Seguendo l'onda lunga che sempre caratterizza le decisioni delle Corti Internazionali si potrebbe affermare che gli eventi che in questi giorni hanno portato il governo attualmente in carica in Israele al centro dell'attenzione internazionale siano le dirette conseguenze del parere espresso dalla Corte internazionale di giustizia nel luglio 2024 sulle politiche e sulle pratiche di Israele nei territori palestinesi occupati, nonché delle successive attività della stessa Corte che, prescindendo dai mandati di arresto connessi a crimini contro l’umanità che pure la Corte ha emanato, stanno affrontando, sotto vari aspetti, le problematiche connesse al conflitto israelo-palestinese.
È in corso attualmente il cosiddetto “processo alla fame” - la cui prima udienza è appena stata celebrata in aprile - che su istanza delle Nazioni Unite nonché dell'Autorità Palestinese vede il governo di Israele sul banco degli imputati del diritto internazionale per aver utilizzato il blocco degli aiuti umanitari, e quindi la fame, come arma di guerra.
Sempre di questi giorni la notizia che l'UE sta procedendo, su spinta di una forte maggioranza di Stati membri, alla revisione dell'Accordo di Associazione con Israele, che regola i rapporti economici tra Bruxelles e Tel Aviv, sulla base della violazione dell'articolo 2 dell'Accordo stesso che impone alle parti il rispetto dei diritti umani quali valori essenziali su cui si fonda l'intesa.
Tutti questi accadimenti sembrano dar ragione a quanti avevano ritenuto che il parere reso a luglio dalla Corte internazionale di giustizia fosse un passo senza precedenti che avrebbe fatto storia nell'ambito delle questioni giuridiche che sotto vari aspetti riguardano il conflitto; inoltre che, ancorché i pareri consultivi della CIG non siano giuridicamente vincolanti e non possano di per sé costringere i governi ad agire, il parere del luglio 2024 avrebbe rappresentato un atto di grande peso legale e morale destinato ad avere un'influenza significativa sulle decisioni e sulla politica estera degli Stati, con il potenziale di modificare la capacità della comunità internazionale ad assumere posizione rispetto al conflitto.
E dunque, a voler accedere a una visione ottimistica dell'andamento delle cose internazionali seguendo percorsi giuridicamente corretti, potrebbe ritenersi, alla luce degli eventi recenti, che la pronuncia della Corte abbia rappresentato un punto di partenza che, associato agli eventi politici connessi agli equilibri geopolitici internazionali, può essere in grado di contribuire alla risoluzione del conflitto nonché al tentativo di pacificazione dell'area, con forme che, prima della deliberazione del parere, non erano neppure immaginabili, anche accelerando percorsi diplomatici che sembravano bloccati.
La questione posta alla Corte dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite[1] riguarda in primo luogo le conseguenze giuridiche derivanti da alcune politiche e pratiche di Israele in quanto potenza occupante in una situazione di occupazione belligerante dal 1967; in secondo luogo riguarda il modo in cui tali politiche e pratiche influenzano lo status giuridico dell'occupazione alla luce di alcune norme e principi del diritto internazionale nonché le conseguenze giuridiche che derivano da tale status.
Ancorché già nel 2004 la stessa CIG avesse espresso un parere consultivo sulle conseguenze legali della costruzione di un muro nel territorio palestinese occupato, non vi è dubbio che, per il numero dei soggetti coinvolti, per la pluralità delle questioni trattate e per i punti di analisi esaminati, questo pronunciamento, reso al termine di un procedimento durato 18 mesi in cui sono stati auditi oltre 50 Stati e al quale hanno partecipato varie organizzazioni internazionali, rappresenta una coraggiosa novità e forse, secondo alcuni[2], una manifestazione della crescita del ruolo strategico della Corte internazionale di giustizia nell'ambito del conflitto.
Ampliando la prospettiva di analisi in forme mai fatte prima la Corte parte dal concetto di occupazione secondo il diritto internazionale specificandone la sua natura temporanea e la sua finalizzazione a ristabilire la legge e l'ordine ed eliminare eventuali minacce; precisando che, pur non potendosene stabilire limiti temporali precisi, l’occupazione, per non alterare il suo proprio status legale, deve rispettare tale requisito.
I giudici della Corte rilevano, infatti, che un'occupazione non può essere usata come forma di controllo indefinito e che non può trasferire il titolo di sovranità alla potenza occupante[3].
E inoltre che lo Stato occupante ha il dovere di amministrare il territorio a beneficio della popolazione locale e deve comunque rispettare, sulla base di detti principi, le condizioni di necessità e proporzionalità; sì che una occupazione che prosegua senza rispettarli è inevitabilmente illegale. Escluso poi che una potenza occupante possa stabilire la propria sovranità o esercitare poteri sovrani su un territorio occupato.
Attagliando tali concetti alla situazione attuale, la CIG[4] ha ritenuto che la continua presenza di Israele nei territori palestinesi quale potenza occupante è illegale, ritenendola contraria al divieto dell'uso della forza nelle relazioni internazionali e al correlato divieto di acquisizione del territorio mediante l’uso della forza. E che Israele non abbia diritto alla sovranità o all'esercizio di poteri sovrani in nessuna parte dei territori palestinesi occupati.
Escludendo che l'occupazione prolungata da parte di Israele soddisfi le condizioni di necessità e proporzionalità del diritto internazionale, la CIG di fatto nega la fondatezza dell'argomentazione giustificativa israeliana che collega l'occupazione a ragioni di sicurezza e a legami storici con il territorio, rendendo pertanto inevitabilmente illegale la sua prosecuzione.
Pronunciandosi per la prima volta sulla legittimità dell'occupazione nel contesto del conflitto israelo-palestinese che perdura da ben 57 anni, la Corte quindi ha esaminato la conformità al diritto internazionale di diverse politiche e pratiche di Israele riscontrandone l'illiceità sostanziale. In particolare ha stabilito che il trasferimento di coloni attraverso la confisca e requisizione di ampie aree di terra ai palestinesi viola l'articolo 49 della IV Convenzione di Ginevra, che proibisce il trasferimento e la deportazione forzata di massa da territori occupati; inoltre ha rilevato l'incapacità sistematica di Israele di prevedere e punire gli attacchi dei coloni contro il popolo palestinese nonché l'uso eccessivo della forza in violazione degli obblighi previsti dai vari trattati internazionali[5].
E dunque la Corte - e in questo l'estrema novità di questo pronunciamento - dichiara che l'occupazione israeliana, inizialmente giustificata come difensiva, è degenerata in una violazione del divieto di annessione di territori in spregio al divieto dell'uso della forza.
La Corte ha poi aggiunto un'ulteriore punto di analisi, esaminando le politiche e pratiche israeliane esercitate nei territori palestinesi occupati sotto il diverso profilo del diritto umanitario, stabilendo che tali politiche e pratiche violano altresì il diritto all'autodeterminazione dei popoli e concretizzino di fatto una sistematica discriminazione del popolo palestinese evidenziata dalla privazione delle risorse naturali e dall'impedire il diritto allo sviluppo economico, sociale e culturale.
Pur non richiamando espressamente il fenomeno dell’Apartheid, come invece richiesto da alcuni dei soggetti terzi intervenuti nel procedimento, la Corte ha fatto comunque riferimento all'articolo 3 della convenzione internazionale sulla eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale (CERD) il quale richiede alla Comunità internazionale di condannare la segregazione razziale e di impegnarsi a prevenire, proibire ed eliminare tali pratiche.
Il punto finale del parere riguarda gli obblighi che la CIG attribuisce agli Stati, poiché la Corte formalizza le conseguenze giuridiche delle sue determinazioni sia per Israele che per la restante comunità internazionale: per Israele sancendo l’obbligo di cessare tutte le attività illecite nei territori palestinesi occupati il più rapidamente possibile e di risarcire i danni; includendo nel concetto di risarcimento la restituzione della terra e dei beni immobili confiscati a persone fisiche e giuridiche sin dall'inizio dell'occupazione nel 1967, nonché dei beni culturali e delle risorse sottratte ai palestinesi e alle istituzioni palestinesi inclusi archivi e documenti; richiedendo altresì l'evacuazione di tutti coloni degli insediamenti esistenti e lo smantellamento delle sezioni del muro eretto da Israele nei territori palestinesi occupati; ed infine il ripristino del diritto di ritorno per i palestinesi sfollati durante l'occupazione, consentendo loro di tornare ai loro luoghi di residenza originari.
Per gli Stati ha sancito l'obbligo di non offrire aiuti o assistenza in nessuna forma a sostegno dell'occupazione illegale poiché ciò comporterebbe una violazione del diritto internazionale, stabilendo che gli Stati hanno l'obbligo di astenersi dall'avviare o mantenere con Israele rapporti economici e commerciali riguardanti i territori palestinesi occupati o parti di essi che possano consolidare la presenza illegale nei territori; ed inoltre di adottare misure per impedire relazioni commerciali di investimento che contribuiscano al mantenimento della situazione illegale creatasi.
Un primo importante seguito al deliberato della Corte già si è palesato nell’ottobre 2024 con l’Interrogazione del Parlamento europeo alla Commissione[6] in cui si chiede il rispetto e l'attuazione del parere consultivo della Corte internazionale di giustizia relativo al commercio dell'UE con gli insediamenti israeliani illegali, esigendo dagli Stati membri un divieto generale di commercio con gli insediamenti.
Altre interrogazioni hanno riguardato la situazione umanitaria a Gaza e i rischi di una escalation regionale; altre iniziative sono da ascriversi a singoli o a gruppi di Stati che hanno protestato contro il silenzio della comunità internazionale attiva a fronte del blocco degli aiuti umanitari verso i territori palestinesi occupati o della drastica riduzione degli stessi in modo da non consentire alla popolazione civile, bambini compresi, neppure il livello di mera sussistenza: accadimenti che ben possono leggersi come una filiera unica che partendo dalla ineludibile ancorché non vincolante pronuncia della Corte arriva agli eventi recenti di questi giorni, di cui si è detto.
L’onda è lunga ma è pur sempre un'onda.
[1] Risoluzione A/RES/77/247.
[2] Luca Dettorri - Diritti Comparati- Settembre 2024.
[3] Così paragrafo 105.
[4] La Corte considera come territori occupati sia la Cisgiordania sia Gerusalemme Est, annessa con una procedura non riconosciuta a livello internazionale, sia Gaza.
[5] Tra questi l'articolo 46 delle regole dell'Aia, l'articolo 27 della IV Convenzione di Ginevra e gli articoli 6 e 7 del Patto Internazionale sui diritti civili e politici.
[6] E-002150/2024.