Edilizia di culto: un importante passo avanti verso la “laicità positiva”.
Nota a Corte cost. n. 254/2019
Giuseppe Tropea
In un precedente contributo, pubblicato su questa Rivista, relativo a una vicenda conclusasi con la condanna in Cassazione per un mutamento di destinazione d’uso al fine della creazione di un luogo di culto senza previo permesso di costruire, chi scrive evidenziava come essa, al netto delle peculiarità penalistiche, andasse inquadrata nell’ambito di una serie di problemi, legati alla legislazione regionale in materia, ancora irrisolti dalla giurisprudenza costituzionale – G. Tropea, Edilizia di culto e giudice penale: nuove limitazioni per la libertà religiosa? Nota a Cass. pen., Sez. III, 3 agosto 2019, n. 1854 - (https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-processo-penale/792-edilizia-di-culto-e-giudice-penale)
Le brevi considerazioni che seguono costituiscono una piccola postilla a tale nota, alla luce della sopraggiunta sentenza n. 254/2019.
In particolare, si segnalavano alcuni profili di criticità della precedente sentenza della Corte costituzionale n. 63/2016, che costituiva l’impalcatura su cui si fondavano le argomentazioni del giudice penale:
i) i distinguo fatti dalla Consulta nel 2016, con la sentenza n. 63, fanno emergere una particolare attenzione sui limiti della libertà religiosa, a fronte del difficile contesto terroristico che viviamo. Si pensi alla dichiarazione di incostituzionalità delle disposizioni della legge regionale lombarda relative alla sicurezza e all’ordine pubblico: in esse non si esclude che tali interventi possano essere legittimi se presi dallo Stato che ha competenza esclusiva in materia, anzi tra gli interessi costituzionali che possono essere invocati per modulare (in stretta proporzionalità) la libertà religiosa vengono invocati proprio ordine pubblico e sicurezza, nozioni alquanto lasche e vaghe, molto delicate da maneggiare a fronte delle libertà tutelate in Costituzione, anche di quella religiosa.
ii) è inoltre previsto un temperamento delle esigenze egualitarie, nella parte in cui si fa notare che le risorse sono finite (siano essi contributi economici siano parti di suolo). Orbene il punto è che a fronte di minoranze l’art. 3, co. 2, Cost. implica proprio trattamenti di favore finalizzati a rimuovere ostacoli di tipo economico e sociale e la condizione delle minoranze religiose in relazione all’edilizia di culto secondo molti integrerebbe una di quelle situazioni di svantaggio da rimuovere.
iii) si nota una certa tendenza a rinviare alle scelte amministrative e alla giurisdizione amministrativa – con l’utilizzo della sentenza interpretativa di rigetto – la concretizzazione di disposizioni che possono essere foriere di discriminazioni confidando in sviluppi positivi in quelle sedi. Ora, se sul piano della teoria generale delle situazioni giuridiche soggettive è forse corretto parlare del diritto costituzionale ad un bene immobile destinato al culto come interesse legittimo costituzionale plurisoggettivo, nel senso che l’esercizio discrezionale del potere pianificatorio non viene meno dinanzi all’art. 19 Cost., pur dovendo essere conforme al suo contenuto minimo essenziale, il problema è più complesso quando entra in gioco quella che dovrebbe essere l’extrema ratio rappresentata dal diritto penale.
Nello stesso senso altri hanno notato che la sentenza in questione presenta luci ed ombre: se è meritorio che la Corte abbia rintuzzato quei tentativi di introdurre nell’ordinamento trattamenti discriminatori tra confessioni religiose utilizzando il sistema delle intese, d’altra parte vi sono profili sui quali la Consulta non si è spinta, ad esempio proprio la legittimità della previsione di uno strumento urbanistico ulteriore (Piano per le attrezzature religiose) all’interno del Piano dei servizi, in assenza del quale non sono possibili nuove attrezzature religiose, aggravamento procedurale che destava sospetti, fra l’altro, di discriminazione indiretta, applicandosi evidentemente a nuovi edifici di culto, dunque diretto statisticamente a gravare soprattutto sulle confessioni religiose di recente insediamento (S. Cantisani, Luci e ombre nella sentenza Corte costituzionale n. 63 del 2016 (e nella connessa sentenza n. 52). Tra affermazioni di competenza ed esigenze di sicurezza, in www.giurcost.it, p. 21).
Si può dire, quindi, che la sentenza n. 63/2016, come la precedente n. 52/2016 in tema di diniego di attivazione della procedura volta all’intesa ex art. 8, co. 3, Cost. con l’UARR, sposi una logica giudiziale di modello “etnocentrico” di risoluzione dei conflitti in una società multiculturale, che avversa il comportamento multiculturale, malgrado non incida sui diritti fondamentali. Improntata invece al modello “garantista” appare la successiva sentenza n. 254/2019, ove per modello garantista si afferma l’esistenza di un limite insuperabile corrispondente alla difesa dei diritti e delle libertà fondamentali delle persone e a tutela del principio di eguaglianza (su tali due distinti approcci v. G. Di Cosimo, Giudici e politica alle prese con i conflitti multiculturali, in www.rivistaaic.it).
Il passo avanti è notevole. Non a caso il Governatore della Regione Lombardia dell’epoca ritenne la legge di fatto sostanzialmente integra dopo la pronuncia del 2016. Non si può dire lo stesso oggi.
Nella sentenza n. 63/2016 si era ritenuta, fra l’altro, manifestamente inammissibile la q.l.c. riferita all’art. 72, co. 5, della legge regionale n. 12/2005 della Lombardia che prevede l’approvazione da parte del Comune del Piano delle attrezzature religiose entro diciotto mesi dall’entrata in vigore della legge, o, in mancanza, unitamente al nuovo PGT. Ciò in quanto il ricorso governativo, fondato sulla violazione dell’art. 117, co. 2, lett. l) (quella facoltà contrasterebbe con il d.m. n. 1444/1968 in materia di standard urbanistici), non sarebbe stato sul punto sufficientemente motivato.
Nella sentenza n. 254/2019, al contrario, quelle disposizioni, che costituiscono il cuore della normativa regionale lombarda del 2005, come modificata nel 2015, vengono finalmente attaccate di petto.
Dopo la premessa, già esistente nell’arresto del 2016, circa la inscindibile connessione libertà religiosa/libero esercizio del culto/diritto di disporre di spazi adeguati per l’esercizio di tale libertà, e il passaggio in cui si ricorda che l’art. 72, co. 1 e 2, della legge regionale Lombardia non era stato impugnato dal Governo, mentre l’art. 72, co. 5, era stato oggetto di una dichiarazione di inammissibilità, si dichiara l’incostituzionalità sia del co. 2 che del co. 5.
Quanto al co. 2, che subordina l’installazione di tutte le nuove attrezzature religiose al PAR, si osserva che le Regioni, nel regolare, in sede di disciplina del governo del territorio, l’edilizia di culto, possono perseguire esclusivamente finalità urbanistiche, nell’ambito delle quali deve essere ricondotta anche la necessaria specifica considerazione delle esigenze di allocazione delle attrezzature religiose. In ragione del peculiare rango costituzionale della libertà di culto, inoltre, la stessa disciplina urbanistico-edilizia deve far fronte, con riferimento alle attrezzature religiose, all’ulteriore esigenza della necessaria previsione di luoghi per il loro insediamento, con la conseguenza che essa non può comportare l’esclusione o l’eccessiva compressione della possibilità di realizzare strutture di questo tipo.
Una normativa regionale sul punto, per non essere illegittima, deve quindi rispettare due condizioni: a) perseguire lo scopo del corretto insediamento nel territorio comunale delle attrezzature religiose aventi impatto urbanistico; b) tenere in debito conto la necessità di favorire l’apertura di luoghi di culto destinati alle diverse comunità religiose. Secondo la Corte tali presupposti non sono rispettati dalla legge regionale lombarda, nella misura in cui la subordinazione di qualsiasi attrezzatura religiosa al PAR riguarda appunto le sole attrezzature religiosa e non altre (scuole, ospedali, palestre, etc.), andando a comprimere la libertà religiosa e di culto, peraltro soprattutto delle fedi di più recente insediamento. Insomma: la libertà di culto è compressa senza alcuna ragionevolezza da finalità urbanistiche, violandosi gli artt. 2, 3, co. 1, 19 Cost.
Quanto all’art. 72, co. 5, la Consulta sottolinea come l’approvazione del PAR sia sottoposta a tempi del tutto incerti e aleatori, in considerazione del fatto che il comune può procedere alla formazione del PGT, o di una sua variante, a loro volta condizioni necessarie perché la struttura possa essere autorizzata una volta decorsi inutilmente i diciotto mesi per l’approvazione del PAR, con assoluta discrezionalità, sia sull’an che sul quantum dell’intervento.
Insomma: le competenze regionali concorrenti sul governo del territorio devono essere esercitate con ragionevolezza e proporzionalità, specie se è in gioco la libertà di culto declinata secondo esigenze di eguaglianza e non discriminazione.
Una sentenza dal tono molto “costituzionale” e poco “amministrativo”, si direbbe, che evidenzia un curioso paradosso accademico: la sentenza del 2016 è stata scritta da una costituzionalista, quella del 2019 da una amministrativista.
Il che, al netto del divertissement retroscenista, induce un triplice ordine di riflessioni generali, con una chiosa riconciliante finale.
Innanzi tutto, si rileva la tendenza della Corte, nel conflitto multiculturale, almeno a stare all’approccio degli ultimissimi anni, ad assumere un profilo più “garantista”, certo maggiormente adatto ai valori di fondo della nostra Carta fondamentale (letti assieme all’ art. 9 Cedu e alla giurisprudenza del giudice alsaziano sul punto).
In un secondo senso, più recondito ma altrettanto importante, la Consulta preferisce intervenire direttamente sulla politica pubblica regionale in materia, favorita in ciò forse dal fatto che questa volta la questione era stata sollevata in via incidentale dal Tar Lombardia e non in sede di conflitto col Governo. In questo senso ha minori margini di azione la tecnica dell’interpretativa di rigetto, che come visto nella precedente sentenza n. 63/2016 aveva assecondato un rinvio alle scelte amministrative e alla giurisdizione amministrativa rispetto alla concretizzazione di disposizioni che possono essere foriere di discriminazioni, confidando in sviluppi positivi in quelle sedi. Senonché questa conseguenza è insita nel mutamento di prospettiva della Corte, che ha effettuato questa volta direttamente un sindacato sulla ragionevolezza e proporzionalità delle norme oggetto di censura.
Infine, manca un’altra “parte amministrativa”, che chi scrive avrebbe invece forse apprezzato, per ragioni teoriche più che pratiche, ma che è risultata (giocoforza) assorbita per l’accoglimento delle questioni costituzionali relative agli artt. 2, 3, 19 Cost. Mi riferisco a quel passaggio dell’ordinanza di rimessione in cui si rilevava che la norma regionale impugnata violerebbe anche l’art. 97 Cost. in quanto la mancata previsione di tempi certi di risposta all’istanza dei fedeli, da un lato, contrasterebbe con il principio di buon andamento dell’azione amministrativa e, dall’altro lato, esprimerebbe «uno sfavore dell’Amministrazione nei confronti del fenomeno religioso», con conseguente violazione del principio di imparzialità dell’azione amministrativa. Inoltre, la mancata previsione di tempi certi violerebbe l’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost., in quanto la predeterminazione della durata massima dei procedimenti atterrebbe ai livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili, in base all’art. 29 della legge n. 241 del 1990.
Sarebbe stata molto interessante una pronuncia della Consulta anche su tali sollecitazioni del Tar Lombardia, non solo perché la redattrice è come detto una insigne amministrativista, ma anche per il modo arguto con cui i giudici amministrativi lombardi hanno saputo maneggiare il doppio volto dell’art. 97 (buona andamento/imparzialità), principi troppo spesso declinati in potenziale antitesi (si pensi al dibattito sui rapporti fra efficienza e garanzie procedimentali).
Ma tant’è: la sentenza n. 254/2019 ci invita pure a superare gli steccati disciplinari e a ragionare da giuspubblicisti a tutto tondo, come succede da tempo in altre gloriose tradizioni continentali (su tutte quella tedesca).
E ci fa ben sperare per il futuro, se, la stessa autorevole redattrice della sentenza n. 63/2016, appena insediatasi Presidente della Corte costituzionale, oltre alle meritorie (e più note) dichiarazioni sull’incompiuto cammino della donna nelle cariche pubbliche, nel riferirsi alle matrici culturali dei componenti della Corte, ha dichiarato: «Tutti noi abbiamo una formazione, chi cattolica, chi laica, chi politicamente di destra e chi di sinistra, di uomo o di donna, di una generazione o dell’altra. E quando entriamo in camera di consiglio ogni giudice porta con sé il proprio vissuto, la propria esperienza, le proprie idee. Tutto questo è una ricchezza, non un problema, per la Corte di uno Stato laico che esprime una “laicità positiva”, come scritto in una recente sentenza: non indifferente ma equidistante dalle religioni, per tutelare un valore riconosciuto a tutti» (Il Corriere della sera, 12 dicembre 2019, p. 9).
Inutile dire, a questo punto, che la sentenza cui si fa riferimento è proprio la n. 254/2019.