Ancora sul fine della vita. Commento a Corte Costituzionale n. 135/2024
Legislatore, giudici comuni e Corte costituzionale fra libertà di lasciarsi morire, diritto a non vivere in determinate condizioni e diritto all’aiuto al suicidio
di Benedetta Liberali
Sommario: Osservazioni preliminari di contesto: quali questioni e quali problemi. - 1. Sul superamento dell’eccezione di inammissibilità per irrilevanza e sulla (problematica) esclusione della cd. clausola di equivalenza. - 2. Sulla nozione di dignità: da accezione (del tutto) soggettiva ad accezione (anche, o soprattutto?) oggettiva. - 3. Sulla nozione di trattamento di sostegno vitale: il coinvolgimento anche di familiari e caregivers e l’indicazione del breve lasso di tempo entro cui di determinerebbe prevedibilmente la morte. - 4. Sull’accostamento fra fattispecie finitime e contigue: aiuto al suicidio e omicidio del consenziente. - 5. Sull’ammissibilità dell’intervento di terzi: una questione non solo processuale. - 6. Sulla possibile ricostruzione di un fondamento costituzionale di un diritto all’aiuto al suicidio: verso una diversa questione di legittimità costituzionale?
Osservazioni preliminari di contesto: quali questioni e quali problemi
L’ultima decisione resa dalla Corte costituzionale in materia di aiuto al suicidio (rispetto alla quale si sono avanzate diverse qualificazioni quale pronuncia interpretativa di rigetto o di rigetto con interpretazione[1]) consente di tornare a ragionare su una serie di profili che riguardano innanzitutto il merito delle questioni poste con particolare riferimento alla possibilità di ricostruire il fondamento costituzionale di un vero e proprio diritto all’aiuto al suicidio; e in secondo luogo il complessivo e complesso rapporto fra la stessa Corte e il legislatore[2] (non solo statale, ma anche regionale) e il generale impatto della pronuncia di infondatezza rispetto alla futura attività interpretativa dei giudici comuni (anche con riguardo ai procedimenti penali tuttora pendenti aventi a oggetto analoghi profili[3]) e alla concreta prassi applicativa dei medici e operatori sanitari intorno alla nozione di trattamento di sostegno vitale, che costituisce il nodo principale del percorso argomentativo della stessa sentenza n. 135 del 2024.
Essa si inserisce, come è noto, in un contesto normativo ben specifico, disegnato nel 2019 dalla sentenza n. 242, con cui la Corte ha riperimetrato l’area penalmente rilevante della fattispecie penale dell’aiuto al suicidio di cui all’art. 580 (Istigazione o aiuto al suicidio) c.p., individuando le quattro condizioni che devono caratterizzare la persona che quell’aiuto richiede e aggiungendo due requisiti procedurali, consistenti nel necessario coinvolgimento dei comitati etici e del servizio sanitario nazionale[4].
Estremamente valorizzando la posizione di chi chiede di essere aiutato nell’esecuzione del proposito suicidario, la Corte ha stabilito che ai fini della non punibilità del terzo che quella condotta di aiuto pone in essere siano accertati a) un trattamento di sostegno vitale e b) una patologia irreversibile, che determina c) sofferenze fisiche o psicologiche ritenute intollerabili dallo stesso soggetto, che deve essere d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli. La verifica di tali condizioni viene significativamente posta in capo alle strutture pubbliche del servizio sanitario nazionale, che devono altresì verificare le modalità esecutive dell’aiuto al suicidio, in modo che si evitino eventuali abusi nei confronti di persone vulnerabili assicurando al contempo anche il rispetto della loro dignità. Considerando la “delicatezza del valore in gioco”, la Corte ritiene necessario anche “l’intervento di un organo collegiale terzo, munito di adeguate competenze”, che possa garantire ancora una volta “situazioni di particolare vulnerabilità”, ossia il comitato etico territorialmente competente, così individuato pur sempre in attesa dell’intervento del legislatore[5].
La Corte, quindi, ha potuto esclusivamente occuparsi dell’area penalmente rilevante di cui all’art. 580 c.p. e della condotta dei terzi che aiutano a dare esecuzione al proposito suicidario altrui autonomamente determinatosi, sempre esprimendo “con vigore l’auspicio che la materia formi oggetto di sollecita e compiuta disciplina da parte del legislatore”, in conformità con i principi da lei stessa individuati[6].
Rispetto all’interrogativo posto in premessa circa la possibile individuazione di un vero e proprio diritto all’aiuto al suicidio si possono fin da subito rilevare essenziali passaggi del percorso argomentativo di questa prima decisione (che poi vedremo essere confermati nella sentenza n. 135), che esplicitano come la dichiarazione di illegittimità costituzionale si limiti a escludere la punibilità dell’aiuto al suicidio in quelle determinate condizioni, “senza creare alcun obbligo di procedere a tale aiuto in capo ai medici” e restando pertanto affidato “alla coscienza del singolo medico scegliere se prestarsi, o no, a esaudire la richiesta del malato”[7]. Inoltre, come si è già sottolineato, il pur necessario coinvolgimento del servizio sanitario nazionale è circoscritto alla “verifica delle condizioni che rendono legittimo l’aiuto al suicidio” e delle “relative modalità di esecuzione”[8], senza comprendervi anche la specifica prestazione di esecuzione dell’aiuto al suicidio.
La sentenza n. 135, che si occupa di una diversa questione che pure ha come oggetto sempre l’art. 580 c.p., con cui si è richiesto di far venire meno il requisito del trattamento di sostegno vitale ai fini della non punibilità della condotta di aiuto al suicidio, offre diversi punti di interesse sui quali ci si può soffermare nella prospettiva di cercare di rispondere e completare il ragionamento sui nodi cui si è fatto cenno in premessa: 1) il preliminare superamento dell’eccezione di inammissibilità per irrilevanza cui si ricollega la finale (problematica) considerazione sulla cd. clausola di equivalenza; 2) l’evoluzione del concetto di dignità su cui si fondano le motivazioni delle tre decisioni della Corte rese in materia di aiuto al suicidio; 3) la centrale definizione di trattamento di sostegno vitale, su cui si incentrano le questioni sollevate, la cui ricostruzione, in ogni caso, conduce alla dichiarazione di infondatezza; 4) l’accostamento fra la fattispecie dell’aiuto al suicidio e quella dell’omicidio del consenziente; 5) l’ammissione degli atti di intervento e il loro riflesso sostanziale nel percorso argomentativo della decisione; 6) i riflessi dell’area penalmente irrilevante della fattispecie penale dell’aiuto al suicidio sulla posizione di chi quell’aiuto richiede ai fini dell’individuazione di una diversa questione di legittimità costituzionale, che completi il quadro normativo ridisegnato dalla Corte.
1. Sul superamento dell’eccezione di inammissibilità per irrilevanza e sulla (problematica) esclusione della cd. clausola di equivalenza
Un primo profilo di interesse riguarda l’asserita inammissibilità delle questioni sollevate per irrilevanza sostenuta dall’Avvocatura generale dello Stato, motivata dal fatto che nel caso concreto (essendo stata l’agevolazione del suicidio posta in essere presso una struttura privata in Svizzera) non sarebbero state rispettate le condizioni procedurali fissate dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 242 del 2019: in questa prospettiva, le questioni sarebbero state irrilevanti poiché, anche in caso di accoglimento delle stesse, il giudice a quo avrebbe dovuto respingere la richiesta di archiviazione del procedimento penale, non dispiegandosi quindi alcun effetto sul giudizio in corso.
La Corte costituzionale ritiene infondata l’eccezione, confermando il proprio ormai consolidato orientamento secondo cui “è sufficiente che la disposizione censurata sia applicabile nel giudizio a quo e che la pronuncia di accoglimento possa incidere sull’esercizio della funzione giurisdizionale, anche soltanto sotto il profilo del percorso argomentativo […], senza che occorra la dimostrazione della sua effettiva capacità di influire sull’esito del processo medesimo”. E, infatti, “il presupposto della rilevanza non si identifica nell’utilità concreta di cui le parti in causa potrebbero beneficiare”[9].
Benché ovviamente queste argomentazioni appaiano sufficienti e assorbenti rispetto a ogni altra considerazione, si può osservare da un secondo punto di vista e nella medesima direzione come non vi potesse essere alcun dubbio che della disposizione censurata il giudice rimettente dovesse fare applicazione, a prescindere dal rispetto o meno delle due condizioni procedurali fissate in relazione all’area di non punibilità disegnata dalla sentenza n. 242 del 2019.
Si può giungere anzi a sostenere che proprio la circostanza di trovarsi al di fuori di quel perimetro e, dunque, nell’ambito di piena applicazione dell’art. 580 c.p. costituisse il presupposto per la stessa sollevazione della questione di legittimità costituzionale. Nel caso di specie, infatti, e dunque prima della sentenza n. 135 (che ha poi fornito una interpretazione estensiva sul punto) era in fondo in discussione che fosse rispettato (addirittura) il requisito sostanziale fissato dalla Corte relativo al trattamento di sostegno vitale. Proprio per questo, difficilmente si sarebbe ricevuta una valutazione “positiva” da parte del comitato etico e poi del servizio sanitario nazionale intorno alla sussistenza, fra gli altri, proprio di quel requisito, la cui mancanza (ritenuta tale, almeno in una fase precedente all’interpretazione offerta con la sentenza n. 135) già rendeva penalmente rilevante la condotta (e dunque pacificamente applicabile l’art. 580 c.p., sul quale è stata precisamente sollevata la questione di legittimità costituzionale).
L’eccezione di inammissibilità per irrilevanza e le considerazioni che si sono svolte consentono di soffermarsi su un profilo particolarmente delicato della stessa decisione, che riguarda l’esclusione della clausola di equivalenza stabilita nella sentenza n. 242 del 2019: tale esclusione e le motivazioni che la sostengono sono probabilmente coerenti (e forse del tutto dovute) se si tiene conto della tecnica decisoria adottata dalla Corte nel senso della infondatezza della questione sollevata.
Resta, in ogni caso, un tema di fondo e di sostanza che appare quantomeno problematico, se si ripercorre la motivazione sul punto offerta dalla Corte. Quest’ultima ritiene, infatti, che la clausola di equivalenza allora fissata (secondo cui le condizioni di non punibilità valgono per i fatti successivi alla pubblicazione della stessa sentenza n. 242 del 2019 e, quindi, esse non possono essere richieste in relazione a fatti anteriormente commessi – come quello dell’allora giudizio a quo – poiché per le vicende pregresse non risulterebbero di fatto mai soddisfatte in modo puntuale, non avendone conoscenza il soggetto agente) non “possa estendersi a fatti commessi successivamente […], ai quali si applicano invece i requisiti procedurali stabiliti dalla sentenza”[10].
In questa occasione, quindi, la Corte ritiene che le condizioni fissate nel 2019 debbano essere soddisfatte precisamente, anche quando il soggetto agente ha posto in essere una condotta che (almeno prima dell’interpretazione estensiva della sentenza n. 135) si riteneva ricadere nell’ambito applicativo della fattispecie penale. Si giunge perfino a indicare la strada della impugnazione dell’eventuale mancata autorizzazione alla procedura da parte delle strutture pubbliche preposte, con ciò sembrandosi confermare che le due condizioni procedurali fissate nel 2019 avrebbero dovuto essere rispettate anche laddove non vi fossero uno o più requisiti sostanziali dalla stessa Corte richiesti.
Questi passaggi della motivazione della sentenza n. 135, pur se forse dovuti a fronte di una decisione di infondatezza, indubbiamente pongono un nodo problematico rispetto a quella categoria di fatti posti in essere certamente dopo la sentenza n. 242 del 2019, ma prima della sentenza n. 135 del 2024: forse proprio per sfumare gli effetti di simile esclusione della clausola di equivalenza la Corte ha aggiunto che resta “naturalmente impregiudicata la necessità di un attento accertamento, da parte del giudice penale, di tutti i requisiti del delitto, compreso l’elemento soggettivo”[11]. In tale passaggio è comunque difficile cogliere una attenuazione del rigore del rispetto delle condizioni dettate nel 2019 (in particolare, quelle procedurali), demandandosi ai giudici (e soprattutto e in via diretta al giudice a quo al momento della riapertura del procedimento nel corso del quale le questioni sono state sollevate) una valutazione in ogni caso rigorosa. Certamente la Corte ha espressamente fatto riferimento fra tutti i requisiti anche all’elemento soggettivo: e, a tale proposito, non si può non rimarcare ancora una volta come il soggetto agente, nel momento in cui ha posto in essere la condotta di aiuto al suicidio nei confronti di una persona priva del requisito del trattamento di sostegno vitale (o almeno ritenuta tale secondo una diffusa interpretazione, che poi può forse ritenersi superata dalla sentenza n. 135 come si è già sottolineato), si trovasse nella stessa (o comunque fortemente analoga) situazione determinatasi nel caso che ha dato origine al giudizio costituzionale definito dalla sentenza n. 242 del 2019: ossia, nell’ambito applicativo dell’art. 580 c.p. e, quindi, nell’area penalmente rilevante disegnata dalla fattispecie (prima del 2019 solo dal legislatore; dopo il 2019 anche dalla Corte costituzionale).
2. Sulla nozione di dignità: da accezione (del tutto) soggettiva ad accezione (anche, o soprattutto?) oggettiva
Il secondo spunto di riflessione della decisione attiene alla trasformazione sostanziale della nozione di dignità[12] a partire dall’ordinanza n. 207 del 2018 e dalla sentenza n. 242 del 2019 fino a giungere alla sentenza n. 135 del 2024, passando per la sentenza n. 50 del 2002, se pure in relazione a un giudizio di ammissibilità del referendum avente a oggetto una diversa, benché vicina fattispecie, ossia l’omicidio del consenziente di cui all’art. 579 (Omicidio del consenziente) c.p.
Nella sentenza n. 242 (e soprattutto nell’ordinanza n. 207 che alla dignità fa esplicito riferimento[13]) la riperimetrazione dell’area penalmente rilevante è stata possibile, per la Corte, attraverso una estrema valorizzazione della posizione della persona che richiede l’aiuto al suicidio, con specifico riguardo alla sua dignità intesa in senso soggettivo. In questa direzione depongono la valorizzazione della libertà di autodeterminazione nelle scelte terapeutiche di fine vita (artt. 2, 13 e 32 Cost.) e la conseguente necessità ai fini della non punibilità del terzo che il soggetto richiedente abbia la capacità di prendere decisioni libere e consapevoli e che le sofferenze fisiche o psichiche intollerabili siano ritenute tali, evidentemente, da parte dello stesso. La parziale dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 580 c.p. si fonda sostanzialmente proprio sul riconoscimento della dignità soggettiva della persona che si trova in determinate condizioni e richiede una condotta di aiuto per l’esecuzione del proprio proposito suicidario.
Nella sentenza n. 135, invece, da un lato si ribadisce il rilievo dell’accezione soggettiva di dignità, quando la Corte tiene a specificare di non esservi “affatto insensibile”, laddove, proprio a partire dall’ordinanza n. 207, “alla valutazione soggettiva del paziente sulla ‘dignità’ del proprio vivere e del proprio morire si fa inequivoco riferimento” giungendo poi ad assimilare la stessa dignità alla nozione di autodeterminazione, “la quale a sua volta evoca l’idea secondo cui ciascun individuo debba poter compiere da sé le scelte fondamentali che concernono la propria esistenza, incluse quelle che concernono la propria morte”; dall’altro lato si apre all’accezione oggettiva della stessa, affermandosi che “ogni vita è portatrice di una inalienabile dignità, indipendentemente dalle concrete condizioni in cui essa di svolga” e che vi è una “necessaria sottoposizione a un bilanciamento a fronte del contrapposto dovere di tutela della vita umana”[14].
Recuperando anche la dimensione oggettiva della dignità personale la Corte sembra ritrovare una linea di coerenza con la sentenza n. 141 del 2019. Con tale decisione, con cui erano state respinte le questioni di legittimità costituzionale sollevate – secondo un analogo schema – sulle disposizioni che puniscono le condotte dei terzi di favoreggiamento della prostituzione, anche laddove il soggetto che si prostituisce si autodetermini liberamente in questa direzione, la Corte aveva ritenuto che tale tipo di prestazioni trovasse “nella sua radice, nella larghissima maggioranza dei casi, fattori che condizionano e limitano la libertà di autodeterminazione dell’individuo, riducendo, talora drasticamente, il ventaglio delle sue opzioni esistenziali”, e, quindi, che fosse necessario proteggere le “persone vulnerabili” anche da sé stesse laddove esprimano una “scelta di vita” che si scontra con una vera e propria “naturale riluttanza”, considerando che condizioni di ordine economico e di disagio famigliare o sociale sono idonee a indebolirla “verso una ‘scelta di vita’ quale quella di offrire prestazioni sessuali contro mercede”[15].
In modo nettamente distante dal percorso argomentativo che sostiene la sentenza n. 242 dello stesso anno – pur tenuto conto del ben diverso parametro costituzionale che veniva in rilievo, ossia l’art. 41 Cost. – la Corte giunge ad affermare che “la linea di confine tra decisioni autenticamente libere e decisioni che non lo sono si presenta fluida già sul piano teorico”. Ed è proprio a tale vulnerabilità di fatto che la Corte associa la nozione di dignità di tipo oggettivo che è limite espresso posto alla libertà di iniziativa economica (art. 41 Cost.), rispetto alla quale non potrebbe assumere rilievo l’accezione oggettiva ossia quella concepita dai singoli imprenditori o dai singoli lavoratori: considerato lo specifico parametro, deve essere il legislatore a farsi “interprete del comune sentimento sociale in un determinato momento storico”[16].
Più recentemente, come si è accennato, nella sentenza n. 50 del 2022 la Corte – pure in un diverso giudizio riguardante l’ammissibilità del quesito referendario avente a oggetto la diversa, ma contigua fattispecie dell’omicidio del consenziente – ha valorizzato la ratio dell’art. 579 c.p., ricordando come, benché il legislatore storico avesse inteso “tutelare la vita umana intesa come bene indisponibile anche in funzione dell’interesse che lo Stato riponeva nella conservazione della vita dei propri cittadini”, non fosse “però affatto arduo cogliere, oggi, la ratio di tutela della norma «alla luce del mutato quadro costituzionale, che guarda alla persona umana come a un valore in sé, e non come a un semplice mezzo per il soddisfacimento di interessi collettivi»”[17]. Per tali motivi – pur non potendosi qualificare la fattispecie a contenuto costituzionalmente vincolato (“non essendo quella ora indicata l’unica disciplina della materia compatibile con il rilievo costituzionale del bene della vita umana”) e pur riconoscendosi la possibilità di una sua modifica o sostituzione da parte del legislatore – la disposizione medesima non può essere “puramente e semplicemente” abrogata, “perché non verrebbe in tal modo preservato il livello minimo di tutela richiesto dai referenti costituzionali ai quali” essa si salda[18].
Con questa sentenza, peraltro, si inizia ad accostare in modo particolarmente significativo (ciò non era invece avvenuto nella sentenza n. 242 del 2019) le due fattispecie penali dell’aiuto al suicidio e dell’omicidio del consenziente: su tale profilo – che consente di svolgere ulteriori considerazioni, nella misura in cui emerge una differenza sostanziale di posizione fra coloro che chiedono di porre fine alla propria esistenza, trovandosi in analoghe condizioni di salute che però divergono (e ciò evidentemente non è un aspetto di secondario rilievo) rispetto alla capacità o meno di compiere l’ultimo atto materiale del suicidio – si tornerà oltre.
3. Sulla nozione di trattamento di sostegno vitale: il coinvolgimento anche di familiari e caregivers e l’indicazione del breve lasso di tempo entro cui di determinerebbe prevedibilmente la morte
La motivazione che sorregge la decisione, con cui pure vengono dichiarate infondate le questioni sollevate, si confronta necessariamente con la nozione di trattamento di sostegno vitale, poiché il giudice rimettente censura l’art. 580 c.p., proprio nella parte in cui subordina la non punibilità della condotta dell’aiuto al suicidio alla condizione che lo stesso aiuto sia stato prestato a una persona tenuta in vita da trattamenti di questo tipo.
Considerando che il riferimento al trattamento di sostegno vitale costituisce uno dei requisiti esplicitati nei proprio precedenti (ordinanza n. 207 del 2018 e sentenza n. 242 del 2019), la Corte ritiene di dover chiarire che la relativa nozione (di cui come è noto non esiste una tipizzazione cristallizzata[19]) deve essere “interpretata, dal Servizio sanitario nazionale e dai giudici comuni, in conformità alla ratio di quelle decisioni”, rilevando la “varietà delle interpretazioni offerte nella prassi”[20]. Ed ecco che questa ratio, che dovrebbe guidare il servizio sanitario nazionale e i giudici comuni, viene chiarita attraverso due specifiche indicazioni qualitative e anche una (pur limitata) lista di esempi concreti.
Innanzitutto la Corte, nel riaffermare il “diritto fondamentale di rifiutare ogni trattamento sanitario praticato sul proprio corpo” e come ciò valga “indipendentemente dal suo grado di complessità tecnica e di invasività”, aggiunge in modo significativo che debbono quindi includersi anche “quelle procedure che sono normalmente compiute da personale sanitario, e la cui esecuzione richiede certo particolari competenze oggetto di specifica formazione professionale, ma che potrebbero [essere] apprese da familiari o ‘caregivers’ che si facciano carico dell’assistenza del paziente”[21].
In secondo luogo, accanto a questa specificazione che si riflette sulla tipologia di soggetti che possono porre in essere quelle procedure, la Corte aggiunge una indicazione temporale, che dovrebbe concorrere a chiarire la definizione di trattamento di sostegno vitale. In particolare, secondo la Corte, tali devono considerarsi le procedure che “si rivelino in concreto necessarie ad assicurare l’espletamento di funzioni vitali del paziente, al punto che la loro omissione o interruzione determinerebbe prevedibilmente la morte del paziente in un breve lasso di tempo”[22].
Poiché, evidentemente, questa definizione non appare in ogni caso sufficiente (non essendo in effetti forse possibile individuare con certezza una regola rigida che riconsegni la misura dell’avverbio prevedibilmente e del riferimento al breve arco temporale[23]), ecco che la sentenza n. 135 del 2024 offre alcuni esempi concreti e specifici, come l’evacuazione manuale dell’intestino, l’inserimento di cateteri urinari e l’aspirazione dalle vie bronchiali del muco[24]. Questi esempi, però, sembrano riconsegnare qualcosa di differente, rispetto alla spiegazione intorno alla portata delle precedenti espressioni che qualificano il trattamento di sostegno vitale, ossia un’immagine concretamente (e drammaticamente) chiara delle concrete condizioni del paziente che investono ogni momento e fase della vita quotidiana.
Non è secondario rilevare che questi stessi esempi “entrano” nel giudizio costituzionale durante la pubblica udienza grazie all’ammissione degli interventi di terzi, su cui si tornerà oltre, come espressamente indicato dalla Corte nelle proprie motivazioni.
E non è secondario osservare anche che proprio il giorno dopo lo svolgimento della medesima udienza il Comitato Nazionale per la Bioetica ha pubblicato la risposta al quesito del Comitato Etico Territoriale della Regione Umbria formulato il 3 novembre 2023, con cui si richiedeva di offrire i criteri da utilizzare per distinguere i trattamenti sanitari ordinari e quelli di sostegno vitale, in modo da guidare la valutazione che la sentenza n. 242 del 2019 della Corte costituzionale ha affidato ai comitati etici. Di questa circostanza si ritrova un esplicito riferimento nella risposta di minoranza del documento del Comitato, laddove si rileva l’inopportunità delle tempistiche di pubblicazione dello stesso, conducendo alcuni componenti a non partecipare al voto dell’assemblea plenaria il 20 giugno. Di tale documento, peraltro, non si fa cenno nel percorso argomentativo della sentenza n. 235 del 2024[25].
4. Sull’accostamento fra fattispecie finitime e contigue: aiuto al suicidio e omicidio del consenziente
Sempre in linea con il percorso argomentativo con cui la Corte nella sentenza n. 135 del 2024 recupera la dimensione oggettiva della dignità, affiancandola a quella soggettiva che, sola, aveva animato se pur implicitamente la sentenza n. 242 del 2019, si pongono i passaggi in cui si accostano due fattispecie penali definite contigue e strettamente finitime: l’art. 579 c.p. e l’art. 580 c.p.
Tale collegamento, era stato fatto come si è accennato, già nella sentenza n. 50 del 2022 avente a oggetto la prima delle due disposizioni. In particolare, la Corte aveva tenuto a precisare che il quesito referendario (poi dichiarato inammissibile) aveva a oggetto l’art. 579 c.p., ossia il delitto di omicidio del consenziente, una “norma incriminatrice strettamente finitima, nell’ispirazione, a quella del successivo art. 580” c.p., che riguarda l’aiuto e l’istigazione al suicidio. Secondo la Corte le “due disposizioni riflettono, nel loro insieme, l’intento del legislatore del codice penale del 1930 di tutelare la vita umana anche nei casi in cui il titolare del diritto intenderebbe rinunciarvi, sia manu alius, sia manu propria, ma con l’ausilio di altri. Esclusa una reazione sanzionatoria nei confronti dello stesso autore dell’atto abdicativo, anche nei casi in cui essa sarebbe materialmente possibile (per essere il fatto rimasto allo stadio del tentativo), il legislatore erige una ‘cintura di protezione’ indiretta rispetto all’attuazione di decisioni in suo danno, inibendo, comunque sia, ai terzi di cooperarvi, sotto minaccia di sanzione penale”[26]. La Corte costituzionale sembra offrire un ulteriore elemento di collegamento laddove, pur ribadendo come “i propositi e gli intenti dei promotori circa la futura disciplina legislativa che potrebbe o dovrebbe eventualmente sostituire quella abrogata” siano “irrilevanti in sede di giudizio di ammissibilità del referendum”, riconosce che la relativa iniziativa referendaria è “nata quale reazione all’inerzia del legislatore nel disciplinare la materia delle scelte di fine vita, anche dopo i ripetuti moniti” della Corte stessa[27].
Anche nella sentenza n. 135 del 2024 il richiamo viene ribadito, qualificando l’art. 579 c.p. come “contigua ipotesi delittuosa” rispetto all’art. 580 c.p., sempre al fine di porre in rilievo la necessità del mantenimento di una “cintura di protezione” “contro scelte autodistruttive” e la funzione di “proteggere la vita delle persone rispetto a scelte irreparabili che pregiudicherebbero definitivamente l’esercizio di qualsiasi ulteriore diritto o libertà”[28].
Sebbene come si è visto la Corte raffronti gli artt. 579 e 580 c.p. allo scopo di sostanziare il riferimento alla dignità oggettiva e alla ratio comune consistente nella tutela della vita umana, con relativa predisposizione della necessaria “cintura di sicurezza”, il parallelismo fra le due fattispecie fa emergere la sostanziale disparità di condizione di due categorie di persone che, pur essendo affette da gravissime malattie con sofferenze fisiche o psichiche ritenute intollerabili e in presenza di trattamenti di sostegno vitale (anche secondo la successiva estensione interpretativa operata dalla Corte), vedono riconosciuta o negata in radice la possibilità di ottenere una valutazione positiva in ordine ai requisiti di liceità della condotta dei terzi da parte del comitato etico e del servizio sanitario nazionale a seconda che rispettivamente esse siano o meno in grado di compiere l’ultimo atto idoneo a determinare la propria morte. In ciò, in fondo, si traduce la differenza sostanziale fra le due fattispecie penali, che descrivono e regolamentano diversamente le correlate condotte dei terzi[29].
5. Sull’ammissibilità dell’intervento di terzi: una questione non solo processuale
Dalle considerazioni svolte finora emerge nettamente la specifica peculiarità della fattispecie penale, che tiene strettamente unite la posizione di chi pone in essere la condotta di aiuto al suicidio e di chi quell’aiuto richiede, tanto da non potersi immaginare l’una senza l’altra.
Proprio considerando la costruzione della fattispecie penale dell’aiuto al suicidio che unisce, come si è già cercato di mostrare, queste due posizioni, merita di essere valorizzato un altro profilo che ha caratterizzato la sentenza n. 135 del 2024, ossia l’ammissione nel giudizio degli interventi di due soggetti terzi, sotto due profili: uno certamente processuale, l’altro argomentativo e di merito.
In ordine al primo profilo, rappresenta ovviamente una decisione particolarmente significativa l’ammissione stessa nel giudizio costituzionale della richiesta di intervento. La Corte, nell’ordinanza allegata alla sentenza nl. 135 del 2024, ribadisce il proprio costante e consolidato orientamento restrittivo[30] che ritiene inammissibili gli interventi di soggetti che non siano parti dei giudizi a quibus e allarga il contraddittorio solo laddove “si tratti di terzi titolari di un interesse qualificato, inerente in modo diretto e immediato al rapporto sostanziale dedotto in giudizio”, che non sia “semplicemente regolato, al pari di ogni altro, dalla norma oggetto di censura”, secondo quanto ormai stabilisce esplicitamente anche l’art. 4, terzo comma, (Interventi in giudizio) delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale a seguito delle modifiche intervenute nel 2020 e nel 2021. La Corte, infatti, ha riconosciuto l’ammissibilità degli interventi “solo nell’ipotesi in cui l’incidenza sulla posizione soggettiva dell’interveniente non derivi, come per tutte le altre situazioni sostanziali disciplinate dalla norma censurata, dalla pronuncia sulla legittimità costituzionale della legge stessa, ma sia conseguenza immediata e diretta dell’effetto che la pronuncia […] produrrebbe sul rapporto sostanziale oggetto del giudizio a quo”.
Nel caso di specie, la Corte, dopo averle ampiamente richiamate, ha ritenuto che non potessero “non tenersi presenti le argomentazioni della difesa delle” due intervenienti, “secondo cui l’evoluzione delle rispettive patologie rischierebbe di non consentire loro, in pratica, di far valere in tempo utile le proprie ragioni”: e – ed è questo un dato particolarmente significativo, pur se collegato alla specificità del caso concreto – la Corte sottolinea come a tale conclusione si pervenga “a prescindere […] dalla questione se sia possibile per le intervenienti eccepire in altra sede giudiziaria l’illegittimità costituzionale dell’art. 580 cod. pen.”. Sulla base della necessità di tutelare il “diritto di difesa nella sua essenziale dimensione di effettività” la Corte, quindi, ammette alla discussione di merito gli interventi, “in una questione che coinvolge la vita stessa delle intervenienti”.
Il secondo ordine di interesse, lo si anticipava, riguarda il merito del percorso argomentativo della decisione: l’ammissione degli interventi delle due persone che richiedono l’aiuto al suicidio determina un riflesso esplicito nel corpo della motivazione che sostiene la pronuncia della Corte costituzionale.
E, infatti, troviamo “traccia” delle posizioni espresse con i due interventi in una prima occasione laddove la Corte, nell’affermare che la “decisione su quando e come concludere la propria esistenza possa considerarsi inclusa tra quelle più significative nella vita di un individuo”, esplicita di condividere la posizione espressa non solo dal giudice rimettente, ma anche dalle “intervenienti nel presente giudizio”[31]: e, quindi, non anche dalle parti private.
Ancora, un espresso riferimento alle intervenienti viene effettuato successivamente, laddove la Corte affronta il nodo interpretativo della nozione di trattamento di sostegno vitale: nel sottolineare come la stessa vada interpretata dal servizio sanitario nazionale e dai giudici comuni “in conformità alla ratio” dell’ordinanza n. 207 del 2018 e della sentenza n. 242 del 2019, la Corte specifica che questa indicazione si impone “a fronte della varietà delle interpretazioni offerte nella prassi, sulla quale hanno insistito i difensori delle parti e degli intervenienti, nonché vari amici curiae”[32].
Il richiamo maggiormente significativo, però, che la Corte opera alla posizione delle due intervenienti è quello che concorre effettivamente a sostanziare la definizione di trattamento di sostegno vitale.
Dopo aver ricordato che “il paziente ha il diritto fondamentale di rifiutare ogni trattamento sanitario praticato sul proprio corpo, indipendentemente dal suo grado di complessità tecnica e di invasività”, incluse “quelle procedure che sono normalmente compiute da personale sanitario, e la cui esecuzione richiede certo particolari competenze oggetto di specifica formazione professionale, ma che potrebbero [essere] apprese da familiari o ‘caregivers’ che si facciano carico dell’assistenza del paziente”, la Corte arriva a considerare quali trattamenti di sostengo vitale quelle procedure che “si rivelino in concreto necessarie ad assicurare l’espletamento di funzioni vitali del paziente, al punto che la loro omissione o interruzione determinerebbe prevedibilmente la morte del paziente in un breve lasso di tempo”[33].
E qui, la Corte, come si è già ricordato, decide di offrire alcuni esempi, per restituire il senso concreto e materiale di quali trattamenti possano essere qualificati di sostegno vitale, proprio riferendosi a quanto emerso (una volta superata la soglia dell’ammissibilità) durante la pubblica udienza, quando la difesa delle intervenienti è potuto entrare nel merito delle questioni riferendo delle loro specifiche condizioni di salute e di vita, anche grazie alle domande rivolte da alcuni giudici costituzionali: tali sono “per riprendere alcuni degli esempi di cui si è discusso durante l’udienza pubblica, l’evacuazione manuale dell’intestino del paziente, l’inserimento di cateteri urinari o l’aspirazione del muco dalle vie bronchiali”[34].
Il dato appare particolarmente significativo, perché conferma, in fondo, la stessa giurisprudenza restrittiva della Corte rispetto all’apertura del contradditorio ai soggetti che non siano parti dei giudizi principali. Il riflesso che nel caso di specie hanno dispiegato le posizioni espresse nei due atti di intervento sulle motivazioni della decisione conferma la qualità dell’interesse dei terzi che può trovare un “posto” anche nel giudizio costituzionale: come ora prevede l’art. 4, terzo comma, delle Norme integrative, un interesse qualificato, inerente in modo diretto e immediato al rapporto dedotto in giudizio, tanto da poter offrire riferimenti che entrano nella motivazione della decisione e che vengono espressamente riferiti a quelle posizioni.
6. Sulla possibile ricostruzione di un fondamento costituzionale di un diritto all’aiuto al suicidio: verso una diversa questione di legittimità costituzionale?
Come si è già anticipato nelle considerazioni introduttive, dalla sentenza n. 242 del 2019 possono trarsi diversi elementi che inducono a ragionare criticamente rispetto all’individuazione di un vero e proprio diritto all’aiuto al suicidio quale vera e propria prestazione dovuta da parte dell’ordinamento[35].
Benché, infatti, certamente l’intervento del servizio sanitario nazionale risulti necessario nella complessiva procedura che può condurre a dare esecuzione al proposito suicidario, esso è stato circoscritto alla “verifica delle condizioni che rendono legittimo l’aiuto al suicidio” e delle “relative modalità di esecuzione”, senza affatto ricomprendervi anche l’esecuzione, che resta affidata, pertanto, alla “coscienza del singolo medico”[36]. La Corte al riguardo è in effetti particolarmente netta, quando afferma di limitarsi “a escludere la punibilità dell’aiuto al suicidio nei casi considerati, senza creare alcun obbligo di procedere a tale aiuto in capo ai medici”[37]; e ha confermato questa impostazione nella successiva sentenza n. 135, giungendo anzi forse a esplicitare qualitativamente ancor di più tale profilo.
Essa, infatti, puntualmente ha ricordato di avere “riconosciuto che ogni paziente è titolare di un diritto fondamentale a rifiutare ogni trattamento sanitario, compresi quelli necessari ad assicurarne la sopravvivenza”; di non avere invece riconosciuto “un generale diritto di terminare la propria vita in ogni situazione di sofferenza intollerabile, fisica o psicologica, determinata da una patologia irreversibile”; di avere “soltanto ritenuto irragionevole precludere l’accesso al suicidio assistito di pazienti che – versando in quelle condizioni, e mantenendo intatte le proprie capacità decisionali – già abbiano il diritto, loro riconosciuto dalla legge n. 219 del 2017 in conformità all’art. 32, secondo comma, Cost., di decidere di porre fine alla propria vita, rifiutando il trattamento necessario ad assicurarne la sopravvivenza”; di convenire che “la decisione su quando e come concludere la propria esistenza possa considerarsi inclusa tra quelle più significative nella vita di un individuo”; di ritenere che “ogni paziente capace di assumere decisioni libere e consapevoli sia titolare di un diritto fondamentale, discendente dagli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost., a esprimere il proprio consenso informato a qualsiasi trattamento sanitario e, specularmente, a rifiutarlo, in assenza di una specifica previsione di legge che lo renda obbligatorio: e ciò anche quando si discuta di un trattamento necessario ad assicurare la sopravvivenza del paziente stesso (come, ad esempio, l’idratazione e la nutrizione artificiali)”; che, sulla base di tale “diritto fondamentale scaturente dagli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost.”, non risulta “giustificabile sul piano costituzionale un divieto assoluto di aiuto al suicidio”; e, infine, ha sottolineato che “la Costituzione e, in ossequio ad essa, la legge ordinaria […] riconoscono al malato il diritto di scegliere di congedarsi dalla vita con effetti vincolanti nei confronti dei terzi”, rispetto al “diritto a interrompere i trattamenti sanitari in corso, benché necessari alla sopravvivenza”, e a “quello di rifiutare ab origine l’attivazione dei trattamenti stessi”, e che il paziente “ha dunque il diritto di rifiutare l’attivazione” del trattamento che “sia necessario ad assicurare la sopravvivenza”, “ovvero di ottenerne l’interruzione”, con ciò riconoscendosi “in sostanza al paziente la libertà di lasciarsi morire”[38].
E in ordine al contributo necessario del servizio sanitario nazionale, anche nella sentenza n. 135 del 2024 la Corte ritiene che debba essere “riaffermata la necessità del puntuale rispetto delle condizioni procedurali stabilite nella sentenza n. 242”, “inserite nel quadro della ‘procedura medicalizzata’ di cui all’art. 1 della legge n. 219 del 2017”, con correlativo obbligo di garantire l’accesso alle terapie palliative che si rivelino appropriate: in particolare, al servizio sanitario nazionale è “affidato il delicato compito di accertare la sussistenza delle condizioni sostanziali di liceità dell’accesso alla procedura di suicidio assistito, oltre che di «verificare le relative modalità di esecuzione»”, al fine di evitare abusi nei confronti delle persone vulnerabili, garantirne la dignità ed evitarne sofferenze[39].
Poiché come si è già detto la Corte costituzionale in entrambi i giudizi ha definito questioni aventi a oggetto l’art. 580 c.p. e poiché, per giungere alla declaratoria di illegittimità costituzionale, ha valorizzato la libertà di autodeterminazione nelle scelte terapeutiche, anche di fine vita, contestualmente richiamando in più occasioni l’imprescindibile contesto normativo costituito dalla legge n. 219 del 2017 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento) e ribadendo “con forza l’auspicio […] che il legislatore e il servizio sanitario nazionale intervengano prontamente ad assicurare concreta e puntuale attuazione ai principi fissati”[40], si potrebbe ragionare – considerando la perdurante inerzia del legislatore – di una differente questione di legittimità costituzionale, che cambi prospettiva pur tenendo conto del tema sostanziale di fondo e tenga ferme le indicazioni della Corte rispetto al trattamento sanzionatorio riservato ai terzi.
Si potrebbe, in particolare, immaginare una questione che riguardi direttamente la legge n. 219, nella parte in cui (finora) continua a non assicurare quella concreta e puntuale attuazione dei principi fissati nel 2019, di cui ragiona la Corte costituzionale, mutando così l’oggetto di censura che si sposta dalla condotta penalmente rilevante del terzo che aiuta al suicidio alla posizione del soggetto che quell’aiuto richiede.
Grazie alla sentenza n. 242 del 2019, infatti, è possibile arricchire le nozioni di libertà di autodeterminazione nelle scelte terapeutiche, di diritto alla salute e di consenso informato definite a partire dalla ben nota sentenza n. 438 del 2008 della Corte costituzionale e anche dalla sentenza n. 21748 del 2007 della Corte di cassazione resa nel cd. caso Englaro, puntualmente recepite dal legislatore solo nel 2017 con la legge n. 219.
Tenendo conto di questo approdo particolarmente significativo (che riguarda tale arricchimento definitorio che si riflette sulla posizione del soggetto che chiede di porre fine alla propria vita e anche sulle condotte dei terzi), si potrebbe ragionare di un completamento della disciplina cui pure la Corte fa continuo riferimento in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento.
Al riguardo, viene in rilievo, innanzitutto, l’art. 1, quinto e sesto comma, (Consenso informato), laddove rispettivamente si riconosce il diritto di rifiutare in tutto o in parte qualsiasi accertamento diagnostico o trattamento sanitario indicato dal medico per la sua patologia o singoli atti del trattamento stesso; il diritto di revocare in ogni momento il consenso già prestato, anche quando ciò determini l’interruzione del trattamento; il diritto di procedere in tal senso anche per trattamenti sanitari necessari alla propria sopravvivenza; e l’obbligo per il medico di rispettare la volontà del paziente di rifiutare il trattamento o di rinunciarvi e l’esclusione della possibilità di richiedere da parte del paziente trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali.
Si pensi anche all’art. 2 (Terapia del dolore, divieto di ostinazione irragionevole nelle cure e dignità nella fase finale della vita), che regola il margine di intervento del medico rispetto al dovere di alleviare le sofferenze e garantire una appropriata terapia del dolore e che stabilisce che in caso di prognosi infausta a breve termine o di imminenza di morte il medico si astenga da ogni ostinazione irragionevole nella somministrazione di cure o dal ricorso a trattamenti inutili o sproporzionati, potendo invece applicare, in caso di sofferenze refrattarie ai trattamenti sanitari, la sedazione palliativa profonda continua in associazione con la terapia del dolore, che pure può essere rifiutata.
Infine, si consideri l’art. 4 (Disposizioni anticipate di trattamento), che riconosce la possibilità di esprimere le proprie volontà in materia di trattamenti sanitari in previsione di una eventuale futura incapacità e anche il consenso o il rifiuto rispetto ad accertamenti diagnostici o scelte terapeutiche e a singoli trattamenti sanitari.
Proprio in queste disposizioni della legge n. 219 del 2017, in fondo, si potrebbe rinvenire il posto di quella che pare essere la naturale integrazione organica e complessiva della disciplina del fine vita a seguito delle pronunce della Corte costituzionale: una disciplina che comprenda anche la richiesta di aiuto al suicidio, essendo già stata riconosciuta l’irrilevanza penale della relativa condotta dei terzi, pur sempre a fronte del relativo rigoroso accertamento per come esso è stato configurato nelle sentenze n. 242 e n. 135[41], provando forse a ragionare (ben consapevoli delle differenze strutturali e delle ricadute in termini di ricostruzione della relativa responsabilità penale) anche della limitrofa fattispecie dell’omicidio del consenziente, proprio valorizzando le differenze di condizioni di salute e di vita dei soggetti che chiedono di porre fine alla propria vita.
La stretta connessione fra le pronunce costituzionali che riguardano la condotta dei terzi e la complessiva vigente disciplina normativa del fine vita con i limiti di cui si è detto evoca certamente le ben note problematiche relative alle cd. omissioni legislative e all’individuazione della linea di confine fra discrezionalità legislativa e sindacato costituzionale[42]. Sempre in questa prospettiva, peraltro, risulta significativo il passaggio della motivazione della sentenza n. 135 del 2024, in cui la Corte – occupandosi della mancata estensione della già citata clausola di equivalenza – a proposito dei requisiti procedurali esplicita che “l’eventuale mancata autorizzazione alla procedura, da parte delle strutture del servizio sanitario pubblico, ben potrà essere impugnata di fronte al giudice competente, secondo le regole ordinarie”, con ciò indicando chiaramente il carattere immediatamente applicativo della sentenza n. 242 nella parte in cui impone a carico del servizio sanitario nazionale le note verifiche procedurali[43].
Ci si può chiedere, quindi, se l’intervento legislativo in materia si renda solo opportuno oppure – come sembra – costituzionalmente necessario se non addirittura imposto, considerando le motivazioni che sostengono la declaratoria di incostituzionalità parziale dell’art. 580 c.p.
Inoltre, pur riconoscendo che anche la scelta di non intervenire nella materia può rientrare nella piena discrezionalità del legislatore, ci si può chiedere, laddove venisse sollevata alla Corte una questione che puntualmente riguardi la mancata regolamentazione dell’accesso all’aiuto al suicidio dal lato del richiedente a partire dalle sopra individuate disposizioni della legge n. 219 (essendo già ormai definito il conseguente trattamento sanzionatorio alla luce delle decisioni della stessa Corte), a quale tecnica decisoria si potrebbe fare ricorso: un mero monito al legislatore, forse particolarmente rafforzato alla luce dei precedenti ripetuti inviti rivolti al legislatore, un rinvio a data fissa con specifica indicazione dei profili di incostituzionalità o, invece, un intervento direttamente caducatorio che, in linea di continuità con la sentenza n. 242 del 2019, allarghi l’ambito applicativo della legge n. 219 comprendendovi anche la prestazione a carico del servizio sanitario nazionale dell’esecuzione dell’aiuto al suicidio (e non solo la verifica delle condizioni del paziente e le modalità di esecuzione dell’aiuto al suicidio)[44].
Complicano il quadro, peraltro, alcuni tentativi regionali di regolare questi profili: al riguardo, si possono ricordare le richieste di parere sulle rispettive proposte di legge in materia avanzate dalle Regioni Friuli-Venezia Giulia e Veneto all’Avvocatura generale dello Stato, con ciò dandosi seguito alla problematica direttiva della Presidenza del Consiglio del 23 ottobre 2023 sulla razionalizzazione dell’attività istruttoria del Governo per le impugnazioni delle leggi regionali, che individua eccentriche forme di “raccordo” preventivo fra Stato e Regioni idonee a scardinare la stessa natura del giudizio costituzionale in via principale[45]. L’Avvocatura generale dello Stato, come è noto, ha evidenziato come l’approvazione di simili proposte potrebbe esporsi a rilievi di non conformità con il quadro costituzionale di riparto delle competenze di Stato e Regioni. Nonostante questo parere diverse iniziative legislative sono state avviate e sono tuttora molto discusse, in relazione agli specifici settori in cui un simile intervento regionale sarebbe legittimamente configurabile[46].
[1] In considerazione della mancanza, nel dispositivo, della ben nota espressione “nei sensi di cui in motivazione”, sembrerebbe preferibile definire la sentenza n. 135 quale decisione di rigetto con interpretazione. Qualificano la stessa come “interpretativa di rigetto (mascherata)” U. Adamo, “La Corte costituzionale ritorna ancora sull’aiuto al suicidio, ma non scrive l’ultima parola”, in LeCostituzionaliste, settembre 2024, e “decisione interpretativa di rigetto non priva […] di profili peculiari” P. Veronesi, “A primissima lettura: se cambia, come cambia e se può ulteriormente cambiare il ‘fine vita’ in Italia dopo la sentenza n. 135 del 2024”, in BioLaw Journal, 2024, III, 239, che definisce la stessa quale “pronuncia di ‘interpretazione autentica’, adottando cioè un rigetto interpretativo di quanto emergente dalla propria (precedente) sentenza di accoglimento parziale” (ivi, 253).
[2] Sulle problematiche sottese si veda innanzitutto N. Zanon, “Intorno a due tecniche decisorie controverse: le sentenze di accoglimento ‘a rime adeguate’ e le decisioni di rinvio dell’udienza a data fissa con incostituzionalità prospettata”, in E. Malfatti – V. Messerini – R. Romboli – E. Rossi – A. Sperti (a cura di), Ricordando Alessandro Pizzorusso. Verso una nuova “stagione” nei rapporti tra Corte costituzionale e legislatore?, Pisa University Press, Pisa, 2023, 95 ss., che si sofferma criticamente sull’inquadramento dei rapporti fra Corte e legislatore in termini di “leale collaborazione”, e Id., “I rapporti tra la Corte costituzionale e il legislatore alla luce di alcune recenti tendenze giurisprudenziali”, in Federalismi, 2021, III, 86 ss., A. Spadaro, “Involuzione – o evoluzione? – del rapporto fra Corte costituzionale e legislatore (notazioni ricostruttive)”, in RivistaAic, 2023, II, 103 ss., P. Carnevale, “Tre variazioni sul tema dei rapporti Corte costituzionale-legislatore rappresentativo”, in Nomos, 2023, III, 1 ss., R. Romboli, “Corte costituzionale e legislatore: il bilanciamento tra la garanzia dei diritti ed il rispetto del principio di separazione dei poteri”, in E. Malfatti – V. Messerini – R. Romboli – E. Rossi – A. Sperti (a cura di), Ricordando Alessandro Pizzorusso. Verso una nuova “stagione” nei rapporti tra Corte costituzionale e legislatore?, cit., 301 ss., A. Ruggeri, “Verso un assetto viepiù ‘sregolato’ dei rapporti tra Corte costituzionale e legislatore?”, ivi, 21 ss., e A. Morrone, “Sul pangiuridicismo costituzionale e sul lato politico della Costituzione”, ivi, 103 ss., oltre che Id., “Suprematismo giudiziario. Su sconfinamenti e legittimazione politica della Corte costituzionale”, in Quad. cost., 2019, II, 215 ss., cui si riferisce R. Bin, “Sul ruolo della Corte costituzionale. Riflessioni in margine ad un recente scritto di Andrea Morrone”, ivi, IV, 757 ss., ed E. Cheli, “Corte costituzionale e potere politico. Riflessioni in margine ad un recente scritto di Andrea Morrone”, ivi, 777 ss. Si veda, ancora, R. Romboli, “Le oscillazioni della Corte costituzionale tra l’anima ‘politica’ e quella ‘giurisdizionale’. Una tavola rotonda per ricordare Alessandro Pizzorusso ad un anno dalla sua scomparsa”, in RivistaAic, 2017, III, 1 ss., e, volendo, B. Liberali, “‘Al crocevia di spinte politiche, di suggestioni riformatrici, di possibili diverse interpretazioni del testo costituzionale’: il ruolo della Corte costituzionale nel sistema istituzionale”, in M. Aurino – A. De Nicola – M. C. Girardi – L. Restuccia – P. Villaschi (a cura di), Le giurisdizioni costituzionali nel XXI secolo: questioni attuali e prospettive future, Quaderno n. VI – Fascicolo speciale monografico, Rivista del Gruppo di Pisa, 2023, III, 689 ss.
[3] Se la sentenza n. 135 del 2024 ha definito con una pronuncia di infondatezza le questioni sollevate dal Tribunale di Firenze il primo luglio 2024, dopo lo svolgimento della pubblica udienza il 19 giugno 2024, con effetti vincolanti per lo stesso giudice rimettente, il Tribunale di Milano ha sollevato analoghe questioni di legittimità costituzionale il 21 giugno 2024, dunque pochi giorni dopo lo svolgimento dell’udienza e, naturalmente, prima del deposito delle motivazioni della sentenza n. 135, avvenuto il 18 luglio 2024, con contestuale (e non anticipato) comunicato stampa. Non risulta, invece, che il Tribunale di Bologna abbia deciso come procedere nel proprio ulteriore giudizio, potendosi forse configurare una ipotesi di sospensione impropria, quantomeno fino al deposito delle motivazioni della sentenza n. 135 del 2024. Sarà, quindi, interessante verificare se e come la sentenza n. 135 del 2024 sarà applicata innanzitutto proprio dal Tribunale di Milano, ma anche dal Tribunale di Bologna e in generale dai giudici comuni in ulteriori eventuali giudizi penali, soprattutto avendo riguardo alla esplicita esclusione della clausola di equivalenza. Come si vedrà oltre, infatti, la Corte ne ha escluso l’applicabilità per i casi sorti certamente dopo la sentenza n. 242 del 2019, ma sicuramente prima del chiarimento interpretativo intervenuto sul requisito del trattamento di sostegno vitale proprio con la sentenza n. 135 del 2024.
[4] Sulla dichiarazione di illegittimità costituzionale parziale dell’art. 580 c.p. sono numerosi i contributi della dottrina, che si sono appuntati sia sul merito della stessa sia sulla tecnica decisoria inaugurata dall’ordinanza n. 207 del 2018: M. D’Amico, “Il ‘fine vita’ davanti alla Corte costituzionale fra profili processuali, principi penali e dilemmi etici (Considerazioni a margine della sent. n. 242 del 2019)”, in Osservatorio costituzionale, 2020, I, 286 ss., S. Catalano, “La sentenza 242 del 2019: una pronuncia additiva molto particolare senza ‘rime obbligate’”, ivi, 2020, II, 288 ss., A. Ruggeri, “Rimosso senza indugio il limite della discrezionalità del legislatore, la Consulta dà alla luce la preannunziata regolazione del suicidio assistito (a prima lettura di Corte cost. n. 242 del 2019)”, in Giustiziainsieme.it, 27.11.2019, A. Pugiotto, “L’altra quaestio del ‘caso Cappato’: la pena draconiana dell’art. 580 c.p.”, in Forum cost., 4 giugno 2019, 1 ss., M. Cecchetti, “Appunti diagnostici e prognostici in vista della definizione del giudizio costituzionale sul ‘caso Cappato’”, in Federalismi, 2019, XVII, 2 ss., A. Apostoli, “Principi costituzionali e scelte di fine vita”, in BioLaw Journal, 2021, I, 239 ss., M. Massa, “Una ordinanza interlocutoria in materia di suicidio assistito. Considerazioni processuali a prima lettura”, in Forum cost., 1 dicembre 2018, 1 ss., e N. Fiano, “‘Caso Cappato, vuoti di tutela costituzionale. Un anno al Parlamento per colmarli’. Riflessioni a caldo a partire dal modello tedesco”, ivi, 25 ottobre 2018, 1 ss. Si veda, inoltre, I. Pellizzone, “Aiuto al suicidio e sindacato di costituzionalità: pars destruens e pars construens delle pronunce della Corte Costituzionale come chiave di lettura della tecnica decisoria e della ratio decidendi del caso Cappato”, in Forum cost., 2020, II, 472 ss., oltre che, per un inquadramento generale delle problematiche sottese al fine vita, Id., “Fine vita e diritti: l’importanza dei casi”, in B. Liberali – L. Del Corona (a cura di), Diritto e valutazioni scientifiche, Giappichelli, Torino, 2022, 291 ss.
[5] Corte cost., sentenza n. 242 del 2019.
[6] Ibidem.
[7] Ibidem.
[8] Ibidem.
[9] Corte cost., sentenza n. 135 del 2024.
[10] Ibidem.
[11] Ibidem.
[12] Si vedano sulla nozione di dignità G. Silvestri, “Considerazioni sul valore costituzionale della dignità della persona”, in Rivistaaic.it, 14 marzo 2008, G. M. Flick, Elogio della dignità, Libreria editrice vaticana, Città del Vaticano, 2015, A. Ruggeri, “Appunti per uno studio sulla dignità dell’uomo, secondo diritto costituzionale”, in Alle frontiere del diritto costituzionale. Scritti in onore di Valerio Onida, Giuffrè, Milano, 2011, 1755 ss., L. Violini, “La dignità umana al centro: oggettività e soggettività di un principio in una sentenza della Corte Costituzionale (sent. 141 del 2019)”, in Dirittifondamentali.it, 2021, I, 444 ss., I. Rivera, “La dignità umana come valore costituzionale e come diritto fondamentale”, in V. Baldini (a cura di), Cos’è un diritto fondamentale?, Editoriale Scientifica, Napoli, 2017, 327 ss., e, volendo, rispetto alla “dignità antropologica dell’embrione” individuata dalla Corte costituzionale B. Liberali, “Scelte definitorie fra scienza e diritto: una questione non solo terminologica”, in M. D’Amico – F. Biondi (a cura di), La Corte costituzionale e i fatti: istruttoria ed effetti delle decisioni, Editoriale Scientifica, Napoli, 2018, 249 ss.
[13] Sul rapporto fra queste due decisioni con specifico riferimento al ricorso alla nozione di dignità si veda in particolare C. Tripodina, “La ‘circoscritta area’ di non punibilità dell’aiuto al suicidio. Cronaca e commento di una sentenza annunciata”, in Corti supreme e salute, 2019, II, 7 s., che rileva che la stessa parola “dignità” “non compare più nella parte motiva della sentenza, particolarmente se legata alle parole morte/morire”; e non compaiono più nemmeno le “espressioni come processo «meno corrispondente alla propria visione della dignità nel morire»; decorso «apprezzato come contrario alla propria idea di morte dignitosa»; divieto assoluto di aiuto al suicidio come «lesione del principio di dignità umana»”. Secondo l’A. la Corte “deve avere inteso tutta la fragilità e le non trascurabili conseguenze di una decisione fondata sul riconoscimento di un diritto costituzionale non semplicemente a morire dignitosamente, ma a morire nel modo più corrispondente alla propria visione di dignità nel morire”.
[14] Cort cost., sentenza n. 135 del 2024.
[15] Corte cost., sentenza n. 141 del 2019, sulle cui problematiche si rinvia al volume di A. Apostoli (a cura di), Donne, corpo e mercato di fronte alle categorie del diritto costituzionale, Giappichelli, Torino, 2021.
[16] Corte cost., sentenza n. 141 del 2019.
[17] Corte cost., sentenza n. 50 del 2022.
[18] Ibidem.
[19] La legge n. 219 del 2017 all’art. 1, quinto comma, stabilisce che il paziente possa rinunciare o rifiutare anche “trattamenti sanitari necessari alla propria sopravvivenza”, poco prima esplicitando che si debbono qualificare come trattamenti sanitari la nutrizione e l’idratazione artificiali. Su questi profili si rinvia a F. Viganò, “Diritti fondamentali e diritto penale al congedo dalla vita: esperienze italiane e straniere a confronto”, in Sistema penale, 12 gennaio 2023, 1 ss.
[20] Corte cost., sentenza n. 135 del 2024.
[21] Ibidem.
[22] Ibidem.
[23] Sottolinea questo profilo anche P. Veronesi, “A primissima lettura: se cambia, come cambia e se può ulteriormente cambiare il ‘fine vita’ in Italia dopo la sentenza n. 135 del 2024”, cit., 252, laddove ritiene come sia “evidente tuttavia che, nel mentre si risolve in tal modo un problema interpretativo di grande spessore, se ne aggiunge contemporaneamente un altro che potrà fornire appigli a chi si aggrappa a qualunque stratagemma pur di complicare la vita (alla fine) dei diretti interessati”, giungendo a chiedersi “cosa significa pretendere che la morte del paziente dev’essere prevedibile «in un breve lasso di tempo», o evocare il diritto del paziente di esporsi comunque «a un rischio prossimo di morte»?”.
[24] Secondo A. Ruggeri, “La Consulta equilibrista sul filo del fine-vita (a prima lettura di Corte cost. n. 135 del 2024)”, in Giurcost.org, 2024, II, 935, “le aperture fatte in ordine alla nozione suddetta, avvalorate dagli esempi al riguardo addotti, denotano lo sforzo prodotto dal giudice delle leggi di tenersi in equilibrio sul filo senza cadere nell’abbraccio soffocante di chi, da un lato, vorrebbe una liberalizzazione senza condizioni nell’esercizio delle pratiche suddette e, dal lato opposto, ne caldeggia il categorico divieto”.
[25] Il Comitato Nazionale per la Bioetica riconosce nella risposta al quesito della Regione Umbria che in letteratura medica non esiste una definizione condivisa di trattamento di sostegno vitale; nella risposta di minoranza si considera “impossibile cercare di stabilire oggettivamente che cosa sia un TVS da un punto di vista medico-clinico per poi applicare questo criterio al problema bioetico del suicidio medicalmente assistito”, per giungere a qualificare la posizione di maggioranza troppo restrittiva, la cui applicazione determinerebbe un esito discriminatorio (in relazione al “caso di pazienti oncologici terminali non dipendenti da un dispositivo meccanico”), inutile (con riferimento alla rapidità del sopraggiungere della morte, che renderebbe “insignificante” la richiesta di suicidio assistito) e paradossale (laddove il paziente per accedere alla procedura dovrebbe richiedere un dispositivo che invece rifiuta, non avendone peraltro bisogno).
Si vedano anche le precedenti conclusioni cui il Comitato era pervenuto dopo l’ordinanza n. 207 del 2018 e prima dello svolgimento della seconda udienza pubblica con il parere del 18 luglio 2019 (Riflessioni bioetiche sul suicidio medicalmente assistito).
[26] Corte cost., sentenza n. 50 del 2022.
[27] Ibidem.
[28] Corte cost., sentenza n. 135 del 2024.
[29] Anche A. Apostoli, “Principi costituzionali e scelte di fine vita”, cit., 246 s., sottolinea questo profilo, laddove afferma che sulla base dell’art. 3 Cost. “è possibile sostenere che il diritto all’autodeterminazione, specialmente alla fine della vita, deve essere garantito sia a coloro che hanno ‘solo’ bisogno di essere aiutati a morire dignitosamente e sono in grado di determinare l’atto-morte con una autonoma azione materiale, sia a coloro che sono impossibilitati a farlo e perciò chiedono di essere assistiti”. E, infatti, il soggetto “che si trova in condizioni cliniche più gravi versa in una condizione di ulteriore svantaggio proprio perché, pur potendo decidere per la propria esistenza, è impedito nell’azione materiale”.
[30] Sull’orientamento della Corte costituzionale si rinvia alle osservazioni di M. D’Amico, “Gli amici curiae”, in Questione Giustizia, 2020, IV, 122 ss., che si sofferma non solo sul nuovo istituto degli amici curiae, ma anche sugli interventi dei terzi, richiamando precisamente le decisioni con le quali la Corte li ha, in specifici e delimitati casi, ammessi nel giudizio costituzionale, in particolare in via incidentale. Si vedano, in generale, anche C. Mezzanotte, “Appunti sul contraddittorio nei giudizi dinanzi alla Corte costituzionale”, in Giur. cost., 1972, 954 ss., R. Romboli, Il giudizio costituzionale incidentale come processo senza parti, Giuffrè, Milano, 1985, V. Angiolini (a cura di), Il contraddittorio nel giudizio sulle leggi, Giappichelli, Torino, 1998, M. D’Amico, Parti e processo nella giustizia costituzionale, Giappichelli, Torino, 1991, e Id., “La Corte riconosce l’interesse della parte privata (estranea al processo «a quo») ad intervenire nel giudizio costituzionale”, in Giur. it., 1992, I, 385 ss.
[31] Corte cost., sentenza. n. 135 del 2024.
[32] Ibidem.
[33] Ibidem.
[34] Ibidem.
[35] Ritiene che sia stato riconosciuto un diritto in questo senso M. D’Amico, “Il ‘fine vita’ davanti alla Corte costituzionale fra profili processuali, principi penali e dilemmi etici”, cit., 301, laddove, soffermandosi sul passaggio della sentenza n. 242 dedicato alla coscienza dei medici, sottolinea che affidarsi a questa ultima “trasforma […] profondamente il diritto accertato (o più precisamente compromette profondamente la stessa possibilità che al proposito di suicidio del paziente in determinate condizioni possa essere dato seguito con condotte di ausilio”, con ciò avendosi “un diritto fondamentale subordinato alla ‘coscienza’ del medico”.
In senso contrario C. Caruso, “Al servizio dell’unità. Perché le Regioni possono disciplinare (con limiti) l’aiuto al suicidio”, in Il Piemonte delle Autonomie, 2024, I, 9 s., osserva che non “vi è dubbio che la (creativa) sentenza della Corte non abbia riconosciuto un diritto al suicidio”, riconoscendo una più circoscritta libertà di scelta, che però “non sembra includere un diritto, immediatamente esigibile a prescindere da una specifica intermediazione normativa, a ottenere una procedura medicalizzata funzionale a soddisfare il bisogno individuale”. In particolare, essa non implica “automaticamente un diritto sociale a ricevere, da parte del servizio sanitario nazionale, l’ausilio necessario a interrompere la vita”: se “la libertà di autodeterminazione attraverso il suicidio è, alle condizioni previste della Corte, immediatamente esigibile […], il diritto alla prestazione sanitaria è non solo condizionata dall’eventuale obiezione di coscienza, ma deve anche essere puntualmente disciplinata e inserita tra i livelli essenziali di assistenza”. L’A., peraltro, ritiene che “la libertà di scegliere una terapia capace di interrompere una esistenza non più ritenuta dignitosa dal paziente non è una mera libertà di fatto”, ma “una vera e propria pretesa, giuridicamente assistita, a porre fine alla propria vita tramite l’ausilio di terzi”.
Si vedano anche le considerazioni di F. G. Pizzetti, “La proposta di legge piemontese in materia di assistenza al suicidio, alla luce della giurisprudenza costituzionale e del riparto di competenze Stato-Regioni”, ivi, 53 s., secondo cui la sentenza n. 242 “non sembra […] fondare un vero e proprio diritto soggettivo, in capo al malato, ad ottenere l’aiuto medicale al suicidio, al quale faccia da contrappunto, in capo al medico o al servizio sanitario, un dovere di prestazione nel collaborare al gesto auto-soppressivo del paziente”; mentre è “indubbiamente stabilito” nella stessa decisione “un vero e proprio obbligo, posto a carico del servizio sanitario, di condurre, in modo completo, accurato e tempestivo, la verifica pubblica sulla sussistenza delle condizioni cliniche e sulle modalità di esecuzione del suicidio che rendono non punibile l’aiuto medicale a darsi la morte richiesto dal malato e liberamente offerto dal sanitario”. G. Razzano, “Nessun diritto di assistenza al suicidio e priorità per le cure palliative, ma la Corte costituzionale crea una deroga all’inviolabilità della vita e chiama «terapia» l’aiuto al suicidio”, in Diritti fondamentali, 2020, I, 633, afferma che la “non punibilità creata dalla Corte certamente non equivale a diritto, a pretensività, né, soprattutto, a meritevolezza del comportamento”, pur riconoscendo che “apre innegabilmente una fessura nella cinta di garanzia posta a tutela della vita”.
In modo particolarmente efficace A. Apostoli, “Principi costituzionali e scelte di fine vita”, cit., 246, ritiene che il “non poter ancora configurare l’esistenza di un diritto a morire non può pertanto escludere quello di un diritto a non vivere nelle condizioni individuate dalla Consulta”; e, ancora, l’A. ritiene che sia “forse possibile provare a ritagliare, a partire dal diritto all’autodeterminazione terapeutica che il Giudice costituzionale pare ricondurre al consenso informato di cui alla l. 219/2017, l’esistenza non già del diritto a morire, bensì di quello a non vivere in condizioni di particolare sofferenza” (ivi, 248).
[36] Corte cost., sentenza n. 242 del 2019.
[37] Ibidem.
[38] Corte cost., sentenza n. 135 del 2024.
[39] Ibidem.
[40] Ibidem.
[41] A sostegno di questa ipotesi si possono richiamare ancora le riflessioni di A. Apostoli, “Principi costituzionali e scelte di fine vita”, cit., 248 s., laddove ritiene che si possa “provare a ritagliare […] l’esistenza non già del diritto a morire, bensì di quello a non vivere in condizioni di particolare sofferenza”: tale “‘nuova’ situazione giuridica soggettiva risulta facilmente ancorata a tre principi fondamentali del costituzionalismo democratico: quello delle libertà c.d. negative; quello dell’inviolabilità della libertà personale […] ovvero l’autodeterminazione; quello del divieto per la legge di violare i limiti derivanti dal rispetto dell’essere umano”. In tal modo non si tratterebbe di “affermare un diritto alla morte in quanto risvolto negativo del diritto alla vita, bensì il diritto a non vivere nelle precise condizioni che appaiono lesive della propria dignità, riduttive dei propri diritti […] e perciò contrarie ai supremi diritti costituzionali”.
[42] Sul punto si rinvia a C. Mortati, “La sindacabilità delle omissioni legislative”, ora in A. Morrone, (a cura di), La corte costituzionale. Antologia di classici della letteratura italiana, Giappichelli, Torino, 2021, 99 ss., e alle specifiche considerazioni di A. Morrone, “Positivismo giudiziario. Appunti a partire dalle c.d. omissioni legislative”, in Quad. cost., 2024, 127 ss., e di V. Marcenò, “La Corte costituzionale e le omissioni incostituzionali del legislatore: verso nuove tecniche decisorie”, in Giur. cost., 2000, III, 1985 ss., oltre che di F. Paterniti, Le omissioni del legislatore. Profili, problemi, prospettive, Editoriale Scientifica, Napoli, 2023.
[43] Corte cost., sentenza n. 135 del 2024. Coglie questo profilo anche P. Veronesi, “A primissima lettura: se cambia, come cambia e se può ulteriormente cambiare il ‘fine vita’ in Italia dopo la sentenza n. 135 del 2024”, cit., 253 s., riferendosi alle “situazioni già note e alle spesso ‘barocche’ applicazioni (o rifiuti di attuazione) della sentenza” n. 242 del 2019: osserva l’A. che nell’“eventualità di ostacoli amministrativi frapposti alle decisioni dei malati – pressoché certi nelle realtà più intrise di furore ideologico – sarà inevitabile ricorrere ai giudici” e di ciò è consapevole anche la Corte, “ben conoscendo che – all’atto pratico – talune autorità sanitarie (e non solo) sono assai propense a fare ‘orecchie da mercante’”.
È interessante rilevare che la Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri abbia esplicitato “indirizzi applicativi” relativi all’art. 17 (Atti finalizzati a provocare la morte) del Codice di deontologia medica, che prevede che il “medico, anche su richiesta del paziente, non deve effettuare né favorire atti finalizzati a provocarne la morte”. Ai sensi degli indirizzi applicativi, espressamente ricollegati alla sentenza n. 242 del 2019 della Corte costituzionale e approvati il 6 febbraio 2020, la “libera scelta del medico di agevolare, sulla base del principio di autodeterminazione dell’individuo, il proposito di suicidio autonomamente e liberamente formatosi da parte di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale, affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili, che sia pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli (sentenza 242/19 della Corte Costituzionale e relative procedure), va sempre valutata caso per caso e comporta, qualora sussistano tutti gli elementi sopra indicati, la non punibilità del medico da un punto di vista disciplinare”.
[44] In senso del tutto opposto si esprime G. Razzano, “Nessun diritto di assistenza al suicidio e priorità per le cure palliative, ma la Corte costituzionale crea una deroga all’inviolabilità della vita e chiama «terapia» l’aiuto al suicidio”, cit., 637 s., laddove afferma che “l’intervento legislativo in materia di suicidio assistito presenta però il rischio di rendere accettabile ciò che è solo non punibile” e che la prospettiva secondo cui le procedure richieste potrebbero essere poste a carico del servizio sanitario nazionale sarebbe “inammissibile, se si considera che in Italia ancora occorre soddisfare il pre-requisito dell’offerta adegu[a]ta di cure palliative, diritto garantito fra i LEA da dieci anni a questa parte e ancora non effettivo”. In modo ancora più esplicito l’A. ritiene che, in ambito di “fine vita, altro sono i diritti fondamentali (le cure palliative e la terapia del dolore), altro sono comportamenti di mera non punibilità; e sarebbe assurdo, specie in tempi di scarsità di risorse, finanziare gli uni e gli altri”. Essendo poi la decisione “autoapplicativa”, essa sarebbe anche “risolutiva”: pertanto “delle due l’una: o il vulnus costituzionale non è stato rimosso dalla Corte, per cui la sentenza, oltre che criticabile per gli sconfinamenti, è inutiliter data, oppure il vulnus è stato rimosso, per cui una legge sul suicidio assistito non pare strettamente obbligatoria”.
[45] Sia consentito il rinvio alle più distese considerazioni svolte in B. Liberali, “La c.d. direttiva Calderoli: contenimento del contenzioso fra Stato e Regioni o snaturamento del giudizio costituzionale?”, in Quad. cost., 2024, I, 172 ss.
[46] Individua in modo particolarmente efficace gli interrogativi sottesi C. Caruso, “Al servizio dell’unità. Perché le Regioni possono disciplinare (con limiti) l’aiuto al suicidio”, cit., 9, laddove specifica l’interrogativo intorno alla competenza regionale in materia chiedendosi se le “istituzioni chiamate a dare seguito alla pronuncia si esauriscono nel circuito dello Stato-persona o includono tutti i soggetti della Repubblica e, dunque, dello Stato-ordinamento? E, se così fosse, qual è il ruolo delle Regioni nell’esercizio dell’autonomia costituzionalmente garantita? Il regionalismo italiano è ormai malinconicamente destinato a confondersi con il decentramento amministrativo o è ancora capace di contribuire al processo di integrazione nei valori costituzionali, consentendo alle Regioni di offrire prestazioni di unità politica?”. L’A., nel riconoscere come già si è detto che “la facoltà di avvalersi dell’aiuto al suicidio” non si traduce “in un compiuto diritto al suicidio, con immediata pretesa all’ottenimento del farmaco e alla prestazione medica del SSN”, ritiene che essa generi “una serie di situazioni soggettive immediatamente esigibili”, che “richiedono per un loro migliore esercizio talune scansioni procedimentali, di natura organizzativa, da porre con disciplina puntuale”: ed è proprio qui che si potrebbe inserire l’intervento regionale, alla luce della competenza concorrente nella materia della tutela della salute (art. 117, terzo comma, Cost.), restando invece “in una zona grigia il diritto a ricevere gratuitamente la prestazione da parte della struttura sanitaria” (ivi, 11).
F. G. Pizzetti, “La proposta di legge piemontese in materia di assistenza al suicidio, alla luce della giurisprudenza costituzionale e del riparto di competenze Stato-Regioni”, cit., 56, invece, ritiene che non “sembra […] riconducibile all’alveo delle competenze legislative costituzionalmente attribuite alla Regione una disciplina regionale che modifichi le modalità e le forme sia per mezzo delle quali il soggetto viene valutato come capace di autodeterminarsi liberamente, sia grazie alle quali lo stesso malato esprime la rinuncia alle cure vitali, prima, per domandare poi l’aiuto medicale al suicidio”: in definitiva, un intervento regionale sembrerebbe “esondare dall’alveo delle competenze regionali di cui all’art. 117 Cost., una legge regionale che intervenga sulle condizioni (malattia irreversibile, dipendenza da presidio vitale, capacità di autodeterminarsi, sofferenza insopportabile, libertà e consapevolezza della decisione), sulle modalità (quelle di cui agli artt. 1 e 2 della legge n. 219 del 2017) e sul regime di verifica pubblica (da parte di una struttura del servizio sanitario nazionale e di un comitato etico) che la Corte costituzionale ha dettato, nella sentenza n. 242 del 2019, al fine di considerare non punibile (ma non anche obbligatoria) l’assistenza al suicidio richiesta dal malato” (ivi, 57). Uno spazio che l’A. individua è costituito dalla materia concorrente della organizzazione sanitaria locale, nel cui perimetro in attesa di un intervento statale le Regioni potrebbero “individuare qual è la tipologia di azienda sanitaria (o ospedaliera) e quale è l’organo, interno a tale azienda, a cui spettano le verifiche mediche richieste dalla sentenza n. 242”.
Si vedano anche le riflessioni di L. Busatta, “Come dare forma alla sostanza? Il ruolo delle Regioni nella disciplina del suicidio medicalmente assistito”, in Osservatorio costituzionale, 2024, III, 193, che perviene alla conclusione che “la soluzione operativa ad oggi più sostenibile per offrire un quadro giuridico attuativo del pronunciamento della Corte costituzionale sul suicidio assistito pare quella della Delibera della Giunta regionale, che non sembra dare adito a grossi dubbi di legittimità, a motivo dell’esercizio di una oggettiva attività organizzativa in ambito sanitario”.
Foto via Wikimedia Commons.