GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    Processo mediatico e difesa della persona

    Processo mediatico e difesa della persona*

    di Marco Dell’Utri 

    L’antropologia culturale invita a considerare la dimensione rituale o sacrale del processo, in cui la violenza del conflitto è sublimata nel linguaggio. Fuori dal contesto spazio-temporale del processo, la violenza del conflitto deflagra, ‘scatenata’, pur conservando la propria intima natura politico-culturale, e diviene, attraverso la progressiva democratizzazione dei nostri sistemi, uno dei capitoli più rilevanti della c.d. ‘società dello spettacolo’.

    Il richiamo alla riflessione di Walter Benjamin, sull’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, offre quindi lo spunto per un ripensamento, lungo quelle coordinate, delle forme attraverso le quali la violenza del conflitto processuale diviene, filtrata dalle logiche del capitale, un potente strumento di repressione sociale. Un’operazione a cui è dato rispondere, individualmente, attraverso la rimeditazione, in chiave politica, della protezione dei dati personali e, collettivamente, mediante l’impegno alla trasmissione della cultura come assunzione cosciente di un debito generazionale.

    Sommario - 1. Processo, ritualità, violenza. – 2. Processo e riflessione storico-culturale. – 3. Processo, democrazia e società dello spettacolo. – 4. Il processo nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. – 5. Processo, consumo e repressione sociale. – 6. Processo mediatico e trattamento dei dati personali. – 7. Sulla trasmissione della cultura.

    1. Processo, ritualità, violenza  

    La comprensione dei modi attraverso i quali la comunicazione di massa agisce sul processo richiede lo svolgimento di una riflessione di carattere preliminare, destinata a mettere in luce i termini di una struttura processuale essenziale.

    Non aiuta, in questo senso, una certa (diffusa) inclinazione ‘produttivistica’ nella considerazione dei temi del processo.

    L’accostamento del processo all’idea della ‘produzione’ induce a guardarvi come a un’attività servente o strumentale alla realizzazione di fini ad essa estranei; un impegno vòlto, attraverso la tecnica giudiziaria, al compimento del prodotto, e dunque del giudizio (la decisione, la sentenza), di regola chiamato a tradurre, in termini matematici, uno dei principali indici di misurazione della produttività del giudice.

    Un’antica tradizione di origine aristotelica[1] – la cui più recente riscoperta ha costituito un tratto essenziale di gran parte del pensiero etico-politico del Secondo Novecento[2] – invita a distinguere, della vita pratica dell’uomo, l’attività produttiva (la poiesis, governata dalla techne) dalla prassi (la praxis), avente se stessa quale propria finalità: l’attività per cui l’uomo pone la propria stessa azione come oggetto di un percorso di graduale educazione e perfezionamento, attraverso il governo (non già della ‘tecnica’, bensì) della ‘saggezza’ (phronesis).

    Produzione e prassi (poiesis e praxis) valgono a distinguersi dunque in ciò, che il sapere teorico generale di cui l’uomo dispone è destinato, nella produzione che si avvale della tecnica (techne), a trasferirsi sulle cose allo scopo di trasformarle in conformità ad esso; per cui il prodotto, come fine di per sé estraneo all’attività produttiva, diviene lo specchio (o, meglio uno specchio) concretizzato del sapere teorico.

    Nel caso della prassi, governata dai canoni della saggezza (phronesis), il sapere teorico generale è viceversa chiamato a combinarsi o a ‘contaminarsi’ con la realtà, con le circostanze e le vicende del mondo, affinché sappia modificarle, ma insieme anche lasciarsene modificare, sì da dar luogo a una nuova forma di sapere capace, con saggezza, di coniugare, e tenere insieme, il generale e il particolare.

    Seguendo il filo di queste linee argomentative, alla descrizione dell’attività processuale sembra dunque convenire la qualificazione nei termini di una prassi, ossia di una specifica attività pratica, governata dalla saggezza, che ha fine in sé stessa.

    Ogni atto del processo è il giudizio stesso (in taluni contesti, ‘processo’ e ‘giudizio’ sono usati come sinonimi): in realtà, il processo è il giudizio che si va facendo in un tempo e in un luogo determinati, in una dimensione spazio-temporale specificamente qualificata.

    È determinante la comprensione della circostanza per cui lo spazio e il tempo giocano un ruolo costitutivo essenziale per la formazione e la realizzazione del processo: fuori da un certo spazio e da un certo tempo non si dà alcun processo, né alcun giudizio.

    Il riferimento allo spazio e al tempo del processo non è qui (tanto) inteso nel senso in cui l’essenzialità del luogo compare nella norma costituzionale sulla ‘naturalità’ del giudice (art. 25 Cost.), o nelle norme sulla competenza o nell’istituto della rimessione o del c.d. legittimo sospetto (art. 45 c.p.p.).

    Il richiamo alla dimensione spazio-temporale del processo è piuttosto operato, ai fini del discorso che si conduce, in relazione alla singolare concretezza dell’udienza, intesa come spazio strutturato nelle forme di un particolare arredamento e destinato ad essere vissuto in uno specifico tempo, che è il tempo della presenza di soggetti che convengono ed agiscono in una forma regolata.[3]

    L’accentuata valenza simbolica della fenomenologia giudiziaria ci avverte che il processo regolato dalla legge è un evento che accade, propriamente, nel luogo e nel tempo di un ‘rito’: la dimensione ‘rituale’ dell’attività giudiziaria (di ‘rito civile’ o di ‘rito penale’ discorrono, di regola, gli studiosi del processo) rivela (secondo quanto insegna da sempre l’antropologia culturale) le forme di quell’essenziale (e irrinunciabile) meccanismo di trasformazione, in simbolo, della violenza del conflitto: in breve, il processo opera la sublimazione e l’addomesticamento della violenza in linguaggio.

    In un recente libro sulle ‘storie e le immagini del processo’ (scritto, nel quadro dell’esperienza di studi del c.d. Law and  Literature Movement, da uno studioso del processo civile italiano) si legge come costituisca «un dato acquisito all’antropologia culturale e giuridica, la propensione di ogni collettività organizzata a risolvere le liti tra i consociati, e a gestire le reazioni ai comportamenti antisociali, trasferendo le une e le altre in una dimensione metaforica e in un mondo artificiale strutturato, sotto ogni aspetto rilevante, come un dopo una gara. E si potrebbe dire che proprio questa, nelle cosiddette società primitive, è l’origine del processo: il quale consiste fondamentalmente nell’utilizzare una struttura ludica agonistica (che, come tale, sarebbe fine a sé stessa) in funzione della composizione di controversie e affari reali, cioè per attuare finalità socialmente ed economicamente rilevanti».[4]

    Questo addomesticamento del conflitto e della violenza in linguaggio trova un suo corrispettivo, nel processo, nella cura delle parole e dei ragionamenti, nella meticolosa e tradizionale abitudine del ceto dei giuristi di lavorare sulla parola, sul senso logico delle proposizioni e delle argomentazioni e, infine, sul rigore che lega il senso di queste argomentazioni al conforto delle evidenze obiettive, delle prove, che si formano nello stesso processo.

    La formalizzazione in rito della violenza del conflitto rende l’accadimento del processo un evento ‘grave’, a cui si addice la ‘gravità’ del tono dei partecipanti; è un evento che vive della strutturale ‘pesantezza’ della materialità dei gesti ripetuti e delle parole performative, ossia delle parole che non sono primariamente destinate a comunicare un significato, bensì direttamente a cambiare le cose, a fare, foucaultianamente, ‘cose con parole’.

    La strutturale gravità, la pesantezza, spesso l’incomprensibilità, per i laici, del processo, nella ritualità delle sue forme, ci presenta i tratti di una rappresentazione che, fuori dai suoi momenti di maggiore pregnanza emotiva (l’assunzione di una particolare testimonianza; l’atto della lettura del dispositivo) diviene financo noioso.

    2. Processo e riflessione storico-culturale  

    Ma il processo è anche il simbolo di una società che riflette sui suoi valori.

    Il riferimento corre in primo luogo, come può intuirsi, alla narrazione evangelica del giudizio di Pilato e del Crucifige popolare.[5] E, prima ancora, all’esperienza di Socrate, primo drammatico atto di un confronto, quello tra le esigenze realistiche della politica e i più larghi orizzonti della cultura, tragicamente consumato lungo il ‘dialogo’ del processo ateniese.[6]

    All’esperienza del ‘giudizio’ e del ‘processo’ fu quindi successivamente legata la difesa di quella cultura che la Chiesa aveva lungamente elaborato, conservato e diffuso nei secoli interminabili della clausura monastica e della successiva organizzazione universitaria.

    La storia dell’intolleranza e la lunga stagione delle guerre di religione, che tanta parte avrebbero avuto nel disegno dei confini europei, non solo politici, toccano e attraversano la vicenda giudiziaria dell’Inquisizione, consegnando all’orizzonte della ricognizione storica la testimonianza di significative esperienze giudiziarie, di cui gli esempi di ‘intellettuali’ come Tommaso Campanella o Giordano Bruno costituiscono una fedele attestazione.

    Nel medesimo arco di tempo, ma nel contesto di un’esperienza storica e culturale del tutto diversa, si collocano le vicende della condanna subita da Tommaso Moro[7], cui occorre risalire per la ricostruzione dei momenti determinanti del processo di consolidamento dell’autonomia politica britannica e della tradizione ecclesiastica anglicana.

    Di un altro celebre ‘processo’ - violentemente condotto ed amaramente concluso con il rinnegamento e l’umiliante abiura galileiana – occorre dire, là dove l’esempio di un contesto giudiziario impaziente, ed insofferente al dialogo scevro da pregiudizi, assurge a simbolo del contrasto irriducibile e dell’insanabile conflitto tra il dogmatismo religioso e le orgogliose pretese del pensiero scientifico nascente.

    È ancora la sommarietà del processo e, simbolicamente, i suoi terribili strumenti di esecuzione, ad occupare la scena sanguinosa della stagione del ‘Terrore’ e dell’intransigenza giacobina, nel quadro di quella trasfigurazione radicale che fu la rivoluzione borghese, sul piano della riorganizzazione politica, del risveglio delle coscienze popolari, della prima stagione europea della costituzionalizzazione dei ‘diritti naturali’, che solo pochi anni prima aveva conosciuto, sul suolo nordamericano, il proprio battesimo storico.

    La rapida ricognizione (evidentemente incompleta, e certamente suscettibile di arricchimenti non meno significativi), intessuta di momenti così cruciali della storia del pensiero e della cultura occidentale, nel loro incontro con il luogo del processo ed, alla fin fine, con il loro ‘giudice’ (dove questi - lungi dall’identificarsi con l’individualità della sua persona - appare più spesso intuito come l’espressione soggettiva della cultura del proprio tempo), invita a riflettere sul dato, storicamente ricorrente, costituito dall’esigenza, talora dalla tentazione irresistibile, del potere, di ricorrere all’organizzazione del ‘giudizio’, ed alla elaborazione dialettica del confronto, là dove le urgenze della storia impongono la necessità di una possibile conferma dell’esistente (talora trepidamente cercata, più spesso violentemente imposta), ovvero la disponibilità all’umile ricezione ed al successivo consolidamento di un ‘nuovo’ pensiero.

    In ogni caso, il ricorso al processo appare storicamente alimentato (a fronte dell’incessante violazione dell’ordine costituito) da una continua tensione, connaturata al sistema politico, di ‘ricapitolazione’ del ‘senso’ dei propri valori (normativamente espressi); degli stessi disponendo, di volta in volta, la conferma, la revisione, l’aggiornamento, l’annuncio della caduta, sulla via di una possibile, ma sempre precaria ed incerta, ‘stabilizzazione’.[8]

    Dunque, ogni società organizza il suo processo come luogo che è, accanto ed oltre al giudizio sui fatti, anche una forma di laboratorio culturale ed etico-politico.

    La valenza politica del processo richiede che del processo socialmente si parli e che del processo si dia notizia; che lo si ponga a oggetto di discussione e su cui sia opportuno si formino opinioni.

    A testimonianza di questa osservazione varrà richiamare il contributo fornito dalla storia della cultura, là dove ci insegna come la figura moderna dell’intellettuale sia nata e si sia affermata, in corrispondenza al cosiddetto affaire Dreyfus, ai margini di un processo giudiziario.[9]

    Il significato e il valore di quella vicenda chiedono d’essere ricercati nella rottura (che il J’accuse di Zola ebbe plasticamente e clamorosamente a rappresentare) degli argini politico-istituzionali, entro i cui confini una lunga tradizione politica e culturale aveva rinchiuso la ricerca ‘dialettica’ di quella ‘stabilizzazione culturale’ che il processo aveva, talora, simbolicamente rappresentato, e le clausure dell’accademia garantito, nel segno di una riconoscibile vocazione elitaria della cultura.

    Nell’ambito di quell’esperienza occasionata dal processo, la ‘pubblicizzazione’ e la diffusione popolare del dialogo sui temi di più rilevante impegno etico politico e sociale, ad opera dei più noti scrittori e ‘intellettuali’ del tempo, valsero a segnalare l’esigenza - ormai non più eludibile - di una più larga ‘partecipazione’ collettiva ai processi di formazione e di consolidamento dell’ancora incompiuta e balbettante democrazia francese, nel passaggio tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del secolo appena trascorso.

    Tradotta nei termini di un discorso storicamente e culturalmente più impegnativo, la notazione assume un suo preciso valore ove si connettano il piano del coinvolgimento politico dell’intellettuale e del pubblico esercizio critico sui temi connessi all’attualità, a quello dell’allargamento degli spazi di partecipazione politica delle masse; là dove il dibattito suscitato dall’homme de lettre nell’ambito più vasto dell’‘opinione pubblica’, sottraendo l’esclusività della funzione di ‘laboratorio morale’ della comunità alle clausure dell’accademia, si offre quale occasione di approfondimento della partecipazione democratica collettiva.

    In questo senso, l’orientamento repressivo rivelato dalle esperienze processuali più sopra ricordate, fino al tornante della Rivoluzione francese, tende ad attenuarsi e a stemperarsi nella progressiva realizzazione delle garanzie di libertà e di rispetto della persona implicate dall’organizzazione delle moderne entità statuali. In queste, la stessa esigenza (più o meno avvertita nel tempo e nello spazio) della preservazione dell’autonomia e dell’indipendenza del potere giudiziario da quello politico pone le premesse di una progressiva trasformazione dell’attività giudiziaria, là dove il processo ‘democratico’ tende a divenire, da ‘luogo’ della repressione formalizzata, lo ‘spazio’ delle ‘ragioni degli altri’ nell’interpretazione dei valori comuni.

    Uno spazio che acquista il suo senso financo nell’ascolto, solo apparentemente paradossale, che si fa dolente comprensione dell’inaccettabile inclinazione al Male degli uomini condotti al crocevia di Norimberga.

    3. Processo, democrazia e società dello spettacolo  

    Rinunciare all’apertura pubblica dei processi, al valore democratico della partecipazione popolare ai temi processuali, significherebbe ormai, nel contesto della cultura contemporanea, rinnegare i presupposti di un percorso di civiltà politica e culturale.

    È sufficiente, a voler esemplificare il significato di simili asserzioni, l’osservazione delle più recenti vicende politiche internazionali e, in particolare, le notizie sul divieto diffuso in Turchia (non solo di riprendere attraverso telecamere o macchine fotografiche, bensì) di disegnare durante i processi: un fatto destinato a fornire una spiegazione molto eloquente sull’essenzialità, in chiave democratica, della comunicazione delle stesse immagini del processo.[10]

    Il modo attraverso il quale il processo viene comunicato pubblicamente è, nel nostro tempo, quello che (occorre dire, strutturalmente, e quindi inevitabilmente) ha finto col provocare l’inevitabile e progressiva (ma in larga misura, già compiuta) ‘desacralizzazione’ degli atti della giustizia.

    Si tratta di un’operazione che può ritenersi il portato proprio della società dello spettacolo, di quella società che lo stesso Guy Debord aveva definito, negli anni Sessanta, come la società in cui i rapporti tra gli individui sono mediati da immagini.[11]

    Il processo di desacralizzazione degli atti della giustizia (che, in ultima analisi, si traduce nella sottrazione del processo alla sua materia sacrale, ossia al suo specifico luogo fisico e al tempo storico della ‘presenza’ infungibile dei suoi attori), avviene dunque attraverso la mediazione dell’immagine del processo.

    Si tratta, tuttavia, di un’immagine che, per poter essere veicolata socialmente, per poter catturare l’attenzione e dunque l’interesse dei suoi destinatari, richiede di essere filtrata, manipolata, spogliata di tutti i suoi vestimenti rituali che la rendono grave, pesante, noiosa e incomprensibile, per sottoporla a un processo di semplificazione, di adattamento al consumo, e dunque a quel confezionamento che è esattamente il prodotto circolante nell’industria mass-mediatica.

    Naturalmente, si tratta di prodotti di varia natura e di diversa destinazione, poiché l’adattamento del processo alle esigenze della comunicazione di massa cambia a seconda dello scopo della comunicazione: dall’informazione in sé (un telegiornale o un rotocalco di approfondimento civile o politico), alla rappresentazione del processo come forma di spettacolo.

    Si tratta di operazioni che, in termini strettamente industriali, vanno da una minore ‘raffinazione’ (secondo lo stile, ad esempio, di un programma come Un giorno in pretura, in cui le fasi del processo vengono riprese e riproposte in modo diretto, sia pure attraverso un lavoro di taglio e di rimontaggio guidato dalle spiegazioni della conduttrice), ad altre forme assai più elaborate, in chiave produttiva, in cui, per lo più a fini di intrattenimento (o di infotainment, secondo il neologismo che designa il progetto di mescolare, in un unico contenitore, informazione e intrattenimento), si tenta di ‘ripetere’ o di ‘rifare’ il processo attraverso il ricorso ad altre forme ed altri strumenti.

    In ogni caso, si tratta di trasformare il processo in ‘qualcosa’ di sostanzialmente diverso dal processo, poiché quel ‘qualcosa’, strappando il processo al suo tempo e al suo spazio, ne ha disincarnato l’essenza.

    È agevole comprendere questo aspetto di disincarnazione del processo dalla sua ‘essenza sacrale’ attraverso l’evocazione di quelle situazioni in cui, ad esempio, un testimone o la vittima di un determinato reato (si pensi a una violenza sessuale, o anche alla richiesta di rievocazione di momenti particolarmente dolorosi per chi è chiamato a narrarli) viene chiamato dal giudice ad ‘entrare nei particolari’, a precisare la descrizione di momenti o situazioni peculiari, talora vincendo o superando le comprensibili resistenze, i pudori e a volte la stessa sorpresa del proprio interlocutore, impreparato a entrare, pubblicamente, in un discorso per definizione ‘osceno’.

    L’oscenità di cui si parla è qui intesa nel senso di ciò che, per consuetudine, dovrebbe rimanere lontano dallo sguardo, e la cui esibizione rimanda con immediatezza a una sensazione di violenza, naturalmente connessa alla sua immagine. Qualcosa che per sussistere necessita dell’oscurità e del silenzio come del suo ambiente naturale; che, se esibita impudicamente, non può che veder compromessa e corrotta la propria natura. Vi sono sguardi che bruciano ciò che vedono e rispetto ai quali il pudore ha il senso di una difesa essenziale.[12]

    Quei precisi e delicati momenti del processo (di per sé destinati a contribuire alla ricostruzione dei fatti, solo in questa misura giustificando il potere del giudice o dei difensori di entrare in una sfera altrimenti inaccessibile) diviene, in quel ‘qualcosa’ che è l’immagine spettacolare del processo, pettegolezzo, irriverenza, simulacro di un’autorizzazione all’invasione della vita e dei sentimenti altrui, al solo scopo di un compiacimento fine a se stesso (ossia di un puro consumo a fini di evasione). Diventa violenza nuda.

    Questa specifica disincarnazione del processo dalla sua essenza di frammento spazio-temporale (ossia di un fenomeno che ha un senso solo nel luogo e nello spazio che lo ospita e nella ‘presenza’ formalizzata dei suoi attori) determina, come fatto più grave (sotto il profilo del rispetto della persona), la spoliazione di tutti i protagonisti del processo della loro ‘veste’ processuale, e dunque del loro valore di protagonisti di un rituale di esorcizzazione della violenza che, non più sublimata nel linguaggio e nelle forme della sua rappresentazione simbolica, si ‘scatena’ in tutta la sua cruda naturalità e chiede di parteciparvi.

    Il grumo di violenza ritualizzata in cui consiste il processo assume, fuori dalle sue forme regolate, la fisionomia della violenza ‘scatenata’, del conflitto senza limiti. Si tratta della rappresentazione per immagini della pura aggressività in cui la richiesta di partecipazione è, propriamente, quella che invita a ‘schierarsi’ secondo la variabile configurazione delle tonalità emotive che (inevitabilmente) prevalgono sul distacco del pensiero logico-critico.

    Il disvelamento della violenza del processo al di fuori dei suoi confini rituali porta con sé la conseguenza per cui ogni sofferenza e ogni debolezza personale (nessuna esclusa, dalla sofferenza della vittima colpita nella sua intimità, a quella dell'imputato spogliato di ogni sua riservatezza, a quelle degli stessi professionisti, i difensori o il giudice, inevitabilmente soggetti a errori, a cadute o insufficienze) si trova adesso gettata, nuda e indifesa, in un ruolo di protagonista di un fenomeno (l'immagine circolante del processo) naturalmente violento, totalmente governato dagli obiettivi e dagli interessi dei suoi produttori, ossia degli ‘editori’ dello ‘spettacolo-giustizia’.[13]

    Converrà ammonire come i fenomeni descritti non vadano necessariamente ascritti all’espressione di una scelta di tipo banalmente speculativo, trattandosi di epifenomeni strutturali tipici dei modelli di società, come la nostra, che organizza le forme della produzione secondo una struttura di tipo capitalistico, e che si avvale di elevati livelli di sofisticazione tecnologica nelle modalità della comunicazione in un contesto politico di tipo democratico.

    La natura strutturale e, dunque, il carattere inevitabile del fenomeno legato alla produzione delle immagini del processo destituisce di qualunque significato ogni eventuale scopo politico destinato a combatterlo o ad eliminarlo; una simile opzione, infatti, equivarrebbe a negare, e in qualche misura a tradire, il senso stesso delle radici di quella stessa cultura civile e democratica, lungamente costruita e faticosamente realizzata nel tempo.

    Assume piuttosto valore, da questa prospettiva, l’analisi del senso di tale sviluppo storico e l’indicazione delle tracce che valgano a prefigurare una possibile combinazione tra la necessità sociale del processo e l’inclinazione strutturale alla pervasività propria della comunicazione di massa. 

    4. Il processo nell’epoca della sua riproducibilità tecnica

    Nel corso della seconda metà degli anni Trenta, Walter Benjamin scrisse il saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica[14], ponendosi l’obiettivo di analizzare – nei termini di un’argomentazione largamente dominata da premesse teoriche d’indole marxiana – il destino dell’opera d’arte, e dell’esperienza della sua fruizione, nel tempo governato dall’operatività di strumenti tecnologici idonei ad assicurare la riproducibilità di quell’opera in forme materiali concretamente capaci di raggiungere un numero illimitato di fruitori.

    Là dove, in precedenza, l’esperienza contemplativa legata all’ascolto di un concerto, o alla visione di un quadro, di una statua, di una rappresentazione teatrale, esigeva la contemporanea presenza dell’opera, dei suoi esecutori e del fruitore in un medesimo contesto spazio-temporale (la sala del concerto, il museo espositivo, il teatro), adesso il disco, la fotografia o il film, valgono a ricostruire in modo totalmente sovvertito le modalità del contatto del singolo fruitore con l’opera (o, meglio, con la sua riproduzione) in una forma totalmente dislocata nello spazio e nel tempo, in un luogo privato e in un momento arbitrariamente prescelto, dove l’esperienza contemplativa, totalmente allontanata dalla materialità o dalla concreta ‘presenza’ dell’originale dell’opera, assume connotati che s’intuiscono radicalmente sovvertiti.

    Anche “nel caso della riproduzione più perfetta, manca un elemento: l’hic et nunc dell’opera d’arte - la sua esistenza unica è irripetibile nel luogo in cui si trova”.[15]

    Le modificazioni delle circostanze indotte dalla riproduzione tecnica dell’opera “possono anche lasciare intatta la consistenza intrinseca dell’opera d’arte - ma in ogni modo determinano la svalutazione del suo hic et nunc” e, dunque, “la sua autenticità. L’autenticità di una cosa è la quintessenza di tutto ciò che, fin dall’origine di essa, può venir tramandato, dalla sua durata materiale al suo carattere di testimonianza storica. Poiché quest’ultima è fondata sulla prima, nella riproduzione, in cui la prima è sottratta all’uomo, vacilla anche la seconda, il carattere di testimonianza storica della cosa. Certo, soltanto questa; ma ciò che così prende a vacillare è precisamente l’autorità della cosa, il suo peso tradizionale. Questi tratti distintivi possono essere riassunti nella nozione di aura; e si può dire: ciò che viene meno nell’epoca della riproducibilità tecnica dell’opera d’arte è la sua aura”.[16]

    La tecnica della riproduzione “sottrae il riprodotto all’ambito della tradizione. Moltiplicando la riproduzione, al posto del suo esserci unico essa pone il suo esserci in massa. E permettendo alla riproduzione di venire incontro a colui che ne fruisce nella sua particolare situazione, attualizza il riprodotto. Ma il significato sociale, anche nella sua forma più positiva, e anzi proprio in questa, non è pensabile senza quella distruttiva, catartica: la liquidazione del valore tradizionale dell’eredità culturale”.[17]

    All’interrogativo su cosa sia l’aura in realtà, Benjamin risponde: “una singolare creazione spazio-temporale: apparizione unica di una lontananza, per quanto questa possa essere vicina. Seguire, in un pomeriggio d’estate, una catena di monti all’orizzonte oppure un ramo che getta la sua ombra su colui che si riposa - ciò significa respirare l’aura di quelle montagne, di quel ramo. Sulla base di questa descrizione è facile comprendere il condizionamento sociale dell’attuale decadenza dell’aura. Essa si fonda su due circostanze, entrambe connesse con la crescente importanza delle masse e la crescente intensità dei loro movimenti. E cioè: rendere le cose, spazialmente e umanamente, ‘più vicine’ è per le masse attuali un’esigenza vivissima, quanto la tendenza al superamento dell’unicità di qualunque dato mediante la ricezione della sua riproduzione. Ogni giorno si fa valere in modo sempre più della sua riproduzione”.[18]

    L’aspetto positivo dell’universalizzazione dell’esperienza dell’arte attraverso la sua riproduzione tecnica è rappresentato, per Benjamin, dalla politicizzazione della sua essenza che sancisce la fine della sua autorità sacrale e metafisica: “per la prima volta nella storia del mondo la riproducibilità tecnica dell’opera d’arte emancipa quest’ultima dalla sua esistenza parassitaria nell’ambito del rituale. In misura sempre maggiore l’opera d’arte riprodotta diventa la riproduzione di un’opera d’arte predisposta alla riproducibilità. Di una pellicola fotografica, per esempio, è possibile tutta una serie di copie; chiedersi quale sia la copia autentica non ha senso. Ma nell'istante in cui nella produzione dell’arte viene meno il criterio dell’autenticità, si trasforma anche l’intera funzione dell’arte. Al posto della sua fondazione nel rituale s’instaura la fondazione su un’altra prassi: vale a dire il suo fondarsi sulla politica”.[19]

    5. Processo, consumo e repressione sociale  

    Il lettore avrà agevolmente compreso lo stretto nesso di corrispondenza analogica che si è inteso istituire, attraverso la riflessione di Walter Benjamin, tra l’esperienza ‘auratica’ dell’opera d’arte e la partecipazione al processo giudiziario nella forma della ‘presenza’, e dunque secondo la sua dimensione propriamente sacrale o rituale.

    Converrà seguire sin nelle sue più profonde implicazioni il significato della sostanziale sovrapponibilità dei processi storico-culturali che hanno progressivamente trasformato, attraverso la moltiplicazione e la diffusione delle relative immagini, l’aspetto sacrale e autoritario – e dunque l’aura – dell’opera d’arte (e del processo giudiziario) in un rapporto di massa.

    La dissacrazione e la destituzione dell’autorità auratica hanno senso, sul piano storico-culturale, unicamente là dove la riproduzione e la diffusione dell’immagine a beneficio delle masse riesca nell’intento di realizzare il proprio scopo specificamente politico; ciò che si traduce nell’estensione della partecipazione democratica, tanto nei confronti dell’esperienza estetica, quanto della riflessione collettiva sul processo giudiziario come momento di rielaborazione storico-culturale.

    Ma in una società in cui i rapporti tra i singoli appaiono largamente informati, o compromessi, dagli interessi del profitto, la strumentalizzazione a fini commerciali dell’immagine dell’opera (o del processo) finirà con lo sterilizzarne la dimensione propriamente politica, frustrandone definitivamente gli scopi, con la realizzazione del vantaggio (commerciale) di pochi e la negazione dell’accesso della massa al senso proprio dell’opera come forma comunicativa, o del processo come laboratorio etico-politico.

    Con specifico riferimento all’esperienza cinematografica, Benjamin osserva come il controllo della dimensione politica di quella forma comunicativa potrà aver luogo unicamente “quando il cinema si sarà liberato dalle catene del suo sfruttamento capitalistico. Infatti, attraverso il capitale cinematografico le opportunità rivoluzionarie di questo controllo vengono trasformate in controrivoluzionarie. Il culto del divo da esso promosso, non solo conserva quella magia della personalità che già da tempo è ridotta alla magia fasulla propria del suo carattere di merce, ma il suo complemento, il culto del pubblico, contemporaneamente promuove quella corruzione dello stato d’animo della massa che il fascismo cerca di mettere al posto della coscienza di classe. […] In questa situazione, l’industria cinematografica ha tutto l’interesse a imbrigliare, mediante rappresentazioni illusionistiche e mediante ambigue speculazioni, la partecipazione delle masse. […] L’industria cinematografica ha tutto l’interesse a pungolare la partecipazione delle masse attraverso ambigue speculazioni. A tale scopo ha messo in movimento un imponente apparato pubblicistico: ha messo al suo servizio la carriera e la vita amorosa dei divi, ha organizzato plebisciti, ha indetto concorsi di bellezza. Tutto questo al fine di falsare, per via corruttiva, l’originario e giustificato interesse delle masse per il cinema, un interesse per la conoscenza di sé e pertanto anche per la conoscenza della propria classe. […] Un bisogno innegabile di nuove condizioni sociali viene segretamente sfruttato nell’interesse di una minoranza possidente”.[20]

    Commercializzare la circolazione dell’immagine del processo assume dunque il significato della frustrazione dei suoi contenuti politici, per enfatizzarne la dimensione meramente emotiva, attirando le masse su ciò che ne deprime le capacità di crescita morale e culturale, e rafforzandone gli aspetti di strutturale debolezza istintiva.

    Si tratta di un’operazione che si risolve in una grave forma di repressione collettiva (storicamente qualificabile in chiave tradizionalista o reazionaria): la trasformazione di un’esperienza politica in una forma di evasione e, dunque, a sua volta, la canalizzazione di energie politiche di natura critica in soluzioni di continuità comunicativa destinate a dissolvere le spinte del desiderio collettivo in singoli gesti di puro consumo.

    6. Processo mediatico e trattamento dei dati personali

    Le riflessioni sin qui rapidamente raccolte sembrano suggerire la necessità di orientare la difesa del processo attraverso la preliminare demistificazione di ogni forma di riproduzione mediatica che, lungi dal proporre costruttivamente una sincera discussione collettiva sul significato del conflitto che si muove all’interno del processo, si risolve tutt’al contrario, in una sterile riproduzione, fine a se stessa, della violenza di quel conflitto nella sua cruda immediatezza, spogliata di ogni forma di sublimazione simbolica.

    Da questa prospettiva, si tratterebbe preliminarmente di consolidare, quando non di promuovere, le forme (più o meno) istituzionalizzate di pedagogia deontologica e culturale dei protagonisti del processo, ivi compresi i professionisti della comunicazione mediatica, affinché sappiano comprendere, in ciò di cui il processo si sostanzia, il distinto significato della dimensione politica del conflitto, rispetto a tutto ciò che è meramente privato o incidentale; gli aspetti o i contenuti critico-dialettici del processo (sotto il profilo del significato e del valore delle regole in cui la comunità intende ancora riconoscersi o non riesce più a identificarsi), rispetto alla dimensione della vita meramente personale che, al di fuori dello stretto circuito dell’indagine o del processo, non può e non deve destare o alimentare alcuna diversa forma di curiosità.

    Seguendo la prospettiva della difesa della persona, il limite che occorre saper rinvenire, tra le prerogative della comunicazione di massa riferita al processo, sembra dunque identificarsi nel principio per cui deve ritenersi sottratto, alla legittimazione della partecipazione collettiva (di massa) al processo, ogni aspetto della vicenda processuale che, superando i confini di quel campo critico-dialettico rilevante sotto il profilo etico-politico, si insinua negli spazi squisitamente privati e personali dei protagonisti del processo; spazi che, se eccezionalmente si giustificano in ragione delle esigenze ricostruttive del giudizio, fuori da quello finirebbero col costringere i suoi protagonisti ad agire su un territorio che ad essi non può, né deve, appartenere.

    Converrà sottolineare come non si tratti qui di proporre una selezione a priori degli argomenti destinati a entrare nel campo della legittima discussione pubblica del processo (un discorso difficile o delicato da condurre in relazione alla pienezza della libertà di manifestazione del pensiero, nella sua dimensione di cronaca o di critica dei fatti della vita sociale), quanto piuttosto di procedere a uno studio accurato della disciplina che attiene al governo e alla protezione dei dati personali che, acquisiti dal (e nel) processo, vengono variamente trattati dai diversi agenti della comunicazione mediatica.

    L’attitudine propria del sistema della protezione dei dati personali (secondo lo stile della disciplina che la codificazione italiana ha recepito dall’originaria normativa europea e ancora di recente rivisitata in una chiave di armonizzazione continentale[21]) è quella del continuo e necessario ‘bilanciamento concreto’ tra prerogative o interessi in conflitto; da questo punto di vista, la dimensione della ‘politicità’ delle informazioni contenute nei dati destinati alla circolazione riferita al processo può costituire un criterio decisivo nella risoluzione delle questioni che, di fronte alla contestazione degli interessati, di volta in volta sono condotti all’attenzione del giudice.

    7. Sulla trasmissione della cultura  

    Un’analisi più puntuale o approfondita di temi che appaiono rivestiti di una simile delicatezza e profondità di implicazioni rimane, naturalmente, del tutto estranea ai limiti del discorso che si conduce.

    Potrà ragionevolmente destare talune perplessità l’idea di consegnare le forme della tutela della persona, in relazione alla circolazione pubblica delle informazioni sul processo, all’iniziativa dei singoli interessati, consapevoli dei sacrifici e della carica di violenza cui la rappresentazione pubblica inevitabilmente li espone.

    L’osservazione della realtà quotidiana offre, sempre più spesso, l’esempio di sconsiderate disponibilità di parti, testimoni, familiari di questi, o dei loro difensori, alla partecipazione (talora retribuita) a forme banalmente spettacolarizzate di vicende giudiziarie.

    Si tratta di esperienze che assumono, per lo più – quando non inserite in sofisticati disegni di strategia difensiva – il significato di un’occasione di facile guadagno o, in termini più desolanti, di una sorta di garanzia di esistenza certificata dall’esposizione incontrollata alla generalità.

    Di fronte a fenomeni di questa natura, lungi dal congetturare impensabili forme di ‘indisponibilità’ della persona, della propria esperienza esistenziale o delle forme della sua rappresentazione (una soluzione da ritenere di per sé inaccettabile già sul piano della riflessione costituzionale), non resta che affidarsi all’impegno nell’educazione civile, al lavoro condotto nell’umile quotidianità delle nostre scuole, alla cura sollecita del futuro dei nostri giovani.

    Si è tentati di domandarsi, in tempi di crisi dell’associazionismo giudiziario, se la trasmissione della cultura non sia, in fondo, oltre ogni legittima preoccupazione per il destino degli organismi che ne esprimono il governo sul piano istituzionale, il senso ultimo dell’impegno civile di quelle donne e di quegli uomini che, alle fortune della ‘città’, hanno inteso dedicare la propria cura; e all’arte dell’incontro – a cui il senso del diritto infine rimanda – un tempo non breve della propria vita.

    * Il testo riprende e completa la relazione svolta nel corso del convegno Processo mediatico e presunzione di innocenza, tenutosi a Roma, presso l’Istituto Dante Alighieri, il 1° aprile del 2022, e dell’occasione colloquiale conserva, in larga misura, i toni e lo stile.


    [1] Si tratta dei contenuti del libro VI dell’Etica Nicomachea.

    [2] A mero titolo di esempio, possono qui richiamarsi H. Arendt, Vita Activa, Milano, Bompiani, 1964 (The Human Condition, 1958); J. Habermas, Teoria e prassi nella società tecnologica, Bari, Laterza, 1969 e Id., Prassi politica e teoria critica della società, Bologna, Il Mulino, 1973. Più di recente, è possibile esaminare, in rapporto ai temi dell’etica aristotelica, gli approcci dell’opera etico-politica di Martha Nussbaum.

    [3] Gli artt. 110, 111 e 112 del R.D. 14 dicembre 1865, n. 2641 (Regolamento generale giudiziario per l'esecuzione del Codice di procedura civile, di quello di procedura penale, e della Legge sull'ordinamento giudiziario) disciplinano in termini rigorosi e dettagliatissimi il modo in cui il giudice e il pubblico ministero devono essere abbigliati (110); la posizione delle tavole del pubblico ministero e del cancelliere (111); la postura del pubblico ministero e del presidente nell’atto di rassegnare le proprie conclusioni o di pronunciare la sentenza (111); la postura dei difensori nell’atto di parlare dopo aver ricevuto la parola del presidente (112).

    [4] B. Cavallone, La borsa di Miss Flite. Storie e immagini del processo, Adelphi, Milano, 2016, p. 224

    [5] Alla lettura di quella vicenda, in una chiave e in una prospettiva di ordine marcatamente giuridico-politico, è dedicato il libro di G. Zagrebelsky, Il Crucifige e la democrazia, Torino, Einaudi, 1995.

    [6] Evento che anima le pagine ineguagliabili del giovane Platone nell’Apologia di Socrate.

    [7] Su cui v. E. Reynolds, Il processo di Tommaso Moro, Roma, Salerno Editrice, 1985 (traduz. italiana di The Trial of St. Thomas More, London, Burns and Oates, 1964).

    [8] Scrive S. Satta (Il mistero del processo, Milano, Adelphi, 1994, pp. 24 s.): “Processo e giudizio sono atti senza scopo, i soli atti della vita che non hanno uno scopo. Paradosso? No, non è un paradosso; è un mistero, il mistero del processo, il mistero della vita. Se noi contempliamo il corso della nostra esistenza – il breve corso della nostra vita individuale, il lungo corso della vita dell’umanità – esso ci appare come un susseguirsi, un intrecciarsi, un accavallarsi di azioni, belle o brutte, buone o cattive, sante o diaboliche: la vita stessa anzi non è altro che l’immenso fiume dell’azione umana, che sembra procedere e svolgersi senza una sosta. Ed ecco, a un dato punto, questo fiume di arresta; anzi ad ogni istante, ad ogni momento del suo corso si arresta, deve arrestarsi se non vuole diventare un torrente folle che tutto travolga e sommerga: l’azione si ripiega su sé stessa, e docilmente, rassegnatamente si sottopone al giudizio. Perché questa battuta di arresto è proprio il giudizio: un atto dunque contrario all’economia della vita, che è tutta movimento, tutta volontà e tutta azione, un atto antiumano, inumano, un atto veramente – se lo si considera, bene inteso, nella sua essenza – che non ha scopo. Di quest’atto senza scopo gli uomini hanno intuito la natura divina, e gli hanno dato in balìa tutta la loro esistenza. Di più: tutta la loro esistenza hanno costruito su quest’unico atto. Secondo il nostro credo, quando la vita sarà finita, quando l’azione sarà conclusa, verrà Uno, non per punire, non per premiare, ma per giudicare: qui venturus est iudicare vivos et mortuos”.

    [9] La storia francese già forniva, all’epoca dell’affaire Dreyfus, la testimonianza di un altro noto processo, celebrato nel corso del XVIII secolo (precisamente nel 1762), in cui ebbero ad incontrarsi (e a ‘scontrarsi’) le ragioni dell’intolleranza (religiosa) collettiva con il richiamo alla ragione (e all’imperatività morale) dell’uomo di cultura. Il riferimento è fermato qui sul ruolo assunto da Voltaire nel ‘processo Calas’ e al rifiuto opposto dal filosofo francese alla condanna inferta al commerciante tolosano in ragione dei consistenti pregiudizi religiosi che ne avevano favorito la pronuncia. Rispetto a quest’ultima vicenda, tuttavia, il valore di ‘novità’ offerto dalle occorrenze connesse al processo Dreyfus devono essere ricercate proprio nel significato ‘politico’ e ‘sociale’ che ebbero a rivestire le forme (pubbliche) dell’intervento dell’uomo di cultura nella vicenda giudiziaria.

    [10] Nel sito Internet della radiotelevisione svizzera (RSI) in una pagina (https://www.rsi.ch/news/oltre-la-news/Niente-più-disegni-in-aula-12734766.html) si scrive: “I disegnatori di processi. La loro matita traccia profili, coglie attimi e cristallizza gli eventi. Seduti tra il pubblico, l’inseparabile taccuino in grembo, mostrano quello che altrimenti l’opinione pubblica non potrebbe vedere. In molti Paesi, fotografie e riprese video sono vietate nei tribunali. Tra questi c’è la Turchia, dove negli ultimi anni – specie dopo il fallito golpe del 2016 – si sono svolti numerosi processi a oppositori del presidente Recep Tayyip Erdoğan. Politici, giornalisti e intellettuali spesso finiti alla sbarra con accuse a vario titolo di aver complottato contro il governo: eventi che i turchi hanno potuto vedere attraverso gli occhi e le mani di un gruppo di illustratori, che in modo spontaneo hanno voluto contribuire così a tenere il pubblico informato. L’attività di questi disegnatori è iniziata con i processi per le proteste del 2013 di Gezi Park a Istanbul. Da lì in avanti, le illustrazioni delle arringhe degli avvocati e delle testimonianze degli imputati hanno cominciato a essere diffuse in modo sempre più ampio, anche sfruttando il volano dei social network. Visto il massiccio impiego della carcerazione preventiva, ritenuto spesso esagerato dagli osservatori internazionali, è solo attraverso il loro tocco che i volti di molti imputati celebri sono tornati a diffondersi dopo le udienze. Del resto, raccontano questi artisti, gli stessi giudici li hanno a lungo guardati con simpatia, o almeno tolleranza: forse perché una matita spaventa meno di un obiettivo, ed evoca una dimensione di innocenza. Così è stato per lo più fino al novembre scorso, quando a Necmi Yalçin hanno vietato di continuare a disegnare in aula gli imputati nel processo al quotidiano laico Cumhuriyet, il più antico della Turchia, lanciando una nuova sfida alla libertà d’espressione.

    [11] “Lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale fra individui, mediato dalle immagini” (G. Debord, La società dello spettacolo, Baldini&Castoldi, Milano, 2017, p. 64).

    [12] L’oscenità non sta indubbiamente nella cosa. Essa vive piuttosto nello sguardo che la investe. Il che non significa però che a produrla siano delle specifiche perverse intenzioni. In tal caso, infatti, nulla sarebbe spiegato. La ragione per cui si definisce ‘osceno’ un determinato modo dello sguardo resterebbe ancora misteriosa. Forse l’osceno sta invece nel principio stesso della visibilità. Forse si danno situazioni che, se sottoposte al regime dello sguardo, se trasformate in spettacolo, indipendentemente da chi di fatto sta guardando, sono bruciate da quella stessa visibilità. L’osceno, insomma, si produce quando qualcosa, che ha nell’invisibile il suo habitat naturale, è consumato, fino a ad essere distrutto, dallo sguardo che lo investe. La società dello spettacolo generalizzato, dove tutto, essendo merce, deve luccicare ed essere appetibile, è allora oscena non per contingenza, ma per essenza (V., in questi termini, R. Ronchi, Liberopensiero. Lessico filosofico della contemporaneità, Roma, Fandangolibri, 2006, passim).

    [13] Destò una qualche sensazione, alcuni anni or sono, la vicenda che ebbe a riguardare un giudice, autore di un provvedimento destinato a incidere negativamente sugli interessi di un gruppo imprenditoriale di rilevante peso sul piano della comunicazione mediatica. A seguito di quel provvedimento, talune testate del gruppo dedicarono alcuni servizi al giudice, mettendone programmaticamente in ridicolo la figura, deridendone i modi e la stessa ‘stravaganza’ dell’abbigliamento (di cui si sottolineò la singolarità dei calzini color turchese…).

    [14] W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, in W. Benjamin, Opere complete, vol. VI Scritti. 1934-1937, Torino, Einaudi, 2004, pp. 271 ss.

    [15] W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, cit., p. 273.

    [16] W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, cit., p. 274.

    [17] Op. ult cit., p. 274. “Il modo originario di articolazione dell’opera d’arte dentro il contesto della tradizione trovava la sua espressione nel culto. Le opere d’arte più antiche sono sorte, com’è noto, al servizio di un rituale, dapprima magico, poi religioso. […] Il valore unico dell'opera d’arte «autentica» trova la sua fondazione sempre nel rituale. […] Rituale secolarizzato, anche nelle forme più profane del culto della bellezza” (pp. 275-276).

    [18] Op. ult cit., p. 275-276.

    [19] Op. ult cit., p. 277-278.

    [20] W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, cit., p. 290-292.

    [21] D.Lgs. n. 196/2003 (c.d. codice della privacy) su cui ha inciso, da ultimo, il Regolamento UE n. 2016/679 recepito attraverso il D. Lgs. n. 101/2018.

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