governorate, projected to expand, 15 agosto 2025.
[27] Cfr. M. Cremonesi, A. Logroscino, Israele, la mossa del Governo italiano: «Sanzioni contro i coloni violenti», ne Il Corriere della Sera, 30 agosto 2025.
[28] J. Sharon, NGO says only 6% of police probes of settler violence it was party to ended in charges, in The Times of Israel, 22 gennaio 2024.
[29] Cfr. Leonardo, Diritti umani (contenente Codice etico e Carta dei valori di Gruppo).
[30] Cfr. S. Pagliantini (a cura di), Le forme della nullità, Torino, Giappichelli, 2009.
[31] A. Papisca, La pace come diritto umano fondamentale, in Pace, Diritti dell’Uomo, Diritti dei Popoli, 1(1), 1987, 37-43.
Immagine: foto di Daniel Maleck Lewy via Wikimedia Commons.