I fatti di reato – ipotizzati (art. 27 Cost.) – a carico degli imputati della vicenda Regeni sono noti, stante il clamore mediatico, l’impatto emotivo, le vicende politiche nei rapporti con l’Egitto (patria degli imputati), gli sviluppi giudiziari già maturatisi nelle decisioni di merito e culminati in una pronuncia della Corte di Cassazione che ha investito gli attuali giudici dell’udienza preliminare.
Sono altresì conosciuti i dati normativi di riferimento, del regime transitorio di cui all’art. 89 d. lgs. n. 150 del 2022 e la normativa applicabile al caso concreto alla luce delle modifiche introdotte agli artt. 420 – 420 sexies c.p.p. dalla riforma Cartabia.
Sono altresì conosciuti gli orientamenti della Corte europea dei diritti dell’uomo che hanno progressivamente inciso sulla disciplina del nostro sistema processuale (muovendo dalla risalente disciplina della contumacia), nonché la giurisprudenza interna delle sezioni unite che ha fornito una precisa ricostruzione dell’ambito di operatività del controllo sulle condizioni che consentono la celebrazione del processo in assenza.
Com’è noto e come anche risalenti vicende giudiziarie legate ai fenomeni del terrorismo e della criminalità organizzata hanno evidenziato, è necessario che si celebrino i processi nelle aule di giustizia nel pieno rispetto delle norme di legge, cioè, del principio di legalità.
Sotto questo profilo il punto di non ritorno al quale la situazione fattuale del processo Regeni è pervenuta è costituito dall’alternativa tra la celebrazione dell’udienza del processo a carico degli imputati, con la consapevolezza – non essendo mutati i presupposti fattuali (la piena conoscenza della vocatio) delle implicazioni negative dei suoi sviluppi, e la pronuncia di una decisione di improcedibilità ex art. 420 quater c.p.p.
Di fronte alla grave situazione delittuosa, pur prospettata (art. 27 Cost.), il rischio che la vicenda (emotivamente) evidenziava era quella del ricorso a scorciatoie interpretative con il rischio, ancorché circoscritto alla dolorosità e gravità della vicenda, di un abbassamento delle garanzie processuali, con il timore di creare un procedente interpretativo e ricostruttivo suscettibile di estensione, attraverso l’interpretazione della disciplina codicistica, oggi applicata – come si è visto (Cass. sez. un. I, 15.07.2022 n. 2322 dep. 9.02.2023) in modo “allo stato” rigoroso, al quale si accompagnano anche previsioni (contestate dall’avvocatura) nei gradi successivi di giudizio (art. 581, commi 1 ter e 1 quater, c.p.p.).
Le stesse perplessità sembravano e potevano prospettarsi, a fronte della richiesta di intervento risolutore della Corte Costituzione (come più volte di recente avvenuto) sulla quale, pur nell’autorevolezza dell’organo, potevano nascondersi le scelte finalizzate alla celebrazione di quel processo.
In altri termini, la volontà, l’esigenza, la necessità di celebrare quel processo poteva indurre ad interpretazioni che consentissero letture, ancorché circostanziate, pur tuttavia riduttive, della prevista e inequivocabile volontà del legislatore (in linea con l’orientamento europeo, pur nel differente approccio al tema del processo in assenza).
La questione di legittimità costituzionale nei termini nei quali è prospettata, anche tenuto conto del fatto che un’interpretazione costituzionalmente orientata non appare prospettabile, non è in grado di superare tutte le preoccupazioni, anche se bisognerà verificare i termini nei quali l’incidente dovesse essere accolto, cioè i termini della motivazione a supporto di una decisione di accoglimento.
La questione viene prospettata non tanto allargando gli spazi interpretativi che potrebbero consentire al giudice di considerare “ogni altro elemento che ... “ ma muovendo da fatto che la norma non consente di ricondurre nell’attuale disciplina la situazione particolare del caso Regeni.
I punti di riferimento costituzionale sono rappresentati dall’art. 24, commi 1 e 2, Cost., sotto il profilo della violazione della tutela in giudizio della persona offesa e dei danneggiati dei propri diritti; dall’art. 117 Cost., in relazione alla cooperazione tra Stati derivante dagli obblighi internazionali; dagli artt. 111 e 3 Cost., in relazione alla impossibilità di attuare la giurisdizione secondo le regole del giusto processo anche in relazione agli stessi imputati; dall’art. 112 Cost., nella misura in cui incide sull’esercizio dell’azione penale.
Il valore di queste norme costituzionali sono innervate dalla disciplina sovranazionale e internazionale connessa, soprattutto, in relazione ai reati particolarmente gravi (tortura, fra gli altri, facilmente riferibile al caso di specie) al dovere di collaborazione tra gli Stati (sono molteplici gli atti che l’ordinanza richiama).
Sulla base di questi elementi il giudice dell’udienza preliminare formula una richiesta di pronuncia additiva che aggiunge ai commi 2 e 3 dell’art. 420 bis, c.p.p., una nuova ipotesi nella quale, a fianco alle situazioni già delineate, quelle della mancata collaborazione latamente intesa (assistenza giudiziaria e rifiuto di cooperazione) dello Stato estero.
Ritenendo che i riferiti parametri costituzionali – integrati in se e rafforzati dal dovere internazionale della collaborazione - impongono di celebrare il processo, i giudici chiedono di affiancare alle due ipotesi delineate anche questa situazione specifica, omogenea in punto di mancata conoscenza della citazione in giudizio.
Va però sottolineata la differenza dei presupposti nei quali si inseriscono le due situazioni; l’una allarga pur circoscrivendole le situazioni di valutazione del giudice, con i paventati rischi di un ampliamento della “deroga” attraverso ampi spazi valutativi; l’altra, si inserisce in due situazioni specifiche e finalizzate aggiungendo una essa pure specifica, che conseguentemente si lascia preferire.
Tuttavia, ancorché quest’ultimo attenga ad una situazione specifica, peculiare, che i giudici costituzionali potranno circostanziare fortemente con tutti gli elementi di fatto di cui si connota la vicenda, concretamente, fattualmente, documentalmente nei confronti delle autorità egiziane, resta il fatto che le altre due situazioni sono legate al comportamento dell’imputato (latitanza e volontarietà) che nella vicenda attuale non si realizza, per l’interferenza dello Stato estero, lasciando presumere che i soggetti imputati, volontariamente (ancorché estranei alla vicenda, ma non di fatto i suoi elementi fattuali), non si attivano o si possano attivare.
Ci si potrebbe domandare se non era preferibile (superate evidenti resistenze politiche) negli stessi termini, un intervento del Parlamento con conseguente possibilità di una successiva abrogazione della norma (caso Gallo in punto di revisione) ovvero di rivisitazione della materia pur dichiarata incostituzionale (caso Dorigo in tema di recepimento della giurisprudenza della Cedu ex art. 628 bis c.p.p.).
Forse l’intervento dei giudici costituzionali, come in altri casi, consente a tutti, stante la loro collocazione istituzionale, il superamento di un passaggio sotto tutti i profili molto stretto che consentendo intanto la celebrazione del processo, sposta nel tempo tante altre questioni.