Pubblichiamo un contributo dagli Atti del Convegno La magistratura e l’indipendenza. Dedicato a Giacomo Matteotti promosso da Questa Rivista che si è tenuto a Roma il 12 aprile 2024. Il fascicolo è a cura di Sibilla Ottoni, Michela Petrini, Marco Dell'Utri e Angelo Costanzo e si può leggere e scaricare a questo link.
Fenomeni di regressione costituzionale in Europa, il caso ungherese
di Simone Benvenuti
Sommario: 1. Le dimensioni istituzionale, sociale e culturale della regressione costituzionale – 2. L’integrità del giudice come anticorpo? – 3. La rilevanza della dimensione sovranazionale
1. Le dimensioni istituzionale, sociale e culturale della regressione costituzionale
Ringrazio molto gli organizzatori per l’invito. Mi pare anzitutto opportuno sottolineare a mo’ di premessa due punti essenziali[1]. Quando si tratta di dinamiche relative alla vitalità dell’indipendenza giudiziaria in seno a un ordinamento, i fattori sottostanti sono molteplici. C’è una multidimensionalità che occorre considerare, nel senso che non bisogna pensare ci sia una ragione unica a spiegare certi fenomeni. Per identificare gli antidoti, non si può perciò prescindere dalla delineazione di un quadro articolato.
In secondo luogo, con riguardo al fenomeno di regressione relativo a Paesi di “più recente” adesione, come l’Ungheria, la Polonia, la Romania, non deve dimenticarsi che da parte dell’Unione europea il processo di valutazione fu realizzato in tali ordinamenti attraverso il ricorso ai criteri di Copenaghen e il metodo di lavoro della Commissione è stato sempre caratterizzato da un approccio formalista all’indipendenza giudiziaria, così come ad altri profili costituzionali e ordinamentali.
Ritengo che occorra anzitutto partire da queste due premesse: multidimensionalità ed esigenza di guardare in un’ottica non formalista, attenta non solo alle norme scritte e alle istituzioni sulla carta. A emergere accanto alla dimensione istituzionale sono quelle sociale e culturale: prendere in considerazione anche queste solo permette in definitiva di far luce su situazioni problematiche che per altri versi possono riguardare anche Paesi dell’Europa occidentale, ma che assumono negli ordinamenti menzionati aspetti patologici.
Fatte queste premesse, mi preme sottolineare tre punti.
Il primo punto riguarda l’importanza del fattore storico-sociale. Non bisogna dimenticare che si tratta di ordinamenti che appartengono a una determinata area dell’Europea, con una sua storia, appunto l’area centro-orientale, peraltro caratterizzata da forte eterogeneità delle esperienze del costituzionalismo nella prima metà del Novecento ma i cui ordinamenti sono accomunati da un debole radicamento sociale della magistratura e del valore dell’indipendenza del giudice. C’è dunque anzitutto un problema di debole radicamento sociale.
E questo è importante perché il radicamento sociale è il primo bastione dell’indipendenza della magistratura. La cultura dell’indipendenza non è un fatto che riguarda solo i magistrati – si parla spesso del problema della diffusione della cultura dell’indipendenza presso i magistrati – bensì è un fatto culturale che riguarda un’intera società. Vorrei ricordare a questo riguardo un’osservazione che fa Paolo Ridola in un contributo all’interno di un volume curato da Beniamino Caravita e che ci interessa molto da vicino. Ridola ci ricorda che il tema del radicamento sociale, o meglio il problema dell’assenza di radicamento sociale della magistratura, è presente alla nostra Assemblea costituente nel momento in cui si è venuto delineando quel modello di consiglio superiore della magistratura elettivo e a composizione mista. Dunque, la presa d’atto dell’assenza di radicamento sociale ha determinato alcune decisive scelte istituzionali nell’Italia post-albertina.
Il secondo punto attiene ai fattori istituzionali. Se si guarda ai modelli istituzionali di governo della magistratura ad esempio in Ungheria e in Polonia, che sono i Paesi che evidenziano al massimo grado il processo di regressione, rispettivamente dopo il 2010 e del 2015, si tratta di modelli formalmente garantisti dell’autonomia della magistratura. Eppure, questo modello non appare essere stato in grado di garantire tale autonomia sul lungo periodo. Per comprendere le ragioni di ciò, non si può isolare il sistema giudiziario come fosse una monade disgiunta dal contesto, perché le riforme del 2011/2012 e poi quelle che incrementalmente sono intervenute nel corso del decennio sono in realtà intimamente legate alla situazione pre-2010.
Tali riforme esprimono anche una reazione a una debole “accountability” del giudice, democratica e non, del modello istituzionale pre-2010. Tale debole “accountability” (utilizzo il termine inglese perché abbraccia un concetto più ampio rispetto a quello nostro di responsabilità) è stata resa ancor più problematica dall’assunzione da parte degli organi giudiziari (che certo hanno loro canali di legittimazione democratica ma che rimangono prevalentemente organi a legittimazione tecnica) l’assunzione di una centralità nei processi decisionali politici, di “allocazione autoritativa dei valori”. Tutto ciò riguarda non solo la giustizia ordinaria, ma anche, ovviamente, la giustizia costituzionale. Il sistema politico ungherese della transizione è caratterizzato da una debolezza dell’organo rappresentativo in termini di capacità decisionale e dalla sostituzione, o supplenza, del giudiziario (si pensi alla nota decisione della Corte costituzionale ungherese sulla pena di morte) – e alcune tendenze possono essere lette come reazione a questa realtà di fatto: lo sbilanciamento nel rapporto tra i poteri. Si tratta, come vedete, di temi che sono a noi familiari.
Infine, guardando ai fattori che hanno determinato il processo di regressione del sistema giudiziario non bisogna perdere di vista la prospettiva sistemica. Se si prende a esempio l’Ungheria, ciò che noi chiamiamo regressione del sistema costituzionale ha inizio da un evento – le elezioni dell’aprile del 2010, che ha dato a una forza politica divenuta egemonica il potere di realizzare riforme costituzionali e non ad ampio spettro e tra queste una riforma del sistema giudiziario. Alla radice di quella regressione del sistema istituzionale è in altre parole una “window of opportunity” consentita dalla debolezza del disegno istituzionale – sistema elettorale estremamente deformante, procedura di revisione della costituzione “semplice” etc. Non si può quindi prescindere dal fatto che certi passi che sono stati fatti non sarebbero stati possibili se quel disegno istituzionale fosse stato efficiente.
2. L’integrità del giudice come anticorpo?
Ciò detto, emerge centrale il tema della presenza di controspinte alle dinamiche descritte e di anticorpi in grado di frenarle. Se si parla di controspinte, nel caso ungherese è difficile vederne, e qui c’è forse un elemento di divergenza rispetto al caso polacco. Per quanto riguarda gli anticorpi, Simone Pitto ha giustamente osservato che le modifiche ordinamentali che hanno contrassegnato i casi ungherese e polacco, dando luogo a fenomeni di cattura delle istituzioni giudiziarie, hanno portato con sé prassi di vera e propria epurazione della magistratura, anche molto ampie – qualcosa che possiamo ritrovare a tali livelli anche nella storia francese, ma del XIX secolo. Questo cosa ci dice? Ci dice che l’elemento umano, per così dire, è centrale, ed è centrale con esso il tema della integrità professionale. Molto discusso anche a livello internazionale, il tema dell’integrità professionale, o “judicial integrity” riguarda una nozione ben più ampia e per molti aspetti non sovrapponibile a quella di indipendenza giudiziaria. Il tema riconduce a quanto ci ricordava Paola Filippi – non il dover essere ma il modo di porsi di fronte alla decisione giudiziaria, al lavoro giudiziario – e ancor prima all’esempio di Mauro Del Giudice, giudice nel procedimento Matteotti, richiamato dal Direttore dell’Archivio di Stato di Roma Michele di Sivo. E dunque, se guardiamo all’ordinamento ungherese di cui ho una conoscenza più approfondita, pur di fronte a una situazione estremamente degradata quel che vediamo è l’esistenza di isole di “resistenza” per così dire – seppure il termine resistenza non sia il più appropriato con riguardo alla magistratura perché ritengo che non sia quello di resistere il ruolo della magistratura, non foss’altro perché finisce comunque per essere perdente di fronte ai poteri politici rappresentativi.
Mi limito a riportare due esempi, cercando di rimanere nei tempi. Anzitutto, a distanza di quindici anni dallo smantellamento incrementale del sistema giudiziario possiamo testimoniare ancora l’esistenza, pur frammentaria, di una giurisprudenza di tribunali e corti che non è certo filo-governativa. Si pensi al noto caso Gyöngyöspata… Gyöngyöspata è un piccolo villaggio di nemmeno tremila abitanti dell’Ungheria centrale dove sono state messe in atto politiche di segregazione scolastica in una scuola elementare nei confronti dell’etnia Rom. Si tratta di un caso molto rilevante sia dal punto di vista politico, sia dal punto di vista giuridico, sia dal punto di vista sociale che è arrivato fino alla Corte europea dei diritti dell’uomo. A seguito della condanna dell’Ungheria da parte della CEDU, la questione riguardava essenzialmente la forma del risarcimento, laddove il Governo si rifiutava di risarcire le famiglie a titolo individuale, intendendo utilizzare le risorse per programmi rivolti all’intera comunità scolastica di Gyöngyöspata. Ebbene, dopo diversi gradi di giudizio, il giudice ungherese, e più esattamente la Corte suprema, nel 2020 ha reso una decisione contraria al Governo. Certo si può dire si tratti di casi residuali ma i quali evidenziano la capacità di alcuni giudici ungheresi di continuare a tenere il punto. Si può poi richiamare l’esempio del consiglio giudiziario nazionale, organo ormai sì svuotato di poteri effettivi ma che ha avuto la capacità in diverse occasioni di esprimere pareri pubblici ufficiali, che dunque hanno fatto prassi, molto duri sia nei confronti del Governo sia, mi preme sottolinearlo, nei confronti di alcuni rappresentanti della magistratura accondiscendenti nei confronti del Governo, non ultimo lo stesso attuale presidente della Corte suprema.
Va detto che quello che manca forse in Ungheria è il supporto a questa capacità di far fronte alle pressioni, anche tacite, del Governo: perché come dicevo in principio con riguardo al contesto allargato, vi è comunque un debole radicamento sociale della magistratura e perché, altro aspetto da sottolineare, è assente in Ungheria un panorama associazionistico come quello italiano che funga anche da collegamento tra magistratura e società (de resto si tratta di magistrature molto differenti e il caso italiano è forse più un’eccezione da questo punto di vista, nel panorama comparato), così come forse il ruolo dell’avvocatura, molto importante, è carente da questo punto di vista.
Ma, certamente, credo sia importante volgere lo sguardo al tema della integrità professionale e con esso a quello collegato del reclutamento e della formazione dei giudici, spostare l’attenzione dai modelli formali alle precondizioni sociali e culturali che permettano la tenuta del sistema anche in tempi di crisi quale elemento di resilienza per ricorrere un termine che oggi va tanto di moda.
3. La rilevanza della dimensione sovranazionale
Rimane da esplorare quale possa essere la funzione dell’integrazione sovranazionale in questo contesto. Al riguardo, c’è anzitutto da dire che i fenomeni di integrazione sovranazionale – Unione europea ma anche sistema convenzionale – sono decisamente controversi in seno alla società ungherese, e questo per motivi storici che hanno a che fare con il processo di costruzione della statualità ungherese la cui analisi ci porterebbe lontano dal tema che stiamo discutendo. Insomma non bisogna nascondersi che, sebbene Fidesz non goda della maggioranza dei consensi in termini assoluti nella società ungherese, quello dell’integrazione sovranazionale rimane un tema controverso a livello trasversale.
Se poi riflettiamo sugli anticorpi esterni, possiamo ben dire che questi nel caso ungherese non siano stati molto efficaci. Mi permetto di ricordare come solo poche settimane fa, il 13 dicembre 2023, il Parlamento ungherese abbia approvato un pacchetto di riforma della giustizia per dare soddisfazione ad alcune richieste degli organi europei e che mira a rafforzare l’’indipendenza della Corte suprema e del consiglio giudiziario nazionale. In cambio anche di questa riforma, l’Ungheria ha ottenuto il provvisorio sblocco di dieci miliardi di euro di fondi europei. Che cosa si può dire? Anzitutto, che le riforme come quelle del dicembre scorso sono, per richiamare l’espressione usata da Leonardo, riforme Frankenstein, vale a dire pezzi che non possono che evocare un giudizio positivo se considerati isolatamente ma che in definitiva non sono decisivi in un contesto degradato che è l’esito di un patchwork normativo dove ciò che conta sono alcuni dettagli, anche minimi. Si tratta di riforme inoltre spesso inattuate, o che possono rimanere inattuate, o che possono prendere molto tempo per la loro attuazione, e che in definitiva operano come pedine di una partita a scacchi con gli organi dell’Unione europea. Questo ci dice che la condizionalità politica e è scarsamente efficace e la condizionalità finanziaria può esserlo solo se presa sul serio.
E veniamo qui al vero tema, che dietro a queste riforme, interventi normativi a carattere formale, vi sono strumenti assai raffinati a disposizione del Governo e dei sostenitori, in seno al sistema giudiziario, del cosiddetto “Sistema di cooperazione nazionale” per raggiungere i propri obiettivi. Così, proprio mentre venivano discusse e poi approvate queste ultime riforme, il presidente della Corte suprema ungherese, che dispone di poteri significativi anche in materia di allocazione dei giudici tra le diverse sezioni, al pari dei presidenti delle corti negli ordinamenti centro-orientali, assumeva iniziative che volte a indebolire notevolmente l’indipendenza de facto della seconda sezione della corte suprema: proprio quella che aveva dimostrato di saper esprimere una giurisprudenza meno favorevole alle posizioni del Governo.
[1] Per una compiuta disamina sul tema affrontato si rinvia a «Dodici anni di riforme della giustizia in Ungheria», in Giustizia Insieme, vol. 3 settembre-dicembre 2023, Dialoghi oltre i confini nazionali, p. 499.