La grande decostruzione del disegno costituzionale della magistratura di Tomaso Epidendio
Nei sogni cominciano le responsabilità (Delmore Schwartz)
Sommario: 1. Introduzione: la fine del sogno. - 2. La decostruzione della magistratura. - 3. Il diavolo nei dettagli. - 4. Cenni di conclusioni per un nuovo inizio.
1. Introduzione: la fine del sogno.
Per iniziare vorrei partire da una fine, perché la fine possa essere un nuovo inizio.
Stiamo tutti vivendo – proprio tutti, magistrati e non – la fine di un grande sogno, quello del disegno costituzionale della magistratura, tratteggiato nel IV titolo della parte II della nostra Carta costituzionale.
Era davvero un sogno grande e bello quello dei nostri costituenti, forse senza pari negli altri ordinamenti: la fondazione di una magistratura interclassista, cui si accede per meriti tecnico-giuridici accertati in un pubblico concorso (art. 106, primo comma), costituita come un “ordine” istituzionale, ma non gerarchico (“i magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni”: art. 107, quarto comma), la cui autonomia e indipendenza da ogni altro “potere” (art. 104, primo comma) era concretamente assicurata dalle modalità di costituzione di un organo ad hoc, il Consiglio superiore della magistratura (composto in modo da dare effettività a quelle garanzie, pur nella inevitabile necessità di assicurare un “governo” della magistratura), da precise garanzie in tema di inamovibilità e di azione disciplinare (artt. 104, 105 e 107), da effettività (l’autorità giudiziaria dispone direttamente della polizia giudiziaria: art. 109) e dal radicamento della legittimazione giudicante in una soggezione – quella alla legge, ma “soltanto” alla legge - che bene mette in luce il carattere di “servizio” di una giustizia amministrata “in nome del popolo”: un’autonomia e una indipendenza che si legittima in una sottomissione, quella a una “legge” davanti alla quale “tutti i cittadini” “sono eguali” (art. 3) e per la violazione della quale tutti devono avere uguale probabilità di essere puniti (“il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale”: art. 112). Un grande sogno non privo di caratteri di effettività e di realismo, garantiti da precisi e concretissimi vincoli (inamovibilità, restrizioni all’azione disciplinare, caratteri dell’organo di governo dei magistrati).
Un sogno libero, potente e concreto, che è andato molto vicino alla sua realizzazione: ho sperimentato direttamente (diversamente da quanto purtroppo si legge)[1] che esso ha consentito l’accesso alla magistratura ai meritevoli, indipendentemente dall’estrazione sociale, ben più che in molte altre professioni giuridiche, facendomi lavorare in un contesto che mi ha consentito di servire rispondendo solo alla mia coscienza, con un’autonomia e una indipendenza inimmaginabili in altri ambiti.
Questo sogno ormai è finito: una lenta, progressiva, più o meno consapevole, opera di “decostruzione” ha lavorato negli anni, per faglie interne ed esterne, e lo ha distrutto: l’evidenza degli ultimi progetti di riforma, già attuati e in fase di attuazione,[2] ne sono solo l’esito finale, la mera punta di un iceberg cresciuto nel tempo e le cui fondamenta sono ben più ampie e profonde delle ultime contingenze – riconducibili principalmente al cd. “modello giustizia -25%” per ottenere i fondi del PNNR – che hanno determinato l’urgenza di questi interventi e la determinazione nel perseguimento dell’obiettivo.
Inutile fare la guerra ai fatti: si finirebbe solo per ingrossare la folta e stolida schiera dei laudatores temporis acti (il sogno è andato vicino alla realizzazione, ma non è mai stato completamente realizzato, neppure in passato); né mi iscriverei al partito degli ottusi sostenitori delle “magnifiche sorti e progressive” di un futuro che ci consegna a inarrestabili cambiamenti sempre migliorativi, al partito degli innovatori per il solo gusto dell’innovazione, di chi è per il cambiamento solo per il cambiamento: credo che, con i disastri di una guerra alle nostre porte e i tanti fallimenti interni , ci sia ben poco da aggiungere sulla natura illusoria di questa prospettiva; si andrebbe soltanto a formare quella che Eugenio Montale chiama “una notevole sezione dell’industria delle false idee”.[3] Tuttavia, non mi riconosco neppure nel partito rassegnato dei cinici realisti, cui invece sempre Montale si ascrive, quello di chi vede una sola legge generale delle vicende umane, quella per cui a ogni guadagno e ad ogni avanzamento corrisponde sempre una equivalente perdita in altre direzioni, sì che resta invariato solo il totale di ogni possibile felicità umana.
Mi sento invece vicino e affine a coloro che pervicacemente si ostinano a voler capire, per poter continuare a lottare per questo sogno, grande, bello e realizzabile: per farlo, si tratta, prima di tutto, di comprendere le ragioni della “decostruzione” avvenuta e, una volta comprese le ragioni, verificare se si può ancora contribuire alla realizzazione di quel sogno costituente per il quale, come è chiaro e come credo, vale la pena di lottare ancora, almeno per la responsabilità che abbiamo nei confronti delle generazioni future.
2. La decostruzione della magistratura.
“De-costruzione”, vocabolo ossimorico, vocabolo tecnico (ad esempio della filosofia di Derrida)[4], magnificamente evocativo di qualcosa che demolendo una struttura costruisce qualcosa di diverso e che, in qualche modo, può essere traslato, in accezione impropria, per descrivere quello che è avvenuto al disegno costituzionale della magistratura in questi anni. Non si tratta di sovvertimenti improvvisi, rivoluzioni eclatanti, scontri manifesti contro il testo costituzionale, ma di progressivi slittamenti di senso, quasi inavvertiti o addirittura sentiti come virtuosi che, accumulandosi, hanno alterato radicalmente la struttura che li produceva.
Entriamo un poco più nel dettaglio e vediamo che la decostruzione della magistratura ha operato sia per fattori interni alla magistratura medesima, sia per fattori esterni.
Proviamo ad elencarli.
Tra i fattori interni alla magistratura, il primo in ordine di tempo è forse rappresentato dalla crisi della soggezione del giudice alla legge: in nome di un’ermeneutica giuridica (favorita dall’accademia)[5] che, alla riconosciuta impossibilità ricostruttiva di una intentio auctoris (il mito della volontà del legislatore), rinuncia a riconoscere i limiti di una pur sempre riconoscibile intentio operis (molteplici i significati attribuibili a un testo di legge, ma non tutti, con un “contesto” che aiuta a selezionarne un ristretto numero di possibili) e rivendicazione – come unica strada possibile per il diritto moderno la intentio lectoris (la volontà del giudice); il giudice è sempre meno il tecnico che effettua operazioni di “sussunzione” del fatto nella fattispecie descritta dalla norma ed è sempre più l’autore diretto di “bilanciamenti” di valori, attraverso i quali ricostruisce il senso e seleziona le disposizioni applicabili per garantire la soluzione che, in base alla sua “precomprensione” (convinzioni personali di varia natura), risulta più “giusta” nel caso concreto. Si tratta di una formula che evoca spaventosamente da vicino i fantasmi del cd. “diritto libero”, utilizzato in epoca nazista per giustificare le più discutibili operazioni giuridiche, ma che, ricontestualizzato in una dimensione teorica di “uso alternativo del diritto”,[6] che esalta la funzione sociale del giudice verso i più deboli, anche in chiave di tutela dei loro diritti costituzionalmente garantiti, non solleva in genere particolari preoccupazioni e incontra invece il maggioritario plauso della dottrina, anche costituzionale. Si tratta di una lunga parabola, che parte dalla celebre Assemblea della ANM di Gardone, attraversa la stagione dei cd. “Pretori d’assalto”, per approdare poi alle metodiche ermeneutiche delle cd. interpretazioni “costituzionalmente orientate” e, successivamente, “convenzionalmente o comunitariamente orientate”, attraverso l’irruzione delle fonti sovranazionali nell’ordinamento interno, così da innovare profondamente il metodo di motivare e argomentare le decisioni: largo uso del principio di proporzione, spesso inversione della logica del decidere (si parte dalla conclusione ritenuta più giusta, per poi ricercare e privilegiare gli argomenti testuali che la sostengono), attenzione prioritaria alla propria “precomprensione” dei valori da privilegiare e tutelare nella soluzione dei casi concreti attraverso operazioni di bilanciamento tra gli interessi coinvolti.[7]
Per una sorta di eterogenesi dei fini, nella specie quello di assicurare una più larga ed effettiva tutela dei diritti fondamentali della persona e garantire soluzioni più giuste, si è progressivamente minato uno dei capisaldi costituzionali dell’autonomia e indipendenza del giudice: la sua soggezione soltanto alla legge. Da organo soggetto “soltanto” alle legge, di fronte a una “legge” che non è più ritenuta in grado di porre effettivi vincoli, il giudice finisce per risultare non più soggetto a nulla: inebriato da una libertà mai prima conosciuta, non si avvede di perdere inconsapevolmente la radice costituzionale della sua legittimazione giudicante e non sa prevedere che, prima o poi, la tendenza all’omeostasi del sistema gli avrebbe chiesto il conto, avrebbe individuato nuove forme di responsabilizzazione, così da mettere a rischio quell’autonomia e indipendenza che il costituente voleva garantita da una soggezione, che, ormai non solo più scientificamente, ma sempre di più anche nella pratica, si riconosce impossibile, quella alla legge.
Alla crisi della soggezione del giudice alla legge, sul versante del pubblico ministero, corre parallela la crisi dell’obbligatorietà dell’azione penale. Qui, prima ancora che scientifica o ideologica, la crisi è imposta dalla “forza del fatto”: sopra una certa dimensione demografica e in presenza di una legislazione penale inflazionistica, mancano inevitabilmente le risorse per perseguire tutti e tempestivamente i reati che vengono commessi; inizia a farsi strada l’idea che l’obbligatorietà dell’azione penale sia illusoria (molti reati si prescrivono o vengono archiviati), di tal che si fa sempre più diffusa la convinzione che, in realtà, il principio di obbligatorietà nasconda scelte selettive incontrollate sull’an e sul quando della persecuzione da parte delle diverse Procure della Repubblica. Così, anche su questo versante, quasi senza che ce se ne avveda, spinti dalla forza del fatto e dalla inevitabile limitatezza di risorse ed energie, si minano le fondamenta costituzionali delle garanzie e della legittimità di un pubblico ministero autonomo e indipendente da altri poteri, che trovano la loro radice appunto nell’eguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, cui è correlato il principio di obbligatorietà dell’azione. Quanti però avvertono che ogni deriva dal principio di obbligatorietà sacrifica il principio di eguaglianza davanti alla legge e quanti invece plaudono a quello che viene ritenuto un freno, finalmente imposto, a quello che viene avvertito come un uso politico dell’azione penale da parte di magistrati che, per definizione, non hanno responsabilità politica? In questa situazione davvero può stupire che nella riforma si sia arrivati a prevedere osservazioni del Ministero della Giustizia sui progetti organizzativi delle Procure della Repubblica e criteri generali di priorità nell’esercizio dell’azione penale da parte del Parlamento? Davvero ci si può sorprendere che non si avverta la tensione con gli artt. 3, 104 e 112 della Costituzione o che non ci si avveda dei possibili condizionamenti, diretti o indiretti, da parte di vari potentati sull’esercizio dell’azione penale, creando una giustizia penale forte con i deboli e debole con i forti? O peggio ancora di una giustizia penale che segue le ondivaghe ed emotive reazione di una opinione pubblica a sua volta condizionabile dai social (in cui la stessa distinzione tra vero e falso pare diventata un mito) e votata alla cancel culture? A preoccupate riflessioni dovrebbe portare quanto sta avvenendo – nella convinzione oltre tutto che si sia solo agli inizi – nella consapevolezza, però, della dimostrata incapacità di gestire e comunicare le difficoltà nella persecuzione dei reati.
Tra i fattori esterni, della decostruzione del disegno costituzionale, inserirei invece i mutamenti dei modelli strutturali del processo e dei suoi protagonisti che, a mio avviso, hanno portato verso una “personalizzazione” delle funzioni. Il fenomeno è particolarmente evidente nell’emblematico caso del procedimento penale e, segnatamente, nel passaggio dal codice di rito del 1930 a quello Vassalli. Molteplici (ma quanto astratte!) le discussioni accademiche sulle trasformazioni del ruolo del pubblico ministero: eppure chiunque abbia avuto esperienza dell’operare pratico dei pubblici ministeri nel vecchio e nel “nuovo” codice ha l’elementare percezione dell’importanza crescente che ha assunto non l’ufficio, ma la singola persona del pubblico ministero, organo sempre più inquirente che requirente, più concentrato cioè sulle tecniche di indagine e di accertamento che sulla sua funzione giuridica nel dibattito processuale. Del resto – e più in generale – in un processo che sempre più si vuole di “parti” (adversary), che sempre più si vede come un agone sportivo (sulla spinta delle suggestioni della “sporting theory” del processo), in cui al centro non è più la “verità” (anche accademicamente ritenuta come un concetto compromesso o, comunque, di difficile accertamento), ma la “vittoria”, intesa come prevalenza di una posizione sull’altra in base alle capacità personali dei contendenti, era inevitabile che si verificasse una spinta verso il “protagonismo”, verso l’esaltazione di individualità. Qui la matrice della trasformazione è accademica: certo, una matrice teorica animata nelle origini dalle più buone intenzioni di lotta contro i fantasmi e gli eccessi storici di una “inquisitorietà” che aveva visto più di una grave degenerazione, più di una grave compromissione dei diritti fondamentali della persona, sacrificati sull’altare dell’accertamento della verità ad ogni costo. Eppure, non si è visto che ogni trasformazione chiede un prezzo da pagare: per l’ennesima eterogenesi dei fini, con l’intento di meglio tutelare l’imputato, si è finito per relegarlo sullo sfondo di un’arena in cui i protagonisti sono il singolo difensore e il singolo pubblico ministero e poi buon ultimo, ma non per importanza, il giudice che emette la “grande sentenza”, quella che farà parlare di sé. Può forse stupire, dunque, che in un mondo sempre più “mediatizzato” (dai mezzi di comunicazione più tradizionali fino ai “social”) che i “protagonisti” di questo agone saltassero dalle grigie aule giudiziarie - sempre meno frequentate da ormai ottocenteschi “spettatori in presenza” del processo – alla stampa, alla televisione o alle piattaforme digitali? Può forse essere una sorpresa che, come oggi si usa dire, si imponesse accanto a quello giudiziario un “processo mediatico”?
Anche nel mondo del diritto, come in quello della fisica, ad ogni azione corrisponde una reazione ed ecco, allora, arrivare provvedimenti diretti a regolare e limitare l’accesso ai media dei magistrati, con inconvenienti che da più parti si sono già sottolineati[8] e paventati con viva preoccupazione, legati alle inevitabili asimmetrie comunicative che tali restrizioni comportano. Eppure, ancora una volta, ci si poteva davvero attendere che, prima o poi, questi provvedimenti non dovessero arrivare?
3. Il diavolo nei dettagli
Esistono poi fattori misti (sia interni sia esterni alla magistratura) che si sviluppano in alcuni quasi impercettibili dettagli, all’apparenza fenomeni e normative di stretto respiro, di valenza quasi burocratica: ma, come si usa dire, “il diavolo è nei dettagli”. Si pensi a quanto è avvenuto a proposito dell’ordinamento giudiziario.[9] L’importanza di questo settore di disciplina non era sfuggita ai costituenti che hanno previsto una riserva di legge in proposito ed è significativo che la vera realizzazione del grande disegno costituente si possa ritenere iniziata solo con alcune previdenti riforme della precedente disciplina. Si leggano, ad esempio, le mirabili pagine sul “terribile” esame da aggiunto – scritte da Cordero sul suo vecchio manuale di procedura relativo al vecchio codice[10] – e si comprenderà quale ingessatura e quale indiretto controllo della magistratura poteva essere ottenuta, attraverso uno sbarramento alla stessa permanenza nell’ordine giudiziario per chi non superasse un esame, da affrontare nei primi anni di carriera, e condotto da parte di magistrati della Corte di cassazione. Si comprenderà quale liberazione per la magistratura, al fine di una effettiva realizzazione del suo disegno costituzionale, abbia significato un assetto ordinamentale basato sostanzialmente su progressioni (anche stipendiali, oltre che di carriera) che avvenivano per anzianità senza demerito. Una progressione che, anche nelle denominazioni, segnalava lo stretto legame tra tempo dell’esperienza e possibilità di svolgere determinate funzioni (magistrato di Tribunale, consigliere di Corte di appello, consigliere di Corte di cassazione, consigliere di Corte di cassazione abilitato all’esercizio delle funzioni direttive superiori), senza che ciò significasse necessità del concreto esercizio delle funzioni, a conferma di una magistratura non gerarchica, che non si distingue per gradi.
Spesso ci si dimentica da dove siamo venuti e si vedono solo i difetti di un sistema che, pure, era il risultato di un’attenta valutazione dei rischi, per l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, che avevano avuto altri sistemi.
Ecco allora profilarsi, con il plauso peraltro di larga parte della stessa magistratura, riforme ordinamentali ancora una volta animate da ottime intenzioni e ispirate a concezioni meritocratiche-efficientiste (per non dire aziendalistiche) delle funzioni: passaggio a valutazioni quadriennali (I, II, III, fino alla VII) sganciate da denominazioni legate a legittimazioni funzionali; abbassamento progressivo dell’anzianità necessaria per accedere a funzioni semi-direttive e direttive che, a seconda della dimensione dell’ufficio, consentono ad esempio di accedere alla Presidenza di un Tribunale con la sola terza valutazione di professionalità, di accedere a funzioni semidirettive anche solo con la II valutazione di professionali, così come alle funzioni di legittimità attraverso i concorsi riservati ai cd. juniores.[11]
L’abbassamento delle condizioni di legittimazione legate alla valutazione di professionalità conseguita si lega poi, in connessione sinergica, all’adozione del criterio dell’anzianità come residuale a parità di valutazione risultante dagli indicatori del merito e delle attitudini, ciò in base anche al cd. testo unico sulla dirigenza giudiziaria (circolare del CSM n. P-14858-2015 del 28 luglio 2015 e successive modificazioni) che, come è stato rilevato dal Consiglio di Stato[12], difettando la clausola legislativa a regolamentare e riguardando comunque una materia riservata alla legge ex art. 108, comma 1, Cost.), non costituisce un atto normativo, ma un atto amministrativo di auto-vincolo nella futura esplicazione della discrezionalità del CSM a specificazione generale di fattispecie in funzione di integrazione, o anche suppletiva dei principi specifici espressi dalla legge (in altre parole, si tratta di una delibera che vincola in via generale la futura attività discrezionale dell’organo di governo autonomo).
Ora al di là di mille discussioni e mille precisazioni che possono e sono state fatte in proposito, mi pare comunque difficilmente contestabile l’esistenza di una franca svolta “giovanilistica” nell’accesso a funzioni dirigenziali e superiori, se è possibile, come pure è possibile, diventare Presidente di un Tribunale con soli dodici anni di anzianità e consigliere della Corte di cassazione dopo soli otto anni di magistratura (con possibili esperienze fuori ruolo che, per quanto formative, non sono riconducibili al “mestiere” di magistrato): ma, si sa, la bravura deve essere premiata e ancor più deve esserlo, se essa si trova in giovani colleghi pieni di energie e di entusiasmo. Peccato che, in questo modo, inevitabilmente si sveglia il demone dormiente che alberga in ogni animo umano (quindi anche nei magistrati), quello dell’ambizione, che non è legata solo a remunerazioni economiche, ma anche alla ricerca di un prestigio di posizione (effettivo o avvertito come tale), pericoloso demone dell’ambizione dei magistrati che il costituente e il primo legislatore ordinamentale avevano cercato di sopire il più possibile, nella consapevolezza della sua estrema pericolosità in uffici così delicati come quelli della magistratura.
A ciò si aggiunga che, con l’encomiabile finalità di evitare pericolose e sospette interazioni ambientali derivate dal perdurante esercizio di una medesima funzione in un medesimo ufficio, ancor più se dirigenziale, si è stabilita una temporaneità dell’incarico (decennale in genere e, per i direttivi, di otto anni previa conferma dopo quattro anni): peccato che in questo modo si spingano, anche coloro che sono rimasti miracolosamente non intaccati da particolari ambizioni, a ricercare altre collocazioni (comprensibilmente cercate tra quelle ritenute più prestigiose), laddove per i direttivi, mi si perdoni il cinismo, pensare che essi francescanamente ritornino a svolgere le funzioni di mero giudice o sostituto procuratore[13] mi pare francamente ingenuo, specie quando si è fatto di tutto per solleticarne l’ambizione, attraverso cambiamenti che si vogliono meritocratici.
Il giovanilismo meritocratico ed efficientista – che pure sta ormai vacillando anche nell’ambito strettamente economico-aziendale, dove aveva più di qualche ragione per esservi promosso – trasposto nel cd. “sistema giustizia” comporta una serie di conseguenze, anche di tenuta del disegno costituzionale della magistratura, che credo dovessero essere più attentamente considerate.
In primo luogo, fra le conseguenze da più parti e ripetutamente rimarcate, v’è l’ulteriore dilatazione dei margini di discrezionalità delle valutazioni del Consiglio superiore della magistratura: ora, se già si riteneva non soddisfacente l’esercizio di tale discrezionalità nell’ambito più limitato imposto dai confini dell’anzianità, ci si sarebbe dovuti chiedere per quali ragioni l’ampliamento di tale discrezionalità avrebbe dovuto portare a un suo miglioramento, anziché a più vistose derive, come purtroppo si è verificato e come è stato reso evidente dal noto “caso Palamara”, ormai cristallizzato negli esiti di alcuni dei procedimenti disciplinari avviati che, se mai ce se ne fosse stato bisogno, hanno altresì dimostrato come i limiti temporali degli incarichi (ultradecennalità, e verifiche dopo quattro anni con il limite degli otto per gli incarichi direttivi) non hanno rappresentato un valido strumento di prevenzione contro possibili storture.
In secondo luogo, bisogna domandarsi se ci sia resi adeguatamente conto che, l’ampliamento della discrezionalità dell’organo di auto-governo della magistratura, avrebbe inevitabilmente determinato il corrispondente e altrettanto preoccupante ampliamento della discrezionalità della giustizia amministrativa, istituzionalmente investita del controllo di tali scelte, come altrettanto puntualmente verificatosi (anche in casi eclatanti, come la scelta degli apicali, quali il Presidente e il Presidente aggiunto della Corte di cassazione).
In terzo luogo, se le scelte meritocratiche in ambito economico-aziendalistico, pur non prive di complessità, sono comunque riconducibili a un regime di tecniche ormai consolidate di valutazione delle performances, che consente di controllarne la coerenza e la pertinenza secondo margini di obiettività crescente, altrettanto non può dirsi in ordine al merito dell’attività giudiziaria: non solo per le maggiori incertezze legate alle valutazioni qualitative delle prestazioni giudiziarie – non riducibili ad algoritmi, a meno di non voler consentire alle tesi, che personalmente ritengo agghiaccianti, di quelle teorie dell’jntelligenza artificiale applicata al diritto che spingono di fatto verso la sostituzione del decidente e del requirente umano da parte di macchine – ma anche perché sembrano sussistere valide ragioni per dubitare che ciò sia auspicabile. Infatti, se (come sembra proporsi recentemente) la valutazione delle performances del magistrato deve collegarsi al suo grado di conformità (rispetto ai precedenti o alle decisioni del giudice e dei successivi gradi di giurisdizione) inevitabilmente si riproporrebbe una ingessatura della magistratura, ancora più incisiva di quella corderianamente lamentata a proposito del già citato esame da aggiunto, in un sistema che invece si nutre di un dinamismo legato ai “casi vivi” (ciò che giustifica il rifiuto della già ricordata sostituzione dell’agente umano con la macchina) e che, a differenza dei cd. sistemi di common law, non presenta neppure tradizionali e consolidate regole di regimentazione degli overruling, come dimostrato dagli impressionanti rivolgimenti degli orientamenti giurisprudenziali anche a livello di Sezioni Unite della Corte di cassazione o, addirittura, della stessa Corte costituzionale. Che dire poi dell’insufficiente precisione e dettaglio qualitativo dei rilievi statistici che, oltre tutto, sono allo stato gestiti principalmente a livello ministeriale, con ulteriori rischi di condizionamenti esterni. Quali siano gli effetti paradossali di un sistema di valutazione efficientista dei dirigenti giudiziari è manifestato dai rischi di trasformazione del “sistema giustizia” in una sorta di “sentenzificio”, che ha portato a quello che ritengo un unicum mondiale (se rapportato ai dati demografici della popolazione) della giustizia, quello cioè di una Corte di cassazione che, ad esempio in materia penale, produce più di sessantamila sentenze all’anno. Non mi pare che si debba essere esperti di statistica o fini processualisti e comparativisti: davvero si vuole credere e affermare che il servizio in questo modo reso possa essere più efficiente e qualitativamente superiore?
Esula dagli intenti di questo breve scritto un più compiuto esame della materia disciplinare: mi limito ad osservare che, anche in questo campo, i fatti, prima della teoria, abbiano dimostrato quanto fosse illusorio pensare che una progressiva tipicizzazione e moltiplicazione di fattispecie di illecito disciplinare, più o meno obbligatorie, potesse impedire derive etiche all’interno della magistratura (noto è del resto che l’inflazione delle fattispecie di illecito ponga inevitabilmente maggiori problemi di enforcement), mentre pare evidente il rischio che simili assetti spingano verso una “giustizia difensiva”, debole contro le parti più agguerrite e potenti, forte con quelle più deboli e meno aggressive, secondo una schema di inconvenienti che dovrebbe essere già ben noto alla luce della pratica ormai storica della cd. “medicina difensiva”. Che dire poi della proposta previsione di un organo ad hoc (la cd. Alta Corte disciplinare) che, per rimediare alla ritenuta inefficienza del Consiglio Superiore della magistratura, non sostituisca le competenze (del resto costituzionali) di quell’organo, ma si ponga come alternativa al controllo delle Sezioni Unite della Corte di cassazione, sul cui operato meno evidenti sembrano gli elementi di fondatezza di un giudizio complessivamente negativo. In disparte ogni considerazione sul fatto che la modellazione della cd. Alta Corte disciplinare sullo schema della Corte costituzionale non rappresenti affatto una garanzia in questo caso, posto la natura da alcuni ritenuti “ibrida” di quell’organo (giurisdizionale e politico), giustificata dalla sua funzione di controllore delle leggi, desterebbe invece più di una preoccupazione in riferimento al controllo disciplinare di un ordine che si vuole costituzionalmente autonomo e indipendente da ogni altro potere.
4. Cenni di conclusioni per un nuovo inizio.
Alla luce di quanto si è detto pare difficile dubitare che dalla riforma progettata e in atto della magistratura spirino forti venti contrari al sogno costituzionale, tratteggiato in esordio, che probabilmente andava ben al di là di quanto i singoli interpreti, istituzionali e non, hanno storicamente fatto esprimere a quel testo.
D’altro canto, pare altrettanto evidente che si tratti di venti di riforma che provengono da lontano, generati da squilibri (per così dire) “termodinamici” tra ciò che, da molto tempo e progressivamente, è avvenuto all’interno e all’esterno della magistratura.
Dunque, in un tempo di acceso dibattito sulla valutazione della riforma in atto, di discussione sulla legittimità di alcune forme di reazione (quali uno sciopero da alcuni ritenuto “politico” della magistratura, ma a difesa delle garanzie costituzionali di tutti i cittadini), credo che il problema debba essere affrontato alla radice e che l’attenzione debba essere riportata alla genesi di questa tempesta: la cosa a mio avviso più preoccupante di quanto sta avvenendo, infatti, è che la discussione, i progetti di riforma, gli atti già adottati, non affrontino minimamente le ragioni profonde della crisi del disegno costituzionale della magistratura o, addirittura, che aggravino la situazione, aggiungendo forza ai fattori che questa crisi hanno generato.
E allora partiamo prima di tutto da alcune evidenze: partiamo dunque dalla constatazione del fallimento pratico del metodo dell’anzianità residuale e degli indicatori di merito e attitudinali, che hanno finito per incoraggiare spinte carrieristiche all’interno della magistratura, incomparabili rispetto a quanto avveniva in precedenza, e per legittimare una sorta di gerarchizzazione dell’ordine (contraria al suo assetto costituzionale), se non di diritto certamente nei fatti e nella percezione all’interno della magistratura, oltre che accumulare nel Consiglio Superiore della Magistratura e negli organi di giustizia amministrativa poteri discrezionali senza eguali nella storia precedente, con margini estremamente esigui di controllo effettivo dell’operato e prevedibilità dei giudizi resi. Si tratta di un fallimento pratico che, a mio avviso, corrisponde anche al fallimento teorico di una indebita trasposizione di criteri aziendalistici a un ordine, come quelle dei magistrati, le cui funzioni devono rispondere a criteri che non si esauriscono in un mero efficientismo quantitativo (della produzione di provvedimenti), né a criteri qualitativi di valutazione ispirati a una esteriore conformità tra richieste ed esiti o tra giudizi nei vari gradi, neppure desiderabile in astratto del resto, in quanto finirebbe per ricondurre a una juristocracy delle giurisdizioni superiori e una gerarchizzazione della magistratura espressamente contraria al testo costituzionale.
Si abbia dunque il coraggio di riconoscere l’errore commesso e ridare centralità al criterio dell’anzianità. Non me ne vogliano i giovani colleghi, ma il mestiere di magistrato è un mestiere artigianale, si impara e si migliora facendo, con umiltà, con l’esercizio costante della prudenza per evitare di commettere di nuovo gli stessi errori, un mestiere che sappia riconoscere e sfruttare le conoscenze che gli vengono dagli esperti (professori, magistrati più anziani o migliori di noi): non è un mestiere da grandi scienziati del diritto; se si vuol fare l’ingegnere o il fisico teorico del diritto si doveva tentare la strada accademica, con tutti i privilegi, ma anche con tutti gi oneri e le criticità di quella strada. L’esperienza è costitutiva del buon magistrato: dunque l’anzianità non può e non deve essere demonizzata e non credo, alla luce di quanto storicamente avvenuto, che essa abbia rappresentato davvero un limite per una migliore giustizia, avendo invece rappresentato una soluzione minimale per salvaguardare il grande sogno costituzionale di un ordine istituzionale non gerarchico, che legittima la sua autonomia e indipendenza nel servizio-sottomissione alla legge, un sistema che ha consentito di evitare il dilatarsi pericoloso di spazi di discrezionalità da parte degli organi di auto-governo e ha permesso di mantenere sotto controllo l’inevitabile ambizione umana (ancor più pericolosa, per chi ha i poteri di un magistrato) e, infine, che aveva preservato la magistratura da sbandamenti tali da legittimare ingerenze reattive sempre più ficcanti da parte degli “altri poteri” di cui parla la Costituzione.
Anche le crescenti critiche al cd. “correntismo” in magistratura – che in tempi recenti hanno trovato sempre più numerosi e neofiti adepti, dopo anni di sostanziale silenzio e di sua indifferente o interessata pratica– credo siano in larga parte illusorie: la tendenza ad associarsi, a unirsi in gruppi e “sotto-gruppi”, insieme a chi condivide le stesse opinioni e idee, è a mio avviso una insopprimibile tendenza umana (prima che un diritto costituzionale). Il vero problema, semmai, è quello di promuovere un associazionismo “culturale”, di identità culturale tra gruppi di magistrati che condividono le medesime opinioni e idee in materia di giustizia e di suo esercizio, che non sia invece un associazionismo “politico” (di identità per adesione a ideologie esterne al giuridico, se mai è possibile la distinzione, collaterale alla politica esercitata in Parlamento) o un associazionismo di “interessi contingenti”, ispirato alla promozione personale e alla provvisoria condivisione di medesimi e variabili intenti pratici in quanto confluenti verso la realizzazione di comuni interessi egoistici. Mi rendo conto: tutto molto semplice da affermare in teoria, quasi “donchisciottesco” da realizzare in pratica, ma preferisco passare da idealista consapevolmente ingenuo, che da dissimulatore critico che ben sa, cinicamente, come quanto si butterà formalmente fuori dalla porta, ritornerà dentro, prontamente e sostanzialmente, dalla finestra alla prima occasione.
In secondo luogo, occorre evitare la tentazione delle “grandi sentenze” per il gusto delle grande sentenza che faccia parlare di sé, o delle “grandi indagini” per il gusto della grande indagine che ponga in primo piano l’inquirente, occorre contrastare, prima di tutto culturalmente, il “personalismo” giudiziario, riscoprendo il valore della condotta del magistrato come espressione di un atto dell’ufficio, ciò che si può realisticamente perseguire attualizzando i principi di sottoposizione alla legge e di obbligatorietà dell’azione penale, che sono il fondamento costituzionale dell’autonomia e della indipendenza della magistratura. È un falso mito pensare che la moderna scienza ermeneutica assegni una libertà senza limiti rispetto al testo, che essa legittimi un “uso alternativo del diritto” e che non sia possibile ricostruire, anche in tempi di dilagante “diritto giurisprudenziale”, un sistema di vincoli rispetto alla legge che consenta di dare nuova linfa al principio di sottoposizione alla legge e che consenta di distinguere tra “uso” e “interpretazione”. Come disse Umberto Eco, con la semplicità profonda dei grandi che non temono l’accusa di banalità: “c’è nel Codice Rocco un comma che s’intitola ‘Turbata libertà degli incanti’ e posso leggere questo titolo come un incipit poetico, fra rondismo ed ermetismo, sui fremiti di un’adolescenza delusa. Cio non toglie che le convenzioni linguistiche mi dicano che in quel testo ‘incanti’ vuol dire aste e l’articolo si riferisce alla turbativa d’asta. Ecco la differenza tra uso e interpretazione”.[14] Non si cerchino dunque alibi in pretesi e male intesi approdi della linquistica o della filosofia: il principio di sottoposizione del giudice alla legge, non solo resta ancora scritto nella nostra Costituzione, ma ha un preciso e fondamentale spazio di operatività. Allo stesso modo la limitatezza delle risorse o il numero dei reati commessi, non vuol dire selezione dei reati da perseguire secondo personali o variabili apprezzamenti delle singole Procure, ma secondo criteri obiettivi e verificabili, del resto ampiamente noti a seguito degli studi in merito. Ridimensionato il ruolo del magistrato, come ricostruttore dei significati possibili e selezionati dal contesto e come ragionevole titolare di un’azione penale che resta obbligatoria, si potrà forse ripensare allo stesso come espressione di un ufficio, riguadagnando in termini di tutela contro aggressioni e ingerenze sulla persona, quanto si perde in termini riconoscimento personale e merito: per il costituente la magistratura è un servizio, non uno strumento di affermazione di ambizioni personali (nel caso ci si rivolga ad un altro cursus honorum o ad altre professioni che a questo lascino maggiori spazi).
In terzo luogo, non me ne vogliano gli amici professori (lo si fa non contra, ma pro academicos), occorre che la dottrina riscopra il suo ruolo, che essa rifiuti di essere mera glossatrice di “sentenze didattiche”, che oltre a decidere il caso concreto si presentano come vere e proprie ricostruzioni di sistema, e recuperi un effettivo ruolo critico che, per essere efficace e recepito, deve però dimostrarsi capace di “theoria”, cioè di visione e previsione di tutte le conseguenze nei diversi casi che realisticamente si possono dare, oltre quello deciso, evitando un’astrattezza priva di concrete ricadute o sentimentali adesioni a ideologie, che sempre più sanno di pensiero unico e che rischiano di far smarrire quella neutralità tecnica che sola permette di giustificare una “scienza” del diritto, che non sia mera “politica” del diritto.
Infine, essendo quello del disegno costituzionale della magistratura un grande sogno appartenente a tutti, non certo ai soli magistrati, spero che – anche e soprattutto grazie all’aiuto dei costituzionalisti (che auspicherei più attivi) – si possa rendere maggiormente consapevoli tutti, esercenti di qualsiasi professione forense o in genere cittadini, dei contenuti effettivi di questo disegno, dell’importanza di quanto si sta perdendo e di una resistenza che non sia intesa come difesa corporativa, ma come salvaguardia di un sistema comune da consegnare anche alle generazioni future, che i costituenti, grazie alla sofferenza patita e all’autorevolezza morale di chi aveva provato le proprie convinzioni anche a rischio della vita, ci hanno donato.
Contro i venti contrari, come sa ogni buon navigante, si deve andare di bolina: queste le direzioni a mio avviso da prendere, direzioni che chiamano noi tutti a una reazione prima di tutto “culturale”, di proposta (prima di tutto nella quotidianità dell’esercizio del nostro lavoro, ancor prima che nei dibattiti nelle varie sedi), di un modello di magistrato nuovo e allo stesso tempo antico, in quanto radicato nel disegno costituzionale mai del tutto attuato e di cui si sta clamorosamente smarrendo il senso: un magistrato appartenente a un ordine non gerarchico, che si distingue non per grado ma per funzioni, che radica la sua autonomia e indipendenza da ogni altro potere nella sua soggezione soltanto alla legge e all’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione, a tutela del valore supremo dell’uguaglianza di tutti di fronte alla legge.
[1] Ad es., tra i molti, v. di recente S. Cassese, Il governo dei giudici, 2022
[2] In particolare mi riferisco al la legge 27 settembre 2021, n. 134 di delega al Governo per l’efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari, e al disegno di legge (A.C. 2681-A, ora A.S. 2595) approvato dalla Camera, che delega il Governo a riformare l'ordinamento giudiziario e ad adeguare l'ordinamento giudiziario militare, introduce nuove norme, immediatamente precettive, in materia ordinamentale, organizzativa e disciplinare, di eleggibilità e ricollocamento in ruolo dei magistrati e di costituzione e funzionamento del Consiglio superiore della magistratura. Come noto, poi, con 5 decreti del Presidente della Repubblica del 6 aprile 2022, è stata fissata al 12 giugno 2022 la data per la votazione su 5 referendum abrogativi sulla giustizia, dichiarati ammissibili dalla Corte Costituzionale con le sentenze nn. 56, 57, 58, 59 e 60 del 2022).
[3] Citato in A. Marchese, Visiting angel. Interpretazione semiologica della poesia di Montale, Torino, 1977, p. 12.
[4] J. Derrida, De la grammatoligie, Paris, 1967. Per una introduzione al tema cfr. M. Ferraris, La svolta testuale. Il decostruzionismo in Derrida, Lyotard, gli “Yale Critics”, 1984. Sulla declinazione giuridica del decostruzionismo è nota la polemica tra Dworkin e Fish (S. Fish, Is there a Text in This Class? The Authority of Interpretative Communities, 1980); sul tema in Italia v. almeno il fondamentale G. Zaccaria, Questioni di interpretazione, 1996, pp. 227-246.
[5] Per tutti v. M. Vogliotti, Lo scandalo dell’ermeneutica per la penalistica moderna, in Quaderni fiorentini, 2015, p. 131 ss.
[6] V. L’uso alternativo del diritto. Vol. I - Scienza giuridica e analisi marxista. Vol. II - Ortodossia giuridica e pratica politica (a cura di P. Barcellona), 1973.
[7] Vista la sterminata letteratura in proposito sia consentito rinviare per i riferimenti bibliografici a T. Epidendio, Riflessioni teorico-pratiche sull’interpretazione conforme, in Diritto Penale contemporaneo – Rivista Trimestrale, 3-4 2012
[8] Ad es. M. Dell’Utri, Processo mediatico e difesa della persona, in Giustizia Insieme, 2022
[9] Cfr. artt. 10, 12 e 45 del d.lgs. n. 160 del 2006. Per una recente disamina dei possibili e più gravi effetti del disegno di legge sulla riforma dell’ordinamento giudiziario v. Riccardo Ionta, I nuovi condizionamenti del magistrato e altri che non passano mai, in Giustizia Insieme, 2022.
[10] F. Cordero, Procedura penale, VIII ed., 1985
[11] Per una disamina anche storica delle valutazioni di professionalità in magistratura v. con ampli riferimenti P. Serrao D’Aquino,Le valutazioni di professionalità dei magistrati, in Giustizia insieme, 2020
[12] Cfr. Consiglio di Stato, Sezione quinta, Sentenza 21 maggio 2020, n. 3213
[13] Cfr. il citato art. 45 del d,lgs n. 160 del 2006, la cui lettera pare stigmatizzare il comportamento di chi, scaduto da un incarico direttivo, non ne chiede o non ne ottiene altro, “punendolo” con l’attribuzione di funzioni “non direttive” nel medesimo ufficio.
[14] U. Eco, I limiti dell’interpretazione, IV ed., 2004, p. 127.