Sul tema si leggano anche: Il disegno di legge costituzionale sulla separazione delle “distinte carriere” dei magistrati. Eterogenesi dei fini, aporie e questioni aperte di Giovanni Canzio Audizione di Claudio Castelli in materia di separazione delle carriere giudicante e requirente della magistratura, L'audizione di Armando Spataro alla Camera dei Deputati del 25 gennaio 2024 sulla separazione delle carriere dei magistrati, Collegialità del giudice della misura cautelare e separazione delle carriere: due tasselli di uno stesso mosaico di Costantino De Robbio, Mozione sul d.d.l. costituzionale in materia di separazione delle carriere, Separazione delle carriere a Costituzione invariata. Problemi applicativi dell’art. 12 della legge n. 71 del 2022 di Pasquale Serrao d’Aquino, La separazione della carriera dei magistrati: la proposta di riforma e il referendum di Paola Filippi, La separazione delle carriere dei magistrati: una proposta di riforma anacronistica ed inutile di Armando Spataro, La separazione delle carriere dei magistrati? una riforma da evitare di Armando Spataro, La mafia si combatte con investimenti tecnologici, non con la separazione delle carriere di Maurizio De Lucia, Separazione delle funzioni dei magistrati vs. celerità dei processi e tutela dei diritti. Intervista di Marta Agostini al prof. David Brunelli.
Separare... cosa?
di Marcello Basilico
Il disegno di legge governativo sulla giustizia mira a costituzionalizzare la separazione delle carriere di giudici e pubblici ministeri. Ma quello di “carriera” è concetto estraneo al percorso professionale dei magistrati. L’improprietà terminologica è grave, poiché il lessico costituzionale non può essere equivoco. Ma la questione è anche di sostanza, per il rischio di legittimare così nuovi interventi orientati a delineare un assetto verticale della magistratura, di cui si sono avute diverse avvisaglie negli ultimi anni.
Sommario: 1. Premessa. 2. Un concetto o uno slogan? 3. Cos’è la carriera. 4. Il superamento della gerarchia tra i magistrati. 5. La distinzione dei magistrati soltanto per funzioni. 6. Categorie e promozioni. 7. Separare cosa?
1. Premessa.
In un convegno organizzato dal Senato della Repubblica per celebrare i 60 anni della Costituzione Tullio De Mauro ricordò come i costituenti avessero vinto quello che Italo Calvino chiamava il “terrore semantico”, l’ottica, cioè, per cui, ad esempio, fiasco di vino si doveva chiamare, con maggiore appropriatezza, contenitore vitreo di sostanza vinosa. La vittoria fu sancita dal fatto che, delle circa 9.300 parole del testo originario della Costituzione, il 93 per cento veniva dal vocabolario di base della lingua italiana, il vocabolario di massima frequenza conosciuto già nella scuola elementare[1]. Il lessico costituzionale, insomma, era chiaro e netto.
Stessa attenzione andrebbe riservata ai termini impiegati nelle leggi di revisione della Costituzione, che della brevità e della limpidezza lessicale fa la sua forza. In verità nei nuovi articoli 111 e 117, modificati rispettivamente nel 1999 e nel 2001, l’operazione non sembra riuscita alla perfezione.
Il fatto è che mettere mano alla Costituzione richiede accortezza, non fosse altro per conservare al testo una sua coerenza anche retorica, nel rispetto dell’impegno profuso nel 1947: ogni singola parola venne allora soppesata nella consapevolezza del valore epocale – aggettivo assai abusato, ma in questo caso dovuto – dell’opera costituente. Parafrasando il Buddha, verrebbe da dire che solo le parole sincere hanno il potere di cambiare (in meglio) il mondo.
Ora pare che stiamo per misurarci con la riforma della giustizia, il cui architrave sarà rappresentato, nelle intenzioni del Governo, dalla tanto sospirata separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri. La si vagheggia da tempo e l’attuale maggioranza politica annuncia che il tempo propizio è venuto.
Nel battage che l’accompagna, la separazione delle carriere viene presentata come premessa necessaria a riformare la giustizia per renderla giusta ed efficiente. Trascuro volutamente il tema concernente la coerenza della misura rispetto all’obiettivo enunciato, largamente trattato dai favorevoli come dai contrari, tra i quali ultimi mi annovero. Preme invece soffermarsi su un profilo del testo riformatore per nulla o poco esaminato, ma non meno rilevante e, vorrei dire, sintomatico del vero disegno riformatore, al punto che la ripetizione quasi ossessiva di quella formula magica provoca in chi scrive un effetto quasi urticante. In effetti, della “separazione delle carriere” dovrebbe preoccupare l’oggetto (le “carriere”) tanto quanto lo strumento (la “separazione”).
2. Un concetto o uno slogan?
Il disegno di legge costituzionale approvato dal Consiglio dei ministri lo scorso 29 maggio (Norme in materia di ordinamento giurisdizionale e di istituzione della Corte disciplinare) intende modificare, all’art. 2, il testo dell’art. 102 della Costituzione, inserendo in coda al primo comma le seguenti parole: “, le quali disciplinano altresì le distinte carriere dei magistrati giudicanti e requirenti”. Una volta riformata, dunque, la norma reciterebbe: “La funzione giurisdizionale è esercitata da magistrati ordinari istituiti e regolati dalle norme dell’ordinamento giudiziario, le quali disciplinano altresì le distinte carriere dei magistrati giudicanti e requirenti”.
In Costituzione verrebbe dunque introdotto il termine “carriera” anche per i magistrati. Attualmente esso è presente soltanto nel testo dell’art. 98, terzo comma, con riferimento ai militari in servizio attivo[2]. Sembra quasi ovvio osservare che le diversità professionali tra gli uni e gli altri sono abissali.
La locuzione “separazione delle carriere dei magistrati” è entrata ormai nell’uso comune. Vi era così intitolato il quesito sottoposto a referendum il 12 giugno 2022; il d.d.l. di presentazione parlamentare (a firma Stefani e aa.) del 26 gennaio 2023 reca il titolo “Modifica all’articolo 87 e al titolo IV della parte seconda della Costituzione in materia di separazione delle carriere giudicante e requirente della magistratura”; lo stesso è a dirsi per quello di iniziativa popolare, promosso dall’Unione delle Camere penali e presentato il 31 ottobre 2017.
Sono esempi tra i tanti.
Lo stesso vale per il linguaggio della politica e delle istituzioni[3]. L’impressione, però. è che della “separazione delle carriere” si parli come di uno slogan, dimenticando che essa comporterebbe un’operazione di politica giudiziale complessa, andando a toccare svariati tasselli della costruzione ordinamentale; potendo essere realizzata in molti modi, essa indica quindi un obiettivo, non un contenuto normativo preciso. Se poi si esce dall’astrazione vessillifera, ci si accorge invece dell’impostura che cela l’inflazionata locuzione.
3. Cos’è la carriera.
Nella sua etimologia la parola “carriera” risale alle vie percorse dai carri, da un tardo latinismo (carraria), acquisito dal provenzale antico (carriera): la carriera richiama lo spazio segnato per la corsa dei cavalli coi carri[4]. Da qui il passaggio, nel mondo giuridico ed economico, al percorso, alla via prescelta nella vita lavorativa, professionale o militare.
La carriera designa un percorso concepito per gradini, rivolto a un avanzamento progressivo. “Fare carriera”, del resto, significa progredire, migliorando il livello del proprio status lavorativo. Lo sviluppo della carriera implica più responsabilità, migliore retribuzione, mansioni più qualificanti.
La carriera è insomma, da sempre, la via della progressione lavorativa nel campo di un’attività organizzata per gradi o per livelli, impostata, dunque, secondo un ordine gerarchico[5]; tale definizione è rimasta invariata anche dopo gli studi che, negli ultimi cinquanta anni, si sono focalizzati più sulla sfera individuale che sulla dimensione organizzativa del termine[6]: “carriera” conserva tuttora un significato più specifico della locuzione generale “percorso professionale”, poiché connotato da passaggi ordinati verticalmente.
Nel nostro ordinamento giuridico il rapporto di lavoro subordinato, privato e pubblico, si fonda sulla gerarchia, che si esprime attraverso l’esercizio datoriale di poteri di direzione, di disciplina e di conformazione della prestazione – nei limiti stabiliti dalla legge e dal contratto collettivo e/o individuale – all’organizzazione dell’impresa o dell’ente di appartenenza.
La progressione del prestatore di lavoro secondo inquadramenti contrattuali ascendenti è sancita dalla legge (artt. 2103 c.c., 13 segg. e 52 d. lgs. 165/2001): la retribuzione aumenta in ragione della crescente qualificazione della prestazione. Le tradizionali categorie legali del lavoro subordinato delineate dall’art. 2095, co. 1, c.c. (dirigenti, quadri, impiegati, operai), pure se superate negli assetti organizzativi più avanzati, sono state forse addirittura rivitalizzate dal Jobs act del 2015[7].
Nel lavoro pubblico, neppure l’introduzione delle qualifiche funzionali da parte della legge 312/80 – in un’epoca in cui si esaltava il superamento della gerarchia come unico modello di rapporto tra il personale della p.a. – scalfì il disegno verticale dello sviluppo professionale, a cominciare dal fatto che la dirigenza fu esclusa da quell’operazione innovativa.
Nulla di tutto ciò vale per i magistrati, per quanto anch’essi siano dipendenti pubblici. La peculiarità deriva non solo e non tanto dal fatto che la disciplina delle loro mansioni (rectius, funzioni) sia affidata alla legge e non alla contrattazione collettiva (artt. 105 e 108, co. 1, Cost.), ma, prima ancora, dal principio che li vuole tra loro distinti “soltanto per diversità di funzioni” (art. 107, co. 3, Cost.).
Va notato che il disegno di legge costituzionale approvato il 29 maggio non ripropone l’abrogazione di quest’ultima norma, così come invece prevedevano alcuni progetti di revisione precedenti tra cui quello d’iniziativa popolare promosso dalle camere penali. Si tratta di una delle, poche, buone notizie, giacché l’indistinzione dei magistrati se non per funzione rappresenta il principale bastione a difesa della loro indipendenza interna[8].
4. Il superamento della gerarchia tra i magistrati.
La genesi dell’art. 107, comma terzo, risale al progetto al progetto presentato da Giovanni Leone per conto della Democrazia Cristiana nella seconda sottocommissione della Commissione dei 75, nell’ambito di una “visione nuova del potere giudiziario, distinto in organi e non in gradi” e finalizzato a completare definitivamente lo “sganciamento dalla equiparazione agli impiegati dello Stato”; nell’ordine giudiziario così ristrutturato – si legge nella relazione – “non vi è gerarchia, ma solo delimitazione delle sfere di attribuzione”[9].
Nel corso della discussione sviluppatasi nell’Aula, Leone stesso, cogliendo le perplessità sorte sulla locuzione “e non di gradi”, ne propose la soppressione a nome della Commissione, ribadendo che “c’è una gerarchia nella Magistratura, ma si tratta di una gerarchia di funzioni giurisdizionali, senza peraltro rinnegare quel minimo d’interna gerarchia amministrativa che è indispensabile in seno a ciascun collegio”.
La svolta impressa dai costituenti mirava a superare l’influenza che, in un ordine giudiziario che li distingueva per gradi (art. 4 del RD 12/1941, nel testo originario), i magistrati di appello potevano esercitare su quelli di primo grado e quelli di Cassazione potevano esercitare su entrambi[10]. A questa influenza, misurata sulla valutazione dei provvedimenti dei colleghi, si aggiungeva il rapporto esistente tra Ministro della giustizia e magistratura, col risultato di una tendenza conservatrice e conformista delle decisioni giurisdizionali.
A ben vedere, l’abolizione di ogni vincolo gerarchico è frutto dell’interpretazione dell’art. 101, co. 2, Cost.[11]: la soggezione “soltanto” alla legge comporta che il magistrato sia gerarchicamente vincolato alla legge, non ad altri magistrati[12] e, tanto meno, ad un’altra autorità.
Il principio stesso di inamovibilità (art. 107, co. 1) è inconciliabile con l’esistenza di un ordine gerarchico nella magistratura[13], il quale ammette la facoltà del superiore di trasferire o spostare di posizione il sottoposto; sono i poteri che configurano lo jus variandi riconosciuto al datore di lavoro e che riguardano la scelta del luogo, del contenuto Vae delle modalità della prestazione lavorativa.
Il magistrato non vi è assoggettato. Egli può essere trasferito o assegnato a una diversa funzione solo nei casi e con le garanzie previsti dalla legge.
Più in generale, l’assetto costituzionale riconosciuto al magistrato risulta inconciliabile con una relazione gerarchica, che conferisce agli organi superiori uno spiccato potere di ingerenza e di sorveglianza sugli atti di quelli inferiori. Di questo potere è tipica espressione l’ordine amministrativo, contenente comandi o divieti[14].
5. La distinzione dei magistrati soltanto per funzioni.
Se, dunque, l’assenza di vincoli gerarchici interni è già desumibile dai principi di soggezione esclusiva alla legge e di inamovibilità, l’effetto della distinzione dei magistrati soltanto in base alle funzioni è ulteriore.
Nel 1970 la Corte costituzionale, con una sentenza interpretativa di rigetto, ha dato delle norme dell’ordinamento giudiziario che concepivano la tradizionale relazione tra i magistrati una lettura secondo Costituzione, poiché l’art. 107, co. 3, e la legge 392/1951 (la cosiddetta legge Piccioni che diede attuazione al dettato costituzionale) esclude che tra loro vi sia “una subordinazione gerarchica del tipo di quella che regola i rapporti tra i funzionari della pubblica amministrazione .. incompatibile con la natura stessa della loro funzione”[15].
Nell’occasione la Corte ha definito i riferimenti ai “gradi” (artt. 4, co. 1, e 39, co. 1, RD 12/1941) e ai pretori “in sottordine” rispetto al titolare dell’ufficio (artt. 31 e 34 RD 12/1941) come espressivi di “una terminologia arcaica .. ora da ritenersi del tutto impropria”.
Il significato dei termini di legge, dunque, va adeguato a quel dettato costituzionale. È sulla scorta di questo insegnamento che possono essere lette altre disposizioni.
Ciò vale, innanzi tutto, per le funzioni direttive e semidirettive. Tornando a occuparsi del sistema delineato dal regio decreto sull’ordinamento giudiziario, la Corte costituzionale ha escluso che esso “ponga i magistrati nell'esercizio delle funzioni giurisdizionali in un rapporto di subordinazione e tanto meno alla dipendenza gerarchica del pretore dirigente né attribuiscono esclusivamente a questo le funzioni inerenti alla attività giudiziaria della Pretura né tanto meno gli conferiscono i poteri di interferire nell'attività giudiziaria svolta dagli altri magistrati”[16].
La dirigenza – ha spiegato la Consulta – comporta solo attribuzioni di direzione del l’ufficio giudiziario e di distribuzione del lavoro tra le sezioni nonché quelle di carattere amministrativo e di sorveglianza sull’andamento generale dei servizi; sono funzioni, assegnate nei limiti delle norme costituzionali, da svolgersi esclusivamente per obbiettive ed imprescindibili esigenze di servizio al solo scopo di rendere possibile il funzionamento dell’ufficio.
L’evoluzione legislativa successiva non legittima una visione differente da quella così sintetizzata. La riforma avvenuta col d. lgs. 160/2006 ha valorizzato la componente organizzativa nella dirigenza giudiziaria, nel rispetto necessario dell’autonomia dei singoli magistrati dell’ufficio[17]; la temporaneità delle funzioni direttive e semidirettive (artt. 45 e 46 d. lgs. 160/2006) ha una duplice finalità: evitare che si consolidino relazioni tra i magistrati di un ufficio orientate in senso gerarchico e favorire una rotazione nelle posizioni di rilievo organizzativo che preservi il carattere orizzontale della traiettoria professionale di ciascun magistrato.
Nei fatti i due scopi non sono stati raggiunti. Un complesso di minuti interventi normativi che nell’ultimo decennio hanno privilegiato un approccio verticistico al tema organizzativo (in nome di un efficientismo spesso frainteso) e l’aspettativa crescente di molti per l’incarico direttivo o semidirettivo rendono dubbio il fatto che l’indistinzione solo per funzioni rappresenti un valore che sia stato davvero introiettato. Si tratta però di una distorsione dovuta a una molteplicità di fattori convergenti, che agiscono su un piano diverso da quello strettamente giuridico. Essi dimostrano piuttosto la necessità che, per dare concretezza al modello costituzionale, sia necessario rendere effettiva la temporaneità della dirigenza giudiziaria.
Le considerazioni svolte sono riferibili anche al pubblico ministero, al quale del resto, in quanto “magistrato” è certamente rivolto l’art. 107, c. 3, Cost.[18]; il fatto che nel capoverso successivo si sia sentita la necessità di precisare che sono attribuite le “garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme dell’ordinamento giudiziario” è stato variamente interpretato dalla dottrina costituzionalistica[19], senza che alcuno abbia dubitato che esso possa comportare l’indistinzione anche delle posizioni del p.m. se non per funzioni.
La riforma Cartabia (l. 71/2022), attuata col d. lgs. 44/2024 non ha modificato le disposizioni di apertura contenute nell’art. 1 d. lgs. 106/2006 e, in particolare, il primo comma, in base al quale il procuratore della Repubblica è “preposto all'ufficio del pubblico ministero” e, in quanto tale, è“titolare esclusivo dell'azione penale e la esercita nei modi e nei termini fissati dalla legge”.
Sull’ampiezza delle attribuzioni derivanti dalla posizione così riconosciuta al procuratore e sul tenore della sovraordinazione che essa determina rispetto agli altri magistrati dell’ufficio molto si discute. Il sesto comma dell’art. 1 testé menzionato, così come modificato dall’art. 13 della l. 71/2022, rende chiaro che la relazione tra procuratore e sostituti è imperniata sulle esigenze funzionali e organizzative: al primo compete predisporre il progetto organizzativo dell’ufficio con cui determina “le misure organizzative finalizzate a garantire l’efficace e uniforme esercizio dell’azione penale”.
La circolare approvata dal CSM il 26 giugno 2024 conferma che questa potestà va oltre la sfera organizzativa; essa trova fonte nella legge (anche nell’art. 70, co. 3., OG), la quale, tracciandone i limiti, rimette al Consiglio superiore la verifica della sua osservanza da parte del dirigente. Muovendo da tale premessa si ribadisce “che i poteri del procuratore della Repubblica sono giustificati dall’esigenza di garantire il buon funzionamento dell’ufficio e il miglior risultato dell’azione che compete all’ufficio stesso, sul piano della rispondenza alla domanda di giustizia; coerentemente, quindi, le attribuzioni dello stesso procuratore si giustificano nella misura in cui effettivamente concorrano a connotare nel senso dell’impersonalità l’ufficio di Procura, non potendo invece sfociare in una personalizzazione della funzione requirente in capo al titolare dell’ufficio stesso, incompatibile con il principio di impersonalità, unità ed indivisibilità che è proprio dell’ufficio del pubblico ministero”[20].
La preposizione attribuita al procuratore della Repubblica si lega quindi all’impersonalità dell’azione penale da parte del rappresentante l’ufficio ed è limitata dalla soggezione solo alla legge anche del pubblico ministero[21], collegata all’obbligatorietà dell’azione penale[22]. Anche dopo la riforma del 2006, la posizione accentratrice e apicale del dirigente resta circoscritta alla sfera funzionale; essa non comporta una gerarchia in senso amministrativistico, quale è stata in precedenza ricordata, non esplicandosi in ordini, istruzioni, atti di coordinamento, di vigilanza, di annullamento o di decisione[23].
Ma ciò che risulta indiscusso e decisivo, ai nostri fini, è che ogni forma di sovraordinazione all’interno dell’ufficio requirente non comporta l’esistenza di “gradi” diversi. Quelle di procuratore, di procuratore aggiunto e di sostituto procuratore sono “funzioni” distinte, non livelli ascendenti di una scala professionale.
6. Categorie e promozioni.
In Costituzione vi sono altri due termini che si prestano a una possibile lettura dissonante dal tenore dell’art. 107, c. 3.
Il primo si rinviene nel quarto comma dell’art. 104, là dove individua i magistrati ordinari componenti del CSM tra gli appartenenti alle varie “categorie”. È opinione comune (e condivisibile) che il termine sia stato utilizzato in ragione della finalità di assicurare al Consiglio superiore una presenza sufficientemente plurale di magistrati in base alla loro estrazione professionale[24]. Di questa lettura ha dato conferma la Corte costituzionale, definendo indiscutibile il fatto che dal quarto comma dell’art. 104 discenda il divieto di escludere in partenza qualsiasi categoria di magistrati, quanto ad entrambi gli aspetti, attivo e passivo, dell’elettorato concernente il Consiglio superiore[25].
La categoria sembra richiamare la distinzione, tradizionale per il mondo lavorativo dell’epoca, che il legislatore aveva riportato pochi anni prima nel codice civile: “I prestatori di lavoro si distinguono in dirigenti, quadri, impiegati e operai” (art. 2095). L’esperienza ha dimostrato come tale classificazione risulti però irrilevante senza l’integrazione delle fonti ulteriori. Nel caso del lavoro privato, queste risiedono nella contrattazione collettiva, che identifica le singole qualifiche o posizioni economiche in seno a ciascuna “categoria”; ciò si è verificato anche nel lavoro pubblico per le categorie contrattualizzate, al punto che in molti settori si è arrivati a regolamentare separatamente almeno la categoria superiore, quella dirigenziale.
Per i pubblici dipendenti non soggetti al d. lgs. 165/2001, invece la fonte, diretta o indiretta, è la legge. Tra costoro, i magistrati sono soggetti a una sola legge, di fonte costituzionale e di conseguenza, necessariamente, all’art. 107, co. 3.
La seconda parola con cui fare i conti è nell’art. 105 che, elencando i compiti del CSM, include anche le “promozioni”. Il termine sembra divergere da un’interpretazione dell’art. 107, c. 3, preclusiva di una carriera ascendente, giacché promuovere esprime l’atto di conferire a un soggetto il passaggio a un livello superiore[26].
La premessa forse scontata, ma comunque obbligata, di questa sintetica riflessione sull’art. 105 sta nel fatto che l’elenco dei quattro oggetti di disciplina affidati al Consiglio è concepito in funzione di tutela della magistratura; si tratta, cioè, di attribuzioni espresse al fine di escludere ogni ingerenza nelle rispettive materie da parte del potere esecutivo[27].
In concreto l’attuazione di questa regola costituzionale è andata nel senso della conciliazione col disposto dell’art. 107, co. 3. Con le leggi Breganze (570/66) e Breganzone (831/73), infatti, è stato abbandonato definitivamente un regime di avanzamento professionale all’interno di ruoli chiusi, con selezioni gestite da magistrati di grado superiore, per abbracciare un sistema di valutazione affidato al Consiglio superiore, nel quale l’anzianità svolge un ruolo determinante. A seguito delle riforme Castelli (d. lgs. 160/2006) e, soprattutto, Mastella (l. 111/2007), la verifica quadriennale comporta una progressione solo economica, dissociata dalla funzione svolta.
Vizi e virtù del meccanismo valutativo che si è andato da allora consolidando sono controversi, ma attengono al piano fattuale. Sul piano giuridico, gli interventi di allora, al pari della più recente riforma Cartabia, che ha conservato le basi di quell’impianto, rappresentano l’approdo definitivo della distinzione solo per funzioni, la quale comporta un vaglio periodico che riconosca non una progressione ascensionale, ma un livello professionale di base.
Il disegno di legge costituzionale (lo chiameremo Meloni-Nordio?), approvato il 29.5.2024, propone la modifica dell’art. 105 sostituendo il termine “promozioni” con la locuzione “valutazioni di professionalità”, nella consapevolezza, evidentemente, della necessità d’una correzione di rotta nel rispetto dell’ordinamento vigente.
7. Separare cosa?
Tra gli argomenti più utilizzati per disvelare il disegno che si cela dietro le proposte di separazione delle carriere v’è la constatazione del ridottissimo numero di passaggi dalle funzioni requirenti a quelle giudicanti e viceversa[28]. Con le limitazioni poste dalla legge 71/2022 la separazione è già nei fatti[29].
Se, dunque, la volontà di sancire comunque una separazione senza eccezioni induce a sospettare sul destino che si vorrebbe presto o tardi assegnare all’indipendenza del pubblico ministero, diffidenza analoga è giustificata dall’impiego deliberato del termine “carriera”. Come s’è visto, esso esprime un significato completamente estraneo allo statuto costituzionale del magistrato.
Si diceva che i segnali della formazione lenta, ma progressiva, di una visione verticale della magistratura sono però concreti. Vengono ovviamente dalla politica legislativa, che, cogliendo e drammatizzando l’insoddisfazione diffusa per un sistema di valutazione della professionalità ritenuto poco rigoroso e spendendo a dismisura gli argomenti dell’efficientismo, tende a infarcire i testi processuali e ordinamentali di norme che valorizzano la presenza di vertici internamente agli uffici e nei rapporti tra gli uffici, vertici in grado di controllare, segnalare, indirizzare le condotte e le decisioni dei magistrati. È sufficiente ricordare le fattispecie di portata disciplinare o valutativa introdotte dal 2021 e basate sulla sorveglianza affidata ai dirigenti in ordine alla produttività, ai ritardi, alle anomalie giurisprudenziali dei colleghi.
Segnali vengono dall’esecutivo, che centellina e distribuisce le risorse, regolamenta le funzioni telematiche, adotta strumenti di gestione del personale, orientando così non solo le proprie funzioni organizzative verso obiettivi propri, ma anche, nei fatti, l’esercizio stesso delle funzioni giurisdizionali.
Vengono infine – va riconosciuto – dalla magistratura stessa, che ha subito un cambio di mentalità con le riforme ordinamentali del 2006 e 2007 espresso in modo vistoso da alcuni atteggiamenti consolidatisi col tempo: da un lato, l’incompleto appagamento per l’esercizio delle funzioni giurisdizionali (causato anche dalla progressiva difficoltà che si incontrano nel lavoro quotidiano) con la ricerca affannosa di incarichi direttivi o direttivi, recepiti come apicali e rivendicati anche col ricorso al giudice amministrativo quando l’ambizione risulti inappagata; dall’altro, la tendenza crescente a demandare al dirigente dell’ufficio giudiziario ogni attenzione per le esigenze di organizzazione e di funzionalità degli uffici, rinunciando anche alle forme di partecipazione previste dall’ordinamento (partecipazioni alle riunioni; osservazioni su provvedimenti che non intacchino la posizione interna personale; segnalazioni e dialogo coi Consigli giudiziari).
Questa delega in bianco è lo specchio del ripiegamento su stesso da parte del magistrato, sempre più concentrato sul proprio fascicolo, sul rapporto esclusivo coi propri collaboratori diretti, sulla propria statistica. Ed è la spia caratteristica della china burocratica intrapresa, tanto temuta e chiaramente avvertita nella categoria.
Verticismo e burocraticità sono lati della stessa figura: il disegno di una magistratura che contraddice il modello costituzionale, di un ordine autogovernato e titolare di un potere diffuso.
C’è, forse, un disegno organico dietro questa deriva. Più probabilmente v’è una congiuntura che favorisce spinte storicamente insofferenti verso il controllo di legalità. In ogni caso, è lecito prefigurarsi uno sbocco non favorevole alla tenuta concreta del principio d’indipendenza nel concreto esercizio della giurisdizione. Ad arginare la deriva – che va facendo breccia anche tra le fila della magistratura – può contribuire un lessico trasparente e sorvegliato. Massimamente in Costituzione.
Cominciamo dunque a parlare (e a pensare), se mai, di una separazione delle funzioni, non delle carriere; e, sulla stessa falsariga, ad eliminare dal mondo linguistico-giudiziario parole come “vertici” o “capi” (procuratore della Repubblica basta e avanza a designare la funzione), delle quali pure si abusa talvolta persino nelle circolari del CSM. Sono parole ingannevoli e pericolose, poiché legittimano una visione incostituzionale della magistratura.
[1] Di tutti gli interventi del convegno “Il linguaggio della Costituzione” è reperibile la trascrizione integrale in www.senato.it, consultato l’8.8.2024.
[2] La norma recita: “Si possono con legge stabilire limitazioni al diritto d’iscriversi ai partiti politici per i magistrati, i militari di carriera in servizio attivo, i funzionari ed agenti di polizia, i rappresentanti diplomatici e consolari all’estero”.
[3] Si veda, tra gli innumerevoli casi, la dichiarazione del Ministro della giustizia Carlo Nordio su Il Messaggero, ed. del 23 giugno 2024, pag. 3: “le carriere vanno separate e il Csm va riformato”.
[4] Cfr. i vocabolari Treccani on line e Il nuovo de Mauro on line, consultati il 24.6.2024.
[5] Cfr. Dizionario della lingua italiana, di G. Devoto e G.C. Oli, Le Monnier, 1971.
[6] Per riferimenti alle teorie dello sviluppo vocazionale di Donald E. Super, cfr. A. Di Fabio, Psicologia dell’orientamento. Modelli, metodi e strumenti, Giunti, 1998.
[7] Cfr. ad es. D. Garofalo, Lo jus variandi tra categorie e livelli, in massimariogiurisprudenzadellavoro.it, consultato il 28.6.2024.
[8] Per una critica alla proposta abrogativa si veda G. Silvestri, Le proposte di revisione costituzionale d’iniziativa parlamentare in tema di giustizia, Forum, in Rivista “Gruppo di Pisa”, 2024, fasc. 1, 364.
[9] Le parole di G. Leone, riportate nel resoconto della seduta del 5 dicembre 1946 in www.dellarepubblica.it/item/105 (consultato il 7.9.2024), sono lucide e illuminanti: “La diversità di sfera giurisdizionale non può identificarsi con diversità di potere. È canone universalmente accettato dalla dottrina quello dell’unità della giurisdizione: potere giudiziario in senso pieno e assoluto è quello del giudice conciliatore, come quello della Corte di cassazione. Da ciò dipende il ripudio del concetto gerarchico del potere giudiziario e la conseguente ripartizione per gradi”.
[10] S. Bartole, Il potere giudiziario, in G. Amato e A. Barbera (a cura di), Manuale di diritto pubblico. II) L’organizzazione costituzionale, Il Mulino, 1997, 461. Cfr. anche V. Mele, I «gradi» del magistrato, in Quad. giust., 1982, 16, 1 ss.
[11] Così F. Bonifacio e G. Giacobbe, in Commentario della Costituzione, a cura di G. Branca, La magistratura, tomo 2, Art. 104-107, Zanichelli e Soc. ed. del Foro italiano, 1986, 165.
[12] La metafora è di Q. Camerlengo, “Soltanto per diversità di funzioni”? I magistrati ordinari tra carriera e prestigio, in Quad. costituzionali, 2014, 2, 287.
[13] Così M. R. Morelli, Commento all’art. 107, in V. Crisafulli e L. Paladin (a cura di), Commentario breve alla Costituzione, CEDAM, 1990, 662.
[14] Cfr. A. M. Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, Jovene, 1982, 556.
[15] Corte cost., 3 giugno 1970, n. 80.
[16] Corte cost., 18 luglio 1973, n. 143.
[17] L’art. 12, co. 12, d. lgs. 160/2006 definisce l’attitudine direttiva come “capacità di organizzare, di programmare e di gestire l’attività e le risorse in rapporto al tipo, alla condizione strutturale dell'ufficio e alle relative dotazioni di mezzi e di personale; è riferita altresì alla propensione all'impiego di tecnologie avanzate, nonché alla capacità di valorizzare le attitudini dei magistrati e dei funzionari, nel rispetto delle individualità e delle autonomie istituzionali, di operare il controllo di gestione sull'andamento generale dell'ufficio, di ideare, programmare e realizzare, con tempestività, gli adattamenti organizzativi e gestionali e di dare piena e compiuta attuazione a quanto indicato nel progetto di organizzazione tabellare”.
[18] Sul punto si legga Corte cost. 28 gennaio 1991, n. 88.
[19] Per una sintesi al riguardo cfr. G. D’Elia, Il pubblico ministero, in Wolters kluwer, One legale, 2024, 14.
[20] La circolare richiama N. Zanon, Pubblico ministero e Costituzione CEDAM 1996, pag.46, nota n.79, in cui si evidenzia che nell'assetto organizzativo prefigurato da impersonalità, unità e indivisibilità esistono potenzialità che possono facilitare il funzionamento degli uffici del p.m. secondo esigenze di speditezza ed economicità, segnalando quanto affermato dalla Corte costituzionale con la sentenza 462/1993, in occasione di un conflitto di attribuzioni sollevato da un ufficio di Procura nei confronti della Camera dei deputati: il conflitto era stato dichiarato ammissibile, disattendendo l’eccezione sollevata dall’avvocatura dello Stato per il fatto che il ricorso non fosse stato sottoscritto dal titolare dell'ufficio. La Consulta ha ritenuto che “se è vero che il ricorso porta in calce la sottoscrizione del Procuratore della Repubblica aggiunto e non quella del Procuratore titolare, è anche vero che lo stesso ricorso risulta intestato alla Procura della Repubblica come ufficio unitario del pubblico ministero legittimato al conflitto”, dovendo presumersi che il ricorso fosse stato formulato dal procuratore aggiunto nell'esercizio del potere di supplenza del titolare di cui all'art. 109 ordinamento giudiziario e d'intesa col titolare stesso. In sostanza, evidenzia l’autore, il principio di unità e indivisibilità, ben lungi dal presentare conseguenze gerarchizzanti, ha permesso alla procura di non vedersi dichiarare in limine inammissibile il ricorso.
[21] Così Corte cost. 88/91, cit., che afferma espressamente che anche il magistrato del p.m., al pari del giudice, è soggetto soltanto alla legge, ai sensi dell’art. 101, co. 2, Cost.; in senso contrario, si è poi pronunciata la sentenza 420/1995, in cui però la Consulta, più che stabilire l’inapplicabilità di questa norma – di fronte a un ricorso a tutela dell’autonomia del p.m. nell’attività d’indagine e nell’esercizio dell’azione penale – sembra avere ascritto rilevanza assorbente alle attribuzioni sancite dall’art. 112 Cost. nel conflitto tra poteri dello Stato.
[22] Così ancora Corte cost. 462/1993 e, a commento, C. Salazar, L’organizzazione interna delle procure e la separazione delle carriere, in A. Pace, S. Bartole, R. Romboli (a cura di), Problemi attuali della giustizia in Italia, Jovene, Napoli, 2010, p. 195. Sugli invalicabili limiti costituzionali a una struttura verticale delle procure si veda già R. Romboli, Il pubblico ministero nell’ordinamento costituzionale e l’esercizio dell’azione penale, in S. Panizza - A. Pizzorusso - R. Romboli (a cura di), Ordinamento giudiziario forense. Volume I. Antologia di scritti, 2002, p. 307. Più di recente M. Bignami, L’indipendenza interna del pubblico ministero, in Questione giustizia, 2018, 1, 79.
[23] S. Battini, L’organizzazione, in S. Cassese (a cura di), Istituzioni di diritto amministrativo, Giuffrè, 2006, 71.
[24] F. Bonifacio e G. Giacobbe, cit. 167.
[25] Corte cost. 1987, n. 82, la quale ritiene peraltro che in ciò non si esaurisca il significato della norma dell’art. 104, c. 4: “Al contrario, dal tenore testuale di essa, dai lavori preparatori, dalle letture che ne sono state fatte durante un trentennio, in sede giurisprudenziale e legislativa, risulta univocamente che i magistrati di cui si compone il Consiglio superiore vanno pur sempre distinti per categorie; sicché l'opposta tesi corrisponde – almeno per alcuni suoi profili –
non tanto ad una diversa interpretazione dell'art. 104, quarto comma, quanto ad un modello organizzativo non coincidente con quello indicato dalla stessa Carta costituzionale”.
[26] Osservazioni perspicue sul punto si devono ad A. Pizzorusso, L’ordinamento giudiziario, Il Mulino, 1974, 26, e P. Grossi, orientamenti attuali di giurisprudenza costituzionale nell’interpretazione degli artt. 105, 107 comma 3° e 104 comma 4° Cost., in Scritti in onore di Vezio Crisafulli, CEDAM, 1985, I, 467.
[27] In tal senso si espresse Meuccio Ruini illustrando all’Assemblea il testo dell’art. 105 Cost. e definendo le materie rimesse al CSM come “i quattro chiodi, i punti essenziali su cui il Ministro non può ingerirsi”.
[28] Nel triennio 2021/23 sono passati dalla funzione giudicante a quella requirente 31 magistrati; 59 hanno seguito il percorso inverso. Considerata una media annua di 30 complessivi, si può dire che il passaggio di funzione ha interessato meno dell’1% dei magistrati in servizio (fonte C.S.M., 2024).
[29] Così G. Azzariti, La separazione delle carriere dei magistrati, in Osservatorio costituzionale, 2023, 2, 7.