Le nuove disposizioni in materia di processo del lavoro
di Gabriele Allieri, giudice del lavoro presso il Tribunale di Gorizia
Giustizia Insieme propone ai suoi lettori una serie di contributi relativi alla riforma della procedura civile, per conoscere, approfondire e discutere. L’articolo presentato riguarda la riforma del processo del lavoro.
I precedenti articoli:
1. La trattazione scritta. La codificazione (art. 127-ter c.p.c.)
2. La riforma del processo civile in Cassazione. Note a prima lettura
3. La riforma del processo civile in appello. Le disposizioni innovate dal D. Lgs n. 149/2022
4. La riforma dell’esecuzione forzata: le novità del D. Lgs n. 149/2022
Abstract L’11 agosto 2023 il processo del lavoro – ossia le disposizioni di cui al Titolo IV c.p.c., titolato «Norme per le controversie in materia di lavoro» – compirà cinquant’anni. Oggi, analizzando le norme ad esso dedicate e contenute nel decreto legislativo n. 149 del 2022, attuativo della legge delega n. 206 del 2021, se ne può affermare la perdurante vitalità, dal momento che le disposizioni di cui agli artt. 409 ss. c.p.c., e la dinamica complessiva del rito in considerazione, non formano oggetto di significativi interventi.
Sommario: 1. Introduzione. 2. La negoziazione assistita in materia di lavoro. 3. Introduzione degli artt. 441-bis e ss. nel codice di procedura civile. 4. Il processo del lavoro da remoto e per iscritto. 5. Le novità in merito al processo d’appello.
1. Introduzione
Il processo del lavoro, per come introdotto dalla legge n. 533 del 1973, si avvia a celebrare il suo cinquantesimo compleanno in perfetta forma: gode di buona salute, è funzionale al suo scopo – la ricerca della verità materiale – e, proprio per questo, va lasciato (pressoché) intatto.
Ne è prova il fatto che la riforma del processo civile ha modificato l’art. 183 c.p.c., «Prima comparizione delle parti e trattazione della causa», prevedendo che il giudice proceda all’interrogatorio libero delle parti, tenute a comparire personalmente, e al tentativo conciliazione, con ciò prendendo atto della particolare efficacia di questi istituti, tipici del processo del lavoro.
Queste poche e semplici parole sono di per sé sufficienti per sintetizzare la portata innovativa delle disposizioni dedicate al processo del lavoro dal decreto legislativo n. 149 del 2022, attuativo della legge delega n. 206 del 2021, e in vigore dal prossimo 28 febbraio 2023.
Infatti, il pacchetto di novità ricondotto alla locuzione “Riforma Cartabia” non interviene in modo significativo sulla dinamica del processo del lavoro. Le disposizioni di nuovo conio che si occupano di negoziazione assistita e quelle introdotte nella trama codicistica (cui fa da pendant una nuova previsione tra le disposizioni d’attuazione) non smentiscono l’attuale assetto, lasciando inalterato il sistema vigente. Anzi, a ben vedere, la riforma ne riespande i confini applicativi, allargandoli a quelle controversie che, altrimenti, sarebbero state gestite, ancora per qualche tempo, secondo lo schema del c.d. rito Fornero.
Per questo, si può affermare che la fiducia nei confronti delle soluzioni legislative del 1973 non è in discussione. Piuttosto, volendo cogliere il senso della riforma, verrebbe da scrivere che ciò che è sfiduciato – o quanto meno richiamato sull’attenti – è l’assetto organizzativo di chi è chiamato ad applicare quelle disposizioni – il giudice -, cui viene consegnata, come si conviene ad un nuovo anno che inizia, una nuova agenda (in parte già compilata).
2. La negoziazione assistita in materia di lavoro
La versione originaria dell’art. 2, comma 2, lett. b) del decreto-legge n. 132 del 2014, con cui fu introdotta la negoziazione assistita da uno o più avvocati – ossia, l’«accordo mediante il quale le parti convengono di cooperare in buona fede e con lealtà per risolvere in via amichevole la controversia tramite l'assistenza di avvocati iscritti all'albo» - stabiliva che l’oggetto della controversia non doveva riguardare diritti indisponibili o vertere in materia di lavoro.
Con l’art. 9 del d. lgs. cit. il riferimento alla materia del lavoro è soppresso e all’interno del decreto-legge n. 132 del 2014 viene introdotta una nuova disposizione – l’art. 2-ter – in base al quale «per le controversie di cui all'articolo 409 del codice di procedura civile, fermo restando quanto disposto dall'articolo 412-ter del medesimo codice, le parti possono ricorrere alla negoziazione assistita senza che ciò costituisca condizione di procedibilità della domanda giudiziale. Ciascuna parte è assistita da almeno un avvocato e può essere anche assistita da un consulente del lavoro.
All'accordo raggiunto all'esito della procedura di negoziazione assistita si applica l'articolo 2113, quarto comma, del codice civile.
L'accordo è trasmesso a cura di una delle due parti, entro dieci giorni, ad uno degli organismi di cui all'articolo 76 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276».
Questo strumento deflattivo del contenzioso si aggiunge agli altri già attualmente previsti. Il rinvio operato all’art. 2113, comma 4, c.c., conduce a ritenere che l’intervento degli avvocati sia stato equiparato a quello del giudice, dell’autorità amministrativa e dell’associazione di categoria, sicché l’accordo raggiunto all’esito della negoziazione sarà assoggettato ad un regime giuridico derogatorio della regola generale - stabilita dai commi secondo e terzo dell’art. 2113 c.c. - dell'impugnabilità nel termine decadenziale di sei mesi, in quanto l'intervento degli avvocati - terzi investiti di una funzione pubblica - è ritenuto idoneo a superare la presunzione di non libertà del consenso del lavoratore, precludendo l’impugnabilità dell’accordo raggiunto[1].
La novità in commento va accolta con favore, se non altro perché il contesto entro cui l’accordo è destinato a maturare garantisce con solidità l’effettiva assistenza nei confronti di ciascuna delle parti. Poiché con questo strumento la loro tutela è garantita in misura quanto meno equivalente a quella assicurata dalle altre ipotesi attualmente vigenti, non v’era motivo per continuare ad escludere l’applicabilità dell’istituto anche alla materia del lavoro.
Va comunque rilevato che solo il tempo potrà suggerire se questa novità sarà in grado di deflazionare il contenzioso. Chi scrive ne dubita, dal momento che la mancanza di una cornice formale, quale la negoziazione assistita, non ha finora impedito ai difensori di attivarsi già in sede stragiudiziale per definire la controversia, sia evitandone l’avvio formale, sia interrompendone il corso prima del compimento di qualsiasi attività successiva all’iscrizione a ruolo della causa.
Del resto, non si può ignorare che l’iniziativa in giudizio funge spesso da propulsore che induce la parte convenuta ad avviare un dialogo con la propria controparte. Inoltre, molto spesso è solo l’intervento del giudice (rectius, di una sua proposta conciliativa alla presenza delle parti) ad indurre le parti a meditare seriamente - e per la prima volta - in ordine ad una composizione conciliativa della lite.
Per quanto apprezzabile, l’estensione della negoziazione assistita alla materia del lavoro non lascia prevedere sensibili modifiche a questa dinamica e al peso specifico assunto, nei fatti, dal dialogo conciliativo svolto in vista dell’intervento del giudice o successivamente ad esso.
3. Introduzione dell'art. 441-bis e ss. nel codice di procedura civile
Che il rito introdotto dall’art. 1, comma 47 e ss., legge n. 92 del 2012, il c.d. rito Fornero, previsto per l’impugnazione dei licenziamenti nelle ipotesi regolate dall’art. 18 St. Lav., fosse destinato ad una naturale estinzione è una circostanza nota a partire dall’entrata in vigore del d.lgs. n. 23 del 2015, che, nell’introdurre il contratto di lavoro a tutele crescenti e le relative guarentigie nel caso di illegittimo recesso datoriale, ne aveva preannunciato il prossimo naturale “pensionamento”.
Tuttavia, con la riforma del processo civile, il legislatore ha inteso anticipare i tempi e ha decretato una conclusione anticipata dell’esperienza avviata nel 2012, introducendo, nel nuovo Capo I-bis “Delle controversie relative ai licenziamenti” del Titolo IV, una nuova disposizione – l’art. 441-bis - destinata a riferirsi a tutte le ipotesi in cui, con l’impugnazione del licenziamento, venga richiesta la reintegrazione nel posto di lavoro. Ciò, evidentemente, in tutte le ipotesi in cui essa sia prevista, e dunque anche al di là dell’art. 18 St. Lav..
La nuova disposizione, tuttavia, non configura un nuovo rito speciale, ma generalizza l’applicabilità delle disposizioni di cui agli artt. 409 ss. c.p.c., salvi peculiari ed eventuali accorgimenti, utili ad una più spedita trattazione del procedimento.
Il testo dell’art. 441-bis prevede che «la trattazione e la decisione delle controversie aventi ad oggetto l'impugnazione dei licenziamenti nelle quali è proposta domanda di reintegrazione nel posto di lavoro hanno carattere prioritario rispetto alle altre pendenti sul ruolo del giudice, anche quando devono essere risolte questioni relative alla qualificazione del rapporto.
Salvo quanto stabilito nel presente articolo, le controversie di cui al primo comma sono assoggettate alle norme del capo primo.
Tenuto conto delle circostanze esposte nel ricorso il giudice può ridurre i termini del procedimento fino alla metà, fermo restando che tra la data di notificazione al convenuto o al terzo chiamato e quella della udienza di discussione deve intercorrere un termine non minore di venti giorni e che, in tal caso, il termine per la costituzione del convenuto o del terzo chiamato è ridotto della metà.
All'udienza di discussione il giudice dispone, in relazione alle esigenze di celerità anche prospettate dalle parti, la trattazione congiunta di eventuali domande connesse e riconvenzionali ovvero la loro separazione, assicurando in ogni caso la concentrazione della fase istruttoria e di quella decisoria in relazione alle domande di reintegrazione nel posto di lavoro. A tal fine il giudice riserva particolari giorni, anche ravvicinati, nel calendario delle udienze.
I giudizi di appello e di cassazione sono decisi tenendo conto delle medesime esigenze di celerità e di concentrazione».
La ratio della disposizione è chiara. Nonostante l’abrogazione delle norme relative al c.d. rito Fornero, viene ribadita la finalità di procedere ad una definizione rapida delle controversie al cui esito può essere ripristinato il rapporto di lavoro.
La tecnica normativa impiegata per il perseguimento dello scopo è però diversa da quella utilizzata dal legislatore del 2012.
Questi, con le peculiarità, e i problemi interpretativi che notoriamente ne conseguirono, forgiò un rito bifasico, all’interno del quale la rapidità era assicurata, oltre che da termini processuali ridotti e dalla natura monotematica dell’oggetto del processo, dalla sommarietà dell’istruttoria cui il giudice doveva procedere prima di adottare l’ordinanza decisoria.
Solo in caso d’opposizione, aprendosi la seconda fase, il processo e l’istruttoria si sarebbero potuti riespandere, lasciando spazio ad eventuali approfondimenti e ad iniziative del convenuto, quali la chiamata in causa del terzo o la proposizione di una domanda riconvenzionale, inammissibili nella prima fase ma ammissibili nella seconda.
La scelta del legislatore del 2012 fu dunque quella di perseguire l’obiettivo di una maggiore speditezza approntando un rito speciale.
Il legislatore del 2022, confidando nella naturale rapidità del processo del lavoro, ha invece semplificato la disciplina ripristinando l’unicità del rito: tutte le controversie in materia di licenziamento saranno d’ora innanzi assoggettate alla disciplina di cui gli artt. 409 ss. c.p.c., con conseguente abrogazione, per le controversie instaurate successivamente all'entrata in vigore della novella, dello speciale procedimento di cui alla legge n. 92 del 2012.
La controversia ricadrà entro l’ambito d’applicazione della norma «anche quando devono essere risolte questioni relative alla qualificazione del rapporto». L’espressione è mutuata dall’art. 1, comma 47, legge n. 92 del 2012 sicché, anche in questo caso, il necessario accertamento preventivo d’un rapporto cui sia applicabile la tutela ripristinatoria non precluderà l’applicazione della disposizione in esame e, in particolare, degli accorgimenti rispetto al rito ordinario da essa previsti per dare impulso al procedimento.
Questi accorgimenti consistono, innanzitutto, nella possibilità per il giudice di ridurre i tempi del procedimento fino alla metà, tenuto conto delle circostanze esposte nel ricorso, prevedendo un termine congruo, comunque non minore di 20 giorni, fra la data di notificazione del ricorso e l'udienza di discussione.
Il tenore letterale della norma pare affidare al giudice tanto la possibilità di esercitare d’ufficio questo potere, quanto una certa discrezionalità nell’an e nel quomodo del suo esercizio.
Al contempo, se un’esplicita istanza di parte non pare strettamente necessaria, è da ritenersi che il ricorso debba comunque contenere specifiche allegazioni utili a valorizzare ragioni d’urgenza ulteriori rispetto a quelle già sancite ex lege (e da cui deriva la necessaria trattazione prioritaria del procedimento, su cui si tornerà infra).
Può in tal senso immaginarsi una costruzione dell’atto introduttivo non dissimile da quella tipicamente impiegata per l’introduzione di un ricorso ex art. 700 c.p.c. e, dunque, tesa a valorizzare profili che sconsiglino il mantenimento dei termini processuali ordinariamente applicabili, ciò che, pur non precludendo in radice il ricorso alla tutela cautelare, consentirebbe di limitarne l’impiego a casi eccezionali.
La possibile riduzione dei termini processuali è un elemento che echeggia quanto previsto dal c.d. rito Fornero, ma le similitudini si arrestano ad un piano meramente “estetico”.
Con la legge n. 92 del 2012 era previsto nei confronti del convenuto un termine di 5 giorni prima dell'udienza di discussione per rappresentare le sue difese, ma in dottrina e giurisprudenza era pacifico che, nella prima fase, non ricorressero decadenze né per il ricorrente né, soprattutto, per il convenuto, anche in caso di costituzione “tardiva”. Il nuovo art. 441-bis, invece, assoggetta i ricorsi alla disciplina generale del rito del lavoro, sicché l’eventuale riduzione dei termini processuali non incide sulla perfetta applicabilità agli atti introduttivi degli artt. 414 c.p.c. e 416 c.p.c. e delle relative conseguenze decadenziali.
Ulteriore deviazione dallo schema ordinario è poi rintracciabile nel comma quarto dell'art. 441-bis, secondo cui il giudice, nel corso dell'udienza di discussione, può disporre la trattazione congiunta di eventuali domande connesse o riconvenzionali ovvero la loro separazione, assicurando in ogni caso la concentrazione della fase istruttoria e di quella decisoria in relazione alle domande di reintegrazione nel posto di lavoro.
La selezione del thema decidendum così prevista è una tecnica già nota nel nostro ordinamento. Appartiene, per esempio, al processo sommario di cognizione di cui agli artt. 702-bis ss. c.p.c., nel quale, anche all’esito della riforma, è previsto che il giudice possa disporre la separazione della causa relativa alla domanda riconvenzionale quando essa richiede un'istruzione non sommaria (art. 702-ter, comma 3, c.p.c.).
In rapporto al precedente rito Fornero, la soluzione adottata dal legislatore è parzialmente innovativa. In precedenza, le domande riconvenzionali e la chiamata in causa del terzo potevano essere proposte solamente nella fase d’opposizione e le prime, qualora fondate su fatti costitutivi diversi da quelli da scrutinare rispetto all’impugnazione del licenziamento, formavano oggetto di separazione. Nel contesto della riforma, il venir meno di un procedimento speciale e della potenziale duplicità di fasi ha imposto al legislatore l’integrale restaurazione delle facoltà difensive; è dunque fisiologico che sia stata accordata al convenuto la chance di reagire formulando immediatamente la richiesta di estendere il contraddittorio o una domanda riconvenzionale. Per quanto attiene al ricorrente, in mancanza di un’esplicita preclusione in tal senso, non pare che possa escludersi la sua facoltà d’abbinare all’impugnazione del licenziamento domande ulteriori. D’altra parte, l’opzione accordata al giudice rispetto alla trattazione unitaria o separata delle cause consente di mantenere impregiudicata la speditezza che deve contraddistinguere la domanda relativa al recesso e - si può ritenere – la scelta del modus procedendi andrà basata pur sempre sulla considerazione dei fatti posti a fondamento delle pretese. In particolare, l’attenzione andrà posta sulla necessità di concentrare l’istruttoria rispetto alla domanda di reintegrazione, espressamente considerata dall’art. 441-bis, che, in tal senso, riprende una soluzione già prevista dall’art. 1, comma 65, legge n. 92 del 2012, per il c.d. rito Fornero. Per questa via, una domanda subordinata tesa ad ottenere il pagamento del t.f.r. e l’indennità sostitutiva del preavviso, al pari della pretesa di ottenerne la ripetizione, potrà senz’altro coniugarsi con la concentrazione del procedimento introdotto ai sensi degli artt. 414 e 441-bis c.p.c.; lo stesso è a dirsi rispetto all’accertamento della mansioni concretamente svolte dall’interessato, qualora, ad esempio, rappresentino il fatto costitutivo alla base sia della deduzione dell’inadempimento dell’obbligo di repêchage, sia della domanda di condanna al pagamento di differenze retributive. Si può ipotizzare, invece, che un’eventuale separazione “colpirà” la domanda diretta ad ottenere il pagamento di differenze retributive per lo svolgimento di mansioni superiori, la cui fondatezza implichi un approfondimento istruttorio su ambiti estranei a quelli da affrontare per valutare la legittimità del licenziamento.
Il quinto comma dell’art. 441-bis c.p.c. precisa infine che i principi di efficienza della procedura e di celerità dovranno caratterizzare il ricorso in appello nonché il procedimento per cassazione.
Quanto testé esposto identifica le soluzioni normative concrete predisposte per assicurare la spedita definizione delle cause in commento.
Chi scrive dubita invece che possa avere un qualche impatto pratico l’indicazione contenuta nel primo comma della disposizione, secondo cui queste cause sono prioritarie rispetto alle altre pendenti sul ruolo del giudice, sebbene – quasi allo scopo di evitare che il giudice “dimentichi” la “direttiva” del legislatore - il nuovo art. 144-quinquies disp. att. c.p.c. sancisca che «il presidente di sezione e il dirigente dell'ufficio giudiziario favoriscono e verificano la trattazione prioritaria dei procedimenti di cui al capo I-bis del titolo IV del libro secondo del codice. In ciascun ufficio giudiziario sono effettuate estrazioni statistiche trimestrali che consentono di valutare la durata media dei processi di cui all'articolo 441-bis del codice, in confronto con la durata degli altri processi in materia di lavoro».
Si tratta di una soluzione singolare, dalla quale è difficile immaginare possano derivare conseguenze sul singolo processo qualora – in via del tutto ipotetica - il magistrato decida arbitrariamente di non assicurare priorità alla decisione della causa.
D’altra parte, e per ridimensionare notevolmente la questione, è appena il caso d’osservare che la priorità da assegnare alla trattazione delle domande di reintegrazione nel posto di lavoro è stata comunemente (e logicamente) assicurata a prescindere da quest’indicazione normativa. Allo stesso modo, la concentrazione dell’istruttoria è una soluzione organizzativa che, per esigenze di celerità e di buona gestione del processo, non può certo etichettarsi come un’«innovazione» (né, a dire il vero, come una soluzione valida solo per questa categoria di cause).
In un’ottica più ampia, può anche segnalarsi che, da un lato, la disposizione appare incompleta perché, concentrandosi esclusivamente sulle domande relative alla reintegrazione nel posto di lavoro, ha trascurato - nonostante ricorrano analoghe esigenze di speditezza – tutte le altre situazioni in cui sia “in gioco” un posto di lavoro (si pensi, ad esempio, alle iniziative con cui è censurata l’illegittima apposizione del termine al contratto di lavoro ed è chiesta la sua conversione).
Dall’altro lato, per assicurare una trattazione prioritaria alle sole che cause che lo “meritino”, sarà ineludibile una valutazione del giudice utile a verificare se la domanda di reintegrazione formulata col ricorso sia o meno del tutto strumentale, così da procedere ad una valutazione d’urgenza in concreto (e non sterilmente aprioristica ed astratta). Un simile vaglio, pur nel silenzio della norma, appare inevitabile. Un suo esito negativo dovrebbe suggerire la mancanza della priorità della causa ipotizzata dalla disposizione, con conseguente irrilevanza dei relativi tempi di definizione ai fini dalle estrazioni statistiche trimestrali.
Infine, e più in generale, l’indicazione normativa non appare idonea ad assicurare un’ubiquitaria prontezza nella risposta giurisdizionale, la cui maggiore o minore velocità è - e sarà – notoriamente legata (anche) a nodi critici impregiudicati da questa disposizione e riconducibili a fattori strutturali e macro-organizzativi del tutto avulsi dalla sfera d’influenza del giudice e dalle sue scelte lato sensu gestionali.
Il Capo I-bis prosegue poi con l'art. 441-ter c.p.c rubricato «Licenziamenti del socio della cooperativa». Questo disciplina le controversie aventi ad oggetto l'impugnazione dei licenziamenti dei soci delle cooperative, anch'esse assoggettate alle norme di cui agli art. 409 e ss. c.p.c.. La disposizione prevede che, qualora sia introdotta una di queste controversie «il giudice decide anche sulle questioni relative al rapporto associativo eventualmente proposte. Il giudice del lavoro decide sul rapporto di lavoro e sul rapporto associativo, altresì, nei casi in cui la cessazione del rapporto di lavoro deriva dalla cessazione del rapporto associativo».
Attraverso questa novità normativa si tiene conto delle ricadute processuali discendenti dal dualismo che caratterizza la figura del socio-lavoratore di cooperativa, in capo alla quale - secondo il modello tracciato dalla legge n. 142 del 2001 - coesistono più rapporti contrattuali: il rapporto associativo e il rapporto di lavoro. Senza alcuna ambizione innovativa, il legislatore ha così codificato un risultato cui si era soliti giungere sulla base di un orientamento giurisprudenziale della Corte di cassazione, laddove il criterio invalso per la ripartizione di competenza funzionale tra il giudice del lavoro e le sezioni specializzate in materia di imprese del tribunale era stato individuato nel petitum e nella causa petendi, con irrilevanza delle controdeduzioni del convenuto, salvo che da esse non emergesse l’artificiosità della prospettazione del ricorrente[2]. Per questa via, se il socio-lavoratore introduceva una causa censurando un atto, formalmente qualificato come delibera d’esclusione, ma sostanzialmente ritenuto da qualificarsi come licenziamento, la competenza del giudice del lavoro, salvo tesi pretestuose, non poteva essere fondatamente posta in discussione.
Con la disposizione in esame la questione di competenza pare trovare la propria soluzione a monte, fermo restando che, nel merito, la diversità di tutele da approntare in ragione della corretta qualificazione dell’atto censurato resterà impregiudicata e sarà fondata su un ulteriore orientamento che la Corte di cassazione ha perfezionato nel corso del tempo[3].
Infine, l'art. 441 -quater, rubricato «Licenziamento discriminatorio», prevede che «le azioni di nullità dei licenziamenti discriminatori, ove non siano proposte con ricorso ai sensi dell'articolo 414, possono essere introdotte, ricorrendone i presupposti, con i riti speciali. La proposizione della domanda relativa alla nullità del licenziamento discriminatorio e alle sue conseguenze, nell'una o nell'altra forma, preclude la possibilità di agire successivamente in giudizio con rito diverso per quella stessa domanda».
I riti speciali cui allude la disposizione vanno individuati in quelli disciplinati dagli art. 38 d. lgs. n. 198 del 2006 e dall’art. 28, d.lgs. n. 150 del 2011.
Poiché, in ogni caso, si tratta d’un’azione atta a censurare il licenziamento, è da ritenersi che l’introduzione del giudizio soggiaccia agli ordinari termini decadenziali previsti per l’impugnazione del recesso. D’altra parte, nella misura in cui la deduzione della discriminatorietà del licenziamento è frequentemente abbinata a quella d’altri vizi dell’atto datoriale, è da ipotizzare che l’ordinario rito del lavoro rimarrà la struttura procedimentale più diffusa, specie al fine di non prestare il fianco ad eccezioni del convenuto rispetto all’impiego del rito speciale per la proposizione di domande ulteriori rispetto a quelle relative alla discriminatorietà del licenziamento impugnato.
4. Il processo del lavoro da remoto e per iscritto
Benché non si tratti di disposizioni dedicate specificamente al processo del lavoro, non è poi possibile eludere un’analisi dei «nuovi» artt. 127-bis e 127-ter c.p.c.[4], con i quali il legislatore ha inteso stabilizzare la possibilità di svolgere l’udienza mediante collegamento audiovisivo a distanza o la possibilità di sostituire l’udienza mediante deposito e scambio di note scritte.
Ciò in quanto la collocazione sistematica delle due disposizioni, introdotte nel Libro I, Titolo IV “Degli atti processuali”, le rende senz’altro rilevanti al di là del processo ordinario di cognizione disciplinato dagli artt. 163 ss. c.p.c..
Si tratta di due strumenti noti, la cui genesi, come altrettanto noto, è legata all’emergenza pandemica della primavera del 2020. All’epoca, hanno rappresentato l’unico strumento in grado di consentire la prosecuzione dell’attività giudiziaria. Come la prassi ha però dimostrato, l’impiego di queste soluzioni si è protratto ben oltre la situazione strettamente emergenziale. Il legislatore, dunque, pare aver essenzialmente colto l’occasione per consacrare il positivo riscontro fornito dagli operatori rispetto a queste novità.
Nel far ciò, il legislatore ha previsto, all’art. 127-bis c.p.c., che «lo svolgimento dell'udienza, anche pubblica, mediante collegamenti audiovisivi a distanza può essere disposto dal giudice quando non è richiesta la presenza di soggetti diversi dai difensori, dalle parti, dal pubblico ministero e dagli ausiliari del giudice.
Il provvedimento di cui al primo comma è comunicato alle parti almeno quindici giorni prima dell'udienza. Ciascuna parte costituita, entro cinque giorni dalla comunicazione, può chiedere che l'udienza si svolga in presenza. Il giudice, tenuto conto dell'utilità e dell'importanza della presenza delle parti in relazione agli adempimenti da svolgersi in udienza, provvede nei cinque giorni successivi con decreto non impugnabile, con il quale può anche disporre che l'udienza si svolga alla presenza delle parti che ne hanno fatto richiesta e con collegamento audiovisivo per le altre parti. In tal caso resta ferma la possibilità per queste ultime di partecipare in presenza.
Se ricorrono particolari ragioni di urgenza, delle quali il giudice dà atto nel provvedimento, i termini di cui al secondo comma possono essere abbreviati».
Proiettando la disposizione nel processo del lavoro (e nel processo previdenziale), può ritenersi che di per sé l’unica udienza per cui sia precluso lo svolgimento a distanza sia quella in cui è prevista l’escussione di testimoni. Nulla osta, formalmente, a che il tentativo di conciliazione, l’interrogatorio libero delle parti, il conferimento dell’incarico al c.t.u. e la discussione, con lettura del dispositivo o della sentenza con motivazione contestuale, si svolgano attraverso il collegamento audiovisivo.
Sotto un profilo letterale, l’iniziativa rispetto alla scelta di procedere con questa peculiare modalità pare rimessa al giudice. Alle parti sarebbe concessa solo la facoltà di formulare un’opposizione in tal senso e il giudice deciderà in merito a tale opposizione sulla base dei criteri di «utilità» ed «importanza» della presenza delle parti, con la possibilità che l’udienza si tenga in forma mista, ossia per i richiedenti “in presenza” e per i non richiedenti “a distanza”.
Salve le considerazioni che si compiranno in seguito, se per un verso la norma si fa apprezzare per l’approccio pragmatico adottato – in effetti, non sempre la presenza delle parti in udienza assume rilievo nello sviluppo del processo -, deve al contempo osservarsi che le valutazioni in proposito si porranno, ragionevolmente, a monte della decisione del giudice di stabilire questa modalità di svolgimento dell’udienza, e non a valle ed in vista di una conferma del relativo decreto sollecitata dall’istanza di parte.
Inoltre, rispetto allo svolgimento dell’udienza in forma mista, non può tacersi come l’effettività del contraddittorio – prevista dal nuovo art. 196-duodecies disp. att. c.p.c. e identificabile nella perfetta percepibilità di quanto avviene davanti al giudice per tutti i partecipanti – dipenda da fattori del tutto contingenti, relativi alla dotazione informatica a disposizione del giudice e all’assetto strutturale del luogo in cui si svolge l’udienza. Per restare pragmatici, un corretto svolgimento dell’attività implica la disponibilità di un doppio schermo, di un sistema che consenta un flusso sonoro congruo e della disponibilità di una telecamera che consenta l’inquadratura contestuale del giudice e di quanti siano presenti davanti a lui. Nell’esperienza quotidiana, è noto come la disponibilità di quest’apparato organizzativo non sia scontata.
Quanto alla c.d. trattazione scritta, l’art. 127-ter c.p.c. prevede che «l'udienza, anche se precedentemente fissata, può essere sostituita dal deposito di note scritte, contenenti le sole istanze e conclusioni, se non richiede la presenza di soggetti diversi dai difensori, dalle parti, dal pubblico ministero e dagli ausiliari del giudice. Negli stessi casi, l'udienza è sostituita dal deposito di note scritte se ne fanno richiesta tutte le parti costituite.
Con il provvedimento con cui sostituisce l'udienza il giudice assegna un termine perentorio non inferiore a quindici giorni per il deposito delle note. Ciascuna parte costituita può opporsi entro cinque giorni dalla comunicazione; il giudice provvede nei cinque giorni successivi con decreto non impugnabile e, in caso di istanza proposta congiuntamente da tutte le parti, dispone in conformità. Se ricorrono particolari ragioni di urgenza, delle quali il giudice dà atto nel provvedimento, i termini di cui al primo e secondo periodo possono essere abbreviati.
Il giudice provvede entro trenta giorni dalla scadenza del termine per il deposito delle note.
Se nessuna delle parti deposita le note nel termine assegnato il giudice assegna un nuovo termine perentorio per il deposito delle note scritte o fissa udienza. Se nessuna delle parti deposita le note nel nuovo termine o compare all'udienza, il giudice ordina che la causa sia cancellata dal ruolo e dichiara l'estinzione del processo.
Il giorno di scadenza del termine assegnato per il deposito delle note di cui al presente articolo è considerato data di udienza a tutti gli effetti».
La disposizione forgia un meccanismo del tutto diverso da quello previsto dal collegamento audiovisivo a distanza. Se quest’ultimo lascia di per sé impregiudicata l’oralità e il confronto contestuale tra le parti, con la trattazione scritta essi vengono totalmente omessi in favore di un approccio cartolare.
La lettera della norma considera questo scambio come sostitutivo dell’udienza, ciò che induce ad escludere che, diversamente da quanto avvenuto sulla base della disciplina emergenziale, si debba far luogo alla fissazione d’una data d’udienza e alla redazione d’un verbale in sua coincidenza. Invero, il decreto con cui il giudice dispone la c.d. trattazione scritta pare avere natura “soppressiva” dell’udienza e, dal versante del magistrato, determina una situazione in tutto analoga a quella in cui, all’esito dell’udienza, questi decida di riservarsi. Ciò è suggerito anche dal fatto che egli debba provvedere entro trenta giorni dalla scadenza del termine per il deposito delle note, dies a quo da cui calcolare il termine per lo scioglimento di una sorta di “riserva ex lege”.
Va sottolineato che, in discontinuità rispetto al suo predecessore – l’art. 221, comma 4, decreto-legge n. 34 del 2020 –, l’art. 127-ter c.p.c. è applicabile non solo rispetto alle udienze in cui sia richiesta la presenza dei soli difensori, ma nelle stesse occasioni contemplate dall’art. 127-bis c.p.c..
Tuttavia, se va senz’altro escluso che con questo strumento farsi luogo all’interrogatorio libero delle parti, non pare che esso sia efficacemente applicabile neanche per procedere al tentativo di conciliazione. In questi termini, del resto, si è espresso anche l’Ufficio del Massimario della Corte di cassazione, la cui relazione in merito alla riforma indica in modo netto che «non sembra compatibile con l’udienza cartolare la nuova prima udienza ex art. 183 c.p.c., così come riformulata nel d.lgs. in esame, essendo previsto che le parti compaiano personalmente e che il giudice tenti la conciliazione ai sensi dell’art. 185 c.p.c. L’obbligo del tentativo di conciliazione appare incompatibile con la trattazione scritta». Sotto questo profilo, deve sommessamente osservarsi che il legislatore pare non aver tenuto conto né delle peculiarità del rito del lavoro né, per la verità, delle modifiche introdotte, con la medesima riforma, per il giudizio ordinario.
Allo stesso modo, se le note debbono contenere le sole istanze e conclusioni, esse, di per sé, non potrebbero ospitare argomentazioni quali quelle che tipicamente si collocano nella discussione orale, salvo non ritenere che il provvedimento che dispone lo scambio di note in luogo dell’udienza contempli quell’implicita valutazione sulla necessità di note difensive prevista dall’art. 429 c.p.c..
Rispetto alla discussione, va poi segnalato che l’art. 430 c.p.c. - in base al quale la sentenza doveva essere depositata in cancelleria entro quindici giorni dalla pronuncia - è stato riscritto, verosimilmente in funzione dello svolgimento cartolare della discussione medesima, nel senso che «quando la sentenza è depositata fuori udienza, il cancelliere ne dà immediata comunicazione alle parti». È uno schema non del tutto inedito nel processo del lavoro, in quanto sovrapponibile al modulo decisorio previsto dall’art. 1, comma 57, legge n. 92 del 2012, nella fase d’opposizione del rito Fornero.
L’elemento maggiormente significativo dell’istituto in esame è però relativo all’iniziativa rispetto alla sostituzione dell’udienza. Il dato testuale lascia spazio all’iniziativa ufficiosa del giudice ma, al contempo, pone in capo alle parti un apparente potere assoluto: la loro richiesta congiunta pare imporre al giudice di disporre assecondando la richiesta, senza che a tale indicazione si abbini una clausola espressa che gli consenta di disattendere la volontà delle parti, notoriamente irrilevante in materia processuale. Così elaborata la norma, una sua interpretazione letterale si rivela però del tutto insoddisfacente. Risulta di gran lunga preferibile un’esegesi che consenta al giudice, al quale compete “ancora”, ai sensi del precedente art. 127 c.p.c., il potere di direzione dell’udienza, ogni valutazione in vista di una congrua gestione della stessa, e dunque del processo, avendo come punto di riferimento non già le preferenze delle parti e dei loro difensori, ma la funzionalità delle forme processuali rispetto all’accertamento della verità materiale, obiettivo imprescindibile del processo del lavoro.
D’altra parte, questa lettura si salda con la circostanza che l’incombente sostitutivo dell’udienza sia ad essa assimilabile. Ne è testimonianza la predisposizione di un meccanismo affine a quello di cui all’art. 309 c.p.c. in caso d’inerzia delle parti.
Ragionando infine da un punto di vista più generale rispetto all’applicazione degli artt. 127-bis e 127-ter nel contesto in esame, non può sottovalutarsi che questi rappresentano altrettanti strumenti che consentono allo scenario forense d’affacciarsi alla modernità e, in particolare, alla possibilità indotta dalla tecnologia di ridurre – financo di annullare – la distanza fisica tra soggetti. Va quindi senz’altro valorizzato il fatto che, soprattutto mediante il collegamento audio-visivo a distanza, il difensore appartenente ad un foro distante da quello in cui si svolge il processo avrà la possibilità di partecipare alla discussione senza incontrare alcun ostacolo o onere. Trattasi di un’opportunità non trascurabile, specie in funzione della pienezza della difesa tecnica nei confronti della parte assistita. D’altra parte, non può nemmeno trascurarsi la funzionalità di entrambi gli strumenti qualora lo svolgimento del processo, specie in materia previdenziale, non implichi particolari valutazioni di fatto o giuridiche che la partecipazione delle parti o una discussione orale tradizionale potrebbero agevolare.
Tuttavia, pur senza accedere a sterili posizioni di retroguardia, va comunque considerato che, al di là dei dubbi interpretativi esposti, il trapianto di queste disposizioni nel contesto in esame, specie in quello lavoristico in senso stretto, deve pur sempre fare i conti con le peculiarità che lo contraddistinguono rispetto al contenzioso ordinario.
A parere di chi scrive, si impongono al giudice attente ed equilibrate valutazioni, utili ad evitare che l’impiego di questi strumenti pregiudichi la funzionalità del procedimento, assicurata, finora, dalla sua caratteristica principale, ossia l’oralità.
Con particolare riguardo al primo grado, l’oralità è un tratto che si rivela decisivo per procedere ad un adeguato tentativo di conciliazione e ad un proficuo interrogatorio libero delle parti. Come già accennato, l’esperienza quotidiana suggerisce che l’incontro effettivo tra le parti – e tra queste e il giudice – è spesso decisivo.
L’esito conciliativo – valorizzato dal legislatore anche ai fini della deflazione del contenzioso– è sicuramente agevolato dall’audizione della proposta conciliativa dalla “viva voce” del giudice, senza il filtro di uno schermo nel caso di udienza da remoto. Quanto alla trattazione scritta, al di là della sua incompatibilità con l’incombente, può invece rilevarsi che indurre le parti a meditare su un esito conciliativo, formulando la relativa proposta per iscritto, è un’ipotesi chimerica.
Rispetto all’interrogatorio libero, detto che esso è ontologicamente incompatibile con la c.d. trattazione scritta, non può negarsi che il suo svolgimento con collegamento da remoto non sia in grado di restituire alla parte e, soprattutto, al giudice - che dalle risposte può trarre elementi utili ai fini della decisione - un compendio di conoscenze complessivo equivalente a quello derivante da uno svolgimento in presenza dell’incombente.
È in ragione di questi aspetti, meramente esemplificativi, che la scelta di procedere con queste nuove modalità di gestione del dialogo fra le parti andrà compiuta sia tenendo conto dell’intrinseca differenza tra le stesse modalità alternative, sia del fatto che non sempre questi due strumenti – al di là della loro formale ammissibilità – sono in grado di assicurare il valore aggiunto garantito dalla comparizione delle parti e dei loro difensori, ossia da uno svolgimento dell’udienza in forma ordinaria e “classica”, ancora oggi del tutto preferibile per la materia in esame.
5. Le novità in merito al processo d’appello
La mancanza d’effettive innovazioni constatata rispetto al giudizio di primo grado può essere affermata anche con riguardo al giudizio d’appello, del quale il legislatore ha mantenuto inalterata la complessiva fisionomia delineata dal quadro normativo vigente. Esso è stato inciso – direttamente - solo da poche disposizioni e, per il resto, è stata disposta l’applicazione delle modifiche previste per il rito ordinario, in quanto applicabili[5].
È stato così parzialmente riscritto l’art. 434 c.p.c., il quale, pur continuando a fare rinvio all’art. 414 c.p.c. per la struttura dell’atto introduttivo, adesso stabilisce che, per ciascun motivo, debba essere indicato, a pena d’inammissibilità, in modo chiaro, sintetico e specifico: (i) il capo della decisione di primo grado che viene impugnato; (ii) le censure proposte alla ricostruzione dei fatti compiuta dal giudice di primo grado; (iii) le violazioni di legge denunciate e la loro rilevanza al fine della decisone impugnata.
Trattasi di una disposizione analoga a quella prevista per il giudizio d’appello dall’art. 342 c.p.c.. Con essa, e segnatamente mediante la sanzione dell’inammissibilità, la chiarezza e la sinteticità degli atti paiono assumere il rango di veri e propri requisiti di cui il difensore dovrà tenere conto nella redazione dell’atto, sebbene la sanzione in parola sia – realisticamente - prefigurabile solo allorché un loro deficit finisca per convertirsi in una mancanza di specificità dell’atto.
È poi interessante notare che con l’art. 436-bis c.p.c. - richiamato per ragioni sistematiche anche nel successivo art. 437 c.p.c., dedicato all’udienza di discussione - il legislatore ha introdotto nel giudizio d’appello, analogamente a quanto previsto dall’art. 429 c.p.c. per il processo di primo grado, la possibilità della definizione del giudizio mediante l’adozione di una sentenza con motivazione contestuale. Lo scenario è contemplato nelle ipotesi in cui l’appello sia inammissibile, improcedibile, manifestamente fondato o infondato. In questi casi è previsto che il collegio, all’udienza di discussione, sentiti i difensori delle parti, pronunci sentenza, dando lettura del dispositivo e della motivazione redatta in forma sintetica, anche mediate esclusivo riferimento al punto di fatto o alla questione di diritto ritenuti risolutivi o mediante rinvio a precedenti conformi. Se quest’ultimo profilo echeggia la previsione di cui all’art. 118 disp. att. c.p.c., il riferimento al punto di fatto o alla questione di diritto ritenuti risolutivi richiamano il c.d. principio della ragione più liquida, consolidato dalla giurisprudenza di legittimità in una prospettiva aderente alle esigenze di economia processuale e di celerità del giudizio.
È poi da constatare, in correlazione con le considerazioni sopra espresse rispetto all’applicazione dell’art. 127-ter c.p.c. nel processo del lavoro, che la locuzione «sentiti i difensori» pare alludere ad un’interlocuzione possibile solo in caso di discussione orale della causa. Detto che, come già osservato, il contenuto delle note di trattazione scritta non pare ex se idoneo a condensare le tipiche argomentazioni da svolgersi in sede di discussione, la lettera della norma in esame offre ulteriori motivi per dubitare che la definizione della causa possa “accontentarsi” di uno scambio scritto, non preceduto da un effettivo confronto dialettico tra le parti sollecitato dal giudice.
Infine, l’art. 438 c.p.c. prevede che nelle ipotesi diverse dall’art. 436-bis c.p.c., la sentenza deve essere depositata entro sessanta giorni dalla pronuncia e che il cancelliere è tenuto a darne immediata comunicazione alle parti. Se in precedenza il rinvio all’art. 430 c.p.c. imponeva il deposito della motivazione entro quindici giorni dalla pronuncia, la riforma consentirà, analogamente a quanto prevede per il processo di primo grado l’art. 429 c.p.c., di procedere al predetto deposito entro il più ampio termine di sessanta giorni.
[1] cfr. Cass., n. 16283/2004
[2] Cfr. Cass., n. 25237/2014
[3] Cfr., tra le altre e da ultimo, Cass., n. 35367/2021.
[4] Per un commento all’art. 127-ter c.p.c., si rinvia a F. Caroleo – R. Ionta, La trattazione scritta. La codificazione (art. 127-ter c.p.c.), in questa Rivista al link https://www.giustiziainsieme.it/it/riforma-cartabia-civile/2562-la-trattazione-scritta-la-codificazione-art-127-ter-c-p-c
[5] Per un commento alla riforma del giudizio d’appello, si rinvia a F. Petrolati, La riforma del processo civile in appello. Le disposizioni innovate dal D. Lgs. n. 149/2022, accessibile al link https://www.giustiziainsieme.it/it/riforma-cartabia-civile/2616-la-riforma-del-processo-civile-in-appello-le-disposizioni-innovate-dal-d-lgs-n-149-2022.