GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    Aspettando la Corte costituzionale… il Tribunale di Genova solleva un'altra questione di legittimità costituzionale sull'Italicum

    In fatto e in diritto osserva

    Con atto di citazione notificato in data 3.12.2015, i Sig.ri Sergio Acquilino, Andrea Airoldi, Francesco Astengo, Simonetta Astigiano, Mauro Barberis, Sergio Battelli, Waldemaro Flick, Paolo Gallizia, Giunio Luzzatto, Giorgio Pagano, Luca Pastorino, Giovanni Battista Pastorino, Stefano Quaranta, Giacomo Ronzitti, Giovanni Russo, Adriano Sansa, Patrizia Turchi, Giovanni Urbani nella qualità di cittadini italiani iscritti nelle liste elettorali del Comune di Genova hanno convenuto in giudizio la Presidenza del Consiglio dei Ministri e il Ministro dell’Interno chiedendo al Tribunale di Genova “1) previa rimessione alla Corte Costituzionale delle questioni incidentali di costituzionalità di alcune norme – artt. 1, comma 1 lettere a), b), c), e), f), g) e i); 2, commi 1, 2, 3, 4, 5, 8, 10, 11, 17, 21, 25 capoversi “art. 83” (commi 1, numeri 3, 5 e 8, 2, 3, 4, 5 e 6 della novella), e “83 bis” (comma 1 numeri 1, 2, 3 e 4 della novella), 26, cpv «Art. 84, 29, 30, 31, 32, 33, 35, e 36; 4, comma 1, della Legge n. 52/2015 (in Gazzetta Ufficiale n. 105 dell’8 maggio 2015, recante il titolo Disposizioni in materia di elezioni della Camera dei Deputati), trasfuse nei novellati artt. 1, 2, 3,4, 11, 14 bis, 18 bis, 19 comma 1, 31 comma 2 e 2 bis, 59 bis, 83, 83 bis, 84, Rubrica Titolo VI, 92, 93, 93 bis, 93 ter, 93 quater del DPR n. 361/1957, nonché dell’art. 14, c. 3 DPR n. 361/1957, degli artt. 1, 3 d.lgs. n. 122/2015 (in G. U. n. 185 del 11 agosto 2015), delle tabelle A, A bis e A ter allegate al DPR n. 361/1957 e limitatamente agli artt. 16 e 17 del D. lgs. 20 dicembre 1993 n. 533, come modificati dall’art. 4 settimo e ottavo comma della legge n. 270 del 21 dicembre 2005 – che tutte vengono dedotte tramite il presente atto e di cui in prosieguo, nonché della stessa Legge n. 52/2015 nella sua interezza per errore in procedendo e irragionevolezza - stante che il loro accoglimento non produrrebbe in ogni caso alcun vuoto normativo – ritenuto che il giudizio stesso non potrà essere definito a prescindere dalle risoluzioni delle questione medesime in quanto rilevanti e non manifestamente infondate

    2) accertare e dichiarare di conseguenza il diritto delle parti ricorrenti, cittadini/e italiani/e ed elettori/trici iscritti/e nelle liste elettorali dei Comuni compresi nel distretto della Corte d’Appello di Genova, di esercitare il loro diritto di voto libero uguale personale e diretto – così come costituzionalmente garantito dal combinato disposto di cui agli artt. 1, commi primo e secondo, 2, 3, 6, 10, 11, 48, secondo e quarto comma, 49, 51 primo comma, 56 primo e terzo comma, 58 primo comma, 64, 67, 72 quarto comma, 76, 77, 92, 114, 117 primo comma, 122, secondo comma e 138 della Costituzione Italiana vigente e dall’art. 3 del Protocollo n. 1 della C.E. D.U., norme tutte violate dalle Leggi n. 52/2015 e 270/2005. ciò anche alla luce dei principi affermati con le sentenze n. 1/2014 della Corte Costituzionale e n. 8878/2014 della Sezione prima della Corte di Cassazione.

    3) accertare e dichiarare di conseguenza che l’applicazione delle norme qui oggetto di censura e di cui alle leggi n. 52/2015 e n. 270/2005 produrrebbe gravi lesioni a tale loro diritto.

    4) con compensazione delle spese in quanto i ricorrenti agiscono per un interesse personale e non privato, come cittadini interessati alla regolarità del procedimento elettorale ed al rispetto dei diritti costituzionalmente garantiti in materia nuova ”.

    A sostegno della domanda gli attori, premessa la loro qualità di essere cittadini italiani iscritti nelle liste elettorali di comuni ricompresi del distretto della Corte di Appello di Genova e di aver in tale veste il diritto di esercitare il voto nelle forme e e con regole compatibili col dettato costituzionale hanno denunciato l’illegittimità costituzionale della legge 6 maggio 2015 n. 52 – asseritamente promulgata in elusione dei principi affermati dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 1 del 2014 (dichiarativa dell’illegittimità costituzionale di alcune disposizioni contenute nella l. 270/2005) – in ragione di quattordici motivi: 1) error in procedendo, per violazione dell’art. 72 comma 1 e 4 Cost. e dei regolamenti parlamentari in materia elettorale e costituzionale per illegittimità della procedura di approvazione; 2) irrazionalità della norma relativa all’attribuzione del premio di maggioranza alla (unica) lista che ottiene almeno il 40% dei voti, senza statuire cosa accada nel caso in cui due liste raggiungano il 40% dei voti; 3) irragionevolezza, contraddittorietà rispetto ai fini (dichiarati dalla stessa riforma) di stabilità e governabilità, in particolare nell’ipotesi il ballottaggio sia vinto da una lista arrivata seconda al primo turno, con esiti peculiari sul piano della legittimazione politica della stessa; 4) illegittimità degli artt. 1 e 2 della L. n. 52/2015, per violazione dell’art. 138 Cost., posto che tale legge avrebbe modificato la forma di governo da parlamentare a presidenziale, senza rispettare l’iter prescritto per la revisione costituzionale; 5) relativo al “premio di maggioranza”, con lesione del diritto al voto personale, uguale, libero e diretto: la l. 52/2015 sarebbe in contrasto con quanto statuito dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 1/2014, laddove si prevede l’attribuzione di un premio di maggioranza alla lista che abbia ottenuto la vittoria al primo turno, conseguendo il 40 % dei voti, essendo irragionevolmente sproporzionato il rapporto tra i voti, tenuto conto che ottenuti ed i seggi attribuiti grazie al suddetto premio, con conseguente lesione del principio di uguaglianza dei voti; 6) relativo alla norma disciplinante il turno di ballottaggio, con lesione del diritto al voto personale, uguale, libero e diretto, in contrasto con quanto statuito dal Giudice delle leggi nel 2014: il meccanismo di attribuzione dei voti mediante ballottaggio tra le liste che abbiano ottenuto, al primo turno, le due maggiori cifre elettorali nazionali, stante l’assenza di una soglia minima di voti validi per l’accesso al ballottaggio, consentirebbe l’attribuzione del cosiddetto premio di maggioranza anche ad una lista che abbia ottenuto un numero minimo di voti validi; 7) relativo ai capilista “bloccati” e al sistema delle preferenze con lesione al diritto al voto personale, uguale, libero e diretto; 8) illegittimità della norma di cui all'art. 2, comma 11, L. 52/2015 sulle candidature multiple; 9) illegittimità della legge n. 52/2015, laddove comporti l’elezione di un numero di deputati superiore al numero di 630, previsto dalla stessa Costituzione; 10) lesione dei diritti delle minoranze linguistiche; 11) irragionevole disparità di trattamento con riferimento all’obbligo di presentazione delle sottoscrizioni rese da elettori iscritti nelle liste elettorali, imposto ai nuovi soggetti politici per la presentazione delle liste alle elezioni; 12) lesione delle prerogative del Presidente della Repubblica, in particolare con riferimento al potere di nomina del Presidente del Consiglio dei Ministri; 13) lesione della rappresentatività delle minoranze linguistiche con riferimento alla tabella A allegata al DPR n. 361/1957; 14) irragionevolezza delle soglie di accesso al Senato, sproporzionate rispetto a quelle di accesso alla Camera, nonostante il numero doppio di deputati rispetto ai senatori.

    Con comparsa di costituzione e risposta del 19.1.2016 la Presidenza del Consiglio dei Ministri in persona del Presidente del Consiglio pro-tempore e il Ministero dell’Interno, in persona del Ministro pro-tempore, si sono costituite eccependo, preliminarmente, l’inammissibilità della domanda per carenza di un interesse attuale (in ragione del fatto che la legge 52/2015 entrerà in vigore solo a far data dal 1.7.2016). Nel merito hanno dedotto l’infondatezza delle doglianze di parte attrice, evidenziando che le nuove disposizioni legislative assicurano il rispetto dei principi affermati dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 1/2014.

    In via preliminare le parti hanno proceduto alla discussione sulle eccezioni preliminari sollevate da parte convenuta, di carenza di interesse e irrilevanza della questione di costituzionalità prospettata rispetto al giudizio in corso; precisate le conclusioni su dette questioni in data 4.8.2016, è stata emessa sentenza non definitiva, con cui la scrivente, ritenuta la competenza del Tribunale in composizione monocratica, ha ritenuto non fondate dette eccezioni, dichiarando ammissibile la domanda. La causa, con separata ordinanza è stata quindi rimessa sul ruolo .

    Il 9.9.2016, con atto di intervento adesivo, i Comuni di Campomorone e Ceranesi, in persona dei loro Sindaci, sono intervenuti nel giudizio per vedere accolte le conclusioni, formulate dagli attori, limitatamente al XIII motivo, che sarebbe satisfattivo delle ragioni dei cittadini elettori dei due Comuni. Infatti, il diritto di voto dei cittadini di Campomorone e Ceranesi risulta leso dall’assegnazione degli elettori dei due Comuni al Collegio Liguria 03, costituito dalla Provincia di La Spezia con l’aggiunta degli ex collegi uninominali di Rapallo e Chiavari, in assenza di ogni contiguità territoriale nonché di legami storici, socio-economici, infrastrutturali o di assi di comunicazione tra i Comuni intervenienti e il Levante ligure.

    Si richiama integralmente la motivazione della sentenza non definitiva, datata 4.8.2016, resa dalla scrivente sulle questioni preliminari , con cui, previa disamina della questione relativa alla competenza del giudice monocratico, dell’interesse ad agire e della sussistenza della rilevanza delle prospettate questioni di costituzionalità nel presente giudizio, è stata dichiarata ammissibile la domanda.

    In essa è stata anche trattata – in quanto strettamente connessa all’eccezione di carenza di interesse ad agire - la questione relativa alla rilevanza nel presente giudizio delle dedotte questioni di legittimità costituzionale (considerate nel loro complesso): in particolare è già stato rilevato dalla scrivente che l’art. 1 della legge costituzionale n. 1 del 1948, prevede che: «La questione di legittimità costituzionale di una legge o di un atto avente forza di legge della Repubblica, rilevata d’ufficio o sollevata da una delle parti nel corso di un giudizio e ritenuta dal giudice non manifestamente infondata, è rimessa alla Corte Costituzionale per la sua decisione» . Detta disposizione si salda con quella dell’art. 23 della legge n. 87 del 1953, la quale, con terminologia letteralmente più restrittiva, prevede che: « Nel corso di un giudizio dinanzi ad un’autorità giurisdizionale una delle parti o il pubblico ministero possono sollevare questione di legittimità costituzionale mediante apposita istanza» .

    In base ad esse il giudice può sollevare questione relativamente a una disposizione di legge solo e nei limiti in cui essa deve essere applicata in una controversia concreta. La necessaria applicabilità dell’atto sindacato costituisce una logica, diretta derivazione del carattere incidentale del controllo di costituzionalità. Se non si richiedesse l’applicazione nel giudizio a quo della disposizione asseritamente illegittima, il giudice potrebbe formulare questioni di costituzionalità del tutto sganciate dalle vicende applicative della legge e, dunque, astratte od ipotetiche; la rilevanza è ciò che assicura la concretezza della questione e instaura un legame fra il giudizio costituzionale e il giudizio a quo.

    Gli interessi tutelati nei due distinti ed autonomi procedimenti (giudizio costituzionale e giudizio a quo) devono quindi essere diversi e non sovrapponibili. Nel giudizio a quo si fa valere l’interesse soggettivo e concreto delle parti a ottenere un bene della vita o a non subire una limitazione della propria libertà per effetto di una legge incostituzionale; nel giudizio costituzionale si salvaguarda l’interesse obiettivo dell’ordinamento alla legalità costituzionale. Come ben evidenziato dalla Suprema Corte nella sent. 8874/2014 “ L’oggetto della domanda è dato dal raccordo tra petitum e causa petendi. Il petitum si scinde nel petitum immediato (la pronuncia richiesta al giudice, che nel caso di specie è di accertamento) e mediato, che è la “cosa oggetto della domanda” di cui all’art. 163 c.p.c., cioè il bene della vita che il processo dovrà far conseguire all’attore (nel caso di specie, la possibilità di votare nel modo indicato nell’atto di citazione e l’accertamento della potenziale lesione). La causa petendi consiste nei “fatti e… elementi di diritto costituenti le ragioni della domanda” di cui all’art. 163 c.p.c.: nel caso di specie, nel diritto di voto quale risultante dalle norme costituzionali invocate dall’attore, secondo la sua interpretazione.” Sussiste quindi il presupposto della rilevanza ; l’accertamento della avvenuta lesione del diritto di voto in capo ai singoli attori richiede infatti una autonoma statuizione da rendersi nel presente giudizio che non potrebbe essere sussunta nel decisum della Corte Costituzionale (vedi sul punto Cass. 8878/2014: “Infatti non potrebbe ritenersi che vi sia coincidenza (sul piano fattuale e giuridico) tra il dispositivo della sentenza costituzionale e quello della sentenza che definisce il giudizio di merito. Quest'ultima accerta l'avvenuta lesione del diritto azionato e, allo stesso tempo, lo ripristina nella pienezza della sua espansione, seppure per il tramite della sentenza costituzionale. … Come osservato da una autorevole dottrina, ci sono leggi che creano in maniera immediata restrizioni dei poteri o doveri in capo a determinati soggetti, i quali nel momento stesso in cui la legge entra in vigore si trovano già pregiudicati da esse, senza bisogno dell'avverarsi di un fatto che trasformi l'ipotesi legislativa in un concreto comando. In tali casi l'azione di accertamento può rappresentare l'unica strada percorribile per la tutela giurisdizionale di diritti fondamentali di cui, altrimenti, non sarebbe possibile una tutela ugualmente efficace e diretta. L'esistenza nel nostro ordinamento di un filtro per l'accesso alla Corte costituzionale, che è subordinato alla rilevanza della questione di costituzionalità rispetto alla definizione di un giudizio comune, di certo non può tradursi in un ostacolo che precluda quell'accesso qualora si debba rimuovere un'effettiva e concreta lesione di valori costituzionali primari. Una interpretazione in senso opposto indurrebbe a dubitare della compatibilità della L. n. 87 del 1953, medesimo art. 23, con l'art. 134 Cost. (v. Corte cost. n. 130/1971). Anche la giurisprudenza della Cassazione è nel senso che la questione di costituzionalità può formare oggetto autonomo di impugnazione quando, attraverso la sua riproposizione, si tenda ad ottenere, per effetto dell'eliminazione dall'ordinamento della norma denunciata, una decisione diversa e più favorevole di quella adottata dalla sentenza impugnata (v., tra le altre, Cass. n. 5775/1987). Fallace sarebbe quindi l'obiezione (cui si è già in parte risposto al p. 3.2.1) secondo cui l'eventuale pronuncia di accoglimento della Corte Cost. verrebbe a consumare ex se la tutela richiesta al giudice remittente, nella successiva fase del giudizio principale, con l'effetto di escludere l'incidentalità del giudizio costituzionale. Infatti, il giudizio sulla rilevanza va fatto, come si è detto, nel momento in cui il dubbio di costituzionalità è posto, dalla cui dimostrata fondatezza (per effetto della sentenza della Corte costituzionale) è possibile avere solo una conferma e non certo una smentita della correttezza di quel giudizio sulla rilevanza.”.

    Nella presente sede si deve pertanto procedere alla analisi delle singole questioni di legittimità costituzionale, valutando di esse la rilevanza in concreto e la non manifesta infondatezza.

    Come è noto, a seguito della proposizione di distinti procedimenti innanzi ad altri Tribunali, la Corte costituzionale è già stata investita della questione di legittimità costituzionale in relazione ad alcuni dei motivi che sono stati proposti anche nel presente giudizio (vedi ord. Trib. Messina 17.2.2016 , ord. Tribunale Torino 5 luglio 2016, ord. Trib. Perugia 3.9.2016; ord. Trib. Trieste 5.10.2016); altri Tribunali, investiti della medesima questione, al contrario non hanno condiviso i dubbi di costituzionalità prospettati (vedi Trib. Catanzaro 25.6.2015) oppure hanno dichiarato non ammissibile la domanda (Trib. Milano) .

    Laddove dalla scrivente vengano condivise le valutazioni di rilevanza e non manifesta infondatezza degli identici motivi esaminati dalle ordinanze sopra indicate verrà fatto un mero rinvio a detti provvedimenti, trattandosi di questioni sulle quali la Corte Costituzionale è già stata investita.

    Nel merito va premesso che, come noto, il Parlamento ha approvato (in prima deliberazione al Senato nella seduta del 13 ottobre 2015 e dalla Camera nella seduta del 11 gennaio 2016 e, in seconda deliberazione, dal Senato nella seduta del 20 gennaio 2016 e dalla Camera nella seduta del 12 aprile 2016) un testo di legge di riforma costituzionale. Il testo non è entrato in vigore essendo sottoposto a referendum, ex art.138 Costituzione, fissato per il 4 dicembre 2016.

    La riforma costituzionale attualmente in itinere prevede, per quanto di rilievo nel presente procedimento, il superamento del c.d. bicameralismo perfetto con l’adozione di un bicameralismo “differenziato” che conferma l’articolazione del Parlamento in due rami, la Camera dei deputati e il Senato, che nel nuovo assetto avranno composizione diversa e funzioni in gran parte non coincidenti e, in particolare, non parteciperanno più in modo paritario alla funzione legislativa.

    E’ previsto che la Camera dei deputati che “rappresenta la Nazione” sarà titolare del rapporto fiduciario con il Governo, oltre che della funzione di indirizzo politico e di controllo dell’operato del Governo e manterrà la titolarità della “produzione” legislativa.

    I componenti della Camera saranno eletti con il sistema previsto dalla Legge n.52/2015.

    Il Senato sarà invece, la camera di rappresentanza degli enti territoriali, con funzioni di raccordo tra lo Stato e gli altri enti costitutivi della Repubblica , oltre che con l’Unione Europea, e non avrà più, salvo alcune specifiche materie, una potestà legislativa.

    E’ prevista l’eliminazione dell’elezione di questa Camera a suffragio universale e diretto : essa sarà composta da 95 senatori, rappresentativi delle istituzioni territoriali e 5 senatori di nomina Presidenziale; i primi saranno eletti in secondo grado dai consigli regionali tra i propri membri e, nella misura di uno per ciascuno, tra i sindaci dei comuni nei rispettivi territori.

    Il disegno di riforma costituzionale mantiene il sistema bicamerale perfetto in sede di produzione legislativa solo in via residuale, per determinate categorie di leggi, previste espressamente dalla Costituzione.

    L’evidente strumentalità della nuova legge elettorale rispetto al previsto, ma non ancora attuato, quadro di riforme istituzionali a livello costituzionale (limitandosi essa a disciplinare le regole per l’elezione della Camera dei Deputati) ha indotto i commentatori, ed anche i ricorrenti, a valutarne la tenuta costituzionale non solo sulla base del testo della Carta fondamentale oggi vigente, ma anche in base all’assetto istituzionale che risulterà dalla (eventuale) entrata in vigore del disegno di riforma, rilevando come, in un sistema come quello sopra delineato, il legislatore dovrebbe tenere conto, in modo ancora più puntuale, del rispetto della sovranità e rappresentatività popolare espressi attraverso il diritto di voto, rispetto alle esigenze di governabilità, essendo ormai la sola Camera dei Deputati ad essere rappresentativa della Nazione in quanto l’unica eletta direttamente e a suffragio universale. Come già correttamente evidenziato dal Tribunale di Torino, con l’ordinanza sopra citata, nella parte in cui è stato individuato il “ corretto parametro di valutazione della conformità a Costituzione della legge elettorale”, dette valutazioni non possono assumere rilievo nel presente procedimento quali parametri di verifica di conformità alla Costituzione delle norme censurate dai ricorrenti, in relazione al diritto di voto come delineato dall’art. 48 Costituzione, per l’evidente ragione che non è possibile, oggi, prendere in considerazione un testo della Costituzione non ancora in vigore e la cui entrata in vigore è, inoltre, solo eventuale, dipendendo essa dall’esito del referendum costituzionale di cui si è detto.

    Per tali ragioni non verranno esaminate né prese comunque in considerazione le argomentazioni svolte dai ricorrenti e dalla dottrina che ha dibattuto su questi temi, dell’eventuale conformità a Costituzione della Legge n. 52/2015 nelle parti censurate, rispetto a un testo della Costituzione non attualmente in vigore.

    Sempre in via preliminare, anche alla luce delle difese svolte da parte attrice in merito all’individuazione dell’ambito della valutazione richiesta al giudice a quo, giova sottolineare, con specifico riferimento alla materia elettorale, quanto ben evidenziato sul punto dalla Corte Costituzionale nella sentenza 1/2014. Con essa la Corte Costituzionale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell’art. 83 comma 1 n. 5 e comma 2 del DPR 361/1957 nonché dell’art. 17 commi 2 e 4 del decreto legislativo 533/1993 e degli artt. 4 comma 2 e 59 del DPR 361/1957 nonché dell’art. 14 comma 1 del D. Lgs. 533/1993 nella parte in cui non consentono all’elettore di esprimere una preferenza per i candidati. In particolare per la Corte il premio di maggioranza come già previsto dalla normativa nota come “Porcellum” “è foriero di una eccessiva sovra-rappresentazione” e può produrre « una distorsione», perchè “non impone il raggiungimento di una soglia minima di voti alla lista». La norma «non è proporzionata» rispetto all'obiettivo perseguito, quale è quello della stabilità del governo del Paese e dell'efficienza dei processi decisionali.

    Le linee guida che orienteranno la scrivente per la valutazione circa la conformità a Costituzione della nuova normativa delineata dal legislatore sulle ceneri del “Porcellum” si rinvengono nella predetta sentenza dalla Corte Costituzionale, i cui passi significativi di seguito sinteticamente si riportano. In essa, per quanto rileva nella presente sede, si legge:

    che “la «determinazione delle formule e dei sistemi elettorali costituisce un ambito nel quale si esprime con un massimo di evidenza la politicità della scelta legislativa» (sentenza n. 242 del 2012; ordinanza n. 260 del 2002; sentenza n. 107 del 1996)”; che “Il principio costituzionale di eguaglianza del voto esige che l’esercizio dell’elettorato attivo avvenga in condizione di parità, in quanto «ciascun voto contribuisce potenzialmente e con pari efficacia alla formazione degli organi elettivi» (sentenza n. 43 del 1961), ma «non si estende […] al risultato concreto della manifestazione di volontà dell’elettore […] che dipende […] esclusivamente dal sistema che il legislatore ordinario, non avendo la Costituzione disposto al riguardo, ha adottato per le elezioni politiche e amministrative, in relazione alle mutevoli esigenze che si ricollegano alle consultazioni popolari» (sentenza n. 43 del 1961).”;

    che “ Non c’è, in altri termini, un modello di sistema elettorale imposto dalla Carta costituzionale, in quanto quest’ultima lascia alla discrezionalità del legislatore la scelta del sistema che ritenga più idoneo ed efficace in considerazione del contesto storico.”

    che “ Il sistema elettorale, tuttavia, pur costituendo espressione dell’ampia discrezionalità legislativa, non è esente da controllo, essendo sempre censurabile in sede di giudizio di costituzionalità quando risulti manifestamente irragionevole (sentenze n. 242 del 2012 e n. 107 del 1996; ordinanza n. 260 del 2002) ”.

    Si afferma che il principio costituzionale di rappresentatività ed uguaglianza del voto (sentenze n. 15 e n. 16 del 2008) deve essere valutato unitamente all’ “ obiettivo di rilievo costituzionale, qual è quello della stabilità del governo del Paese e dell’efficienza dei processi decisionali nell’ambito parlamentare ”. Al giudice costituzionale è pertanto riservato lo scrutinio di ragionevolezza e proporzionalità al quale soggiacciono anche le norme inerenti ai sistemi elettorali, rilevando come “ In ambiti connotati da un’ampia discrezionalità legislativa, quale quello in esame, siffatto scrutinio impone a questa Corte di verificare che il bilanciamento degli interessi costituzionalmente rilevanti non sia stato realizzato con modalità tali da determinare il sacrificio o la compressione di uno di essi in misura eccessiva e pertanto incompatibile con il dettato costituzionale. Tale giudizio deve svolgersi «attraverso ponderazioni relative alla proporzionalità dei mezzi prescelti dal legislatore nella sua insindacabile discrezionalità rispetto alle esigenze obiettive da soddisfare o alle finalità che intende perseguire, tenuto conto delle circostanze e delle limitazioni concretamente sussistenti» (sentenza n. 1130 del 1988). Il test di proporzionalità utilizzato da questa Corte come da molte delle giurisdizioni costituzionali europee, spesso insieme con quello di ragionevolezza, ed essenziale strumento della Corte di giustizia dell’Unione europea per il controllo giurisdizionale di legittimità degli atti dell’Unione e degli Stati membri, richiede di valutare se la norma oggetto di scrutinio, con la misura e le modalità di applicazione stabilite, sia necessaria e idonea al conseguimento di obiettivi legittimamente perseguiti, in quanto, tra più misure appropriate, prescriva quella meno restrittiva dei diritti a confronto e stabilisca oneri non sproporzionati rispetto al perseguimento di detti obiettivi.”

    Da quanto sopra evidenziato risulta evidente che spetta alla Corte Costituzionale valutare la costituzionalità o meno della soluzione in concreto adottata per il perseguimento degli obiettivi di cui sopra, sotto il profilo del rispetto o meno “ del vincolo del minor sacrificio possibile degli altri interessi e valori costituzionalmente protetti”.

    Nella predetta sentenza 1/2014 , come sopra indicato, la soluzione fu che “ detta disciplina non è proporzionata rispetto all’obiettivo perseguito, posto che determina una compressione della funzione rappresentativa dell’assemblea, nonché dell’eguale diritto di voto, eccessiva e tale da produrre un’alterazione profonda della composizione della rappresentanza democratica, sulla quale si fonda l’intera architettura dell’ordinamento costituzionale vigente.”

    Alla scrivente quale giudice a quo spetta quindi il compito di verificare la rilevanza della dedotta questione di costituzionalità, e la sua non manifesta infondatezza, in particolare verificando se nella legge sono presenti distorsioni di rappresentatività del voto tali da richiedere (da parte della Corte Costituzionale) un giudizio di bilanciamento con gli altri valori costituzionalmente protetti ; compito specifico della Corte Costituzionale come giudice delle leggi risulta infatti quello di valutare la ragionevolezza della soluzione adottata dal legislatore e di assumere decisioni che, pur muovendo dal caso concreto, sono destinate poi ad esplicare effetti generali e, dunque, a proiettarsi sull’intero ordinamento.

    Ciò premesso nel merito parte attrice denuncia l’illegittimità costituzionale di diverse disposizioni della Legge Elettorale n.52 del 6 maggio 2015 in relazione a più articoli della Carta Costituzionale.

    Dette censure sono articolate in quattordici motivi; il primo attiene al procedimento di formazione della legge di cui si discute e viene trattato preliminarmente.

    La disamina degli ulteriori specifici motivi viene fatta non secondo l’ordine di proposizione, ma partendo dal cuore delle doglianze di parte attrice che sono trattate nei motivi quinto e sesto, che la scrivente ritiene non manifestamente infondate; a seguire vi sarà la disamina dei motivi secondo , terzo, ottavo, nono, ritenuti parimenti non manifestamente infondati; il motivo settimo viene trattato unitamente all’ottavo per evidenti motivi di connessione: da ultimo sono trattati i motivi quarto e dodici, esaminati congiuntamente per ragioni di chiarezza e l’undicesimo che il Tribunale ritiene essere manifestamente infondati, e da ultimo i motivi 13 e 14, anch’essi ritenuti non fondati. Con il primo motivo, i ricorrenti lamentano che la legge n.52/2015 sia stata approvata con una procedura diversa da quella imposta, per la legge elettorale, dalla Carta Costituzionale all’art. 74 comma 4, rilevando come la citata Legge n. 52/2015 essendo stata approvata mediante il procedimento disegnato dall’art. 116, comma 4, del Regolamento della Camera con l’apposizione della questione di fiducia (il che ha comportato la votazione per blocchi di articoli, la decadenza degli emendamenti presentati e la riduzione dei tempi di discussione), avrebbe violato l’art. 72 comma 4 della Costituzione che prevede che “ la procedura normale di esame e di approvazione diretta da parte della camera è sempre adottata per il disegni di legge in materia costituzionale ed elettorale …” .

    Detta censura a parere della scrivente è manifestamente infondata.

    I ricorrenti muovono dal presupposto che la procedura di approvazione della legge con “riserva di assemblea” prevista dalla norma costituzionale citata sia, nella sostanza, incompatibile con la procedura prevista dall’art. 116 Regolamento Parlamentare nell’ipotesi (non regolata direttamente, né espressamente prevista dalla Costituzione) che il Governo ponga “la questione di fiducia” sulla procedura di approvazione di una legge sottoposta all’esame del Parlamento quando questa legge, per la materia che è destinata a regolare, sia una “legge elettorale”, intendendosi per tale quella che, come la Legge n.52/2015, detta le regole per la configurazione del sistema elettorale, ossia individua le “formule dei sistemi elettorali” (cit. Sentenza Corte Cost. 1/2014) attraverso le quali si stabilisce in via generale in che modo “ciascun voto contribuisce … alla formazione degli organi elettivi” (stessa sentenza).

    Tale asserita incompatibilità come già ritenuto da tutti i Tribunali che si sono occupati della medesima questione , non sussiste, per le ragioni che seguono.

    In via preliminare, tenuto conto delle difese svolte dall’Avvocatura, si ritiene che la questione come prospettata in astratto sia ammissibile; è la Corte Costituzionale nella sent. 9/1959 ad evidenziare che “ Nella competenza di giudicare sulle controversie relative alla legittimità costituzionale delle leggi, attribuita alla Corte dallo art. 134 della Costituzione, rientra senza dubbio ed anzi in primo luogo quella di controllare l'osservanza delle norme della Costituzione sul procedimento di formazione delle leggi: in tal senso si é già affermato l'orientamento della Corte (sentenze n. 3 e 57 del 1957). L'art. 72 della Costituzione, dopo aver descritto nel primo comma il procedimento normale di approvazione di un disegno di legge, dispone, nel terzo comma, che il regolamento "può altresì stabilire in quali casi e forme l'esame e l'approvazione dei disegni di legge sono deferiti a commissioni anche permanenti, composte in modo da rispecchiare la proporzione dei gruppi parlamentari", ma aggiunge, nell'ultimo comma, che "la procedura normale di esame e di approvazione diretta da parte della Camera é sempre adottata per i disegni di legge in materia costituzionale ed elettorale e per quelli di delegazione legislativa, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali, di approvazione di bilanci e consuntivi".

    Nella stessa sentenza si legge che, avuto riguardo al caso ivi esaminato , “ il giudizio se un disegno di legge rientra fra quelli per i quali l'ultimo comma dell'art. 72 della Costituzione esige la procedura normale di approvazione, escludendo quella decentrata , involge una questione di interpretazione di una norma della Costituzione che é di competenza della Corte costituzionale agli effetti del controllo della legittimità del procedimento di formazione di una legge” .

    Da quanto sopra risulta evidente che per interpretare correttamente quanto disposto dal quarto comma dell’art. 72 Cost., e quindi per individuare quale è la procedura normale rispetto a quella speciale, deve farsi riferimento all’intero disposto dell’art. 72 Cost. In particolare a parere della scrivente è speciale (o non normale) la procedura prevista dal comma 3 del medesimo articolo che prevede una procedura di approvazione decentrata e non plenaria.

    L’art. 72 prevede, al primo comma che : “ogni disegno di legge, presentato a una Camera e, secondo le norme del suo regolamento, esaminato da una commissione e poi dalla Camera stessa, che lo approva articolo per articolo e con votazione finale ”;

    al terzo comma prevede che : “può altresì stabilire in quali casi e forme l’esame e l’approvazione dei disegni di legge sono deferiti a commissioni anche permanenti, composte in modo da rispecchiare la proporzione dei gruppi parlamentari. Anche in tali casi, fino al momento della sua approvazione definitiva, il disegno di legge è rimesso alla Camera se il governo o un decimo dei componenti della Camera o un quinto della Commissione richiedono che sia discusso o votato dalla Camera stessa oppure che sia sottoposto alla sua approvazione finale con sole dichiarazioni di voto …”.

    Il quarto comma prevede che : “ la procedura normale di esame e di approvazione diretta da parte della Camera è sempre adottata per i disegni di legge in materia costituzionale ed elettorale …”.

    Secondo la prospettazione degli attori la procedura speciale prevista dall’art. 116 Regolamento della Camera sarebbe in contrasto con il suddetto quarto comma e non potrebbe quindi essere applicata per la formazione della legge elettorale, non avendo il Governo, in questo caso, la corrispondente prerogativa. E’ noto che per gli articoli 1, 2 e 4 della Legge n. 52/2015 il Governo ha effettivamente posto la “questione di fiducia” così adottando, alla Camera, la procedura prevista dal Regolamento Parlamentare art. 116 comma IV che prevede, quanto alla procedura per il “mantenimento di un articolo”, che la votazione avvenga sul singolo articolo “dopo che tutti gli emendamenti sono stati illustrati” e che, in caso di approvazione, “gli emendamenti stessi si intendono respinti”.

    Secondo la medesima disposizione, quando venga posta “la questione di fiducia” la votazione avviene per appello nominale, con facoltà per un solo deputato per ciascun gruppo di rendere dichiarazioni di voto.

    L’art. 116 Regolamento della Camera non indica, al quarto comma, la legge elettorale tra le materie per le quali viene espressamente esclusa la possibilità di adottare la descritta procedura di voto (ossia per le quali il Governo non può porre la “questione di fiducia”).

    L’art. 49 dello stesso Regolamento prevede, invece, che sulle leggi elettorali (così come su altri “argomenti”) la votazione debba avvenire a scrutinio segreto ma solo se ne venga fatta esplicita richiesta.

    L’art. 24 comma 12 stesso Regolamento prevede inoltre che quando un progetto di legge debba essere votato a scrutinio segreto non possa essere oggetto di contingentamento dei tempi (salvo diversa unanime delibera della Conferenza dei capigruppo).

    Le norme regolamentari citate devono essere lette congiuntamente e, dal loro combinato disposto, si ricava, per quanto concerne il voto di approvazione alla Camera di una legge elettorale, che il Governo può porre la questione di fiducia, e quindi ricorrere alla procedura di voto con le modalità indicate dall’art. 116 del Regolamento per la quale, tuttavia, potrebbe essere richiesta (ma così non è stato) la votazione a scrutinio segreto, invece che per appello nominale, con conseguente divieto, solo in tal caso, di fare ricorso alla fiducia.

    Questa procedura non si discosta, in termini sostanziali, dalla c.d. procedura “normale” prevista dall’’art. 72 commi 1 e 4 Costituzione.

    Infatti la procedura c.d. “normale” di cui al primo comma prescrive che la votazione avvenga “articolo per articolo e con votazione finale” da parte dell’assemblea in composizione plenaria (e in ciò consiste il nucleo centrale della procedura normale, rispetto all’esame deferito alle commissioni) con esame diretto e approvazione del testo di legge la cui ratio è quella di assicurare che su certi argomenti vi sia ampia e piena partecipazione alla formazione della legge anche da parte delle minoranze.

    Tale riserva di assemblea, nella sostanza, viene assicurata anche dalla procedura di cui al citato art. 116 comma IV del Regolamento Parlamentare in quanto esso prevede che si proceda, come è in effetti avvenuto, all’esame del singolo articolo e degli emendamenti, con votazione sul singolo articolo (con decadenza automatica degli emendamenti solo in caso di voto favorevole all’articolo).

    Le ulteriori questioni di costituzionalità sollevate dagli attori attengono tutte al meccanismo elettorale previsto dalla legge 52/2015; la disamina di essi, per la centralità delle relative argomentazioni e per i riflessi sugli ulteriori motivi, viene condotta a partire dai motivi quinto e sesto.

    Con il quinto motivo si censurano gli articoli 1 lettera f), 2 commi 1 e 25 capoverso “art. 83” Legge n.52/2015 (ossia il nuovo testo dell’art. 83 D.P.R. n.361/1957) in relazione agli articoli 1, 3, 48 comma II, 51, 56 comma I e 122,2 Costituzione.

    Gli attori, in sintesi, denunciano la non conformità a Costituzione di tali disposizioni nella parte in cui prevedono di attribuire il c.d. premio di maggioranza (attribuzione di 340 seggi) alla lista che abbia ottenuto, su base nazionale, almeno il 40% dei voti validi e al contempo stabiliscono una soglia di accesso minima del 3% di voti validi per accedere alla distribuzione dei seggi.

    La combinazione di tali meccanismi produrrebbe effetti irragionevolmente distorsivi dell’uguaglianza del voto, in quanto si finirebbe con l’attribuire irrazionalmente il premio di maggioranza e verrebbero lesi anche i principi di rappresentanza democratica e di divieto di mandato imperativo.

    Sarebbe, infatti, sproporzionato attribuire il premio di maggioranza, pari a oltre il 14% dei voti validi, a una lista che non ha ottenuto la maggioranza dei consensi senza neppure tenere conto del fatto che la lista premiata abbia conquistato seggi nella circoscrizione estero fino al numero di 12.

    A sostegno della tesi della assoluta irrazionalità delle disposizioni in esame i ricorrenti richiamano quanto statuito dalla Corte Costituzionale nella sentenza n.1/2014 che, quanto al parametro che anche il legislatore deve rispettare, ha ricordato che l’obiettivo, certamente di rilievo costituzionale, che è quello di garantire, con le norme che disegnano il sistema elettorale, la stabilità di Governo e l’efficienza dei processi decisionali nell’ambito parlamentare non è tale da giustificare qualsiasi sacrificio di altri interessi e valori che pure hanno rilievo costituzionale.

    In quella occasione la Corte aveva ritenuto che la funzione rappresentativa dell’assemblea parlamentare così come l’uguaglianza del diritto di voto, pur potendo subire delle limitazioni in vista di quel valore, dovrebbero essere sacrificati nella misura minima possibile, per non incorrere in una profonda e inammissibile alterazione tra il voto espresso e la rappresentazione che si esso si dà nella composizione assembleare.

    Con il sesto motivo vengono censurati : l’art. 1 comma 1 lettera f); art. 2 commi 1, 25 capoverso “art. 83” della Legge n.52/2015 e 93 comma 2 n.5 DPR n.361/1957 relativamente al turno di ballottaggio in relazione agli articoli 1, 3, 48 II comma, 49, 51, 56 commi I e IV 67 Costituzione e art. 3 del Protocollo addizionale CEDU nella parte in cui disciplinano il turno di ballottaggio e l’attribuzione, all’esito, del premio di maggioranza.

    Ritengono gli attori che il meccanismo di attribuzione del premio di maggioranza al secondo turno di ballottaggio tra liste violi il principio di ragionevolezza e di uguaglianza in quanto esso consente l’attribuzione del premio con modalità che, senza adeguati correttivi, rischiano di premiare in modo abnorme una forza politica addirittura in modo inversamente proporzionale al grado di consenso ricevuto.

    L’effetto fortemente e irragionevolmente distorsivo del voto espresso sarebbe dovuto al fatto che :

    - le disposizioni in esame attribuiscono il premio di maggioranza sulla base dei voti validi espressi nel turno, senza porre un correttivo quale, ad esempio, il raggiungimento di un quorum minimo al primo turno, con la conseguenza che potrebbe risultare vincitrice al ballottaggio una lista che in termini assoluti (per voti espressi in suo favore) è in realtà minoritaria;

    - il voto dei cittadini che avessero scelto la lista di minoranza (tale al primo turno) finirebbe, con l’esito del secondo turno, ad esprimere un voto di valore più che doppio rispetto al voto espresso dai cittadini che avessero, invece, votato altre liste (nel ricorso viene fatto l’esempio della lista che va al ballottaggio avendo ottenuto, al primo turno, il 25% dei voti, e che vincerebbe il turno di ballottaggio ottenendo 186 seggi di “premio” che le farebbero conseguire il 54% dei deputati; in tale situazione le altre liste, che rappresenterebbero il 75% dei voti validi espressi nella competizione, si vedrebbero attribuita la restante quota minoritaria di seggi, pari a 278);

    il che comporterebbe la violazione del principio di uguaglianza del voto e di rappresentatività democratica dell’assemblea eletta con tale sistema .

    Come è noto la Corte Costituzionale è già stata investita della questione di cui ai sopraindicati motivi dal Tribunale di Messina, e limitatamente al sesto motivo, dal Tribunale di Torino.

    Sul punto la scrivente fa proprie le pregevoli valutazioni e conteggi resi dal Tribunale di Torino (pur arrivando a diversa conclusione) in relazione alla disciplina di cui all’art. 1 lettera f) legge n.52/2015,. Esso prevede che vengano attribuiti 340 seggi (ossia il 55% del totale di 618 seggi, cui si devono aggiungere i 12 seggi riservati alla Circoscrizione estero) alla lista che ottiene, su base nazionale, almeno il 40% dei voti validi, con attribuzione in via automatica di un premio del 15% a fronte del conseguimento del 40% dei voti validi di lista. La percentuale di distorsione del voto espresso a favore della lista vincitrice risulta quindi pari a 1,375, dato che il 55% dei seggi viene attribuito a chi ha ottenuto il 40% dei voti. Il voto “perdente” risulta invece avere un coefficiente di sotto rappresentazione pari allo 0,75, dato che il restante 45% dei seggi viene distribuito a chi si è aggiudicato il restante 60% dei voti validi. Risulta quindi evidente che il voto unico in entrata a favore della lista vincitrice per effetto del premio di maggioranza risulta effettivamente sovra rappresentato, come lamentano gli attori. Ipotizzando un caso concreto la distorsione e quindi la compressione del diritto ad un voto diretto è ancora più evidente: supponendo 30 milioni di voti validi, il 40% di voti raggiunti da una lista corrisponde a 12 milioni di voti. Per effetto del premio di maggioranza detta lista ha così diritto a 340 deputati cioè un deputato ogni 35.294 voti; il complesso delle forze di minoranza che hanno ottenuto nel complesso 18 milioni di voti (e che avrebbe avuto diritto in assenza del premio di maggioranza a 371 deputati) con il premio di maggioranza nei ottiene nel complesso solo 278, il che vuol dire che per eleggere un deputato occorrono 64.748 voti. A fronte di detta evidente distorsione, la attribuzione del premio di maggioranza, così come previsto , che di per sé in astratto potrebbe ritenersi ragionevole, richiede a parere della scrivente un ulteriore vaglio da parte del giudice delle leggi, non risultando neppure previsto alcun rapporto fra i voti ottenuti rispetto non già ai voti validi ma al complesso degli aventi diritto al voto; ugualmente la previsione della clausola al 3% (percentuale di per sé né troppo alta né troppo bassa, tipica manifestazione della discrezionalità del legislatore) deve essere a parere della scrivente valutata nel complesso dell’intero sistema che delinea i criteri di selezione della rappresentanza politica alla Camera. È la stessa Corte Costituzionale nella sentenza più volte sopra ricordata a porre in evidenza che “il sistema elettorale, tuttavia, pur costituendo espressione dell’ampia discrezionalità legislativa, non è esente da controllo, essendo sempre censurabile in sede di giudizio di costituzionalità quando risulti manifestamente irragionevole (sentenze n. 242 del 2012 e n. 107 del 1996; ordinanza n. 260 del 2002).”

    Ciò è sufficiente a parere della scrivente per ritenere la questione di costituzionalità come prospettata oltre che rilevante – andando ad incidere sul diritto al voto degli attori - anche non manifestamente infondata; deve pertanto essere rimessa alla Corte costituzionale la valutazione in merito alla proporzionalità e ragionevolezza della scelta operata dal legislatore - tenuto conto del disposto di cui all’art. 48 Cost. - per il perseguimento di un obiettivo di pari rango (governabilità del paese).

    Come ben evidenziato nella nota sentenza 1/2014 l'assemblea costituente non ha voluto imporre alcun sistema elettorale; tuttavia il principio costituzionale di uguaglianza del voto esige che l'esercizio dell'elettorato attivo avvenga in condizioni di parità.

    Negli ambiti in cui è ampia la discrezionalità legislativa, lo scrutinio di proporzionalità e ragionevolezza - cui pure le norme elettorali devono essere sottoposte – riserva alla Corte Costituzionale la verifica che, nel bilanciamento degli interessi costituzionalmente rilevanti (nel caso di specie rappresentanza e governabilità, che secondo la Corte costituisce "un obiettivo costituzionalmente legittimo"), la soluzione prescelta non determini un sacrificio o una compressione eccessiva di ciascuno degli interessi in gioco. Individuato nei termini di cui sopra il cd. effetto distorsivo del voto diretto sarà la Corte a dover sottoporre la norma oggetto di rilievo al cosiddetto stress test e verificare se la disciplina de qua sia la più idonea al conseguimento degli obiettivi posti, in quanto meno compromissiva dei diritti/obiettivi a confronto e con oneri non sproporzionati rispetto al perseguimento di detti obiettivi.

    Quanto al sesto motivo la scrivente condivide le esaurienti argomentazioni svolte dal Tribunale di Torino, che di seguito si riportano .

    Secondo gli attori il meccanismo di attribuzione del premio di maggioranza al secondo turno di ballottaggio tra liste viola il principio di ragionevolezza e di uguaglianza in quanto esso consente l’attribuzione del premio con modalità che, senza adeguati correttivi, rischiano di premiare in modo abnorme una forza politica addirittura in modo inversamente proporzionale al grado di consenso ricevuto. L’effetto fortemente e irragionevolmente distorsivo del voto espresso sarebbe dovuto al fatto che :

    - le disposizioni in esame attribuiscono il premio di maggioranza sulla base dei voti validi espressi nel turno, senza porre un correttivo quale, ad esempio, il raggiungimento di un quorum minimo al primo turno, con la conseguenza che potrebbe risultare vincitrice al ballottaggio una lista che in termini assoluti (per voti espressi in suo favore) è in realtà minoritaria;

    - il voto dei cittadini che avessero scelto la lista di minoranza (tale al primo turno) finirebbe, con l’esito del secondo turno, ad esprimere un voto di valore più che doppio rispetto al voto espresso dai cittadini che avessero, invece, votato altre liste (nel ricorso viene fatto l’esempio della lista che va al ballottaggio avendo ottenuto, al primo turno, il 25% dei voti, e che vincerebbe il turno di ballottaggio ottenendo 186 seggi di “premio” che le farebbero conseguire il 54% dei deputati);

    - in tale situazione alle altre liste, che rappresenterebbero il 75% dei voti validi espressi nella competizione, sarebbe attribuita la restante quota minoritaria di seggi, pari a 278).

    Tutto ciò comporterebbe la violazione del principio di uguaglianza del voto e di rappresentatività democratica dell’assemblea eletta con tale sistema.

    Si ritiene non manifestamente infondato il motivo nei termini che seguono.

    Come già sopra evidenziato, il legislatore, nel determinare i modi con i quali attribuire il premio di maggioranza, deve operare in modo tale da contemperare in modo ragionevole i due contrapposti interessi di pari rilievo costituzionale che sono il principio di rappresentatività e il principio di governabilità.

    Conseguentemente, provvedendo sul testo della legge n.270/2005, la Corte Costituzionale ha statuito che : “il meccanismo di attribuzione del premio di maggioranza prefigurato dalle norme censurate, inserite nel sistema proporzionale introdotto con la legge n.270/2005, in quanto combinato con l’assenza di una ragionevole soglia di voti minima per competere all’assegnazione del premio è pertanto tale da determinare un’alterazione del circuito democratico definito dalla Costituzione, basato sul principio fondamentale di uguaglianza (art. 48 comma II, Cost). Esso infatti pur non vincolando il legislatore ordinario alla scelta di un determinato sistema, esige che ciascun voto contribuisca potenzialmente e con pari efficacia alla funzione degli organi elettivi …”.

    La dottrina ha ritenuto che il principio così espresso abbia portato all’individuazione di un limite costituzionalmente necessario per la legittima attribuzione del premio di maggioranza, nel caso in cui venga adottata una legge elettorale che intenda garantire la governabilità attraverso questo specifico meccanismo.

    Tale limite intrinseco dovrebbe imporre al legislatore di adottare, in tali casi, tutti i correttivi necessari ad assicurare che il premio di maggioranza (che consiste nella attribuzione del numero di seggi necessario a raggiungere, secondo la legge n.52/2105, il 55% dei seggi alla Camera) vada attribuito alla formazione che tale limite ha almeno raggiunto, se non superato. Il quadro complessivo della legge n.52/2015 prevede che la governabilità sia garantita, nel caso in cui nessuna delle liste che partecipano alla competizione elettorale si aggiudichi la maggioranza dei seggi alla Camera, con l’attribuzione del premio di maggioranza alla formazione che abbia raggiunto almeno il 40% dei voti validi espressi.

    Nel caso in cui nessuna lista raggiunga almeno il 40% dei voti, è previsto un ulteriore turno elettorale strutturato secondo il modello (tra i tanti possibili) del ballottaggio di tipo binario, al quale hanno diritto di partecipare le sole prime due liste che al primo turno abbiano raggiunto il maggior numero di voti, con espresso divieto di collegamento tra liste o apparentamento tra i due turni di votazione, con esclusione della possibilità di esprimere preferenze e con conteggio dei voti che tiene conto soltanto dei voti validi espressi nel turno di ballottaggio.

    Mentre nel primo turno all’elettore è consentito esprimere il voto per la formazione politica nella quale maggiormente si identifica, esprimendosi così in astratto nella massima ampiezza – fatte salve le considerazioni svolte in relazione al quinto motivo - il voto di rappresentanza, nell’eventuale turno di ballottaggio di lista (quale è appunto quello previsto dalla legge in esame) gli elettori vengono chiamati a esprimere un voto, volto alla identificazione della lista che, tra le due “superstiti” del primo turno, sarà chiamata a governare, con evidente maggiore compressione del voto di rappresentanza, proprio per la inevitabile riduzione delle opzioni tra le quali l’elettore può scegliere, oltre che per l’espresso scopo delle tornata elettorale (nella quale, infatti, non si esprimono preferenze). In caso di ballottaggio, dunque, il premio di maggioranza verrà attribuito a chi ha ottenuto, nella seconda tornata, la maggioranza dei voti validi espressi quale conseguenza diretta di una scelta degli elettori che è però, in questo caso, l’esito necessitato che deriva sia dalla limitazione dei soggetti nei confronti dei quali si può esprimere il voto (due liste essendo espressamente vietato l’apparentamento o la coalizione) sia dalla scelta di conteggiare detta maggioranza sui voti validi espressi nella tornata, senza dare alcun peso al raggiungimento, ad esempio, di un determinato quorum di votanti tra gli aventi diritto.

    Le caratteristiche del turno di ballottaggio delineate dal legislatore del 2015 hanno quindi indotto la dottrina a riflettere sul se si possa effettivamente dirsi rispettato il sopra ricordato principio costituzionale del necessario rispetto di un limite ontologico di rappresentanza del voto in presenza del quale possa essere attribuito, a una sola lista, il premio di maggioranza, senza incorrere in censure di irragionevolezza e di eccessiva distorsione del voto. Si sono formati due contrapposti filoni interpretativi; un primo filone evidenzia il fatto che il turno di ballottaggio (come delineato dalle norme in esame) non può essere, per definizione, sospettato di violare il ricordato principio costituzionale di rappresentanza del voto in quanto, in questa tornata, tutti gli elettori sono chiamati ad esprimere il loro voto tra due liste in vista della governabilità (piuttosto che della rappresentatività, intesa come identificazione tra voto espresso in favore di una formazione più vicina alle idee dell’elettore) e in tal caso, il premio di maggioranza viene attribuito a chi si conquista il consenso del 50% + 1 dei voti espressi nel turno di ballottaggio, soglia questa indubbiamente ragionevole per vedersi attribuire il premio di maggioranza alla Camera, che consentirà quindi del tutto legittimamente a quella formazione di governare avendo il pieno controllo dell’assemblea. Un secondo filone evidenzia, invece, la sostanziale artificiosità della maggioranza del 50% +1 che scaturisce dal turno di ballottaggio come disegnato dalla legge n.52/2015, in quanto si tratterebbe di una maggioranza solo virtuale perché priva, se non adeguatamente corretta, di una effettiva valenza rappresentativa del corpo elettorale, tale per cui finirebbe, nonostante il dato formale, per non essere rispettato il principio immanente alla Costituzione, per cui il premio non potrebbe essere ragionevolmente attribuito alla formazione che non abbia ricevuto una certa soglia “critica” di consensi.

    Si ritiene senza dubbio più convincente questo seconda corrente di pensiero, che fa si che la questione come posta non sia manifestamente infondata; essa si fa carico di dare consistenza effettiva al principio espresso dalla Corte Costituzionale secondo cui, senza una soglia minima di voti che sia espressione di rappresentatività della forza politica, l’attribuzione ad essa del premio di maggioranza non può dirsi rispettosa di tale principio. Il legislatore si è limitato, infatti, a prevedere che accedano al secondo turno le sole due liste più votate al primo turno, purché abbiano raggiunto almeno la soglia del 3% (ovvero del 20% nel caso di liste espressione di minoranze linguistiche). Così facendo ha implicitamente riconosciuto, da un lato, che sussiste un problema della rappresentatività delle liste ammesse al ballottaggio, da misurare sulla base dei voti riportati nella prima tornata elettorale. D’altro lato però il parametro utilizzato è quello, diverso, delle soglie minime previste in generale dalla legge elettorale in esame, per partecipare alla attribuzione dei seggi, criterio adottato per scoraggiare una eccessiva “polverizzazione” del voto. Nel valutare l’effettiva forza rappresentativa del 50% + 1 dei voti espressi al ballottaggio si deve anche considerare che è previsto che tale maggioranza venga calcolata sui voti validi espressi, il che finisce per non dare alcun rilievo al peso dell’astensione, che potrebbe essere anche molto rilevante quale prevedibile conseguenza della radicale riduzione dell’offerta elettorale nel ballottaggio. Il sistema del ballottaggio, quindi, nonostante si tratti di una tornata di votazioni radicalmente differente dal primo turno, mantiene la stessa base di calcolo del voto, non contiene regole che consentano di rafforzare l’elemento di rappresentatività del voto e, anzi, adotta disposizioni che allontanano da questo obiettivo, dato che solo per questa fase il legislatore pone un esplicito divieto di apparentamento o coalizione tra liste.

    Tale divieto, evidentemente espressione di un favore per la governabilità (ritenendosi più stabile una maggioranza ottenuta da una sola lista, invece che da una coalizione di liste) risulta tuttavia irrazionale in quanto rende il voto espresso al turno di ballottaggio eccessivamente sbilanciato in favore di tale valore, a scapito del valore – di rilievo costituzionale - della rappresentatività del voto che viene, in tal modo, eccessivamente compresso proprio in vista della sua idoneità a far conseguire alla lista vincitrice il controllo della Camera dei deputati.

    Senza l’adozione di meccanismi che garantiscano una adeguata espansione della componente rappresentativa del voto (ovvero senza l’eliminazione del divieto di cui si è detto) l’attribuzione del premio di maggioranza alla sola lista che, all’esito del ballottaggio, si aggiudichi il premio di maggioranza finisce per essere svincolata dalla esistenza di parametri oggettivi che consentano di affermare che la lista vincitrice ha ottenuto quella “ragionevole soglia di voti minima” in presenza della quale è possibile la legittima attribuzione del premio di maggioranza.

    Appare allora non manifestamente infondato il dubbio di conformità a Costituzione espresso dagli attori, in relazione agli articoli 1 II comma, 3, 48 II comma Costituzione, là dove essi evidenziano, in accordo con le opinioni espresse da molti costituzionalisti, che l’attuale sistema, privo di correttivi, pone il concreto rischio che il premio venga attribuito a una formazione che è priva di adeguato radicamento nel corpo elettorale.

    L’attribuzione del premio di maggioranza e la disciplina del ballottaggio vengono quindi posti al vaglio della Corte Costituzionale, unitamente alle questioni dibattute dalle parti in relazione ai motivi 2, 3 , 8, 9 e 10.

    Le osservazioni appena svolte permettono di valutare in un'ottica complessiva alcuni dei motivi di incostituzionalità rilevati da parte attrice, in relazione al parametro della non manifesta infondatezza.

    In particolare, il secondo ed il terzo motivo, oggetto di rilievo da parte attrice, devono essere valutati come casi limite derivanti dall'assegnazione del premio di maggioranza così come previsto .

    Con il secondo motivo parte attrice censura gli articoli 1, comma 1 lettera f) nella parte in cui prevede che “sono attribuiti comunque 340 seggi alla lista che ottiene, su base nazionale, almeno il 40% dei voti validi” e 2 comma 25 capoverso “art. 83” con particolare riferimento ai commi: 1 numeri 5 e 6, 2, 3 e 4 in relazione agli artt. 1 comma secondo e 61 Costituzione.

    Sinteticamente, parte attrice lamenta la difficoltà interpretativa nell’applicazione delle succitate disposizioni in relazione all’assegnazione del cosiddetto premio di maggioranza, anche nel caso in cui due liste raggiungano al primo turno oltre il 40% dei voti validi.

    Posto che nulla viene previsto espressamente dalla legge per il caso di specie, parte attrice lamenta l’assurdità e irrazionalità dell’interpretazione della norma che non attribuisca a nessuna delle due liste il premio di maggioranza; l’arbitrarietà della soluzione che attribuisca il premio di maggioranza alla lista che risultasse vincente anche per un solo voto (in quanto nulla prevede la legge); l’arbitrarietà e la non conformità alla legge dell’interpretazione che proporrebbe l’indizione di un turno di ballottaggio in presenza di due liste che hanno superato lo sbarramento del 40% (essendo invece il ballottaggio previsto solo in caso di mancato raggiungimento di questa soglia).

    Parte convenuta ritiene che in ragione del disposto letterale dell’art. 83 comma 1 n. 2 n. 5 n. 6 comma 2 del D.P.R. n. 361/57, come modificato dalla Legge n. 52/2015 ed in particolare dalla previsione dell’assegnazione del premio di maggioranza “ alla lista che ha ottenuto la maggiore cifra elettorale nazionale”, il premio di maggioranza dovrà essere assegnato alla lista vincitrice, anche di un solo voto.

    A parere della scrivente il tenore letterale dell’articolo consente un’unica interpretazione della norma, non essendo state positivamente previste e disciplinate le ulteriori ipotesi di cui alle proposte interpretazioni della norma. In assenza di idonei correttivi (quali ad esempio l’esclusione del premio di maggioranza per l’ipotesi in cui siano due le liste che superano la soglia del 40%, e la contestuale previsione del ballottaggio) risulta evidente la compromissione del diritto al voto diretto per gli elettori della lista che, pur avendo ottenuto al primo turno il 40% dei voti, sia risultata seconda e quindi veda ridotto il proprio numero di deputati per effetto della distorsione già trattata in relazione al quinto motivo.

    Pertanto non appare manifestamente infondato il dubbio di legittimità costituzionale in merito alla assegnazione del premio di maggioranza di 340 seggi alla lista che abbia ottenuto il maggior numero di voti, fra le due liste che abbiano superato al primo turno il 40 % di voti.

    Con il terzo motivo, si censurano gli articoli: 1 comma 1 lettera f, 2 comma 25 capoverso “art. 83” numeri 5 e 6, commi 2 e 5; capoverso “articolo 83 bis” commi 1, numeri 1, 2 e 3 e 4” della legge n.52/215 in relazione agli articoli 1, 3, 48, 49, 51 e 67 della Costituzione.

    Il terzo motivo è relativo anch’esso ad un “caso limite”, ossia la circostanza in cui, in presenza di una forte dispersione del voto verso liste che non raggiungano la soglia del 3%, una lista ottenga 340 seggi al primo turno ma, non raggiungendo la percentuale del 40%, sia ugualmente costretta al ballottaggio, all’esito del quale potrebbe risultare vincente la lista che al primo turno aveva preso meno voti dell’altra.

    A parere della scrivente, dover ricorrere al secondo turno anche nel caso in cui una lista ottenga il numero di seggi ritenuto opportuno dal legislatore al fine di garantire la governabilità, è contraddittorio rispetto allo scopo proclamato dallo stesso legislatore. Tale contraddittorietà è un altro effetto del meccanismo di assegnazione del premio di maggioranza alla lista che ottenga il 40% al primo turno, oggetto del rilievo di illegittimità costituzionale, già ritenuto dalla scrivente non manifestamente infondato.

    Per tale ragione, anche il terzo motivo è ritenuto non manifestamente infondato.

    Quanto ai motivi settimo e ottavo, relativi al sistema delle preferenze e dei capolista (che pare opportuno trattare congiuntamente), la scrivente fa propria e aderisce alla valutazione resa dal Tribunale di Torino, che ha rigettato il settimo motivo, ritenendolo manifestamente insussistente, mentre ha giudicato non manifestamente infondato l’ottavo motivo.

    Con il settimo motivo parte attrice ha censurato gli articoli 1, lettera b) per le parole “ … salvo i capilista nel limite di 10 collegi” lettera c) per le parole “… dapprima i capilista nei collegi, quindi …”; art. 2 comma 26 capoverso “art. 84” comma 1 per le parole “… a partire dal candidato capolista …” e comma 2 per le parole “… a partire dal candidato capolista” della legge n. 52/2015 nonché dell’art. 59 – bis commi da 1 a 3 D.P.R. n.361/2015, come novellato dall’art. 2 comma 21 Legge n.52/2015, ritenendo tali disposizioni lesive degli artt. 2, 48, secondo comma, 51, primo comma e 67 della Costituzione.

    In sintesi, parte attrice rileva la non conformità di tali disposizioni alla Costituzione, in quanto consentono ad una categoria di candidati, i cosiddetti “capolista”, di essere eletti, prescindendo da qualsiasi preferenza espressa dagli elettori.

    Si rileva, come già osservato dal Tribunale di Torino nell’ordinanza di rimessione alla Corte Costituzionale, che non si rinviene una ragione di sospetta illegittimità costituzionale dell’art. 59 bis DPR n.361/57 secondo comma, dato che la norma in esso contenuta si limita a contenere indicazioni volte a rendere inequivoco che il voto espresso con una certa modalità (voto espresso con un segno tracciato “su una linea posta a destra del contrassegno, senza tracciare un segno sul contrassegno della lista medesima”) deve intendersi come voto validamente espresso in favore della lista; si evince che tale disposizione non riguarda lo “statuto” dei capi lista, oggetto di rilievo da parte di parte attrice.

    Con l’ottavo motivo, parte attrice censura la non conformità, rispetto agli articoli 48 e 51 Costituzione delle disposizioni di cui all’art. 2 comma 11 della Legge n. 52/2015 “sulle candidature multiple”, nella parte in cui consentono al candidato capolista in più collegi “di optare ad elezione avvenuta con successo, per un collegio piuttosto che per un altro”, senza dare indicazioni sulle modalità di esercizio di detta opzione e così influendo in modo arbitrario e incisivo sul voto di preferenza espresso dagli elettori a favore di un candidato che, senza l’opzione del capolista, verrebbe senz’altro eletto avendo raggiunto il numero maggiore di preferenze rispetto agli altri competitori della sua stessa lista, rendendo in tal modo imprevedibile la significatività della preferenza espressa dagli elettori.

    Si fa propria la precisazione svolta dal Tribunale di Torino nell’ordinanza di rimessione alla Corte Costituzionale, in merito alle disposizioni oggetto di rilievi da parte attrice. Il suddetto Tribunale ha osservato che parte attrice non ha indicato in modo completo le norme che comporterebbero una lesione del diritto di voto uguale e libero. Infatti, l’art. 2, comma 11 regola il c.d. “sistema delle candidature multiple”, ma nulla dice riguardo alla scelta dell’eletto nell’ambito di tale sistema. La disposizione della Legge n. 52/2015 che attiene alla libertà (assoluta) di opzione per il candidato plurieletto di scegliere, tra i vari collegi nei quali egli può aspirare all’elezione, va invece rinvenuta nel successivo comma 27 del medesimo art. 2 cit. che, nel mantenere ferma la disposizione contenuta nell’art. 85, comma 1 del D.P.R. n. 361/1957, apporta ad essa esclusivamente le variazioni testuali necessarie ad armonizzarla alle altre modifiche apportate dalla Legge. Si può pertanto ritenere che parte attrice abbia lamentato l’illegittimità costituzionale di tutte le disposizioni richiamate, nel loro combinato disposto, che consentono ai soli candidati capilista di candidarsi in più collegi (fino ad un limite massimo di 10 come si è detto in precedenza) ed attribuiscono loro, nel caso conseguano la proclamazione in più di un collegio, di optare senza alcun vincolo per il collegio nel quale vogliono ricollegare la loro elezione.

    Al fine di vagliare la non manifesta infondatezza dei motivi settimo e ottavo, è opportuno ripercorrere l’iter argomentativo svolto dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 1/2014, nella quale è stato rilevato che la libertà di voto era fortemente compromessa dalle disposizioni della legge elettorale cosiddetta “Porcellum”, posto che il cittadino era “ chiamato a determinare l’elezione di tutti i deputati e di tutti senatori, votando un elenco spesso assai lungo (nelle circoscrizioni più popolose) di candidati, che difficilmente conosce. Questi, invero, sono individuati sulla base di scelte operate dai partiti, che si riflettono nell’ordine di presentazione, sì che anche l’aspettativa relativa all’elezione in riferimento allo stesso ordine di lista può essere delusa, tenuto conto della possibilità di candidature multiple e della facoltà dell’eletto di optare per altre circoscrizioni sulla base delle indicazioni del partito. In definitiva, è la circostanza che alla totalità dei parlamentari eletti, senza alcuna eccezione, manca il sostegno della indicazione personale dei cittadini, che ferisce la logica della rappresentanza consegnata nella Costituzione ".

    Da tali principi si desume, a parere della scrivente, che non è costituzionalmente illegittima di per sé la previsione di capi lista, quanto l'impossibilità di scegliere alcuno dei parlamentari eletti, come previsto dal cosiddetto “Porcellum”; mentre la L. n. 52/2015 permette di esprimere preferenze, risultando “bloccati” i soli capi lista, senza escludere l’esistenza di un effettivo rapporto di rappresentanza tra elettori ed eletti, potendosi esprimere fino a due preferenze ed essendo previste ulteriori disposizioni volte a salvaguardare la parità di genere nell’accesso alle cariche elettive.

    Come condivisibilmente osservato dal Tribunale di Torino nella succitata ordinanza, le preferenze espresse non sono vanificate dal meccanismo dei c.d. “ capilista bloccati” che permette la loro elezione per primi rispetto ai candidati che li seguono in lista, poiché in caso di candidature plurime, il capolista dovrà poi optare per un solo collegio, così dando luogo alla elezione del candidato non capolista negli altri collegi.

    Per tale ragione si ritiene manifestamente infondato il settimo motivo di prospettata illegittimità costituzionale.

    Quanto all’ottavo motivo, in ossequio alla pronuncia sopraccitata della Corte Costituzionale n. 1/2014, a parere della scrivente, sembra riconosciuta come valore di rango costituzionale, in quanto connesso alla libertà di voto, libero e uguale statuito dalla Carta Costituzionale, la tutela della legittima aspettativa dell’elettore di influire, con la propria preferenza espressa, sull’effettiva elezione del candidato prescelto.

    La scrivente ritiene di condividere quanto già evidenziato dal Tribunale di Torino, nella predetta ordinanza di rimessione alla Corte Costituzionale, secondo cui l’ottavo motivo non appare manifestamente infondato, limitatamente alla disposizione che consente al capolista di operare la scelta del collegio senza alcun tipo di vincolo; mentre il motivo non appare fondato nella parte in cui viene censurato in sé il sistema della candidatura “bloccata o multipla”.

    Infatti, riconosciuta la non irragionevolezza della candidatura multipla per una sola categoria di candidati (i capilista) e sottratti questi ultimi al voto di preferenza da parte dell’elettore, è necessario prevedere un meccanismo di scelta che operi nel caso in cui il candidato capolista risulti eletto in più collegi. Ritenuto manifestamente infondato il rilievo di illegittimità relativo alla candidatura di capi lista bloccati, che abbiano facoltà di candidarsi in più collegi, si manifesta, ad avviso della scrivente, il dubbio di costituzionalità relativamente alla scelta del collegio da parte del capolista e le modalità disegnate dal legislatore per il suo esercizio. Come correttamente osservato nell’ordinanza del Tribunale di Torino infatti, l’assenza di qualsiasi criterio di scelta a cui il capolista si ispiri rende impossibile per l’elettore effettuare valutazioni prognostiche sulla “utilità” del suo voto di preferenza, dato in favore di un candidato che faccia parte di una lista con capo lista candidato anche in altri collegi. L’elettore infatti non potrà effettuare alcuna previsione circa le modalità con cui, all’esito del voto, quel capolista eserciterà, in caso di vittoria plurima, la sua scelta. Né il contenuto inequivoco dell’art. 85 cit. consente di intravedere una interpretazione che superi tali rilievi.

    In conseguenza di tali osservazione, deve ritenersi non manifestamente infondato l’ottavo motivo dedotto da parte attrice.

    Quanto al nono motivo - con cui parte attrice ha lamentato l’illegittimità costituzionale degli articoli 2, comma 25, della Legge n. 52/2015, articolo 83, comma 3, D.P.R. n. 361/1957, per violazione dell’art. 56, secondo comma Costituzione, articoli 2, commi 29, 30, 31 e 32 della Legge n. 52/2015, in relazione agli articoli 3, 48 e 51 Costituzione oltre che dell’art. 1 comma 1 lettera f) Legge n. 52/2015 - si deve preliminarmente dar conto che all’udienza del 27.10.2016 parte attrice ha illustrato una nuova prospettazione del medesimo motivo, fondato tuttavia sui medesimi fatti dedotti nell’atto di citazione.

    Parte attrice in particolare ha osservato che, quanto alla regione Trentino Alto Adige, sarebbe leso il diritto di voto libero e uguale, in caso di assegnazione dei tre seggi di recupero proporzionale ad una lista non apparentata con alcuna lista nazionale o espressione della minoranza linguistica vincitrice nella suindicata regione. Ciò comporterebbe infatti una violazione nella rappresentatività della minoranza nazionale, rispetto alla minoranza linguistica assegnataria dei tre seggi di recupero proporzionale.

    Si può assumere che le potenziali lamentate conseguenze lesive subite dalle minoranze nazionali nei confronti della minoranza linguistica non apparentata ad alcuna lista nazionale o alla lista vincitrice nella regione rappresentino uno degli ulteriori effetti indiretti del meccanismo di doppio turno, funzionale all’assegnazione del premio di maggioranza, il cui rilievo di incostituzionalità è già stato ritenuto non manifestamente infondato dalla scrivente, posto che il recupero proporzionale potenzialmente lesivo delle liste di minoranza nazionali è necessario per via della istituzione degli otto collegi uninominali che vengono assegnati fin dal primo turno, senza che il ballottaggio possa incidervi.

    Deve altresì osservarsi che il meccanismo descritto da parte attrice, in relazione al caso del mancato apparentamento della lista di minoranza con liste nazionali o con la lista vincitrice nella regione Trentino Alto Adige ,appare determinare un’incidenza del voto in uscita di gran lunga superiore al corrispettivo voto reso dagli elettori nei confronti di una lista nazionale di minoranza.

    Per queste ragioni, il motivo nono appare alla scrivente non manifestamente infondato.

    Al contrario la scrivente ritiene non fondati i motivi 4 – 10 - 11 – 12 – 13 e 14 (oltre al primo e settimo di cui è già detto);

    Il quarto motivo solleva la questione di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 2 della L. n. 52/2015, per violazione dell’art. 138 Cost. sul procedimento di revisione costituzionale.

    Parte attrice sostiene l’incompatibilità della legge elettorale con la forma di Governo parlamentare vigente in Italia a norma di Costituzione, perché il leader della lista vincente indicato sulla scheda elettorale risulterà essere il Presidente del Consiglio dei Ministri, a detrimento delle prerogative di nomina del Presidente della Repubblica. Sostanzialmente, il meccanismo delineato dalla nuova legge elettorale si tradurrebbe quasi in un’elezione diretta del Presidente del Consiglio dei Ministri, con adozione di un mutamento della forma di Governo lesiva della procedura di revisione ex art. 138 Cost..

    Parte convenuta contesta questa ricostruzione del sistema elettorale introdotto dalla nuova legge, posto che l’art. 14bis del DPR 361/57, come riscritto dalla Legge 52/2015, non ha modificato le prerogative del Presidente della Repubblica come individuate dall’art. 92, c.2 Cost., rilevando inoltre come sulla scheda elettorale non viene riportato il nome del capo della forza politica, dovendo essere stampati, al primo turno, accanto ai contrassegni di lista, solo i nominativi dei capolista nel singolo collegio plurinominale; al ballottaggio, invece, sulla scheda sono presenti solo i contrassegni delle liste ammesse.

    Da queste premesse si evince l’opportunità logica e giuridica di trattare tale motivo congiuntamente al dodicesimo motivo, con il quale gli attori sollevano la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, c. 8 della L. 52/2015 e degli artt. 14 e 14bis del DPR 361/1957 per violazione dell’art. 92 Cost., essendo anch’esso riferito alla lesione delle prerogative del Presidente della Repubblica in merito alla nomina del Presidente del Consiglio dei Ministri ed al conseguente mutamento della forma di Governo delineata dalla Costituzione, che si convertirebbe da parlamentare a presidenziale.

    In sede di motivazione del dodicesimo motivo, gli attori rinnovano le doglianze sollevate in relazione al quarto, evidenziando la “presidenzialità” di un’elezione in cui il leader della coalizione politica di maggioranza diventa il capo della forza politica, specialmente in caso di ballottaggio, in cui la scelta tra una delle due liste in corsa per il premio di maggioranza sostanzialmente si traduce in una scelta tra l’uno o l’altro dei candidati; con ciò risultando una mera “formalità” il disposto dell’art. 14bis c. 1 del DPR 361/57 (come sostituito dall’art. 2, c. 8 della l. n. 52/2015), ai sensi del quale “Restano ferme le prerogative spettanti al Presidente della Repubblica previste dall’articolo 92, secondo comma, della Costituzione”. Infatti, nel quadro delineato dalla nuova normativa, il Capo dello Stato non può far altro che prendere atto del risultato del primo turno o del ballottaggio. A ciò aggiungendosi che il programma elettorale di cui all’art. 14bis c. 1 DPR 361/1957 non è altro se non il programma del partito che quella lista (o coalizione di liste) esprime (“ Contestualmente al deposito del contrassegno di cui all’art. 14, i partiti o i gruppi politici organizzati che si candidano a governare depositano il programma elettorale nel quale dichiarano il nome e cognome della persona da loro indicata come capo della forza politica. […] ”).

    Parte convenuta, nel contrastare dette difesa, ha evidenziato inoltre la legittimità della scelta, operata da una o più liste, di inserire all’interno del proprio contrassegno il nome del capo della forza politica. In tal modo “ la lista indicherebbe al proprio elettorato – in un’ottica di trasparenza democratica – la persona da proporre (in caso di vittoria) al Capo di Stato per il conferimento del mandato a formare il nuovo Governo ”.

    In primis , la scrivente si associa ai dubbi circa la rilevanza dei motivi in esame manifestata dal Tribunale di Torino nella già citata ordinanza 5.7.2016, posto che, per come prospettati, i motivi non sono riconducibili alle modalità costituzionalmente tutelate di esercizio del voto libero ed eguale ex art. 48 Cost., riguardando invece la prerogativa di nomina del Capo del Governo che l’art. 92 c. 2 Cost. conferisce al Presidente della Repubblica: “ Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questo, i ministri”. Infatti, occorre ricordare che l’oggetto della presente controversia si sostanzia nell’accertamento del diritto di votare secondo Costituzione e l’asserita violazione della prerogativa presidenziale non influisce sull’esercizio di tale diritto in pregiudizio agli elettori. Piuttosto, se si ritenesse concretamente verificata la circostanza di una elezione diretta del Presidente del Consiglio da parte del corpo elettorale, questa comporterebbe decisamente un ampliamento delle prerogative dei votanti e non un loro restringimento.

    In ogni caso, la questione di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 2 della L. n. 52/2015, per violazione dell’art. 138 Cost. nonché dell’art. 2, c. 8 della L. 52/2015 e degli artt. 14 e 14bis del DPR 361/1957 per violazione dell’art. 92 Cost. è manifestamente infondata. Le norme in questione non introducono, infatti, alcun automatismo tale da imporre al Presidente della Repubblica un vincolo alla nomina a Presidente del Consiglio dei Ministri del capo della coalizione risultata vittoriosa al primo turno o al ballottaggio, con ciò rimanendo impregiudicate le prerogative del Presidente della Repubblica stesso in tal senso; inoltre, non sussiste una violazione dell’art. 138 Cost., con conseguente salvaguardia della forma di Governo parlamentare.

    Con il decimo motivo - con cui si censura l’illegittimità costituzionale degli articoli 1, comma 1) lettera a), e) e i) e art. 2 commi 1, 2, 3, 4, 5, 25 capoverso “art.83” commi 1 numeri 3, 6,29, 30 31 e 32 della legge n. 52/2105 in relazione agli articoli 1, 2, 3, 6, 10, 11, 48, 49, 51, 117, secondo comma lettera f) Costituzione, nella parte in cui non tutelano in modo effettivo e attivo le altre minoranze linguistiche riconosciute (diverse cioè da quelle francofone e germanofone e ladine residenti in VDA e TAA) per le quali non sono previste disposizioni specifiche idonee a dare effettiva rappresentatività agli elettori appartenenti a tali minoranze . In particolare di ritiene che la disposizione di cui all’art. 83 comma 1 numero 3 non sarebbe idonea a superare tale mancanza di effettiva tutela in quanto il descritto peculiare sistema di conteggio dei voti si applicherebbe solo per le liste che sono espressione di minoranze linguistiche che risiedono nelle regioni a statuo speciale e solo a condizione che il relativo statuto ne preveda in modo specifico una particolare tutela.

    Posto che non è stata dedotto in atto di citazione l’appartenenza ad una particolare minoranza linguistica di nessuno degli attori, in punto rilevanza, a parere della scrivente, sono condivisibili le osservazioni già svolte dal Tribunale di Torino nella ordinanza più volte citata, che sul punto precisa che parte attrice si dimostra portatrice “ di un interesse mediato e quindi di mero fatto, ad ottenere un giudizio di legittimità costituzionale di norme che tutelano interessi costituzionali dei quali essi non sono titolari ma solo portatori quali cittadini italiani, e non quali elettori interessati dalla applicazione proprio delle disposizioni censurate ”.

    Per tali ragioni, il decimo motivo difetta del presupposto della rilevanza ; peraltro si condividono le considerazioni contenute nella più volte citata ordinanza del Tribunale di Torino, alle quali si fa rinvio, che ha ritenuto in ogni caso anche la infondatezza del motivo.

    Con l’undicesimo motivo, gli attori censurano l’art. 2, cc. 10 e 36 della L. 52/2015 e l’art. 18bis, cc. 1 e 2 del DPR 361/57 inerenti l’esenzione dalla raccolta delle firme per violazione degli artt. 3, 48, 49 e 51 Cost., artt. 24 e 113 Cost. nonché dell’art. 13 CEDU.

    In violazione agli articoli della Costituzione che sanciscono il principio di uguaglianza, il diritto di voto libero ed uguale nonché il diritto di associarsi in partiti e quello all’accesso agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di parità, la normativa censurata viene considerata discriminatoria nei confronti dei nuovi soggetti politici rispetto ai gruppi già presenti in Parlamento, oltre tutto attraverso l’applicazione di criteri disomogenei (collegamento con gruppi parlamentari costituiti all’inizio della legislatura in entrambe le Camere; presenza anche con un solo eletto nel Parlamento europeo; in caso di minoranza linguistica, presenza anche con un solo eletto in una delle due Camere). Evidenziano inoltre che una deroga della disciplina è poi prevista nel caso di gruppi parlamentari costituiti alla data del 1 gennaio 2014, per i quali non si richiede il rapporto con le liste e con i gruppi eletti nel 2013. Tale deroga viene da essi attori ritenuta ingiustificata sotto il profilo sia soggettivo che oggettivo, posto che le forze politiche già presenti in Parlamento risultano essere già avvantaggiate in caso di nuova elezione, in ragione della visibilità ottenuta, dei finanziamenti delle campagne elettorali e della maggiore disponibilità di soggetti per la raccolta delle firme e la presentazione delle liste.

    Sotto un altro profilo, la nuova normativa risulterebbe lesiva degli artt. 24 e 113 della Costituzione, inerenti il diritto di tutela giurisdizionale genericamente riconosciuta e, soprattutto, la tutela dei cittadini nei confronti della Pubblica Amministrazione, nonché dell’art. 13 della CEDU, con il quale si stabilisce che “ ogni persona i cui diritti e le cui libertà riconosciuti nella presente Convenzione siano stati violati, ha diritto ad un ricorso effettivo davanti ad un’istanza nazionale, anche quando la violazione sia stata commessa da persone che agiscono nell’esercizio delle loro funzioni ufficiali ”. In Italia, infatti, non si è data attuazione ai principi dell’art. 44, c. 2, lett. d) della L. 69/2009 (Art. 44 Delega al Governo per il riassetto della disciplina del processo amministrativo, c. 2, lett. d): “ razionalizzare e unificare le norme vigenti per il processo amministrativo sul contenzioso elettorale, prevedendo il dimezzamento, rispetto a quelli ordinari, di tutti i termini processuali, il deposito preventivo del ricorso e la successiva notificazione in entrambi i gradi e introducendo la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo nelle controversie concernenti atti del procedimento elettorale preparatorio per le elezioni per il rinnovo della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica, mediante la previsione di un rito abbreviato in camera di consiglio che consenta la risoluzione del contenzioso in tempi compatibili con gli adempimenti organizzativi del procedimento elettorale e con la data di svolgimento delle elezioni ”) che avrebbe consentito l’impugnazione delle operazioni elettorali preparatorie, tra le quali le ammissioni e le esclusioni di liste per il Parlamento. Non essendo stata data attuazione al disposto della norma, la competenza in materia è ancora affidata alla Camera, previa istruttoria e proposta di decisione della Giunta delle elezioni, cioè a soggetti che si trovano in una situazione di conflitto di interessi. Pertanto, in materia elettorale, ai cittadini italiani non è dato un rimedio effettivo ex art. 13 CEDU.

    Parte convenuta, nel respingere dette censure, contesta che la presunta mancata attuazione, con il codice del processo amministrativo (d.lgs. 104/2010), della delega di cui all’art. 44 L. 69/2009 - che avrebbe consentito di ricorrere al giudice amministrativo ove una lista fosse esclusa perché priva di sottoscrizioni - sia attinente alle disposizioni sul nuovo sistema elettorale introdotte dalla L. 52/2015, evidenziando inoltre che, in ogni caso, avverso le decisioni di esclusione delle liste per le elezioni politiche – emesse dagli Uffici centrali circoscrizionali retti da magistrati – è ammesso ricorso all’Ufficio centrale nazionale, composto da 5 magistrati della Corte di Cassazione.

    Anche l’undicesimo motivo è carente sotto il profilo della rilevanza. Le disposizioni censurate condizionano all’ottenimento di un determinato numero di consensi la possibilità di presentare liste per la partecipazione alla competizione elettorale. Pertanto, queste previsioni potrebbero al più considerarsi lesive del diritto di elettorato passivo, limitando la possibilità per i gruppi di cittadini di presentare legittimamente le liste, con la conseguenza che alcuni di questi risulterebbero esclusi dalla competizione elettorale, e non della posizione di elettori attivi fatta valere dagli attori nel presente giudizio che, come già ricordato, ha ad oggetto l’accertamento del diritto di votare secondo Costituzione, asseritamente leso dalla normativa introdotta con la L. 52/2015. Come osservato dal Tribunale di Torino nell’ordinanza del 5.7.2016 “ le norme in esame produrrebbero, al più, una violazione mediata del diritto di voto attivo, dato che esse non precluderebbero né l’esercizio del diritto di voto in quanto tale né ne distorcerebbero il risultato in uscita per effetto di meccanismi di conteggio, ma ne limiterebbero la possibilità di scelta, riducendo l’ampiezza dell’offerta elettorale ”.

    Inoltre, inconferente rispetto all’oggetto delle disposizioni impugnate è anche la censura mossa alle disposizioni in esame per violazione dell’art. 13 CEDU, per la mancata previsione di un rimedio giurisdizionale atto a consentire l’impugnazione delle operazioni elettorali preparatorie, come le ammissioni e le esclusioni delle liste.

    Nel merito, la sollevata questione di legittimità costituzionale in relazione all’art. 2, cc. 10 e 36 della L. 52/2015 e all’art. 18bis, cc. 1 e 2 del DPR 361/57 per violazione degli artt. 3, 48, 49 e 51 Cost., artt. 24 e 113 Cost. nonché dell’art. 13 CEDU appare manifestamente infondata.

    L’apposizione di un limite in sede di presentazione delle liste che possano partecipare alla competizione elettorale non deve essere vista come un ostacolo alla nascita e all’affermarsi di nuove forze politiche; essa, al contrario, è da ritenersi ragionevole, ben potendo il diritto dei cittadini di “ associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale” sancito dall’art. 49 Cost. essere bilanciato con il valore, altrettanto importante, della governabilità, al fine di evitare che l’offerta elettorale sia eccessivamente variegata, a causa di un accesso illimitato e incondizionato alla competizione elettorale, con conseguente eccessiva frammentazione del voto.

    Inoltre, i criteri di selezione preventiva come configurati dalla L. 52/2012 non appaiono neanche discriminatori a vantaggio di quei partiti che già siano rappresentati nelle assemblee legislative, essendo gli stessi già passati al vaglio delle elezioni. Legittimi risultano essere sia la richiesta, rivolta dal legislatore alle formazioni politiche, di dimostrare di essere sostenute, già al momento della presentazione della lista, da un certo numero di consensi, sia il numero stesso (almeno 1.500 e non più di 2.000 firme di elettori) di consensi richiesto.

    Con il tredicesimo motivo viene censurata l’illegittimità costituzionale della TABELLA A approvata dall’art. 1 D.lgs.n.122/2015 per violazione dell’art. 76 Costituzione e dell’art.4 della legge n.52/2015 per violazione degli articoli 1, 2, 3, 6, 48, 49 e 51 Costituzione.

    L’art. 4 Legge n.52/2015 contiene una delega al Governo per la “determinazione dei collegi plurinominali”, da adottare entro 90 giorni dalla data di entrata in vigore della legge stessa, secondo i criteri dettati dalle lettere da a) a g) dell’art.4. La delega è stata attuata con il D.lgs. n.122/2015 che ha individuato i confini “geografici” di detti collegi, contenuti nella Tabella A approvata con l’art. 1 del decreto in questione.

    Lamentano gli attori che nel dare attuazione alla delega il Governo avrebbe disatteso (ossia non applicato) i criteri di cui alle lettere c) (ultimo periodo) e g) con violazione, quindi, della delega. La mappa dei collegi plurinominali che si ricava dalla Tabella A, inoltre, non solo violerebbe la delega, ma produrrebbe anche una violazione del principio di tutela delle minoranze linguistiche.

    In sintesi, secondo quanto prospettato, sarebbero stati separati comuni caratterizzati dalla presenza di determinate minoranze linguistiche, con l’effetto pratico di “annacquarne” il peso del voto in uscita (ciò avverrebbe, in particolare, per la minoranza di lingua slovena, nonostante il riconoscimento da parte della Regione ad autonomia speciale), tenuto conto della soglia di sbarramento posto dall’art. 83 primo comma n.3 che le liste rappresentative di minoranze linguistiche devono superare per concorrere alla ripartizione dei seggi alla Camera.

    Le considerazioni svolte in merito al difetto di rilevanza del decimo motivo possono essere parimenti rese in relazione a detto motivo , per la parte relativa al meccanismo di assegnazione dei seggi e alla tutela delle minoranze linguistiche.

    Nessuno degli attori afferma di appartenere a una minoranza linguistica riconosciuta dalla legge e nessuno di loro è residente in Friuli Venezia Giulia ovvero nella regione Sardegna (dal complesso dei motivi emerge, infatti, che i ricorrenti riconoscono la correttezza delle disposizioni che agevolano le minoranze linguistiche insediate in Valle d’Aosta e Trentino Alto Adige, mentre lamentano l’irragionevolezza delle norme che vanificano il riconoscimento operato a livello di statuto speciale dalla regione Friuli in favore della minoranza slovena e l’irragionevolezza delle norme che non attribuiscono alcun correttivo al voto espresso in favore delle liste che siano espressione di minoranze linguistiche riconosciute dalla legge nelle regioni a statuto ordinario e nella regione Sardegna il cui statuto speciale nulla prevede sul punto).

    Si legge, alla pag. 67 dell’atto di citazione, a conclusione della illustrazione delle ragioni per le quali il nuovo disegno dei collegi plurinominali comporterebbe nei fatti in una consapevole distorsione del voto espresso in favore delle liste rappresentative di tali minoranze : “… le minoranze linguistiche riconosciute e tutelate dalla legge n.482/1999 sono state suddivise tra più collegi in Piemonte, Puglia e Calabria e diluite quelle ladine della Provincia di Belluno in un collegio vasto, che comprende parte della Provincia di Treviso. Le considerazioni che precedono valgono per il valore generale che rivestono nell’ambito dell’ordinamento italiano, per ogni collegio e circoscrizione , anche laddove non fossero presenti minoranze linguistiche. Ciò in ragione del fatto che in ogni caso, vale il principio per cui la violazione di norme costituzionali in materia elettorale, anche se non produttiva di conseguenze dirette sull’esercizio dello specifico diritto dei ricorrenti al voto uguale e libero diretto, lede, pur sempre e per tutti gli elettori/elettrici – in via mediata – il diritto ad un voto conforme a costituzione. Il principio di tutela delle minoranze linguistiche di cui all’art. 6 Cost. rappresenta il superamento delle concezioni nazionalistiche dello stato ottocentesco e si situa ad un punto di incontro con altri principi fondamentali : quello pluralistico ex art. 2 Cost. e quello di uguaglianza ex art. 3 Cost. Ne consegue che la violazione della norma costituzionale di tutela della minoranze linguistiche si qualifica direttamente e contemporaneamente come violazione degli artt. 2 e 3 Cost. non solo con riferimento diretto agli appartenenti a dette minoranze linguistiche ma pure con riferimento, seppur mediato, a tutti gli elettori …”.

    Il motivo evidenzia, come riconosciuto in sostanza dalla stessa parte attrice, l’assenza di una violazione diretta del diritto di voto da ciascuno espresso per effetto delle norme censurate con i motivi in esame.

    La prospettata restrizione del voto a causa della sostanziale impossibilità, che deriverebbe dalle nuove disposizioni dettate dalla legge n.52/2015 (e decreti attuativi), di raggiungere per le liste espressione di minoranze linguistiche diverse da quelle presentate in Valle d’Aosta e Trentino Alto Adige la soglia di accesso del 3% (in quanto calcolata su base nazionale) ovvero del 20% per la sola minoranza slovena (ma sulla base di un disegno dei collegi plurinominali fortemente penalizzante per tale minoranza) non riguarderebbe pertanto in via diretta la posizione giuridica fatta valere dagli attori nel presente giudizio, i quali manifestano infatti, in relazione alle norme censurate con il motivo in esame (così come con il decimo motivo), un interesse mediato, e quindi di mero fatto, ad ottenere un giudizio di legittimità costituzionale di norme che tutelano interessi costituzionali dei quali essi non sono titolari ma solo portatori quali cittadini italiani, e non quali elettori interessati dalla applicazione proprio delle disposizioni censurate.

    E’ allora evidente che le norme in questione non sono rilevanti ai fini della decisione della presente controversia, basata sulla asserita restrizione del diritto di voto spettante agli attori quali “semplici” cittadini e non quali elettori che sono anche appartenenti a minoranze linguistiche riconosciute dalla legge che esprimono un voto in una regione non a Statuto speciale.

    Le disposizioni censurate non potranno, per questo, trovare applicazione diretta nella presente controversia, non contenendo il paradigma in relazione al quale si valuterà l’ampiezza e l’uguaglianza del diritto di voto da loro espressa, ferma restando l’esistenza di un generico interesse (che però non può trovare tutela giurisdizionale e quindi non può condurre all’invio delle norme sospettate di illegittimità alla Corte Costituzionale) al rispetto, quali cittadini italiani, delle minoranze linguistiche anche qualora ad esse non si appartenga.

    Parzialmente diversa (anche se la relativa questione si ritiene parimenti non fondata) è la valutazione circa la fondatezza delle doglianze svolte dagli attori (vedi pag. 69 atto citazione) in relazione all’asserito eccesso di delega “per aver in Liguria dimensionato i collegi tenendo conto unicamente del dato della popolazione residente, ignorando tutti gli altri ex art. 4 L.n. 52/2015 “ ; è stata evidenziata la anomalia di aver mutilato la Città Metropolitana di Genova degli ex collegi uninominali di Rapallo e Chiavari e dei comuni di Ceranesi e Campomorone in Val Polcevera, rilevandosi in particolare come per questi due ultimi comuni “ l’assurdità balza agli occhi in quanto sono più vicini alla Provincia di Savona che a quella di la Spezia ma soprattutto sono assegnati al collegio Liguria 3 solo 2 comuni, quando la Val Polcevera è composta dai comuni di Campomorone, Ceranesi, Mignanego, Sant’Olcese, Serra Riccò, nonché dal municipio V – Val Polcevera integralmente e parzialmente dal Municipio II centro ovest e dal Municipio VI – medio Ponente ”.

    I predetti comuni, intervenuti nel processo ex art. 105 comma 2 c.p.c. nell’aderire alle doglianze svolte dagli attori con il tredicesimo motivo , hanno dato atto della mancanza di legami storici, socio- economici, infrastrutturali o di assi di comunicazione con il levante Ligure. Questo dato – che ben può definirsi notorio- non è stato espressamente contestato da parte convenuta.

    L’art. 4 della L. 52/2015 nel prevedere e disciplinare la Delega al Governo per la determinazione dei collegi plurinominali , stabilisce alla lettera b) i criteri relativi al numero e all’ampiezza dei collegi in ciascuna circoscrizione: in particolare il numero dei collegi plurinominali da costituire è determinato con il metodo dei quozienti interi e dei più alti resti in proporzione al numero di seggi assegnati alla circoscrizione, secondo la ripartizione effettuata ai sensi dell’art. 56 della Costituzione; la popolazione di ciascun collegio non può scostarsi dalla media della popolazione dei collegi della circoscrizione di più del 20 per cento in eccesso o in difetto. L’introduzione del criterio demografico mira alla costituzione in ogni circoscrizione di collegi plurinominali tendenzialmente omogenei sotto il profilo del numero di seggi spettanti. Sulla base dei calcoli effettuati dalla Commissione all’uopo costituita alla Liguria (tenuto conto del numero di abitanti complessivo pari a 1.570.694) spettano 16 seggi, con tre collegi uninominali, con popolazione media per seggio pari a 98.168 e popolazione media per collegio pari a 523.565.

    Le lettere c), d) ed e) indicano poi i princìpi e criteri per la determinazione del territorio destinato a costituire il collegio plurinominale.

    Il primo principio (di cui alla lettera c)), è quello relativo alla coerenza e continuità del territorio: devono essere garantite la coerenza del bacino territoriale di ciascun collegio e, di norma, la sua omogeneità economico-sociale e delle caratteristiche storico-culturali, nonché la continuità, salvo il caso in cui il territorio stesso comprenda porzioni insulari. In base ai criteri indicati sempre alla lettera c) i collegi, di norma, non possono dividere il territorio di un comune, salvo il caso di comuni di dimensioni demografiche tali da ricomprendere al loro interno più collegi. In questo caso, ove possibile, il comune deve essere suddiviso in collegi formati mediante l’accorpamento dei territori dei collegi uninominali stabiliti dal d.lgs. n. 536 del 1993 (di attuazione della cd. legge Mattarella) per l’elezione della Camera dei deputati. La legge (lettera e)) indica poi un ordine di priorità nell’applicazione dei princìpi per la determinazione del territorio dei collegi indicati alle lettere precedenti: qualora non sia altrimenti possibile rispettare il criterio della continuità territoriale, si può derogare al principio dell’accorpamento dei territori dei collegi uninominali stabiliti dal d.lgs. n. 536 del 1993 e, in subordine, al criterio dell’integrità del territorio provinciale.

    In base alla lettera e), dunque, quello della continuità territoriale si delinea come un criterio prevalente, per il rispetto del quale i restanti criteri territoriali sono derogabili. Rispetto ad essi, l’unica possibilità di deroga al criterio della continuità territoriale è la presenza in una zona di minoranze linguistiche riconosciute (ai sensi della lettera c)).

    Avuto riguardo al caso in esame la doglianza non si ritiene fondata, non sussistendo a parere della scrivente alcuna violazione della legge delega (pur condividendosi i rilievi di parte attrice e dei comuni intervenuti in merito alla dedotta mancanza di legami storici, socio- economici, infrastrutturali o di assi di comunicazione con il levante Ligure, e al contrario della presenza di forti legami con l’altrettanto contiguo territorio genovese che avrebbero potuto portare all’individuazione di diversi confini territoriali dei tre collegi liguri). Per la individuazione del territorio ricompreso nel collegio Liguria 3, avuto riguardo ai comuni di Campomorone e Ceranesi, ci è attenuti infatti al criterio della continuità territoriale , risultando ricompresi nel predetto collegio il territorio dei comuni confinanti verso est, e tutta la zona del levante fino a La Spezia.

    Con il quattordicesimo motivo viene censurata l’illegittimità costituzionale degli artt. 16 e 17 del D.lgs. 20 dicembre 1993 n. 533, come modificati dall’art. 4 settimo e ottavo comma della legge n. 270 del 21 dicembre 2005, per violazione degli artt. 1, 3, 48, 49 e 51 Costituzione.

    Posto che i componenti elettivi del Senato sono 315 e gli elettori meno di quelli della Camera, non partecipando le classi di età 18-24, gli attori lamentano che del tutto irragionevolmente, le soglie di accesso sarebbero il doppio, 8% per le liste singole e 20% per le coalizioni, così che, con la metà dei seggi e l’elezione su base regionale, la soglia di accesso naturale sarebbe più elevata alla Camera. In conseguenza di ciò, secondo la prospettazione attorea il voto non risulta uguale e i candidati con lo stesso numero di voti hanno meno possibilità al Senato che alla Camera, in violazione dell’art. 51 Cost.. A causa delle soglie di accesso più elevate, poi, i partiti o gruppi politici organizzati non possono presentarsi con le stesse liste alla Camera e al Senato, il voto non è libero e i partiti politici non possono concorrere a determinare la politica nazionale, in violazione dell’art. 49 Cost..

    Le argomentazioni di cui sopra sono manifestamente infondate; quanto alla previsione delle soglie di sbarramento è sufficiente rilevare come secondo il Giudice delle Leggi “la previsione di soglie di sbarramento e quella delle modalità per la loro applicazione, sono tipiche manifestazioni della discrezionalità del legislatore che intenda evitare la frammentazione della rappresentanza politica, e contribuire alla governabilità (Corte Cost. 193/2015); inoltre le possibilità da parte di un candidato di essere eletto in entrambe le camere non possono essere oggetto di confronto, posto che ognuna delle due articolazioni del Parlamento risponde a distinte regole di funzionamento , apparendo del tutto fisiologico che le soglie per l’accesso alle assemblee legislative siano fra loro diverse.

    In conclusione, per tutte le ragioni esposte, devono essere dichiarate rilevanti e non manifestamente infondate le questioni di costituzionalità sollevate nel giudizio, tutte incidenti sulle modalità di esercizio della sovranità popolare (art. 1 Cost., comma 2, 3, 48 II comma Cost.), come esposte nei motivi secondo, terzo, quinto, sesto, ottavo e nono .

    P.Q.M.

    Il Tribunale di Genova dichiara rilevanti e non manifestamente infondate, in relazione agli articoli 1 comma 2, 3 e 48 comma 2 Costituzione, le questioni di legittimità sollevate in relazione agli articoli :

    - 1 comma 1 lett. f) 2 commi 1 e 25 capoverso “art. 83” L. 52/2015 (e quindi del novellato art. 83 comma 1 numero 5 e 6 e commi 2,3, e 4 DPR 361/1957);

    - 1 c. 1 lettera f), 2 commi 1 e 25 capoverso “art. 83” Legge n.52/2015;

    - art. 1, c. 1 lett. f) per le parole “sono comunque attribuiti 340 seggi alla lista che ottiene, su base nazionale, almeno il 40% dei voti validi” e art. 2, c. 25 capoverso “art. 83”, della L. n. 52/2015, di modifica dell’art. 83 DPR n. 361/1957, con particolare riferimento ai commi 1 nn. 5) e 6), 2, 3 e 4;

    - 1, c. 1 lett. f), 2, c. 25 capoverso “art. 83”, della L. n. 52/2015, di modifica dell’art. 83 DPR n. 361/1977 con particolare riferimento ai commi 1 nn. 5) e 6), comma 2 e 5; cpv. “art. 83 bis” c. 1 nn. 1) 2) 3) e 4) L. 52/2015;

    - 85 D.P.R. n.361/1957 come modificato dall’art. 2 comma 27 Legge n.52/215;

    - art. 2, comma 25 L.52/2015 e art. 83, comma 3 DPR 361/1957.

    Manda alla Cancelleria di notificare la presente ordinanza al Presidente del Consiglio dei Ministri, nonché di darne comunicazione al Presidente del Senato della Repubblica e al Presidente della Camera dei Deputati e alle parti del presente giudizio.

    Dispone l’immediata trasmissione degli atti, comprensivi della documentazione attestante il perfezionamento delle prescritte comunicazioni e notificazione, alla Corte Costituzionale.

    Sospende il giudizio in corso fino all’esito del giudizio incidentale di legittimità costituzionale.

    Genova, 16 novembre 2016

    Il Giudice

    Maria Cristina Scarzella

    Giudici deresponsabilizzati? Note minime sulla mancata ratifica del Protocollo 16 di Paolo Biavati

    Il dibattito lanciato da Giustizia Insieme con l'editoriale L'estremo saluto al Protocollo 16 annesso alla CEDU, dopo gli interventi di Antonio Ruggeri - Protocollo 16: funere mersit acerbo? - Cesare Pinelli - Il rinvio dell’autorizzazione alla ratifica del Protocollo n. 16 CEDU e le conseguenze inattese del sovranismo simbolico sull’interesse nazionale Elisabetta Lamarque - La ratifica del Protocollo n. 16 alla CEDU: lasciata ma non persa Carlo Vittorio Giabardo - Il Protocollo 16 e l’ambizioso (ma accidentato) progetto di una global community of courts - ed  Enzo Cannizzaro - La singolare vicenda della ratifica del Protocollo n.16 - si arricchisce ulteriormente grazie all'intervento del Presidente dell'Associazione processualcivilisti italiani, Paolo Biavati.

    Giudici deresponsabilizzati? Note minime sulla mancata ratifica del Protocollo 16

    di Paolo Biavati  

    Sommario. 1. Premessa. - 2 L’oggetto del parere della Corte Edu - 3. L’iniziativa del giudice nazionale - 4. L’apporto delle parti - 5. La richiesta di parere come mezzo per l’emersione di conflitti latenti – 6. Il tema del ritardo nella decisione – 7. Per concludere, una parola sola. 

    1.  Premessa

    Intervenire nel dibattito promosso da Giustizia Insieme sulla singolare vicenda della mancata ratifica italiana del Protocollo 16 della Cedu può apparire superfluo: almeno, da parte di chi, come me, reputa che il nostro Parlamento abbia commesso un errore, per fortuna rimediabile se si darà luogo ad un cambio di prospettiva[1]. Le argomentazioni svolte nei contributi finora pubblicati sono ampiamente condivisibili e insistervi vorrebbe dire portare vasi a Samo. Tanto più che illustri studiosi del diritto costituzionale e del diritto dell’Unione europea si sono autorevolmente espressi e che non è questo il tipico terreno dei processualcivilisti[2].

    Con questa premessa, mi permetto di svolgere alcune osservazioni, nella speranza di apportare un minimo contributo alla discussione.  

    2. L’oggetto del parere della Corte Edu

    In sede parlamentare, si è obiettato che la semplice richiesta di un parere non vincolante alla Corte di Strasburgo potrebbe avere come effetto quello di deresponsabilizzare i giudici interni.

    Questa argomentazione mi interessa perché, a mio modo di vedere, si può inserire, in qualche modo, nella linea di pensiero che approfondisce il ruolo del precedente e quello della funzione nomofilattica della Cassazione[3] e suppone di verificare il perimetro di efficacia del parere, partendo dalla sua estensione oggettiva.

    Ora, il parere della Corte Edu (e lo si è confermato nei primissimi casi di applicazione del Protocollo 16) riguarda una controversia concreta: è un parere dato, seppure ovviamente mettendo in gioco una specifica lettura della Convenzione, in relazione ad un caso particolare, non automaticamente estensibile ad altre ipotesi. E’ vero che secondo l’art. 1 del Protocollo le richieste di parere sono concernenti “questioni di principio relative all’interpretazione o all’applicazione dei diritti e delle libertà” tutelati dalla Cedu. E’ altrettanto vero, però, che la richiesta deve scaturire da un caso reale e che in nessun caso il parere può suggerire direttamente la revisione della legislazione interna. Per funzionare da precedente, il parere dovrebbe poi potersi applicare a fattispecie isomorfe, mentre per situazioni soltanto analoghe nessuno potrebbe impedire al giudice nazionale di applicare la tecnica del distinguishing.

    Non mi pare, insomma, che il parere darebbe luogo a quello che, in logica italiana, chiamiamo principio di diritto, vale a dire un enunciato a valenza normativa, scritto come una norma, anche se frutto di elaborazione giudiziaria. Si tratta, invece, di un’autorevole valutazione, che esprime la posizione della Corte su una data controversia e che sarà valutato liberamente dall’alta corte nazionale per risolvere quel singolo processo.

    Probabilmente, non hanno giovato al Protocollo 16 visioni della giurisprudenza Edu che la fanno somigliare a quella della Corte di giustizia di Lussemburgo, laddove le differenze sono nette. Una sentenza di Lussemburgo che rilevi il contrasto fra il diritto dell’Unione e una data norma interna, comporta, al di là del singolo caso, l’inoperatività della disposizione interna, che ogni giudice nazionale dovrà disapplicare e che un legislatore serio si affretta a riformare[4]: ma non può essere così per il parere dato in conformità al Protocollo 16. In realtà, mi sembra che la tipologia strutturale del parere della Corte Edu lo renda meno replicabile di un precedente giurisprudenziale interno, il che restringe il campo, anche a volerle dialetticamente assumere come possibili, alle ipotesi di deresponsabilizzazione delle alte corti. 

    3. L’iniziativa del giudice nazionale

    Oltre al tema dell’oggetto, anche il profilo dell’iniziativa lascia la vicenda del parere saldamente nelle mani del giudice nazionale.

    Conviene ribadire che, a mio avviso, il carattere del parere è propriamente (e non fittiziamente) non vincolante. Al di là dell’autorevolezza della Corte di Strasburgo, l’alta corte italiana[5] resterebbe totalmente libera di farvi riferimento o no, salvo, naturalmente, il profilo di un’adeguata motivazione.

    Occorre non dimenticare che per Costituzione il giudice è soggetto soltanto alla legge. La Cedu è legge, la sua interpretazione da parte di Strasburgo no. A nessun giudice di pace italiano è precluso dissentire dalle Sezioni unite; a nessun giudice nazionale sarà vietato discostarsi dalle affermazioni della Corte Edu. E’ ovvio che la funzionalità del sistema suppone che i giudici di pace seguano normalmente gli arresti delle Sezioni unite e che i giudici nazionali leggano la Convenzione così come la Corte la interpreta: ma immaginare che la sentenza della Cassazione sia la pura e semplice fotocopia del parere di Strasburgo e poi opporsi per questo alla ratifica del Protocollo è fuorviante.

    Il risultato finale della richiesta di parere sarà una pronuncia che vede la cooperazione fra la Corte Edu e l’alta corte italiana, con un apporto costruttivo e originale sia di questa che di quella.   

    Il punto che mi pare vada sottolineato, per tranquillizzare il nostro Parlamento, è che comunque l’alta corte italiana chiederà il parere se e in tanto in quanto lo reputi utile. Non ci troviamo in un quadro paragonabile a quello dell’art. 267 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea, che impone al giudice di ultima istanza di effettuare il rinvio pregiudiziale in caso di questione incerta e rilevante (sia pure con tutte le ben note limitazioni, a partire dalla teoria dell’atto chiaro), ma in una situazione in cui la richiesta dipende da una scelta discrezionale del giudice.

    Senza polemica, credo che basterebbe guardare a quanta cautela ha avuto -ad esempio - la Cassazione nel proporre rinvii pregiudiziali a Lussemburgo, anche quando vi sarebbe stata tenuta, e pur tenendo conto della positiva evoluzione della stagione più recente, per allontanare i timori di “deresponsabilizzazione”[6].

    Insomma, se così mi posso esprimere, le alte corti tengono saldo in mano il pallino del gioco. Dobbiamo credere che utilizzeranno (o meglio, che utilizzerebbero) lo strumento del Protocollo 16 nel quadro di un esercizio virtuoso dell’attività giurisdizionale. 

    4. L’apporto delle parti

    Sempre sul piano dell’iniziativa, vorrei guardare al parere previsto dal Protocollo 16 nella prospettiva del diritto di difesa delle parti e non solo in quella, importante ma non esclusiva, del dialogo fra le corti supreme.

    Se un processo in cui vengono in gioco diritti fondamentali giunge dinanzi ad un’alta corte, molta (forse troppa..) strada è già stata percorsa. Pensando a una causa civile, le parti hanno già avuto, normalmente, due gradi di giudizio in cui confrontarsi, in fatto e in diritto, sulla sussistenza o no della violazione lamentata. E’ logico pensare che la giurisprudenza della Corte Edu sia stata invocata e citata (almeno da una di esse) e non si può escludere che sia proprio una parte a sollecitare la Cassazione a consultare Strasburgo.

    Qui le analogie con il rinvio pregiudiziale europeo mi sembrano maggiori: ho sempre visto questo istituto (nonostante le resistenze della Corte di giustizia a definirlo in modo diverso da una procedura volontaria da giudice a giudice) come uno strumento di tutela della parte, che può ottenere giustizia solo in caso di corretta applicazione del diritto dell’Unione: con la differenza che qui le parti hanno diritto di arrivare a Lussemburgo, sia pure per il tramite del giudice nazionale, mentre nel quadro del Protocollo 16 no.   

    Non è un caso che il regolamento di procedura della Corte di giustizia utilizzi l’espressione di “domanda pregiudiziale”[7], per definire il rinvio dal giudice nazionale alla Corte: certo, non domanda nel senso classico di richiesta al giudice di un provvedimento favorevole in vista del conseguimento di un dato bene della vita, ma domanda volta a stimolare un enunciato interpretativo, che costituirà l’unico mezzo per poi ottenere dinanzi al giudice nazionale quel provvedimento e quel bene[8].

    Tutto questo non si ripropone per il Protocollo 16, dove, come ripeto, la richiesta di parere può al massimo essere sollecitata, ma mai pretesa dalle parti. Ciò che vorrei sottolineare, però, è che l’eventuale futura ratifica italiana del Protocollo ben difficilmente darebbe luogo ad iniziative extravaganti e “deresponsabilizzate” delle alte corti, ma porterebbe a Strasburgo, nella forma della richiesta di parere, questioni assolutamente genuine, con un valore aggiunto per il corretto esercizio della giurisdizione nazionale.

    E’ appena il caso di ricordare che la Cassazione si era già attrezzata per una più efficace collaborazione con la Corte Edu con il protocollo di intesa firmato il giorno 11 dicembre 2015, con un apprezzabile senso di apertura europea, che, purtroppo, sembra non appartenere anche al legislatore. 

    5. La richiesta di parere come mezzo per l’emersione di conflitti latenti

    Vorrei formulare, poi, per quanto di scuola, l’ipotesi della richiesta di parere in una situazione di divergenza di vedute fra l’alta corte nazionale e la Corte Edu.

    Si supponga che rispetto ad un dato caso concreto, la Cassazione non ravvisi nella giurisprudenza esistente della Corte Edu una risposta adeguata rispetto alle previsioni della Convenzione, vuoi perché troppo timida o, al contrario, perché troppo invasiva rispetto alle peculiarità nazionali, ad esempio al momento di applicare il c.d. margine di apprezzamento[9].

    Piuttosto che ignorare la divergenza e, per così dire, nascondere la polvere sotto il tappeto, la Cassazione potrebbe richiedere un parere, eventualmente segnalando le sue perplessità ovvero l’esigenza di un chiarimento o di un approfondimento da arte di Strasburgo. La risposta potrà eliminare i dubbi, oppure lasciarli in vita[10]. In questo caso, l’alta corte potrebbe andare di diverso avviso rispetto alla Corte Edu, consapevole di creare un conflitto. Il dialogo fra le corti non è un lavoro di passacarte e non ci si dovrebbe stupire di un’utilizzazione dialettica del parere.

    Bloccare (in ottica oggettivamente sovranista, al di là delle intenzioni) la ratifica del Protocollo 16 priva la giurisdizione italiana di un canale di confronto, che non è destinato sempre e comunque a generare decisioni appiattite sul parere che la Corte Edu renderebbe, anche se, ovviamente, la ricezione e la messa in pratica delle enunciazioni di Strasburgo costituiscono l’epilogo fisiologico del procedimento.      

    6. Il tema del ritardo nella decisione

    Un ultimo possibile profilo della temuta deresponsabilizzazione è la perdita di tempo: il processo dinanzi all’alta corte nazionale sarebbe sospeso e si fermerebbe a causa dell’attesa del parere di Strasburgo, con un grave ritardo nella decisione.

    Qui si rasenta il ridicolo. Se la ragionevole durata è ora un principio cardine dell’ordinamento processuale e il suo rispetto è espresso da un enunciato costituzionale, lo si deve alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e al martellamento a cui le meritate condanne della Corte Edu hanno sottoposto l’inerte sistema italiano. Opporsi al dialogo con chi è stato decisivo per velocizzare i nostri giudizi eccependo che, in qualche sparuto caso, si perderanno alcuni mesi, non è serio.

    Inoltre, nulla vieterebbe di introdurre, anche solo a livello di prassi interna alle singole alte corti, un semplice meccanismo per cui le cause in cui si prospetta la possibilità di una richiesta di parere (che, ripeto, nasce normalmente da una dialettica già attuata nei precedenti gradi di giudizio) siano trattate con precedenza, al solo fine dell’eventuale applicazione del Protocollo 16. Insomma, se lo si vuole, nulla di insormontabile, anche dall’angolo prospettico dei tempi di decisione.

    E infine, come più volte ha ricordato la stessa Commissione europea, nella gestione della giustizia civile la regola è quality before speed. Nel caso dell’acquisizione di un parere della Corte Edu, la qualità del prodotto giudiziario sarebbe particolarmente elevata, mentre sarebbe minimo il rallentamento complessivo del sistema. 

    7. Per concludere, una parola sola

    Conclusioni ? Una sola: speriamo che ci ripensino...        

            

    [1] Il tema mi è sempre sembrato rilevante: subito dopo l’entrata in vigore del Protocollo ho suggerito ad una giovane studiosa, Ilaria Anrò, di pubblicare un saggio sulla Rivista trimestrale di diritto e procedura civile (Il Protocollo n. 16 alla cedu in vigore dal 1° agosto 2018: un nuovo strumento di dialogo tra le corti ?, 2018, p. 189 ss.), per segnalarlo all’attenzione dei cultori della giustizia civile.

    [2] Anche se ho molto apprezzato l’intelligente saggio di Giabardo, Il Protocollo 16 e l’ambizioso (ma accidentato) progetto di una global community of courts , pubblicato su questa Rivista.

    [3] Tema di vastissima portata: richiamo qui, per tutti, la monografia di Passanante, Il precedente impossibile. Contributo allo studio del diritto giurisprudenziale nel processo civile, Torino, 2008. Aggiungo il riferimento a uno dei maggiori studiosi contemporanei, scomparso nei giorni scorsi: Taruffo, Note sparse sul precedente giudiziale, in Verso la decisione giusta, Torino, 2020, p. 433 ss.

    [4] Come, ad esempio, nel caso del par. 917, 2° cpv., della Zivilprozessordnung tedesca, a seguito della sentenza del 10 febbraio 1994 della Corte di giustizia nel caso Mund & Fenster (causa C-398/92).

    [5] Non essendo stato ratificato il Protocollo, non sappiamo quali sarebbero, per l’Italia, le alte corti: certo la Cassazione, il Consiglio di Stato, la Corte di conti.

    [6] Un’ottima messa a punto si può leggere in Vincenti, La Cassazione e le Corti europee, in Acierno, Curzio, Giusti, La Cassazione civile, 3° ed., Bari, 2020, p. 533 ss.

    [7] Art. 94 del regolamento di procedura della Corte di giustizia.

    [8] V., si vis, Biavati, Profili critici del contraddittorio nel procedimento pregiudiziale europeo, in Studi in onore di Carmine Punzi, V, Torino, 2008, p. 379 ss.

    [9] V. ad esempio Nalin, I Protocolli n. 15 e 16 alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in Studi sull’integrazione europea, 2014, p. 117 ss., spec. p. 142. Del resto, il primo caso francese oggetto di richiesta di parere riguardava esattamente una questione collegata al margine di apprezzamento.

    [10] L’art. 4, par. 2, del Protocollo 16 prevede, come nella tradizione di Strasburgo, che possano essere allegate opinioni autonome o dissenzienti da parte di qualcuno dei giudici. Il contrasto di letture potrebbe quindi emergere già all’interno del parere. Nella letteratura processualcivilstica, v. Asprella, L’opinione dissenziente del giudice, Roma, 2012, p. 272 ss.


    Il Protocollo 16 e l’ambizioso (ma accidentato) progetto di una global community of courts

    Il dibattito lanciato da Giustizia Insieme con l'editoriale L'estremo saluto al Protocollo 16 annesso alla CEDU si arricchisce, dopo gli interventi di Antonio Ruggeri - Protocollo 16: funere mersit acerbo? - di Cesare Pinelli - Il rinvio dell’autorizzazione alla ratifica del Protocollo n. 16 CEDU e le conseguenze inattese del sovranismo simbolico sull’interesse nazionale - e di Elisabetta Lamarque - La ratifica del Protocollo n. 16 alla CEDU: lasciata ma non persa - delle riflessioni di un giovane processualcivilista, cultore della teoria generale del diritto.

    Il Protocollo 16 e l’ambizioso (ma accidentato) progetto di una global community of courts

    di Carlo Vittorio Giabardo  

    Sommario: 1. Introduzione - 2. Il Protocollo 16 e la competenza consultiva della Corte EDU vittima della retorica nazionalista – 3. Il giudice nella rete – 4. Passi indietro nella costruzione di una global community of courts – 5. Sull’importanza della nozione di dialogo nel diritto, a partire da Habermas – 6. Quale dialogo nel Protocollo 16?    

    1. Introduzione  

    La Camera ha cancellato l’autorizzazione alla ratifica del Protocollo n. 16 che consente alle “alte giurisdizioni” nazionali di richiedere alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo pareri consultivi (facoltativi sia quanto alla richiesta sia quanto alla loro ricezione effettiva nel giudizio in corso) su questioni di principio relative all’interpretazione o all’applicazione dei diritti e delle libertà fondamentali definiti dalla Convenzione o dai suoi protocolli[1].

    Il Protocollo 16 introduce quindi una importante funzione consultiva (advisory jurisdiction, come dicono gli anglosassoni) che è, d’altronde, per così dire, nella natura stessa delle Corti internazionali[2]. Avrebbe consentito un dialogo ex ante tra le nostre corti di vertice e la Corte EDU sia in funzione deflattiva del contenzioso in sede sovranazionale sia – ed è questo l’obiettivo “nobile” che vale la pena enfatizzare – in funzione di potenziare il principio di sussidiarietà che sta alla base dell’intera architettura convenzionale, e che in questo caso avrebbe significato fornire al giudice che la richiede una guida soft, ma assai autorevole, quanto all’interpretazione di un principio rilevante nel caso pendente[3].

    Non mi soffermerò sulle molteplici questioni tecniche che caratterizzano il funzionamento di questo procedimento consultivo, trattate con grande lucidità da chi molto meglio di me padroneggia la materia[4].

    Mi limiterò invece a fare alcune riflessioni più generali su due punti che mi paiono estremamente rilevanti, e cioè sul significato politico di questa espulsione e sulla portata – mi sia consentito il termine – filosofica dell’esigenza di stabilire strumenti formali e istituzionalizzati di dialogo tra le corti.

    Il dibattito sul Protocollo 16 non riguarda infatti solo una questione tecnica, un dettaglio operativo, ma tocca alcuni tra i punti più nevralgici circa il ruolo e la posizione delle corti al tempo presente. In gioco, quindi, c’è molto, c’è la direzione che si sta percorrendo. È quindi cruciale saper fornire una narrazione del fenomeno che tenga conto delle più mature consapevolezze circa la funzione del giudice oggi.    

    2. Il Protocollo 16 e la competenza consultiva della Corte EDU vittima della retorica nazionalista  

    Le motivazioni rese esplicite dietro alla scelta della mancata ratifica, nella loro vaghezza quasi stereotipata, si inseriscono perfettamente, e prevedibilmente, nell’odierna retorica della discussione politica, tutta concentrata sulla contrapposizione tra sovranismo e globalizzazione[5]. Un modo certamente erroneo di discutere del tema e che non ne coglie gli aspetti essenziali. La divisione tra nazionalismo ed europeismo, tra protezione del… made in Italy giuridico, riletto in chiave populista, e l’assalto di indebite influenze estere è, d’altronde, un segno dei tempi, non solo italiano[6].

    Eppure questa retorica politica (che è più un clima, un’atmosfera ideologica) è riuscita a fermare pur questa “grande-piccola” innovazione. Dico “grande-piccola” perché, se da un lato questa avrebbe consentito una più effettiva e rinforzata partecipazione dell’Italia al dibattito e alla “costruzione dialogica” della protezione dei diritti, dall’altro lo strumento sarebbe stato (ed è) molto più innocuo rispetto ad altri dispositivi di integrazione già presenti nel nostro tessuto, quale ad esempio quello (certo, diversissimo quanto a struttura e funzione) del rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea ex art. 267 TFUE[7].

    Balza agli occhi il vizio logico delle argomentazioni nazionaliste. I diritti fondamentali individuali sono universali: è la loro natura, la loro essenza, la loro vocazione. O sono tali o non sono. Fu questa la consapevolezza (antica almeno quanto la Rivoluzione Francese) che animò l’istituzione, nel dopoguerra, della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, in quanto ente di controllo e protezione extra statale, esterno, valido per tutti gli Stati firmatari. I diritti fondamentali non sono e né possono essere di esclusiva competenza degli Stati, non conoscono confini (altrimenti non sarebbero, appunto, diritti fondamentali).

    Certo, gli Stati membri appartengono, a loro volta, a molteplici tradizioni, storie, modi di concepire la giuridicità (epistemologie, diremmo), culture, e via dicendo, pur essendo accomunati da un patrimonio valoriale comune, da una ispirazione umana condivisa. Ecco perché la Corte è una grande impresa comparatistica, la quale necessita del dialogo; perché il suo operato si situa sempre in tensione tra pluralità e unità, tra esigenze di armonia e rispetto delle voci che pure ci sono all’interno di questa grande casa.    

    3. Il giudice nella rete  

    Ritornerò a breve sull’importanza del dialogo. Mi sia consentita però prima una constatazione ancora più generale.

    Ora, non c’è dubbio che - piaccia o no - il giudice nazionale è al centro di un reticolo. Eppure questa lettura fatica a farsi spazio. È la rete, non più la piramide, che spiega la struttura dei sistemi[8]. La piramide – ha scritto Mario Losano – ha un fascino simbolico.[9] Essa è l’immagine dell’autorità, e quindi della certezza e della chiarezza. La piramide simboleggia l’ossessione (kelseniana) per l’ordine.

    La rete, invece, che non ha angoli né vertice, ma numerosi nodi decentralizzati e fili che si intersecano, è metafora di disordine, incertezza e quindi, alla fine, di arbitrio. Ecco che molti si augurerebbero il ritorno rassicurante a quella piramide, che, nel contesto delle fonti del diritto, significherebbe la piena “soggezione del giudice solo alla legge” però formalmente e formalisticamente intesa, quale insieme, appunto, di ordini, comandi, emanazioni dirette e immediate del potere statale, dello Stato-nazione sovrano.

    Ma questa è una ricostruzione che oggi risulta, dal punto di vista filosofico, desolatamente semplicistica. Non riesce a rendere conto non solo della complessità della moltitudine dei centri di produzione del diritto, spesso in competizione tra loro[10], ma nemmeno – cosa che qui è più grave - delle esigenze “naturali” di protezione dei diritti fondamentali, che esigono, per loro stessa natura e struttura, attenti e mobili bilanciamenti (cioè di giudizi in senso pieno).

    Immaginare un ritorno alle antiche certezze - che poi non sono null’altro se non le antiche “mitologie” del diritto[11] - è tanto ingenuo quanto impossibile (anche se, ahimè, politicamente efficace, come abbiamo visto) nel contesto attuale. Significherebbe fare un pericolosissimo salto indietro nelle consapevolezze acquisite, e in particolare nella coscienza che i giudici e le corti svolgono un ruolo strategico nella protezione dei diritti e delle libertà, e che tra creare, interpretare e proteggere un diritto (l’enfasi è soprattutto sull’ultima parola) – tre attività senza dubbio concettualmente differenti e distinguibili – corre molta meno differenza, nella prassi, di quello che molti sarebbero disposti a pensare.

    È insomma la consapevolezza del costituzionalismo odierno, che ha una vocazione per natura globale, trascendente, nel senso letterale che tra-scende (idealmente, nel migliore dei mondi possibili) confini e tradizioni, culture e famiglie giuridiche. Il che non significa uniformità, omogeneità negli intenti e nelle soluzioni, ma bensì sforzo costante.    

    4. Passi indietro nella costruzione di una global community of courts  

    Le corti hanno capito bene questa vocazione comunitaria del loro lavoro o della loro missione.

    A livello internazionale esistono, e sono vive, reti di contatto, conferenze periodiche aventi finalità di studio, di collaborazione, di consultazione tra organi giurisdizionali; sono raccordi, modalità di interazione tra giudici, anche a livello personale, alcuni formali, altri meno, dove si costruisce, passo a passo, quel progetto di condivisione di conoscenza e di valori, dove si fa esperienza delle diverse impostazioni di tradizione e di cultura giuridica, di lingua (la differenza linguistica, nel diritto, non è mai solo qualcosa di “esteriore”, ma qualcosa di estremamente profondo), dove si attua un confronto continuo su temi e decisioni[12]. Per limitarci a quanto più vicino a noi, in seno allo stesso Consiglio d’Europa è attiva la Superior court network, che unisce 93 corti da 40 Stati[13] e in Italia già esistono protocolli d’intesa tra giurisdizioni superiori e la Corte EDU[14].

    Anne-Marie Slaughter, celebre giusinternazionalista statunitense, Professor of Politics and International Affairs alla University of Princeton, nel (lontano) 2003 pubblicò sulle pagine dell’Harvard International Law Journal un lungo articolo che diede origine a un nuovo modo di studiare la posizione del giudice[15]. In quello che lei definiva, forse un po’ enfaticamente, il nuovo ordine mondiale (new world order) si andava formando una global community of courts, non casuale, ma, per la prima volta nella storia, sostenuta dalla consapevolezza dei suoi membri di farne parte. La realtà planetaria nella quale viviamo – affermava Slaughter - è caratterizzata da continui scambi giuridici, siano formalizzati oppure no, di prestiti (borrowings and lendings) e di contaminazioni (cross-fertilizations) reciproche. Il mondo non solo è finanziariamente interconnesso, fenomeno non nuovo, ma più profondamente si trova ad affrontare problemi culturalmente comuni che richiedono, in virtù della loro comunanza, una giurisprudenza globale (global jurisprudence)[16]. Una comunità, peraltro, niente affatto elitaria, circoscritta alle “alte giurisdizioni” o alle corti costituzionali, ma che coinvolge giudici di più diversa estrazione, statali e no.

    Da lì è fiorita una abbondante letteratura sull’uso di precedenti appartenenti a giurisdizioni straniere per risolvere casi domestici; l’argomento “comparativo” inizia ad assumere un peso determinante[17] (anche se, a dire il vero, nelle corti americane il fenomeno della cross-citation non è mai davvero entrato nella pratica per le fortissime resistenze incontrate nell’establishment giudiziale, con la lodevole eccezione, però, di Ruth Bader Ginsburg[18]).

    Slaughter scriveva queste cose con grande entusiasmo nel 2003 e i suoi maggiori studi sul tema apparvero a partire dalla fine del millennio scorso fino ai primi anni Duemila; letteralmente un’epoca fa nel fluire vorticoso degli accadimenti che abbiamo vissuto. Quel modo di guardare al mondo ha subito certo molte ferite. Venti anni fa la globalizzazione era sul suo punto più alto, prima del precipizio. Non vi era stata ancora la minaccia del terrorismo globale, il tracollo economico del 2008, i problemi e la crisi dei debiti sovrani. Le spinte anti-europeistiche erano qualcosa di marginale, la Brexit era fantascienza, il motto degli Stati Uniti non era ancora Make America Great Again: tutti fenomeni, questi, che hanno portato a chiusure, non ad aperture; ad atteggiamenti difensivi, non collaborativi. Hanno spinto gli stati a ripiegarsi su sé stessi, non a dischiudersi verso la ricerca di soluzioni globali. In questi ultimi venti anni abbiamo visto ergersi muri, non abbatterli, sia in senso concreto sia in senso metaforico. E il diritto, o il modo di guardare ad esso, non ha certo fatto eccezione.

    La mancata ratifica del Protocollo 16 amareggia, quindi, ma non stupisce chi osservi la realtà in modo disincantato. Amareggia, ma non stupisce chi crede in un progetto di costruzione comunitaria, ma vede il clima generalizzato di sfiducia verso istituzioni percepite come “altre”[19].    

    5. Sull’importanza della nozione di dialogo nel diritto a partire da Habermas  

    Che la comunicazione politica sia mutata non significa, però, che lo sia anche la realtà. Nei fatti, quello che diceva Marie-Anne Slaughter è ancora assolutamente vero. Lo ha detto bene la Justice Claire L'Heureux-Dubé, giudice della Corte Suprema Canadese: siamo nell’epoca in cui dalla ricezione siamo passati al dialogo[20]. Ecco dove sta la rottura con il passato. La differenza non è da poco. La ricezione è una cosa, il dialogo un’altra.

    Dialogo è una parola nobile. Il grande pensatore del dialogo, Jürgen Habermas ne ha sondato con profondità la struttura, la funzione, le implicazioni, il significato filosofico con particolare riferimento al contesto pubblico e democratico. L’arena sociale nella quale ci troviamo funziona solo se è percorsa da continue connessioni argomentative, da scambi che si basano sul riconoscimento intersoggettivo e sull’uso della ragione, e che sono diretti, o devono esserlo, all’apertura. Il mondo sociale è fatto di continui ritorni e revisioni, di occasioni di ridiscussione, di un costante interrogarsi, indirizzato, in fine, alla modifica della realtà e del mondo[21]. La Diskursethik non è qualcosa di formale, che riguarda solamente i requisiti esteriori del parlare – anche se leggendo Habermas potrebbe sembrare così. O meglio, lo è, ma nel senso forte e radicale della parola, cioè nel senso che la forma, qui, è già sostanza.

    Tutto ciò è estremamente rilevante per capire gli attuali equilibri dialogici tra le corti, e di questo lo stesso Habermas ne era perfettamente consapevole. Cito direttamente da Sabino Cassese, che nel suo bel libro sul ruolo dei giudici nel contesto mondiale così scrive: «Jürgen Habermas ha osservato che le corti «parlano» e «ascoltano» come eguali e sono, allo stesso tempo, autori e destinatari delle norme. In particolare «i giudici interagiscono tra loro secondo il metodo discorsivo e la concezione proceduralista»[22] (nel senso, però, che si è precisato).

    Ma attenzione a non fraintendere il dialogo. Non c’è nulla di romanticamente facile, di consolatorio, di mite nel dialogo. Tutto all’opposto, il dialogo (che avvenga tra tradizioni, tra culture e ideologie giuridiche) presuppone una grande forza. Esso va duramente conquistato: molto più comodo, e molto meno fruttuoso, fuggire (come è stato fatto).

    I comparatisti lo sanno bene: il dialogo, già anche etimologicamente, presuppone la differenza; anzi, più radicalmente, implica l’alterità, altrimenti non è tale. Ancora di più, presuppone, in un certo senso, una dose di confitto, di conflittualità, che costringe alla negoziazioneEn tout état de cause, le comparatiste agit comme négociateur», spiega Pierre Legrand, nel suo splendido Le droit comparé[23]). È solo nel dialogo che si sviluppa l’etica dell’interlocuzione («le comparatiste doit promouvoir une éthique de l’interlocution…»[24]).

    Sbaglia quindi chi crede che il dialogo sia facile omologazione, remissiva resa; no. Il dialogo è per anime forti. Il dialogo è sforzo; potremmo dire che è forzatura, ma una forzatura benefica. I “grandi dialoghi”, quelli più celebri nelle dinamiche tra Corti nel contesto europeo lo dimostrano perfettamente; non c’è nulla di accomodante, di arrendevole, nella intricata “vicenda Taricco” che ha visto coinvolgere Corti nazionali, Corte costituzionale e Corte di Giustizia dell’Unione Europea[25].

    E, su tutt’altro altro piano, i cultori del diritto processuale civile conoscono bene il lungo percorso della Corte EDU - in continua tensione tra rispetto delle differenze e esigenza di costruire nozioni comuni, tensione che direi che è costitutiva del suo operato - verso la faticosa, ma alla fine fruttuosa e soddisfacente, elaborazione di un concetto unitario e condiviso di azione civile che tenesse conto delle impostazioni, diversissime, esistenti nelle varie tradizioni giuridiche[26].

    6. Quale dialogo nel Protocollo 16?  

    Il Protocollo 16 è ispirato proprio dal desiderio di potenziare questa funzione dialogica che nell’attuale assetto mancava. Esaurite le vie di ricorso interno, infatti, l’intervento della Corte EDU è solo repressivo nei confronti della erronea interpretazione o applicazione della Convenzione per opera delle Corti superiori interne. Lo strumento qui in esame, invece, ha la funzione di sciogliere, per quanto possibile, le difficoltà interpretative evitando il contenzioso e consentendo così ai giudici nazionali di interagire, in condizioni di parità, al dibattito. Il dialogo così formalizzato non è un dialogo qualsiasi: come recentemente sottolineato da Florence Benoît-Rohmer, dovrà essere costruttivo e leale (constructif et loyal), indirizzato al mutuo rinforzo, tanto delle autorità nazionali che di quella sovranazionale (qui renforce tant les autorités nationales que la Cour) e rispettoso la libertà del giudice remittente (qui respecte la liberté du juge national)[27].

    Senza questo strumento, il potere dei giudici italiani ne esce quindi diminuito, non protetto né preservato. Anche perché, lo vediamo dalla pratica, il dialogo in qualche modo già avviene, solo che avviene al di fuori di un canale ufficiale e istituzionalizzato (e senza quindi la possibilità di prenderne parte attiva).

    Ne abbiamo una riprova recentissima: sia la Corte di cassazione, con l’ordinanza n. 8325 del 2020 mediante la quale ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’esclusione del riconoscimento del figlio nato all’estero da gestazione per altri (cd. maternità surrogata)[28], sia poi la Corte costituzionale (qui in modalità self-restraint) hanno citato il parere della Corte EDU che su ugual materia era stato chiesto ex Protocollo 16 dalla Cour de cassation francese[29]. Un atto che, a rigor di logica, non dovrebbe avere nessun valore. E invece, nei fatti, così non è, e non lo sarà. A riprova del fatto che i pareri, anche se “per interposta corte”, anche se non vincolanti e anche in difetto di ratifica, sono considerati meritevoli di considerazione, una base sulla quale costruire i ragionamenti, sia dal giudice di legittimità sia da quello costituzionale.

    E qui (ma il discorso ci porterebbe troppo lontano) il filosofo potrebbe interrogarsi sulla attuale tenuta concettuale della distinzione tra hard law e soft law, tra efficacia solo persuasiva e efficacia vincolante del precedente, di “limiti soggettivi” del giudicato “euroumanitario” e altre suddivisioni nette (ma che però nette non sono) che hanno dato forma al nostro modo di comprendere il diritto.

    Se le corti – giustamente! – considerano meritevole di discussione i responsi di quel dialogo, sceglierne di non farne parte significa precludersi una più attiva e intensa capacità di orientarne le conclusioni. La possibilità di partecipare a quel dialogo, di sollecitarne l’accadere, di attivarlo è testimonianza di rilevanza. Tutto al contrario, quindi, delle paure sollevate in sede di discussione parlamentare.


    [1] Si vedano le considerazioni espresse nell’Editoriale di questa Rivista L'estremo saluto al Protocollo 16 annesso alla CEDU ; v. anche A. Ruggeri, Protocollo 16: funere mersit acerbo?, in https://www.giustiziainsieme.it/it/attualita-2/1354-protocollo-16-funere-mersit-acerbo; Id., Protocollo 16 e identità costituzionale, in https://www.diritticomparati.it/wp-content/uploads/2020/01/Ruggeri-0-2020.pdf

    [2] Ricordiamo che sia la International Court of Justice sia la Inter-American Court of Human Right sia l’African Court of Human and People’s Right hanno competenza consultiva (seppur in quest’ultimo caso scarsamente utilizzata) e la CEDU stessa, anche prima del Protocollo 16, ne aveva una versione in forma assai ristretta e debole. Sulla funzione consultiva della I/ACtHR, che ha conosciuto nel tempo una fortuna notevole, v. J. Schmid, Advisory Opinions on Human Rights: Moving Beyond a Pyrrhic Victory, in 45, Duke Journal of Comp. & Int’l. Law, 2006, 16 (ove anche una comparazione con il Protocollo 16). Sul punto anche P. De Sena, Caratteri e prospettive del Protocollo 16 nel prisma dell'esperienza del sistema interamericano di protezione dei diritti dell'uomo, in Diritti umani e diritto internazionale, 2014, 593.

    [3] La dottrina “europeista” più attenta – pur lodando senza dubbio i due obiettivi – denunciava la scarsa incisività di questo strumento, che avrebbe dovuto essere, piuttosto, potenziato. Mi limito qui a citare K. Dzehtsiarou, N. O’Meara, Advisory Jurisdiction and the European Court of Human Rights: A Magic Bullet for Dialogue and Docket-control?, in 34 Legal Studies, 2014, 444 e J. Gerards, Advisory Opinions, Preliminary Rulings and the New Protocol No. 16 to the European Convention of Human Rights: A Comparative and Critical Appraisal, in 21 Maastricht Journal of European and Comparative Law, 2014, 630.

    [4] La letteratura sul tema è già immensa; cfr., ex multis, R. Conti, Chi ha paura del protocollo 16 - e perché?,  in https://www.sistemapenale.it (2019); Id., La richiesta di “parere consultivo” alla Corte europea delle Alte Corti introdotto dal Protocollo n. 16 annesso alla CEDU e il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia UE. Prove d’orchestra per una nomofilachia europea, in http://www.giurcost.org/studi/conti2.pdf, 2014; E. Lamarque, La ratifica del Protocollo n. 16 alla CEDU: lasciata ma non persa, in questa Rivista; O. Pollicino, La Corte costituzionale è una “alta giurisdizione nazionale” ai fini della richiesta di parere alla Corte EDU ex Protocollo 16?, in http://www.forumcostituzionale.it/wordpress/images/stories/pdf/documenti_forum/paper/0470_pollicino.pdf. Anche la dottrina processualcivilistica si è occupata dell’argomento; cfr., in senso più critico, S. Chiarloni, Il nuovo protocollo 16 per la Corte europea dei diritti dell'uomo: un passo ulteriore verso il governo dei giudici?, in Riv. Dir. Proc., 2014, 1311; poi, sul piano descrittivo, A. Henke, La giurisdizione consultiva della Corte di Strasburgo nel nuovo Protocollo n. 16 alla CEDU, ivi, 2018, 1244 ss.

    [5] Nel dibattito parlamentare il Protocollo n. 16 è stato definito come una «deriva europeista in campo giuridico» tale da determinare «incongruenze rispetto a principi costituzionali e rischio di deresponsabilizzazione dei giudici interni e di dequotazione della Corte costituzionale in tema di diritti fondamentali»; le parole sono riportate nel bel contributo di C. Pinelli, Il rinvio dell’autorizzazione alla ratifica del Protocollo n. 16 CEDU e le conseguenze inattese del sovranismo simbolico sull’interesse nazionale, in  questa Rivista.

    [6] Analoghe affermazioni al momento dell’autorizzazione alla ratifica del Protocollo 16 erano state fatte da Marine Le Pen a l’Assemblée nationale, la quale insisteva molto sulla délégation de souveraineté. Il video è disponibile a https://www.youtube.com/watch?v=kzkmHZ_yzlk

    [7] E questo non solo, o non tanto, perché il rinvio pregiudiziale è, per le giurisdizioni di vertice, obbligatorio, mentre questo è volontario (contrapposizione che, a mio parere, non andrebbe enfatizzata, in quanto chi decide sulla sussistenza dei requisiti dell’obbligatorietà è… pur sempre lo stesso organo che opera il rinvio), quanto perché la decisione pronunciata a seguito del rinvio, come noto, è vincolante per il giudice nazionale, e anche in riferimento a qualsiasi altro caso sulla medesima disposizione (e infatti la Corte di Giustizia ha più volte ribadito che sono irricevibili rinvii puramente “esplorativi”, cioè su questioni generali di natura ipotetica; cfr. Corte Giust. 5 febbraio 2004, C-380/01 e Corte Giust., 31 gennaio 2008, C-380/05). Il parere della Corte EDU invece, in quanto parere, espresso da una particolare composizione della Grande Chambre, non è vincolante. Il parere non decide la causa, ma fornisce uno strumento ex ante che può essere utile per una migliore decisione.

    [8] Il riferimento è, naturalmente, ai lavori del filosofo del diritto belga Francois Ost nei quali egli prefigura l’avvento del cd. “giudice – Hermes” (distinto dal “giudice – Giove” e del “giudice – Ercole): «lo Stato e il diritto sono in rete. Ermes, dio dei viaggiatori e delle comunicazioni, infatti, illustra perfettamente il fenomeno di una nuova regolamentazione propria di una società dove le regole e i governi istituiti gerarchicamente lasciano il posto ad una moltitudine di reti e di poteri in costante interazione. Situato nel cuore dell’interazione di queste diverse fonti del diritto, al crocevia di tutti questi poteri che spesso si accavallano e competono, il giudice cambia ancora una volta il suo metodo, sostituendo la spada dei codici […] con la bilancia degli interessi. Non è più il caso di risolvere una controversia sulla base di una legge o di un programma specifico, ma occorre comporre una serie virtualmente infinita di interessi che si trovano in competizione»; così F. Ost, Il ruolo del giudice. Verso delle nuove fedeltà? (titolo originale: Le rôle du juge. Vers de nouvelles loyautés?) in Rassegna forense, 2013, 701. 

    [9] M. Losano, Diritto turbolento. Alla ricerca di nuovi paradigmi nei rapporti fra diritti nazionali e normative sovrastatali, in Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto, 2005, 403 ss.

    [10] Per un antecedente autorevole (e che vale la pena rileggere per capire la giuridicità odierna), mi permetto di ricordare un grande “torinese”, Enrico di Robilant e la sua nozione di sistemi informativo-normativi; Id., Sistemi informativo-normativi e operatività della società complessa, in Studi in onore di Giovanni Tarello, Vol. II, Saggi teorico-giuridici, 1990, 405.

    [11] P. Grossi, Mitologie giuridiche della modernità, 3 ed., Milano, 2007.

    [12] Importanti cenni in R. Caponi, Dialogo tra corti nazionali e corti internazionali, in Libro dell'anno del Diritto 2013, Treccani, online, https://www.treccani.it/enciclopedia/dialogo-tra-corti-nazionali-e-corti-internazionali_%28Il-Libro-dell%27anno-del-Diritto%29/); Id., Dialogo tra corti: alcune ragioni di un successo, in Il nuovo ruolo delle Corti supreme nell’ordine politico e istituzionale. Dialoghi di diritto comparato, a cura di V. Barsotti, V. Varano, 2012, 121.

    [13] https://www.echr.coe.int/Pages/home.aspx?p=court/dialoguecourts/network&c=

    [14] R. Conti, Il Protocollo di dialogo fra Alte corti italiane, Csm e Corte Edu a confronto con il Protocollo n. 16 annesso alla Cedu. Due prospettive forse inscindibili, in https://www.questionegiustizia.it/articolo/il-protocollo-di-dialogo-fra-alte-corti-italiane-c_29-01-2019.php

    [15] A-M. Slaughter, A Global Community of Courts, in 44, Harvard International Law Journal, 2003, 191. L’Autrice già in precedenza si era occupata del tema, sempre con grandezza di intenti; cfr. Id., Judicial Globalization, in 40 Virginia Journal of Int’l Law, 2000, 1103, Id., A Typology of Transjudicial Communication, in 29 University of Richmond Law Review, 1994, 99; Id., Toward a Theory of Effective Supranational Adjudication, in 107, The Yale Law Journal, 1997, 273.

    [16] Id., A Global Community, cit., 202 ss.

    [17] V. l’indagine, ricca di dati e statistiche, di M. Siems, M. Gelter, Citations to Foreign Courts – Illegitimate and Superfluous, or Unavoidable? Evidence from Europe, in 62 American Journal of Comparative Law, 2014, 35 ss.

    [18] Stephen Yeazel riporta, a questo proposito, che quando le fu chiesto cosa ne pensasse della possibilità per la Corte Suprema Americana di citare precedenti stranieri, Ruth Bader Ginsburg così rispose (e le parole testimoniano la sua apertura fuori dal comune): «one of the examples that I give of that was a case before the Israeli Supreme Court some years ago: it was called The Ticking Bomb Case. The police think that a suspect they have apprehended knows where and when a bomb is going to go off. Can the police use torture to extract that information? And in an eloquent decision Aharon Barak then the Chief Justice of Israel said. “Torture? Never!” and explains that “'We could hand our enemy no greater weapon than to come to look like that enemy in our disregard for human dignity”. Now why should I not read that opinion and be affected by its tremendous persuasive value? So that's just one example», e continua: «Our neighbor to the north, Canada ... is a very interesting supreme court. Probably cited more widely abroad than the U.S. Supreme Court, I think for one reason: You will not be listened to if you don't listen to others. I've been asked so many times by jurists abroad: “We in our country are inspired by model of the U.S. Supreme Court and we refer to your decisions. But you never refer to ours. Don't we have anything to contribute?» (S. Yeazel, When and How U.S. Courts Should Cite Foreign Law, in Constitutional Commentary, 2009, 1028).

    [19] Su 47 Stati Membri, quelli che lo hanno firmato e ratificato sono Albania, Andorra, Armenia, Estonia, Finlandia, Francia, Georgia, Grecia, Lituania, Paesi Bassi, San Marino, Slovenia e Ucraina, mentre lo hanno firmato (ma non ratificato) Bosnia-Erzegovina, Italia, Norvegia, Repubblica di Moldavia, Romania, Slovacchia e Turchia. La lista aggiornata è disponibile sul sito ufficiale del Consiglio d’Europa: https://www.coe.int/en/web/conventions/full-list/-/conventions/treaty/214/signatures?p_auth=KKYMHlux

    [20] C. L'Heureux-Dubé, The Importance of Dialogue: Globalization and the International Impact of the Rehnquist Court, in 34 Tulsa Law Journal, 1998, 1, 15 (che si riferisce al nome dell’allora Chief Justice della Corte Suprema degli Stati Uniti William Rehnquist, dal 1986 al 2005).

    [21] Mi riferisco alla poderosa opera di Habermas, Teoria dell'agire comunicativo, 2 voll., Bologna 1986 (ed. or., Theorie des kommunikativen Handelns, 1981) e poi a Etica del discorso Roma – Bari, 1985 (ed. or., Moralbewußtsein und kommunikatives Handeln, 1983).

    [22] S. Cassese, I tribunali di Babele. I giudici alla ricerca di un nuovo ordine globale, Roma, 2009, 94 (il quale però si richiama a Habermas di Fatti e norme. Contributi a una teoria discorsiva del diritto e della democrazia, Milano, 1996).

    [23] P. Legrand, Le droit comparé, Paris, 1999, 15

    [24] Ibidem, 79. Sono consapevole di – per così dire – strumentalizzare in un certo senso le parole di Pierre Legrand, le cui note posizioni, in quanto comparatista, sono orientate in senso opposto ai tentativi di armonizzazione in generale, derivanti da una esasperata, ma per certi versi encomiabile, etica della differenza e da una radicale allergia per i facili riduzionismi.

    [25] I punti salienti degli scontri sono ripercorsi, ex multis, in A. Apollonio, Dopo “Taricco” la Consulta non sta (più) a guardare, in https://www.giustiziainsieme.it/it/news/29-main/europa-corti-internazionali/590-dopo-taricco-la-consulta-non-sta-piu-a-guardare?hitcount=0; F. De Stefano, Diritto dell’Unione europea e tradizioni costituzionali nel dialogo tra le Corti (parte prima).

    [26] Percorso esaminato a fondo da N. Trocker, nei saggi Dal giusto processo all'effettività dei rimedi: l'azione nell'elaborazione della Corte europea dei diritti dell'uomo (parte prima) e Dal giusto processo all'effettività dei rimedi: l'azione nell'elaborazione della Corte europea dei diritti dell'uomo (parte seconda), in Riv. trim. dir. proc. civ., 2007, 35 ss. e 439 ss. rispettivamente, e ora ristampati anche in Id., La formazione del diritto processuale europeo, Torino, 2011.

    [27] Benoît-Rohmer, Le protocole 16 à la Convention Européenne des Droits de l’homme. Du soliloque au dialogue, in Écrits sur la communauté internationale: enjeux juridiques, politiques et dimplomatiques. On the international community: legal, political, diplomatic issues. Liber amicorum Stelios Perrakis, a cura di J-P. Jacqué, F. Benoît-Rohmer, P. Grigoriou, M. D. Marouda, Atene, 2017, 431 ss.

    [28] In senso critico, G. Luccioli, Il parere preventivo della Corte edu e il diritto vivente italiano in materia di maternità surrogata: un conflitto inesistente o un conflitto mal risolto dalla Corte di Cassazione? in https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-processo-civile/1106-il-parere-preventivo-della-cedu-e-il-diritto-vivente-italiano-in-materia-di-maternita-surrogata-un-conflitto-inesistente-o-un-conflitto-mal-risolto-dalla-corte-di-cassazione-di-gabriella-luccioli; v. anche G. Armone, La gestazione per altri: nuovo appuntamento davanti alla Corte costituzionale, in https://www.questionegiustizia.it/articolo/la-gestazione-per-altri-nuovo-appuntamento-davanti-alla-corte-costituzionale_22-05-2020.php

    [29] Su questo punto, V. R. Conti, Il parere preventivo della Corte Edu (post-Prot. 16) in tema di maternità surrogata, in https://www.questionegiustizia.it/articolo/il-parere-preventivo-della-corte-edu-post-prot-16-in-tema-di-maternita-surrogata_28-05-2019.php

    Il rinvio dell’autorizzazione alla ratifica del Protocollo n. 16 CEDU e le conseguenze inattese del sovranismo simbolico sull’interesse nazionale

    Giustizia Insieme, dopo l'editoriale del 12 ottobre scorso -Lestremo saluto al Protocollo n.16 annesso alla CEDU - prosegue la pubblicazione di interventi sulla mancata ratifica del Protocollo n.16 annesso alla CEDU.
    Alle riflessioni del Prof.Antonio Ruggeri - Protocollo 16: funere mersit acerbo? - fanno seguito quelle del Prof.Cesare Pinelli.

    Il rinvio dell’autorizzazione alla ratifica del Protocollo n. 16 CEDU e le conseguenze inattese del sovranismo simbolico sull’interesse nazionale

    di Cesare Pinelli  

    Sommario: 1. Che cosa è accaduto - 2. Il Protocollo n. 16 e i suoi obiettivi - 3. Un’ipotesi troppo creativa - 4. Gli effetti del sovranismo simbolico e il ripensamento indispensabile.    

    1. Che cosa è accaduto

    La vicenda del rinvio sine die della autorizzazione alla ratifica da parte italiana del Protocollo n. 16 della CEDU si presta a considerazioni solo in parte di carattere giuridico. Il contrasto fra il tenore del Protocollo e le motivazioni con cui il Parlamento ne ha rinviato l’autorizzazione alla ratifica è troppo stridente per non sfidare il buonsenso. Con la necessità di un supplemento di spiegazione.      

    Nella seduta del 28 settembre 2020 della Camera dei deputati, l’on. Yana Chiara Ehm, relatrice per la III Commissione del disegno di legge “Ratifica ed esecuzione del Protocollo n. 15 recante emendamento alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, fatto a Strasburgo il 24 giugno 2013” (A.C. 1124-A), e dell'abbinata proposta di legge Schullian ed altri (A.C. 35), segnalava che lo stesso disegno di legge era stato  emendato “al fine di rinviare al futuro la ratifica di un ulteriore protocollo della CEDU, il n. 16, fatto a Strasburgo il 2 ottobre 2013 e già vigente, a causa di profili di criticità connessi al rischio di erosione del ruolo delle alti Corti giurisdizionali italiane e dei principi fondamentali del nostro ordinamento.”

    Nella seduta del successivo 30 settembre, l’on. Flavio Di Muro qualificava il Protocollo n. 16 una “deriva europeista in campo giuridico”, tale da determinare “incongruenze rispetto a principi costituzionali e rischio di deresponsabilizzazione dei giudici interni e di dequotazione della Corte costituzionale in tema di diritti fondamentali”, e aggiungeva che tali timori avevano trovato conferma nelle audizioni di “importanti professori universitari, soggetti che hanno a che fare direttamente con queste istituzioni europee”.

    Nell’editoriale di questa rivista che ha avviato il dibattito sul tema, si osserva parimenti che l’esito della vicenda è stato “suggerito e accarezzato da una parte della dottrina costituzionalistica italiana con argomentazioni che hanno offerto lo spunto per la non ratifica a  forze politiche di varia estrazione, come risulta dai lavori assembleari[1].

    Prima di dare conto dei punti salienti del Protocollo n. 16 e della lettura che ha originato la scelta allo stato compiuta dal Parlamento, converrà segnalare che esso è nel frattempo entrato in vigore, essendo stato ratificato da 15 Stati membri del Consiglio d’Europa, per un numero dunque superiore a quello minimo di 10 previsto allo scopo dall’art. 8. Come vedremo, trattasi di circostanza decisiva per cogliere le conseguenze del nostro rinvio.  

    2. Il Protocollo n. 16 e i suoi obiettivi

    L’art. 1 del Protocollo attribuisce alle “più alte giurisdizioni di un’Alta Parte contraente”, da essa stessa designate (art.10), il potere di “presentare alla Corte delle richieste di pareri consultivi su questioni di principio relative all’interpretazione o all’applicazione dei diritti e delle libertà definiti dalla Convenzione o dai suoi protocolli”. E aggiunge che “la giurisdizione che presenta la domanda può chiedere un parere consultivo solo nell’ambito di una causa pendente dinanzi ad essa”. I pareri così richiesti vanno motivati (art. 4), e non sono vincolanti (art. 5).

    Con quale obiettivo? Secondo il Preambolo, “l’estensione della competenza della Corte a emettere pareri consultivi permetterà alla Corte di interagire maggiormente con le autorità nazionali consolidando in tal modo l’attuazione della Convenzione, conformemente al principio di sussidiarietà”. La motivazione, invero scarna, va perlomeno integrata col richiamo alla Dichiarazione finale della Conferenza di Smirne sul futuro della Corte di Strasburgo (26-27 aprile 2011), che invitava « il Comitato dei Ministri a considerare l’opportunità di introdurre una procedura che consentisse alle più alte giurisdizioni nazionali di richiedere pareri consultivi alla Corte, relativamente all’interpretazione e all’applicazione della Convenzione, per chiarire le disposizioni della Convenzione e la giurisprudenza della Corte, fornendo in questo modo ulteriore attività di indirizzo al fine di aiutare gli Stati parte ad evitare future violazioni », nonché alla Dichiarazione finale della Conferenza di Brighton (19-20 aprile 2012), secondo cui l’interazione tra Corte e autorità nazionali avrebbe potuto essere consolidata dall’introduzione nella Convenzione del potere della Corte di emettere, su esplicita richiesta, pareri consultivi sull’interpretazione della Convenzione nell’ambito di una specifica causa a livello nazionale che gli Stati parte avrebbero comunque potuto accettare in via facoltativa.

    In definitiva, più di quel generico consolidamento della “attuazione della Convenzione” di cui parla il Preambolo, l’adozione del Protocollo n. 16 rifletteva la diffusa consapevolezza dell’esigenza di rimediare con lo strumento della richiesta preventiva di parere alle disfunzioni dovute all’accumularsi dei ricorsi avanti alla Corte e alla conseguente formazione di un ragguardevole arretrato, in “paradossale violazione di uno dei diritti fondamentali riconosciuti dalla Convenzione e da essa tutelati, il diritto del cittadino alla durata ragionevole del processo (art. 6, par. 1, CEDU)”[2].

    3. Un’ipotesi troppo creativa

    Possiamo a questo punto precisare il quesito iniziale. Ha il Protocollo n. 16, tanto per la disciplina che introduce quanto per il suo obiettivo, qualcosa a che fare con una “deriva europeista in campo giuridico” tale da rischiare una “erosione del ruolo delle alti Corti giurisdizionali italiane e dei principi fondamentali del nostro ordinamento”, come sostenuto in Parlamento a sostegno della scelta di rinviarne l’autorizzazione alla ratifica? Prima facie, nulla. Abbiamo visto, però, che in quella scelta è stato ritenuto cruciale il ruolo dei costituzionalisti auditi[3]. Converrà pertanto risalire alla fonte.

    In primo luogo Luciani vede nel Protocollo n. 16 “una sorta di risposta della Corte EDU alla Corte di giustizia”, tenuto conto del parere negativo di tale Corte in ordine all’adesione dell’Unione europea alla CEDU (parere n. 2/2013)[4]. Poiché però il punto essenziale di quel parere consiste nella perdurante inassimilabilità dell’Unione europea a uno Stato membro, e ai conseguenti problemi che ne derivano anche sotto il profilo processuale, non è chiaro perché la Corte EDU abbia dovuto rispondere su tutt’altro piano. Tantomeno è chiaro come si possa ricondurre a tale Corte la stipulazione ad opera delle Alte Parti Contraenti di un Protocollo che essa può avere al massimo sollecitato, per le impellenti ragioni di snellimento dell’arretrato che abbiamo ricordato.

    Pare poi a Luciani “ovvio”, nonostante l’art. 5 escluda espressamente il carattere vincolante dei pareri, “che,  almeno nel giudizio “principale”, il parere avrà effetti del tutto vincolanti, essendo inimmaginabile che il giudice italiano si discosti dall’avviso di un’altra istanza giurisdizionale cui egli stesso s’è rivolto per avere chiarimenti interpretativi”[5]. Altra è però l’accezione strettamente giuridico-formale del termine “vincolante”, accolta dall’art. 5 onde chiarire che per il diritto convenzionale i giudici nazionali non sono comunque tenuti a uniformarsi al parere della Corte EDU, altra è l’accezione sostanziale di cui ragiona palesemente Luciani. Proprio per questo occorre interrogarsi su oggetto e portata di tale vincolo.  

    Secondo il Protocollo, lo abbiamo visto, la domanda (e con essa la risposta della Corte) verte “su questioni di principio relative all’interpretazione o all’applicazione dei diritti e delle libertà definiti dalla Convenzione o dai suoi protocolli” (art. 1). Luciani ci vede “gravi conseguenze sul piano del diritto interno”, anzitutto perché, se, come ha chiarito la Corte costituzionale, le questioni di violazione della Convenzione si traducono in violazioni della Costituzione, “Rivolgendosi alla Corte EDU prima che alla Corte costituzionale [….], il giudice nazionale scavalca quest’ultima.”, poi anche perché “L’intervento della Corte EDU incide sul libero convincimento del giudice, garantito da una nostra risalente tradizione e formalizzato all’art. 101, comma 2, Cost.”[6]. Né varrebbe assimilare la richiesta di parere prefigurata dal Protocollo al rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE,  “perché in quel caso la cosa si spiega in ragione del principio di separazione degli ordinamenti (italiano da un lato, eurounitario dall’altro), che giustifica la pronuncia pregiudiziale di un giudice “esterno”, laddove qui non v’è alcuna separazione. La Convenzione EDU è stata immessa nel nostro ordinamento, infatti, da una legge italiana (l. 4 agosto 1955, n. 848), sicché deve essere interpretata in primis dallo stesso giudice nazionale.”[7]  

    Ora, come è risaputo, è stata sempre “una legge italiana” (di rango ordinario) a sancire l’adesione alla Comunità Europea prima, e all’Unione Europea poi, non meno che alla Convenzione EDU. Non è dunque dalla fonte (in ogni caso ovviamente nazionale) dell’adesione all’UE o alla CEDU che può trarsi un criterio differenziale della posizione dell’Italia in termini di separazione o meno dall’una e dall’altra, bensì, come è anche qui risaputo, dal fondamento costituzionale di tale adesione, differenziata a seconda che comporti “limitazioni di sovranità” o rientri nel tradizionale diritto pattizio (rispettivamente, artt. 11 e 10, in combinazione con l’art. 117, primo comma). Non stiamo parlando di tesi dottrinarie, ma della elementare base comune da cui esse muovono.  

    Per altro verso, non è che la Convenzione, in quanto “immessa nel nostro ordinamento”, diventi una legge di cui il giudice sia libero interprete. Egli lo è in primis, e tale rimane anche alla luce del Protocollo: come potrebbe non esserlo, dal momento che vi viene facoltizzato a richiedere un parere alla Corte EDU? Ma ciò non vuol dire che, ove lo richieda, “scavalcherebbe” la Corte costituzionale, dal momento che oggetto della richiesta è solo l’interpretazione e l’applicazione della Convenzione, potere che la nostra Corte costituzionale ha sempre ritenuto debba riservarsi alla Corte EDU, tanto più a partire dalle sentt.nn. 348 e 349 del 2007. Anche qui, non stiamo parlando di tesi dottrinarie, ma della elementare base comune da cui esse muovono.   

    Il timore di “gravi conseguenze” dell’adesione al Protocollo sarebbe sensato se la richiesta di parere avesse ad oggetto la stessa conformità di una legge nazionale alla Convenzione. Il che è però escluso dall’intento non meno che dal tenore letterale del Protocollo, in piena corrispondenza con la nostra giurisprudenza costituzionale, la quale riserva alla Corte di Strasburgo il solo potere di interpretare la Convenzione, ferme restando le possibili diverse valutazioni degli organi giurisdizionali nazionali in ordine alla legittimità costituzionale della legge in ipotesi confliggente con la CEDU alla stregua di un bilanciamento con altri parametri.

    Falsato fino a questo punto l’oggetto della richiesta di parere, ne viene falsata pure la portata. Lungi dal limitarsi ad anticipare l’opportunità per la Corte EDU di pronunciarsi sull’interpretazione e sull’applicazione della Convenzione rispetto a un possibile giudizio – con l’obiettivo di semplificarlo se non di evitarlo –, il Protocollo diventa un veicolo per investire la Corte EDU di un potere tale da stravolgere l’equilibrio dei rapporti con le corti nazionali. Che è esattamente ciò cui voleva giungere l’autore citato per destare in Parlamento un allarme corrispondente. Anche a costo di impiegare argomenti imbarazzanti, estranei ad acquisizioni consolidate nonché privi di riscontro, compresa la pretesa differenziazione dello strumento di adesione all’UE e alla CEDU.          

    4. Gli effetti del sovranismo simbolico e il ripensamento indispensabile

    La scelta così motivata del Parlamento di rinviare sine die l’autorizzazione alla ratifica del Protocollo n. 16 sta suscitando comprensibili critiche fra i costituzionalisti. Si è parlato di una decisione “afflitta da grave miopia (per non dire, cecità) politico-istituzionale, un autentico boomerang”, riflettendo il timore infondato che il Protocollo attenti alla sovranità dello Stato, la quale invece, rettamente intesa, potrebbe trarne beneficio[8].

    Condivido il giudizio di “miopia politico-istituzionale”. Che non discende necessariamente dalla prospettiva di una “sovranità dei valori fondamentali” in grado di limitare la “sovranità dei poteri” anche attraverso “un dialogo assiduo e diffuso ai più vari ambiti materiali con la Corte di Strasburgo”[9]. Sostengo da tempo che la metafora del dialogo può indurre a immaginare “una sorta di concordia celeste tra giudici dialoganti, tutti liberati dallo statualismo e unicamente dediti a tutelare i diritti dei cittadini europei”; oppure può limitarsi a rappresentare un processo di costanti interlocuzioni fra giudici congedatisi bensì dalla deferenza verso la volontà, a seconda dei casi, del Parlamento e delle Alte Parti Contraenti, ma pur sempre tenuti ciascuno al primario rispetto di un proprio parametro e di un proprio catalogo di diritti[10]. Proprio per questo, si tratta a mio avviso di un processo non assimilabile a un (non qualificato) dialogo, né a una battaglia navale di cui noi si sia chiamati a prevedere le mosse. Si tratta di qualcosa di più serio, se è consentito, dell’una o dell’altra ipotesi.

    Proprio in questa prospettiva, la scelta fin qui prevalsa di non autorizzare la ratifica del Protocollo n. 16 si traduce a più forte ragione in una perdita secca per l’Italia. Non per la sua sovranità, che non è in questione né come sovranità di poteri né come sovranità di valori, ma per l’interesse delle sue corti, che non a caso hanno da tempo sollecitato la ratifica, a non subire scelte compiute da quelle degli Stati membri ratificanti non meno che dalla Corte di Strasburgo. In questi tempi è facile issare il vessillo della sovranità violata; ma nulla ancora ci impedisce di indicare i danni di un sovranismo simbolico sulla posizione delle corti italiane.     

    Piaccia o non piaccia l’Italia, e per essa le sue corti, è da sempre totalmente inserita nei circuiti giurisdizionali che da oltre un ventennio hanno variamente collegato le corti nazionali alle due corti europee. Non siamo il Regno Unito, dove questioni simili si sono poste o si pongono in termini di sovranità, da Brexit al perdurante dibattito sull’adesione alla CEDU. Non siamo nemmeno l’Ungheria o la Polonia, i cui governi non mettono in discussione tale adesione e nello stesso tempo erodono dall’interno la credibilità dell’intero sistema di protezione dei diritti dell’uomo anzitutto soggiogando l’autonomia dei rispettivi giudici. Siamo l’Italia. Siamo il Paese la cui Corte costituzionale ha di recente dimostrato definitivamente, con Taricco, che le richieste preventive di pareri alle Corti europee possono non  tradursi in un inchino alla loro volontà, e comportare piuttosto un ruolo costantemente attivo, e non meramente propulsivo, dei giudici richiedenti. 

    Ora, se il Protocollo n. 16 ha una funzione, è quella di ottenere l’interpretazione della Corte su una certa disposizione della CEDU con “una innegabile, non secondaria forza persuasiva, se non pure autenticamente prescrittiva, ove si consideri che […..] a suo sostegno soccorre il sempre possibile ricorso esperibile davanti alla stessa Corte in sede giurisdizionale avverso le decisioni dei giudici che se ne siano discostati”[11]. Così stando le cose, il Protocollo ormai in vigore determinerà un condizionamento di Strasburgo sulle corti degli Stati che non lo abbiano ratificato maggiore, non minore, che sulle corti degli Stati che lo abbiano ratificato, nella misura in cui solo queste ultime  potranno decidere nel corso di un giudizio se richiedere alla Corte EDU un parere preventivo sull’interpretazione e sull’applicazione della Convenzione, nonché come conformare la richiesta in vista di un certo esito, di cui sono esempio estremo le note ultimative richieste rivolte dal Tribunale Costituzionale tedesco alla Corte di giustizia dell’Unione: l’idea che, col richiedere il parere della Corte EDU, le corti nazionali si immolino sull’altare dell’Europa è priva di senso. Saranno viceversa le corti degli Stati non ratificanti a dover accettare il parere reso dalla Corte EDU sull’interpretazione e sull’applicazione di una certa disposizione della Convenzione, senza aver potuto collaborare con essa sul punto.

    Vi è ragione per auspicare un rapido ripensamento del nostro Parlamento.

             

    [1] Editoriale, L’estremo saluto al Protocollo n. 16 annesso alla CEDU, in Giustizia insieme, 12 ottobre 2020. 

    [2] D.Martire, Il Protocollo n. 16 alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali entra finalmente in vigore, in Diritti comparati, 16 aprile 2018. 

    [3] A partire da M.Luciani, Note critiche sui disegni di legge per l’autorizzazione alla ratifica dei Protocolli n. 15 e n. 16 della CEDU. Appunti per l’audizione innanzi la 2^ Commissione – Giustizia della Camera dei Deputati (29 novembre 2019), in Sistema penale, 2019.

    [4] M.Luciani, Note critiche, cit., 2.

    [5] M.Luciani, Note critiche, cit., 4.  

    [6] M.Luciani, Note critiche, cit., 6.

    [7] M.Luciani, Note critiche, cit., 6-7.

    [8] A.Ruggeri, Protocollo 16: funere mersit acerbo?, in Giustizia insieme, 22 ottobre 2020.

    [9] A.Ruggeri, Protocollo 16, cit.

    [10] C.Pinelli, La tutela multilivello dei diritti fondamentali nella prospettiva della giurisprudenza italiana. Una ricostruzione, in Scritti on. Pace, III, Napoli, Editoriale Scientifica, 2012, 2400, nonché Id., Judicial Protection of Human Rights in Europe and the Limits of a Judge-Made System, in Il Diritto dell’Unione Europea, 1997, 1007 ss.

    [11] A.Ruggeri, Protocollo 16, cit.


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