Gli approfondimenti della riforma Cartabia - 7. Acquiescenza alla condanna nel giudizio abbreviato e riconoscimento della riduzione di un sesto della pena
di Giuseppe Sepe
Il presente articolo si inserisce nella serie di approfondimenti dedicati da Giustizia Insieme (v. Editoriale) alle novità introdotte dalla riforma Cartabia nella materia penale. Di seguito i precedenti contributi:
1. Le nuove indagini preliminari fra obiettivi deflattivi ed esigenze di legalità
3. Pensieri sparsi sul nuovo giudizio penale di appello (ex d.lgs. 150/2022)
6. Riforma Cartabia e pene sostitutive: la rottura “definitiva” della sequenza cognizione-esecuzione
Il nuovo art. 442 co. 2 bis c.p.p., introdotto dal D.lgs. n. 150/2022 (cd. riforma “Cartabia”) in tema di giudizio abbreviato, prevede una ulteriore riduzione della pena, pari ad un “sesto”, in caso di mancata impugnazione da parte dell’imputato e del suo difensore (“2-bis. Quando né l’imputato, né il suo difensore hanno proposto impugnazione contro la sentenza di condanna, la pena inflitta è ulteriormente ridotta di un sesto dal giudice dell’esecuzione”).
Il legislatore, accogliendo le indicazioni della Commissione Lattanzi, ha introdotto una diminuente che realizza uno scopo deflattivo “collegando all’acquiescenza, e al connesso risparmio di tempo e risorse processuali, l’ulteriore trattamento premiale in relazione alla pena inflitta” (così, la relazione illustrativa allo schema di decreto, p. 133), al fine di “ridimensionare l’incidenza di appelli finalizzati a censurare unicamente l’entità della pena….”(cfr: relazione finale dei lavori della Commissione Lattanzi, p. 27).
Conseguentemente, è stato modificato l’art. 676 co. 1 c.p.p. ove si è stabilito che il giudice dell’esecuzione è competente “all’applicazione della riduzione della pena prevista dall’articolo 442, comma 2-bis”. In questo caso il giudice dell'esecuzione procede a norma dell’articolo 667, comma 4 c.p.p., ossia nelle forme semplificate del contraddittorio solo differito ed eventuale (fuori udienza, de plano, con eventuale opposizione degli interessati).
Ci si chiede se il giudice dell’esecuzione possa o debba applicare tale riduzione d’ufficio ovvero se trovi applicazione la regola generale ex art. 666 c.p.p. che richiede la richiesta di parte (ne procedat iudex ex officio).
Un primo orientamento, nell’escludere che il giudice dell’esecuzione possa procedere d’ufficio, richiama una giurisprudenza di legittimità che fa riferimento alle competenze di cui all’art. 676 c.p.p.. L’unico caso in cui il codice di rito prevede la facoltà del giudice dell’esecuzione di procedere d’ufficio concerne l’applicazione di amnistia e indulto. Il fatto che il legislatore non abbia espressamente consentito l’applicazione officiosa della riduzione di un sesto è significativo della volontà di seguire la regola generale dell’istanza di parte.
L’apparato argomentativo di tale orientamento interpretativo sembra provare “troppo”.
Va, anzitutto, considerato che l’art. 442 c.p.p. definisce la pena “legale” in caso di condanna all’esito del giudizio abbreviato configurandola come fattispecie a formazione progressiva ed eventuale. Alla riduzione di un terzo, operata d’ufficio dal giudice della cognizione al momento della condanna, si aggiunge la ulteriore, eventuale, riduzione di un sesto, in caso di acquiescenza. In tal caso il citato art. 442 co. 2 bis c.p.p. (secondo cui, “la pena inflitta è ulteriormente ridotta di un sesto dal giudice dell’esecuzione”) configura la ulteriore riduzione come atto doveroso, privo di discrezionalità, nell’an e nel quomodo, da parte del giudice della esecuzione, il quale si identifica, ex art. 665 c.p.p., con il giudice che ha pronunciato il provvedimento divenuto irrevocabile (ovvero, nel caso in cui l’esecuzione riguardi più sentenze, con il giudice che ha pronunciato la sentenza divenuta, per ultima, irrevocabile).
Già dunque dalla lettura dell’art. 442 co. 2 bis c.p.p. si trae il convincimento che la nuova riduzione “debba” e non “possa” essere concessa e che ciò debba avvenire senza altre condizioni. Ed è logico che sia così: l’irrogazione della pena legale non può dipendere da condizioni, oneri, richieste o istanze, dovendo essere applicata dall’ordinamento, in conformità alle condizioni di legge (nella specie: omessa impugnazione e passaggio in giudicato della sentenza).
D’altronde l’art. 442 co. 2 bis c.p.p. si limita a individuare, correttamente, il giudice deputato ad operare la riduzione (giudice dell’esecuzione, perché si è formato il giudicato) e non richiama il procedimento mediante il quale tale riduzione debba realizzarsi.
Il procedimento, come detto, è definito dall’art. 676 co. 1 c.p.p. mediante il richiamo alle forme semplificate (667 co. 4).
Ma perché le forme semplificate, di cui all’art. 667 co. 4 c.p.p., dovrebbero escludere l’intervento d’ufficio del giudice dell’esecuzione?
Uno studio della giurisprudenza porta a ritenere che così non sia, giacché proprio con riferimento alla applicazione di amnistia e indulto, materia disciplinata dall’art. 672 c.p.p., la Suprema Corte affermò, sin dal 1990, il principio dell’applicazione d’ufficio sulla scorta del dato letterale del primo comma della citata disposizione che, nel testo originario, stabiliva che il giudice dell’esecuzione procedesse "senza formalità" e quindi senza necessità di formale richiesta da parte di soggetti legittimati (In questo senso, Cass. Sez. 1, sent. n. 371 del 16/2/1990, Rv 183654 che, nel richiamare la disciplina del codice del 1930, che distingueva tra competenza del pretore -che poteva procedere d'ufficio- e quella del giudice della esecuzione -al quale l'applicazione doveva essere chiesta dal P.m. o dall'avente diritto al beneficio-, notava come il nuovo codice avesse invece fatto riferimento alla decisione senza formalità, quindi d’ufficio e de plano).
Il d.lgs. n. 12/1991, art. 29, modificava il primo comma dell’art. 671 c.p.p. sostituendo alla frase “il giudice dell'esecuzione provvede senza formalità con ordinanza notificata all'interessato…” l’attuale formulazione: “il giudice dell'esecuzione procede a norma dell'articolo 667 comma 4".
Si veda anche: Cass. Sez. 1, Sentenza n. 412 del 29/01/1992 Cc. (dep. 25/05/1992) Rv. 190127: “l'applicazione dell'amnistia e dell'indulto da parte del giudice dell'esecuzione [opera] "senza formalità" e, quindi, senza necessità di formale richiesta da parte dei soggetti interessati. Solo nel caso in cui la esecuzione della pena sia terminata è necessaria, ai sensi del quarto comma del suddetto art. 672, la richiesta del condannato - ciò che è conseguenza dell'interesse meramente morale ad ottenere il beneficio e quindi dell'assenza di una qualsiasi concreta incidenza sulla esecuzione della pena”.
A norma degli artt. 672, primo comma, e 667, quarto comma, cod. proc. pen., l'ordinanza pronunciata "de plano" dal giudice dell'esecuzione in materia di applicazione di amnistia o d'indulto è soggetta ad opposizione davanti allo stesso giudice che ha emesso il provvedimento, nelle forme previste dall'art. 666 cod. proc. pen. e non a ricorso per cassazione (Sez. 1, Sentenza n. 2250 del 19/05/1992 Cc. (dep. 27/07/1992 ) Rv. 191467)
Le sentenze successive sono poi tutte nello stesso senso: siccome l’art. 672 co. 1 richiama le forme semplificate di cui all’art. 667 co. 4 c.p.p., il giudice dell’esecuzione può provvedere d’ufficio. Si tratta, evidentemente, di una conclusione che, oltre a poggiarsi sull’interpretazione letterale, discende dalla considerazione degli interessi coinvolti nel riconoscimento dei fatti estintivi, concernenti soggetti potenzialmente detenuti. Insomma, l’attivazione ex officio e senza formalità è provocata dalla “pressione” dell’art. 13 della Costituzione, che vuole la massima e rapida tutela del diritto alla libertà personale.
Sempre nel 1990 risulta poi massimata la sentenza della prima sezione, n. 3934 del 12/11/1990 Cc. (dep. 16/01/1991 ) Rv. 186186, imputato Contreras de Castelblanco, che afferma: “Il procedimento di esecuzione, salvo che per l'applicazione della amnistia o dell'indulto, esige per il suo inizio l'impulso di parte”. Tale decisione, in particolare, esclude(va) la possibilità di provvedere, d’ufficio, alla revoca della sentenza di condanna per "abolitio criminis", pure sostenuta in dottrina (CORDERO, Procedura penale, sesta ed., p. 1214, il quale ricorre all’argumentum a fortiori).
Ma a quell’epoca l’art. 676 c.p.p., rubricato “altre competenze”, non prevedeva ancora, ai fini del procedimento, le forme di cui all’art. 667 co. 4 c.p.p., il cui richiamo è stato inserito dal decreto legislativo n. 12 del 14/1/1991, cioè successivamente alla decisione in questione.
Infatti i primi commentatori non mancarono di evidenziare che il 676 c.p.p. si limitava a normare i profili di competenza, rinviando implicitamente alla disciplina prevista, in generale, per il procedimento di esecuzione (GUARDATA: Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da M. Chiavario, vol. VI, UTET, p. 575).
Sulla sentenza Contreras de Castelblanco emessa dalla prima sezione, si sono poi basate le successive decisioni, che hanno in maniera tralatizia riportato l’affermazione, secondo cui l’unica eccezione al principio generale dell’impulso di parte è costituito dall’applicazione dell’amnistia e dell’indulto.
Ma, come detto, il 676 c.p.p. veniva integrato, nel 1991, con il rinvio alla procedura semplificata di cui all’art. 667 co 4 c.p.p. per le altre competenze ivi indicate, tra le quali oggi rientra anche la riduzione di un sesto della pena in caso di acquiescenza.
Si vuole sostenere, dunque, che l’orientamento giurisprudenziale secondo cui il giudice dell’esecuzione provvede su impulso di parte, ad eccezione che nei casi di amnistia e indulto, non sia condivisibile. Ciò in quanto il ragionamento che portò la S.C., all’indomani dell’approvazione del nuovo codice di procedura penale, ad affermare l’applicabilità d’ufficio della amnistia e dell’indulto è estensibile anche alle altre competenze indicate nell’art. 676 c.p.p., per le quali è richiamata la medesima procedura senza formalità di cui all’art. 667 co. 4 c.p.p., senza bisogno di richiesta delle parti, salvo contraddittorio differito.
Non è di ostacolo a tale tesi l’art. 676 co. 3 c.p.p.., secondo cui “quando accerta l’estinzione del reato o della pena, il giudice dell’esecuzione la dichiara anche di ufficio…..”.
La norma, che si riferisce alla causa di estinzione del reato “dopo la condanna” (v. 676 co. 1) e alla estinzione della pena “che non consegue alla liberazione condizionale o all’affidamento in prova” riprende il contenuto dell’abrogato art. 578 c.p.p. che dettava un’apposita disciplina, prevedendo una decisione emessa anche d’ufficio, con una particolare regime di impugnazione.
Si noti però che l’indulto e l’amnistia impropria non sono soggetti alla disciplina del 676 co. 3 c.p.p. in quanto per essi l’art. 672 c.p.p. detta una disciplina speciale (così, GUARDATA, Commento cit).
Si tratta dunque di una disposizione (che non concerne amnistia e indulto) che afferma il potere del giudice, che nel corso di un qualsiasi incidente accerti il ricorrere di una causa di estinzione del reato o della pena, di dichiararlo anche d’ufficio. Non è dunque una norma che possa invocarsi a sostegno dell’argomento che vede nell’applicazione di amnistia e indulto l’unico caso di declaratoria d’ufficio del giudice dell’esecuzione.
Ad ogni modo, a favore dell’applicazione d’ufficio del dispositivo premiale di cui al 442 co. 2 bis c.p.p., militano anche considerazioni di “sistema” che considerano tale istituto come strumentale alla definizione legale del trattamento sanzionatorio, al fine di garantire al condannato l’applicazione di una pena “giusta”, cioè conforme a quella legale, così dando pieno e incondizionato riconoscimento ai principi di cui agli artt. 13 e 27 della Costituzione.
Non si tratta di ricorrere all’analogia in bonam partem, ma di applicare il principio secondo cui l’intervento, vincolato, del giudice dell’esecuzione, che riconoscendo l’ulteriore riduzione di un sesto, realizzi la tutela degli artt. 13 e 27 Cost, è un intervento ammesso, anche d’ufficio, nelle forme semplificate di cui all’art. 667 co. 4 c.p.p., richiamate dall’art. 676 c.p.p..
È chiaro che le parti (Pm e difesa), potranno poi attivare, se del caso, ricorrendone i presupposti, il contraddittorio differito tipizzato previsto dall’art. 667 co 4 seconda parte c.p.p..