Sommario: 1. Si riaccende la “polemica” sul contributo di Piero Calamandrei al codice di procedura civile del 1940. – 2. Colloquiano studiosi e processualisti. – 3. Il tema discìvelato: i poteri del giudice.
1. Si riaccende la “polemica” sul contributo di Piero Calamandrei al codice di procedura civile del 1940
Occupandosi della storia del diritto processuale civile nel Novecento italiano, è fatale imbattersi nel lungo e densissimo processo di lettura di Piero Calamandrei – inteso come personaggio pubblico – e delle sue opere, dottrinali e “legislative”.
Ci si potrebbe dunque chiedere perché ora uno storico del diritto intenda ripensare questo processo noto, e più volte commentato, e ritenere di poter dare un qualche nuovo contributo di conoscenza.
Forse, una domanda ancora da porsi è non tanto cosa sia stato scritto su Calamandrei o chi abbia scritto cosa, ma perché un certo studioso, in un determinato momento, abbia sentito la necessità di formulare un giudizio, trarre una conclusione, correggere un'immagine; oppure se questa lunga riflessione non sia servita (anche) a parlare di qualcos'altro, meno evidente rispetto alla formidabile vicenda storica del codice di procedura civile del 1940.
Lo spunto l'ho trovato nella rinascita di una discussione che aveva preso le mosse pochi anni dopo l'emanazione del codice di procedura civile del 1940. Questa iniziale discussione fu una vera e propria polemica sulla natura del contributo calamandreiano al codice e, dunque, sul suo “vero” orientamento politico[1].
Stavolta sul palco, assieme a Calamandrei convitato di pietra, ci sono Michele Taruffo, Franco Cipriani e Giulio Cianferotti.
È il 2009, e sulle pagine delle due più antiche e prestigiose riviste italiane di diritto processuale civile si (ri)accende una serrata discussione.
Tutto parte da un lavoro di Girolamo Monteleone, Intorno al concetto di verità “materiale” o “oggettiva” nel processo civile[2].
Si tratta di un articolo in cui l'autore riflette sul fatto che concetti appartenuti, o dati per esclusivamente appartenuti, ad ordinamenti giuridici “defunti”, come quello della DDR, non siano poi così esotici, anche in paesi di (ora) indiscussa matrice democratica, come il nostro.
Per portare a termine questa comparazione, Monteleone sceglie la teoria processualistica per come illustrata, a suo dire, da Calamandrei e da Carnacini e quella del Kellner, commentatore dell'Ordinanza della procedura civile, emanata nel 1975 nella Repubblica democratica tedesca[3].
Ebbene, a parere dell'autore, “le analogie sono impressionanti. I capisaldi teorici sono identici: l'accertamento della verità materiale, il giudice attivo dotato di ampi ed insindacabili poteri, la funzione dell'avvocato, la collaborazione tra parti e giudice, oralità-immediatezza-concentrazione, ecc.”[4].
Questa “impressionante analogia” avrebbe poi trovato soluzione con il disfacimento, da un lato, della DDR e, dall'altro, con l'entrata in vigore della nostra Costituzione.
Nelle tredici pagine del lavoro di Monteleone, Michele Taruffo viene citato una volta sola, peraltro in nota, con il suo articolo Poteri istruttori del giudice e delle parti in Europa, apparso nel 2006 sulla “Trimestrale”, assieme a quello di Chiarloni, Il presente come storia: dai codici di procedura civile sardi alle recentissime riforme e proposte di riforma, sempre sulla “Trimestrale” del 2004[5].
Se alle figure di Calamandrei e Carnacini viene tributato l'omaggio dovuto a due maestri della processualistica[6], pur velatamente “accusati” di aver traghettato nel codice del 1940 il concetto di interesse pubblico, nella citazione di Taruffo e Chiarloni sembra nascondersi un vero bersaglio, anche se diverso da quello che ci si potrebbe immaginare.
Si comincia a sospettare, in effetti, che si parli dei padri nobili per alludere a questioni concrete, molto meno storiche ed assai più tecniche.
Comunque, a distanza di pochi mesi, sempre sulla “Trimestrale”, Michele Taruffo pubblica un severissimo commento al lavoro di Monteleone, sferzando con caustica ironia sia lo studioso che le idee[7].
Torneremo più avanti sul contributo di Taruffo.
Continuiamo invece a svolgere la catena degli eventi, oramai inarrestabile.
A stretto giro, sulla rivista da lui co-fondata, appare la risposta di Cipriani[8] che pure, stimolato da Taruffo, evoca un lavoro di Giulio Cianferotti[9].
Orbene, i contendenti (Monteleone, Taruffo, Cipriani) rimangono presto in due, visto che “l'iniziatore” della polemica, Monteleone, dopo aver inviato alla “Trimestrale” una stringata replica sulle “idee confuse del Prof. Taruffo”[10], tace.
La circostanza veramente interessante è che Taruffo, rispolverando la “trita polemica” sul “Calamandrei fascista o collaboratore del fascismo”[11] ne attribuisce la paternità a Franco Cipriani e non, come sarebbe stato legittimo attendersi, anche a Giovanni Tarello.
In questo senso abbiamo parlato di una continuazione dell'originario dibattito, intendendo una parziale (forse soltanto apparente) sostituzione di uno dei primi protagonisti con un altro.
Per quale ragione Taruffo evoca il giudizio di Franco Cipriani quando, come si sa, la questione del Calamandrei “fascista” e del codice “autoritario” è inizialmente frutto della riflessione tarelliana[12]?
Nel suo notissimo lavoro del 1977[13] Tarello imputò a Calamandrei un “ambiguo relativismo”, l'essere stato cioè un antifascista (in nessun luogo troviamo diversa affermazione), fautore però di una politica del diritto più o meno direttamente mutuata da Chiovenda e, dunque, autoritaria[14].
Più precisamente, Tarello legge il lavoro di Calamandrei dedicato alla relatività del concetto di azione e giunge ad individuare “l'operazione politica” condotta dal giurista in questi termini: “gli ordinamenti in cui più si è andati innanzi nella distruzione del diritto privato e nella lotta al diritto soggettivo, insinua Calamandrei, sono due: quello germanico nazista e quello sovietico: là le nuove concettualizzazioni dell'azione sono dunque idonee come strumenti di interpretazione e descrizione dell'intero ordinamento e della sua parte quantitativamente prevalente. In Italia, invece, l'autorità dello Stato si afferma come autorità della legge: perciò la concettualizzazione di Chiovenda non solo rispecchia di fatto, quantitativamente, gli aspetti prevalenti dell'ordinamento, ma deve anche presiedere alla riforma e alla sua interpretazione”[15].
Nel 1973, nel primo numero dei “Materiali”, Tarello aveva già dedicato un lungo contributo alla figura di Chiovenda[16].
Se ne ricava un'impressione difficile da decifrare: da un lato, Chiovenda è senz'altro dipinto come l'anima antica del codice di procedura civile fascista[17]; dall'altro, è visto come il più feroce guardiano della supremazia della legge[18], della legalità, anche lui “assillato dalla legalità”, come più tardi sarà il suo allievo Calamandrei.
È stato forse Paolo Grossi, in un contributo uscito sempre nel 2009, a restituire al meglio la fede profondissima di Calamandrei nella legge[19]; qui vale la pena riportare un passaggio che ci aiuterà poi a dipanare la nostra vicenda: “egli [Calamandrei] è legalista anche perché gli fanno orrore le vicine esperienze europee totalitarie, la nazista e la sovietica, dove si ben oltre gli orientamenti del 'diritto libero' di marca kantorowicziana e dove il giudice, soltanto perché ferreamente aderente alla ideologia dominante, può permettersi un arbitrio pressoché illimitato. Calamandrei ritorna parecchie volte sul punto, facendo continui riferimenti alla Germania nazional-socialista e alla Russia sovietica, spettri da esorcizzare percorrendo una strada protetta dagli argini alti di un rigido legalismo”[20].
2. Colloquiano storici e procesualisti
Evidentemente, c'è qualcosa che non torna.
Abbiamo visto Monteleone giudicare Calamandrei come uno dei forgiatori dell'idea di giudice occhiuto e senza limiti, che facilmente può scavalcare le maglie del codice per cercare la verità anche oltre le allegazioni di parte.
Tarello invece scinde nel pensiero calamandreiano la paura dei regimi totalitari e la necessaria vocazione chiovendiana del nostro codice di procedura, baluardo (fascista?) della legalità.
Grossi trova uno dei motivi forti del legalismo di Calamandrei proprio nella volontà di prendere le distanze dalle derive del nazismo e del socialismo reale.
Riprendiamo allora, forti di questi primi indizi, il tagliente commento che Taruffo indirizza a Monteleone ed in cui si trova, ma altri ne troveremo, un'impressionante moltiplicazione di aggettivi, quasi il “cumulo aggettivale” di cui si ricorda come maestro William Faulkner[21].
Ecco dunque che Taruffo e Chiarloni sono “pericolosi eversori antidemocratici”[22]; l'accusa di fascismo, mossa a Calamandrei è (con le parole di Galante Garrone) “inconsistente, stolida e malvagia”[23]; l'iniziativa di far pubblicare in Italia I volti della giustizia e del potere. Analisi comparatistica del processo di Mirjan Damaška è “surrettiziamente eversiva”[24]; e viene citato Giulio Cianferotti, “uno storico serio e documentato e non mosso da pregiudizi ideologici”[25].
Il confronto tra Calamandrei, Carnacini, Taruffo, Galante Garrone, Cianferotti, Damaška, da una parte, e Monteleone dall'altra, assomiglia molto ad una crociata, in cui le forze del “bene”, sotto l'egida di un santificato Calamandrei, sfidano le forze del “male”, negatrici di una versione storica che appare dibattuta ma che, in fin dei conti, tale non dovrebbe essere.
Eppure Taruffo sceglie di chiamare in soccorso il quasi coevo lavoro di Cianferotti, lo storico “serio e documentato e non mosso da pregiudizi ideologici”.
Come dire che lo storico mosso da pregiudizi ideologici non è né serio né documentato il che, temiamo, sia conclusione un po' frettolosa.
Non vogliamo qui entrare in vicende complesse, che ci porterebbero ben fuori dalla rotta che ci siamo prefissati; dobbiamo però tenere a mente che Taruffo invoca il lavoro di Cianferotti non solo perché poggia su solide basi di ricerca ma anche perché è concepito da un autore “immune dal pregiudizio ideologico”.
Floriana Colao, nel suo contributo dedicato alla “vigilia” dell'entrata in vigore del codice di procedura civile, notava però che “la polarità tra autoritarismo e liberalismo come 'ideologie' del processo civile non sembra dunque una chiave di lettura appagante per leggere il pensiero di Calamandrei […]. Dal 1920 la mediazione tra interesse individuale e pubblico, autonomia privata e poteri del giudice, segnava l'impegno di Calamandrei nel processo riformatore approdato al codice del 1940”[26].
Il contributo di Taruffo gioca invece tutto sulla polarità (“fascisti”/”comunisti”; “buoni”/“cattivi”; “eversori”/“conservatori”) ma, per “segnare il punto”, chiama in aiuto lo studioso “non mosso da pregiudizi ideologici”.
Leggiamo allora, con le parole di Taruffo, il contributo di Giulio Cianferotti: “[l'autore] illustra una tesi di fondo perfettamente condivisibile, secondo la quale Calamandrei non solo non fu interprete di una ideologia fascista del processo civile (ideologia che – aggiungo io – non esisteva neppure), ma operò nel senso di evitare che il codice seguisse la deriva dell'ideologia nazista che – quella sì – implicava la violazione dei principi fondamentali dello Stato di diritto”[27].
Cianferotti ricostruisce il rapporto tra Calamandrei ed il codice di procedura partendo dalla “cronaca martellante” che il giurista tiene degli “attacchi che si succedevano al principio di legalità” e della “crisi dell'ordinamento giuridico contemporaneo, e di quel concetto di diritto soggettivo, che finora ne costituiva il pilastro centrale ed ora era oggetto della aperta guerra mossa dalla dottrina e dalle riforme del processo civile nella Germania nazionalsocialista e nella Russia sovietica”[28]; da questa preoccupazione, con lo sguardo volto al “pauroso orizzonte d'Oltralpe”[29], Calamandrei trae la forza per condurre “una battaglia di posizione, di difesa statica dei principi dello Stato di diritto”[30].
Secondo Cianferotti, dunque, “la tesi storiografica delle 'cattive azioni' di Calamandrei, dell'ambiguità 'dei suoi atteggiamenti culturali e dei suoi ruoli istituzionali', della sua presunta riduzione del principio di legalità, della 'autorità della legge', ad affermazione della 'autorità dello Stato', di aver partecipato alla redazione di un 'codice illiberale e autoritario' e averne scritto la Relazione ministeriale, troppo 'sfacciatamente fascista', 'dichiaratamente ed ostentatamente fascista', 'fascistissima', non pare considerare quella particolare tecnica letteraria […] 'in cui la verità sulle questioni cruciali appare esclusivamente tra le righe'; non pare tenere conto dei diversi livelli di senso che quella scrittura cela e disvela ad un tempo”[31].
A questo punto, dobbiamo introdurre l'ultimo studioso in gioco, ossia Franco Cipriani, considerato da Taruffo l'agitatore della polemica sul “Calamandrei fascista”.
Cipriani, nel suo intervento, si confronta molto garbatamente con Cianferotti, in parte condividendo, in parte criticando la “nuova interpretazione di Calamandrei”.
Il discorso, ovviamente, riserva considerazioni ben più caustiche all'indirizzo di Taruffo.
Cipriani tiene soprattutto a precisare di non aver mai considerato Calamandrei un fascista ma di aver semmai sostenuto che questi collaborò con il fascismo[32], collaborò alla stesura di un codice dal carattere “illiberale e autoritario”, disseminato di criticabili istituti[33] che, peraltro, nemmeno il passaggio ad uno Stato costituzionale sembra riuscito ad eliminare[34].
L'interpretazione di Cianferotti, sottolineando, secondo Cipriani, che “nel 1939-40 ci si trovava in una dittatura, di fronte alla quale Calamandrei dovette fare non poche piroette”, corrobora la sua idea: “io sto dicendo e ridicendo che Calamandrei collaborò con Grandi nel varare un codice illiberale e autoritario, ma ho sempre precisato che egli non poteva certo permettersi di rifiutare di collaborare e che il carattere illiberale e autoritario del codice non fu certo voluto o deciso da lui. Anzi, ho sempre dato atto che, dai documenti dell'epoca, risulta con innegabile evidenza che egli fece il possibile per limitare i danni per i diritti delle parti”[35].
Insomma, conclude Cipriani, “Taruffo non aveva motivo di oppormi tanto entusiasticamente l'interpretazione di Cianferotti”.
C'è però un passaggio del contributo di Cipriani che ci mette, almeno in parte, sull'avviso.
L'autore ammette che la sua interpretazione non abbia avuto grande successo tra i processualcivilisti, principalmente a causa del fatto che essi “preferiscono non ammettere che il codice fosse illiberale e autoritario: essi, infatti, pongono il codice al di fuori del tempo e dello spazio, limitandosi a ricordare che lo si varò con l'aiuto di Calamandrei, Carnelutti e Redenti, tre nomi che a loro avviso sarebbero una garanzia della assoluta neutralità ideologica del codice”[36].
Ritorna dunque il concetto di neutralità, di “neutralità ideologica”.Vi è dunque chi ha tentato di ricostruire la vicenda di Calamandrei e del codice di procedura in termini potentemente ideologizzati, come Giovanni Tarello; chi ha scisso la vicenda umana del giurista da quella legislativa, o meglio, l'operazione condotta dai tecnici del diritto da quella “di facciata”, promossa da Grandi e dal regime. E sappiamo ormai bene, proprio grazie alla riflessione di Giulio Cianferotti e Franco Cipriani, che l'insegnamento chiovendiano servì a qualcosa di “altro”, rispetto all'idea forse troppo semplice del grande maestro che addirittura precorre con la sua teoria l'inverarsi del nuovo codice di procedura[37].
Abbiamo ripercorso, seppur sinteticamente, il contenuto degli scritti che hanno animato la “seconda trita polemica” e possiamo ora chiederci se questo dialogare non abbia al suo interno anche una voce ulteriore, nascosta dal dibattito su Calamandrei ma ad esso, quasi furtivamente, intrecciata.
Cosa è accaduto nel nostro, dottrinalmente vivacissimo, anno 2009?
3. Il tema disvelato: i poteri del giudice
Cosa può aver spinto Monteleone a riflettere su analogie tra il nostro processo civile e quello della ex DDR? Cosa può aver spinto Taruffo a difendere, chiamando in aiuto Giulio Cianferotti, la figura di Calamandrei da qualunque sospetto di “fascismo” e Cipriani a ribadire la sua sostanziale estraneità a questa lettura politica del giurista fiorentino?
La risposta, forse parziale ma assai suggestiva, la troviamo nella recensione che Bruno Cavallone dedica ad un lavoro di Taruffo, La semplice verità. Il giudice e la costruzione dei fatti, uscito per Laterza giust'appunto nel 2009[38].
Cavallone polemizza amichevolmente con Michele Taruffo, sul “tema inesauribile dell'accertamento della verità nel processo”[39] e, “polemizzando”, ci dà ottimi spunti di riflessione.
Il “tema dei poteri istruttori del giudice”, ci ricorda Cavallone, trae origine da una distinzione “inventata” dalla dottrina tedesca e coltivata anche da noi, tra “principio dispositivo” e “principio inquisitorio”, quest'ultimo da intendersi in senso solo “processuale o improprio”[40].
Cavallone racconta: “è accaduto così che, nei convegni internazionali di qualche decennio addietro, si sia spesso e ampiamente discettato dei poteri istruttori del giudice (civile), e dunque del confronto tra il giudice 'attivo' nella ricerca della verità e quello 'passivo', cioè ridotto al ruolo di spettatore inerte delle iniziative probatorie delle parti, come del discrimine più significativo tra i sistemi processuali 'privatistici' o 'individualistici' o 'liberali' (cioè conservatori) e quelli ispirati ad opposte ideologie 'pubblicistiche' o 'sociali' (dunque in linea di massima più evoluti, purché non sospettabili di 'autoritarismo', di destra o di sinistra)”[41].
Ecco dunque che alcune parti della nostra narrazione tornano in maniera inaspettata, ecco riapparire parole, aggettivi, concetti che abbiamo già incontrato: ricerca della verità, sistemi privatistici o pubblicistici, destra o sinistra.
Ma proseguiamo nella lettura di Cavallone.
Dopo aver dato atto che Taruffo conferma, anche in questo ultimo lavoro, la sua tesi tradizionale, secondo la quale l'esigenza di accertamento della verità presuppone “un incremento dei poteri del giudice”[42], l'autore ricorda opportunamente che nel codice del 1940, tacciato di autoritarismo anche per aver previsto, giust'appunto, un rafforzamento dei poteri del giudice[43], non vi era traccia di elementari strumenti di accertamento probatorio, come ad esempio quello di poter ordinare alle parti l'esibizione di documenti citati ma non prodotti[44].
Si giunge così ad un'equazione (apparentemente) solida, ovvero maggiori poteri del giudice uguale codice autoritario, o la sua variante politica, ovvero Calamandrei “ideatore” del codice autoritario uguale Calamandrei fascista.
È immediata la reazione di fastidio che proviamo di fronte a questa semplificazione, che però ci induce a domandarci come mai si sia finito con il mescolare, assai malamente, una questione di tecnica giuridica, come l'articolazione dei poteri istruttori del giudice, con quella del giudizio (politico) su Piero Calamandrei.
È ancora Cavallone a darci un buon indizio.
“A questo punto mi sembra però doveroso esprimere a Michele consenso e solidarietà su due non trascurabili aspetti delle sue posizioni […]. Il secondo concerne […] le polemiche riaccesesi in questi anni, nella dottrina italiana e in quella iberica, circa il presunto significato 'autoritaristico' e 'antidemocratico' dei poteri istruttorii del giudice civile. Anche qui credo che Taruffo abbia ragione nel negarlo, e abbia fatto bene (in uno scritto recentissimo) a difendersi vivacemente dalle accuse di vetero-comunismo rivoltegli da quelli che egli definisce 'neo-vetero-liberali' […].
All'inasprimento e alla scarsa chiarezza di questo dibattito hanno probabilmente contribuito due importanti fattori negativi. L'uno, di carattere storico-politico, è quello dell'essersi la polemica intrecciata con quella relativa alla matrice culturale del codice Grandi […], e alla coerenza politica e morale di Piero Calamandrei, che di quel codice fu 'relatore' e in larga parte estensore”[45].
Dunque l'idea di partenza, che dietro le varie polemiche su Calamandrei si celasse altro, trova almeno parziale conferma.
Parziale nel senso che discutere su Calamandrei non serve a “nascondere” un altro tema, come avevamo ipotizzato, bensì discutere su Calamandrei – almeno in un dato periodo della dottrina processualcivilistica italiana – equivale a discutere del tema dei poteri istruttori del giudice[46].
Naturalmente, ne discutono appunto i processualcivilisti che a volte, lo abbiamo visto, coinvolgono anche gli storici del diritto.
Riprendendo il contributo di Taruffo sui poteri probatori delle parti e del giudice, si capisce però che questa commistione è epistemologicamente sterile e del tutto inidonea a descrivere sia i modelli processuali che la forma di Stato in cui questi modelli si sono collocati.
Secondo Taruffo, infatti, “non esiste alcuna connessione tra l'attribuzione al giudice di più o meno ampi poteri di iniziativa istruttoria e la presenza di regimi politici autoritari ed antidemocratici […]. Ancora una volta, tuttavia, emerge l'esigenza fondamentale di evitare confusioni concettuali ed ideologiche: un sistema può non ispirarsi all'ideologia del liberalismo ottocentesco, senza con questo cessare di essere democratico, e soprattutto senza diventare autoritario o totalitario sol perché si attribuisce al giudice un ruolo attivo nell'acquisizione delle prove”[47].
Si capisce che Taruffo, inizialmente, sarebbe propenso a tralasciare del tutto il complicato intreccio tra tecnica processuale, ossia poteri del giudice, e politica legislativa, ossia Piero Calamandrei.
Però poi, nel 2009, anche lui non può fare a meno di gettarsi in questa irresistibile controversia, spiegando di fronte al lettore la scacchiera con i bianchi e con i neri.
È possibile dunque che la citazione del lavoro di Cianferotti, lo studioso scevro da pregiudizi ideologici, abbia consentito a Taruffo di “giocare” la grande partita dell'interpretazione di Calamandrei, anche con uno strumento concettuale di non esclusiva appartenenza processualcivilistica e, dunque, con uno strumento non segnato dal binomio tecnica/politica del diritto.
Alla fine, che sia questo un intreccio più o meno inossidabile, ce lo ricorda proprio il nostro convitato di pietra.
Nel 1951, parlando della teoria di un “maestro del liberalismo processuale”, James Goldschmidt, Calamandrei dice che “nel processo civile […] due concezioni si contrastano il campo (ma spesso vengono a patti e se lo dividono): quella che affida la ricerca della verità alla responsabilità e alla discrezione del giudice, dinanzi al quale le parti appaiono come oggetto passivo di indagini alla mercé dell'interesse pubblico, e quella che affida lo svolgimento del processo soprattutto allo stimolo dei contrapposti interessi di parte, e che conta, per la riuscita della giustizia, sulla collaborazione e sulla responsabilità dei contendenti […]. È noto che questi due modi di concepire la amministrazione della giustizia (il processo inquisitorio e il processo dispositivo), sono proiezioni nel campo della tecnica processuale di due diversi modi di concepire lo Stato e le relazioni che passano tra l'interesse pubblico e l'interesse individuale, tra l'autorità e la libertà dei cittadini”[48].
Siamo però oramai fuori dalla drammatica stagione della dittatura e della guerra e al Calamandrei dell'ultimo scorcio nessuno rimprovera forse più nulla.
Anzi, proprio la scelta di rileggere la teoria processualistica del Goldschmidt dà ragione a Paolo Grossi, quando afferma che “ora, davanti all'osservatore lucido del proprio tempo c'è solo la storia, la storia di tutti i giorni con il suo fardello di miserie reali, con i suoi segni che l'intellettuale è chiamato a leggere malgrado il loro messaggio disperante”[49].
E questa maggiore semplicità – che non è ovviamente semplicismo ma straordinaria capacità di lettura e di sintesi – si ritrova anche in uno degli ultimi contributi di Piero Calamandrei sul giudice istruttore.
Siamo nel 1955 e si parla ancora di concezione pubblicistica e privatistica del processo civile, di come il codice del 1942 sia un codice ispirato alla prima concezione, “per la quale anche il processo civile persegue uno scopo di pubblico interesse”[50].
Però si parla anche di avvocati che rimpiangono il codice del 1865, quando si poteva “fare tranquillamente l'avvocato” rimanendo nel proprio studio “a ricevere i clienti e a studiare le cause”[51].
Oppure di giudici istruttori che “o per timidezza o per comodità, non si servono neanche dei poteri che hanno”, nonostante alcuni avvocati li considerino “espressione di un eccessivo autoritarismo”[52].
L'occhio di Calamandrei contempla, ormai con la veggenza dei saggi, ciò che pure si cela dietro alle grandi battaglie ideologiche, politiche e dottrinali.
Non ci sono solo le umane piccolezze, ma è importante non dimenticarle: “la conclusione di queste mie osservazioni vuole essere ancora una volta un richiamo alla sincerità e alla chiarezza di idee”[53].
Speriamo di aver dato seguito meglio possibile al monito di Piero Calamandrei.
[1] Sul punto si vedano almeno M. Taruffo, La giustizia civile in Italia dal '700 ad oggi, Bologna 1980; G. Tarello, Dottrine del processo civile. Studi storici sulla formazione del diritto processuale civile, Bologna 1989; F. Cipriani, Storie di processualisti e di oligarchi. La procedura civile nel Regno d'Italia (1866-1936), Milano 1991; Id., Piero Calamandrei e la procedura civile, Napoli 2009; Id., Piero Calamandrei, la Relazione al re e l'apostolato di Chiovenda, in “Rivista trimestrale di diritto e procedura civile”, LI (1997), pp. 749-765. Per una primissima indicazione bibliografica, G. Stanco, Il processo civile in Italia e la dicotomia tra diritto pubblico e diritto privato (XIX-XX sec.), in “Judicium Il processo civile in Italia e in Europa”, 2021 [https://www.judicium.it/wp-content/uploads/2021/12/G.-Stanco-1.pdf].
[2] In “Rivista di diritto processuale”, LXIV (2009), pp. 1-13.
[3] “Si è qui scelto il pensiero di due autorevoli rappresentanti della nostra dottrina processuale sia perché essi rappresentano in modo esemplare una concezione del processo e della giurisdizione civili tutt'ora ben presente e seguita, sia perché essa ebbe sicuramente ad influenzare la stesura del codice, come fedelmente testimonia la sua relazione di accompagnamento” (ibid., p. 8).
[4] Ibid., p. 8.
[5] In realtà, M. Taruffo, Poteri probatori del giudice e delle parti in Europa, in “Rivista Trimestrale di diritto e procedura civile”, LX (2006), pp. 431-432; S. Chiarloni, Il presente come storia: dai codici di procedura civile sardi alle recentissime riforme e proposte di riforma, in “Rivista trimestrale di diritto e procedura civile”, LVIII (2004), pp. 447-472.
[6] “Sarebbe, però, ingeneroso criticare con il facile senno di poi quei nostri maestri predecessori che maturarono le loro convinzioni in epoca diversa e in un tessuto normativo egualmente diverso da quello odierno. Non si può rimproverare loro di non aver saputo prevedere il futuro, e quindi restano immutati, pur nel dissenso, la devozione ed il rispetto loro comunque dovuti” (G. Monteleone, Intorno al concetto cit., p. 11).
[7] M. Taruffo, Per la chiarezza di idee su alcuni aspetti del processo civile, in “Rivista trimestrale di diritto e procedura civile”, LXIII (2009), pp. 723-730. Segue una postilla, a firma di Federico Carpi ed Umberto Romagnoli, ad ulteriore difesa del maestro Tito Carnacini, pure tirato in ballo da Monteleone.
[8] F. Cipriani, Una nuova interpretazione di Calamandrei, in “Il giusto processo civile”, III (2009), pp. 947-959.
[9] G. Cianferotti, Ufficio del giurista nello Stato autoritario ed ermeneutica della reticenza. Mario Bracci e Piero Calamandrei: dalle giurisdizioni d'equità della grande guerra al codice di procedura civile del 1940, in “Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno”, 2008 (37), pp. 259-323.
[10] L'intervento di Taruffo viene giudicato “uno scomposto e pesante attacco personalistico dai toni sempre scortesi o eccessivi, talvolta fin'anche ingiuriosi” (G. Monteleone, Le idee confuse del Prof. Taruffo, in “Rivista Trimestrale di diritto e procedura civile”, 2009 (LXIII), p. 1139.
[11] M. Taruffo, Per la chiarezza cit., p. 724.
[12] Bisogna naturalmente tenere a mente che “definiva 'oggettivamente' vicini al fascismo i giuristi che si discostavano dalla concezione liberale ottocentesca del processo G. Tarello, Quattro buoni giuristi per una cattiva azione […]. Soprattutto Cipriani verso la fine degli anni Ottanta ha insistito sul contributo di Calamandrei ad un codice autoritario” (F. Colao, Piero Calamandrei e la “vigilia” della riforma della giustizia civile. Dalla Prolusione del 1920 per “Studi Senesi” al codice del 1940, in “Rivista di Studi Senesi” CXXXII (2020), p. 33 nt. 122).
[13] G. Tarello, Quattro buoni giuristi per una cattiva azione, in “Materiali per una storia della cultura giuridica”, VII (1977), pp. 147-167.
[14] “Nella formazione spirituale del Calamandrei erano stati operanti non pochi elementi (l'autoritarismo statalistico, il nazionalismo, l'élitismo) che sarebbero di lì a poco confluiti nell'ideologia del regime fascista. Anche le prime prese di posizione politiche del giurista (l'acceso interventismo, e poi le simpatie nazionalistiche e l'antisocialismo) erano quelle comuni a tanti membri della giovane borghesia del periodo della prima guerra mondiale, destinati a divenire gli operatori ed i quadri del regime fascista. Al fascismo tuttavia Calamandrei non solo non aderì (se non formalmente, quando ciò divenne obbligatorio pena la perdita della cattedra), ma anzi ne fu tenace e più tardi tenace e coraggioso e cospirativo avversario” (ibid., p. 158).
[15] Ibid., pp. 161-162. Il riferimento è a P. Calamandrei, La relatività del concetto di azione, ora in Id., Opere giuridiche, vol. I, Roma 2019, pp. 427-449.
[16] G. Tarello, L'opera di Giuseppe Chiovenda nel crepuscolo dello Stato liberale, in “Materiali per una storia della cultura giuridica”, I (1973), pp. 681-787.
[17] “L'opera di Chiovenda si colloca chiaramente agli albori di una tendenza ideologica e istituzionale, nell'Italia del primo ventennio del secolo, al ribaltamento dei presupposti e dei principi organizzativi dello stato liberale, nella direzione di una organizzazione statale autoritaria […]. Non intendo fare qui la storia della fortuna di Chiovenda; essa coincide con la storia della riforma del processo civile del regime fascista” (ibid. p. 787).
[18] “Con un codice di procedura semplice quale quello di allora […], preparava, col 'sistema', una legislazione che con la scusa di dare più poteri direttivi al giudice lo avrebbe costretto in una fitta maglia di formule legislative concettualistiche tali da rendergli difficile capire quando il potere c'è e quando non c'è; e, con una legge processuale onnipervadente, il giudice avrebbe avuto con l'apparenza di più potere direttivo ben maggiore soggezione alla legge processuale” (ibid., p. 760).
[19] P. Grossi, Lungo l'itinerario di Piero Calamandrei, in “Rivista trimestrale di diritto e procedura civile”, LXIII (2009), pp. 865-885.
[20] Ibid., pp. 873-874.
[21] “Da un po' dopo le due sin quasi al tramonto del lungo immoto afoso estenuato morto pomeriggio di settembre rimasero seduti in quello che Miss Coldfield chiamava ancora l'ufficio perché così l'aveva chiamato suo padre - una buia stanza calda senz'aria con le persiane tutte chiuse e inchiavardate da quarantatré estati” (W. Faulkner, Assalonne, Assalonne!, Milano 2001, p. 1).
[22] M. Taruffo, Per la chiarezza cit., p. 724.
[23] Ibid.
[24] Ibid., p. 726.
[25] Ibid., 725.
[26] F. Colao, Piero Calamandrei e la “vigilia” cit., pp. 26-27.
[27] M. Taruffo, Per la chiarezza cit., p. 725.
[28] G. Cianferotti, Ufficio del giurista cit., pp. 273-275.
[29] Ibid., p. 330.
[30] Ibid.
[31] Ibid., pp. 289-291.
[32] “Taruffo non ha precisato quando e dove avrei parlato o scritto di 'Calamandrei fascista', ma non credo che avrebbe potuto farlo, perché io, in verità, non solo non ho mai fatto una simile affermazione, ma ho sempre tenuto fuori discussione che Calamandrei non è mai stato fascista. Ho invece più volte detto e scritto che Calamandrei collaborò col fascismo, ma trattasi di un'affermazione che non so come possa essere seriamente contestata, atteso che è storicamente certo che egli collaborò col guardasigilli fascista Dino Grandi nella preparazione del c.p.c. del 1940, dell'ordinamento giudiziario del 1941 e del c.c. del 1942” (F. Cipriani, Una nuova interpretazione cit., p. 947).
[33] “Giudice istruttore, valanga di termini perentori, preclusioni, nullità ed estinzioni, poteri discrezionali del giudice, anche di ordinare l'ispezione corporale dei terzi, sostituzione delle sentenze appellabili con le ordinanze inimpugnabili, divieto di impugnare immediatamente le parziali, ivi compreso quelle su domanda”( ibid., p. 955).
[34] Si pensi all'art. 70, che prevede la partecipazione obbligatoria del pubblico ministero, ad esempio, nelle cause matrimoniali o relative allo stato ed alla capacità delle persone e che gli consente di intervenire “in ogni altra causa in cui ravvisa un pubblico interesse”. L'art. 118, che consente al giudice di disporre ispezioni corporali sulle parti e sui terzi; se si rifiuta la parte, può essere condannata al pagamento di una pena pecuniaria “da euro 500,00 a euro 3.000”, se si rifiuta il terzo, la pena è compresa va da “euro 250 a euro 1.500”. Si noti che l'inserimento della pena pecuniaria per il terzo risale al 2009, mentre quella per la parte al 2022 (!). L'art. 128 dispone che l'udienza sia pubblica “ma il giudice che la dirige può disporre che si svolga a porte chiuse, se ricorrono ragioni di sicurezza dello Stato, di ordine pubblico o di buon costume. Il giudice esercita i poteri di polizia per il mantenimento dell'ordine e del decoro e può allontanare chi contravviene alle sue prescrizioni”.
[35] F. Cipriani, Una nuova interpretazione cit., p. 958.
[36] Ibid. p. 959.
[37] Ibid., pp. 955-957.
[38] B. Cavallone, In difesa della veriphobia (considerazioni amichevolmente polemiche su un libro recente di Michele Taruffo), in “Rivista di diritto processuale”, LXV (2010), pp. 1-26. A cui risponde M. Taruffo, Contro la veriphobia. Osservazioni sparse in risposta a Bruno Cavallone, in “Rivista di diritto processuale”, LXV (2010), pp. 995-1011.
[39] Ibid., p. 1.
[40] “Personalmente ho sempre preferito la equivalente distinzione di Benvenuti tra il 'metodo dispositivo' e il 'metodo acquisitivo', più idonea a sottolineare che, in un 'processo di parti', anche il giudice più freneticamente attivo nell'acquisizione delle prove non può 'inquisire' proprio nulla” (ibid., pp. 12-13).
[41] Ibid., p. 13.
[42] Ibid., p. 14.
[43] Taruffo è chiaro nel ritenere che “Chiovenda non muove da un'ideologia autoritaria […], ma dalla convinzione che senza un più robusto esercizio dell'autorità dello Stato nel processo – attraverso un più spiccato ed attivo ruolo del giudice, in un procedimento strutturalmente rinnovato – questo non potrebbe mai diventare uno strumento efficiente per l'amministrazione della giustizia” (M. Taruffo, La giustizia civile cit., p. 190). Del resto Calamandrei, nel decennale della morte di Chiovenda, aveva già affermato che “c'è veramente nella sua dottrina […] la sintesi di due esigenze, l'incontro delle quali riproduce, nel microcosmo del processo, la dialettica del progresso sociale: l'oralità, la semplicità delle forme, l'immediato contatto tra le parti e il giudice costituiscono la garanzia pratica della libertà individuale, che trova nel processo, senza l'ostacolo di insidiosi formalismi, la agevole salvaguardia del diritto soggettivo; ma, d'altro lato, il dovere di lealtà processuale, i poteri dati al giudice per chiarire d'ufficio la verità, e la disciplina della iniziativa privata messa a frutto come forza motrice per raggiungere fini di interesse pubblico, rappresentano la garanzia della giustizia, intesa come esigenza di solidarietà e di reciprocità sociale” (P. Calamandrei, Giuseppe Chiovenda (5 novembre 1937-5 novembre 1947), in “Rivista di diritto processuale”, 1947, p. 178.
[44] “Commentando l'art. 281 ter c.p.c., ho tra l'altro criticato il fatto che il nostro legislatore non abbia ivi parallelamente previsto anche il potere del giudice di ordinare d'ufficio l'esibizione dei documenti menzionati dalle parti ma non prodotti (previsione già assente, del resto, anche da quel 'manifesto inquisitorio' che è, per il processo del lavoro, l'art. 421 c.p.c., con il risultato che quel giudice, teoricamente autorizzato ad assumere qualsiasi iniziativa, non può in realtà assumere, secondo la giurisprudenza, nemmeno questa, pur così modesta e ragionevole (al contrario di quel che tranquillamente facevano i giudici ordinari, in assenza di qualunque previsione normativa a riguardo, nel vigore del codice paleo-liberale del 1865)” (B. Cavallone, In difesa cit., p. 15).
[45] Ibid., p. 16.
[46] Sul problema della ricerca della verità ed anche sulla sostanziale vicinanza tra istruttoria civile e penale, Calamandrei ammoniva che “la contrapposizione tra verità reale e verità formale, colla quale qualche processualista ha creduto di esprimere in formula sintetica una essenziale diversità di oggetto tra l'istruttoria penale e l'istruttoria civile […], non corrisponde in alcun modo alla vera natura dei due processi, i quali, sia pur servendosi di diversi metodi d'indagine, mirano allo stesso unico scopo che è la ricerca della verità, della verità semplice ed una, senza aggiunte e senza qualifiche. Le restrizioni che alla libera indagine del giudice sono poste nel processo civile, e specialmente nel processo a tipo dispositivo, non mirano infatti a render meno penetrante e meno esauriente la ricerca della verità, ma mirano anzi a utilizzare come strumenti di indagine, più sensibili e più solleciti di ogni sagacia del giudice, i vigili interessi delle parti contrapposte, ciascuna delle quali, per mettere in evidenza quella parte di verità che le giova, è pronta a prender su di sé, con impareggiabile zelo, il compito della investigazione” (P. Calamandrei, Il giudice e lo storico, in “Rivista di diritto processuale civile”, XVII-XVIII (1939), pp. 114-115.
[47] M. Taruffo, Poteri probatori delle parti e del giudice in Europa, ora in AA.VV., Le prove nel processo civile. Atti del XXV Convegno nazionale. Cagliari 7-8 ottobre 2005, Milano 2007, p. 73.
[48] P. Calamandrei, Un maestro del liberalismo processuale, ora in Id., Opere giuridiche, vol. X, Roma 1919, pp. 323-324.
[49] P. Grossi, Lungo l'itinerario cit., p. 882.
[50] P. Calamandrei, Il giudice istruttore nel processo civile, ora in Id., Opere giuridiche, vol. V, Roma 2019, p. 646.
[51] Ibid., p. 645.
[52] Ibid., p. 647.
[53] Ibid.