Il rinvio pregiudiziale, l’art. 1284 c.c. e il rapporto tra cognizione ed esecuzione: alcune riflessioni a margine di due recenti pronunce delle Sezioni Unite
Con due sentenze rese nello scorso mese di maggio, le Sezioni Unite della Suprema Corte tornano a confrontarsi con la giurisprudenza di merito, col nuovo strumento processuale del rinvio pregiudiziale ex art. 363bis c.p.c., su temi di rilevante portata nelle aule di Giustizia, quello degli interessi: nelle sentenze nn. 12449, resa il 7 maggio, e 12974, del 13 maggio, la questione sottoposta dai giudici remittenti (rispettivamente, Tribunale di Milano e Tribunale di Parma) riguarda la disciplina dei cd. ‘super-interessi’ di cui all’art. 1284 c.c.
Nei due procedimenti, la questione di diritto che viene in rilievo è sovrapponibile, tanto che con la seconda sentenza (n. 12974) la Suprema Corte ha rilevato la “inammissibilità sopravvenuta al decreto presidenziale di assegnazione del rinvio pregiudiziale” espressamente richiamando il principio di diritto enunciato con la sentenza n. 12449; inammissibilità che però più che a sanzione processuale per una qualche violazione di regole (come i processualisti considerano sovente la figura appunto della inammissibilità) induce a pensare a una specie di ‘ne bis in idem’ sorte per effetto della sottoposizione contemporanea di identica questione alla Corte, e che potrebbe indurre a riflettere sulla possibilità di una soluzione differente.
Tornando al primo giudizio (sentenza del 7 maggio), qui la questione posta al centro del rinvio pregiudiziale “è se la mera previsione degli «interessi legali» nella pronuncia di condanna da parte del giudice della cognizione, possa essere interpretata, per la parte di interessi decorrenti dopo il momento della proposizione della domanda giudiziale, nei termini del saggio di interessi previsto dal comma quarto dell’art. 1284 cod. civ., oppure se, per l’assenza di specificazioni nella decisione, il saggio degli interessi debba restare limitato a quello previsto dal primo comma della medesima disposizione.” La Corte esamina i diversi propri indirizzi emersi sin qui, a riprova della fondatezza del rinvio disposto dal Tribunale remittente (difatti il 1° comma dell’art. 363 bis, comma 1, prevede quale condizione di ammissibilità del rinvio, fra l’altro, che la questione non sia stata ancora «risolta» dalla Corte di Cassazione: il primo, in ragione del quale il mero richiamo a ‘interessi legali’ nel corpo della pronuncia di merito consente il collegamento al solo 1° comma dell’art. 1284 c.c., stante la portata generale della norma; un secondo, sorto in particolare nel settore giuslavoristico, che invece considera come predeterminata per legge nella misura del 4° comma dell’art. 1284 c.c. ogni indicazione di interessi legali che emerga in qualsivoglia giudizio, anche arbitrale.
Sullo sfondo delle sentenze della Cassazione e prima ancora del provvedimento di rimessione [1], vi è il dibattito giurisprudenziale, del quale lo stesso Tribunale rimettente da atto, sorto dopo l’introduzione della novella del 2014 (art. 17 comma 1 del D.L. 12 settembre 2014 n. 132 che appunto ha aggiunto i commi 4° e 5° dell’art. 1284 c.c.) con alcuni arresti della Suprema Corte si segno diverso. Ad esempio, in Cassazione civile Sez. II 7 novembre 2018 n. 28409 del si legge che “Il saggio d’interesse previsto dall’art. 1284, comma 4, c.c. si applica esclusivamente in caso di inadempimento di obbligazioni di fonte contrattuale, dal momento che, qualora tali obbligazioni derivino, invece, da fatto illecito o dalla legge, non è ipotizzabile nemmeno in astratto un accordo delle parti nella determinazione del saggio, accordo la cui mancanza costituisce presupposto indefettibile di operatività della disposizione”. A medesime conclusioni perviene Cassazione civile sez. II 25 marzo 2019 n. 8289, che ha inteso il quarto comma dell’art. 1284 c.c. come applicabile in correlazione a obbligazione pecuniaria che trova fonte in un contratto e anche se afferente ad obbligo restitutorio; in entrambe le statuizioni, veniva in rilievo il tema dell’equa riparazione per eccessiva durata del processo. Di diverso avviso la successiva ordinanza Sez. III del 3 gennaio 2023, secondo cui il quarto comma dell’art. 1284 c.c. si applica a qualsiasi obbligazione sia di origine contrattuale sia di altra natura, ivi comprese quelle da responsabilità extracontrattuale, e ciò al fine di impedire che l’eccessiva durata del processo sia di vantaggio per il debitore; qui la Suprema Corte, in un giudizio avente a oggetto domanda di ripetizione di indebito proposta dal correntista per la restituzione delle somme illegittimamente trattenute dalla banca, in forza delle clausole di un contratto di conto corrente dichiarate nulle, dopo aver evidenziato la differenza tra l’art. 1224 c.c. e art. 1284 comma 4 stesso codice, col primo che prevede il tasso di mora nelle obbligazioni pecuniarie, mentre “l’art. 1284 c.c., comma 4, riguarda invece solo il tasso degli interessi di mora per il periodo successivo all'inizio del processo: le due disposizioni hanno, quindi, un campo di applicazione differente.”, sottolinea l’esigenza, perseguita dal legislatore, di “scoraggiare l’inadempimento e rendere svantaggioso il ricorso ad inutile litigiosità, scopo che prescinde dalla natura dell'obbligazione dedotta in giudizio e che si pone in identici termini per le obbligazioni derivanti da rapporti contrattuali come per tutte le altre.”, e perciò che non è “possibile affermare, in generale, che l'art. 1284 c.c., comma 4, abbia di per sé un campo di applicazione limitato alle sole obbligazioni nascenti da rapporti negoziali.”, potendosi quindi ritenere estendibile, in via generale e astratta, ma anche a quelle nascenti da fatto illecito o da altro fatto o atto idoneo a produrle, valendo la clausola di salvezza iniziale (che rimette alle parti la possibilità di determinarne la misura) ad escludere il carattere imperativo e inderogabile della disposizione e non già a delimitarne il campo d'applicazione.
Ora, in questo quadro si muove la sentenza delle Sezioni Unite n. 12449, che ovviamente, dato il ‘tipo’ di procedimento per il quale è chiamata a intervenire, non prende posizione sul tema dei confini di applicabilità dei cd. ‘super-interessi’ (così definiti quelli di cui al 4° comma dell’art. 1284 c.c.) in senso sostanziale, ma si sofferma sul rapporto tra giudice dell’esecuzione e titolo esecutivo laddove quest’ultimo non specifichi a quali interessi debba farsi riferimento. Precisa invece la Corte il perimento entro il quale deve muoversi il giudice dell’esecuzione, al cospetto del titolo esecutivo giudiziale, il quale, pur nell’ambito attività di interpretazione (lato sensu, perché svolta in sede esecutiva), non ha poteri di cognizione, ma “deve limitarsi a dare attuazione al comando contenuto nel titolo esecutivo medesimo, mediante un’attività che ha, sul punto, natura rigorosamente esecutiva.”. E così esclude che l’attività interpretativa possa spingersi sino a identificare nella mera locuzione ‘interessi legali’ (o simile) contenuta nel titolo il riferimento all’uno (I comma dell’art. 1284 c.c.) o all’altro interesse (IV comma della stessa norma): ciò in quanto, precisa la Corte, “il quarto comma dell’art. 1284 non integra un mero effetto legale della fattispecie costitutiva degli interessi (cui la legge collega la relativa misura), ma rinvia ad una fattispecie, i cui elementi sono per una parte certamente rinvenibili in quelli cui la legge in generale collega l’effetto della spettanza degli interessi legali, ma per l’altra è integrata da ulteriori presupposti, suscettibili di autonoma valutazione rispetto al mero apprezzamento della spettanza degli interessi nella misura legale. Entro tali limiti, viene a stabilirsi una soluzione di continuità fra la fattispecie costitutiva dell’effetto della spettanza degli interessi legali in generale e quella degli interessi legali contemplati dal quarto comma dell’art. 1284. La relativa autonomia della fattispecie produttiva dei c.d. super-interessi (relativa perché contenente ulteriori elementi di specificazione), rispetto a quella produttiva degli ordinari effetti legali, fa sì che uno dei diversi profili oggetto di accertamento giurisdizionale, a seguito della introduzione della controversia con la deduzione in giudizio di un determinato rapporto giuridico, sia anche quello della ricorrenza dei presupposti applicativi dell’art. 1284, comma 4.”: dunque, da accertare in sede di cognizione, in relazione alle varie ipotesi che possano presentarsi (e che la Corte stessa cerca di individuare, in relazione ai presupposti applicativi) in ciascun caso concreto.
Perciò, precisa la Corte, “se il titolo esecutivo è silente, il creditore non può conseguire in sede di esecuzione forzata il pagamento degli interessi maggiorati, stante il divieto per il giudice dell’esecuzione di integrare il titolo, ma deve affidarsi al rimedio impugnatorio.”; e conclude affermando il seguente principio di diritto: “ove il giudice disponga il pagamento degli «interessi legali» senza alcuna specificazione, deve intendersi che la misura degli interessi, decorrenti dopo la proposizione della domanda giudiziale, corrisponde al saggio previsto dall’art. 1284, comma 1, cod. civ. se manca nel titolo esecutivo giudiziale, anche sulla base di quanto risultante dalla sola motivazione, lo specifico accertamento della spettanza degli interessi, per il periodo successivo alla proposizione della domanda, secondo il saggio previsto dalla legislazione speciale relativa ai ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali”.
Queste le coordinate all’interno delle quali si dovrà muovere il giudice rimettente: ma che, ovviamente, saranno tenute in attenta considerazione in ogni caso analogo, considerando che più che sulla disciplina dell’art. 1284 c.c., la statuizione, seppur resa in caso di rinvio pregiudiziale, offre spunti di notevole interesse nel costante dibattito tra giudice della cognizione e giudice dell’esecuzione, a prescindere dal ‘tipo’ di obbligazione che viene in rilievo. E che, ancora una volta, lascia trasparire l’esigenza, nella cognizione, di una motivazione completa in ogni sua parte, anche nella puntuale individuazione delle norme di legge da applicare alla fattispecie.
[1] Si tratta del decreto del giudice dell’esecuzione del Tribunale di Milano reso il 25 luglio 2023, con il quale è stata sottoposta alla Suprema Corte la seguente questione: “se in tema di esecuzione forzata – anche solo minacciata - fondata su titolo esecutivo giudiziale, ove il giudice della cognizione abbia omesso di indicare la specie degli interessi al cui pagamento ha condannato il debitore, limitandosi alla loro generica qualificazione in termini di "interessi legali" o "di legge" ed eventualmente indicandone la decorrenza da data anteriore alla proposizione della domanda, si debbano ritenere liquidati soltanto gli interessi di cui all'art. 1284 primo comma c.c. o - a partire dalla data di proposizione della domanda - possano ritenersi liquidati quelli di cui al quarto comma del predetto articolo”.