GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    Il Protocollo 16 e l’ambizioso (ma accidentato) progetto di una global community of courts

    Il Protocollo 16 e l’ambizioso (ma accidentato) progetto di una global community of courts

    Il dibattito lanciato da Giustizia Insieme con l'editoriale L'estremo saluto al Protocollo 16 annesso alla CEDU si arricchisce, dopo gli interventi di Antonio Ruggeri - Protocollo 16: funere mersit acerbo? - di Cesare Pinelli - Il rinvio dell’autorizzazione alla ratifica del Protocollo n. 16 CEDU e le conseguenze inattese del sovranismo simbolico sull’interesse nazionale - e di Elisabetta Lamarque - La ratifica del Protocollo n. 16 alla CEDU: lasciata ma non persa - delle riflessioni di un giovane processualcivilista, cultore della teoria generale del diritto.

    Il Protocollo 16 e l’ambizioso (ma accidentato) progetto di una global community of courts

    di Carlo Vittorio Giabardo  

    Sommario: 1. Introduzione - 2. Il Protocollo 16 e la competenza consultiva della Corte EDU vittima della retorica nazionalista – 3. Il giudice nella rete – 4. Passi indietro nella costruzione di una global community of courts – 5. Sull’importanza della nozione di dialogo nel diritto, a partire da Habermas – 6. Quale dialogo nel Protocollo 16?    

    1. Introduzione  

    La Camera ha cancellato l’autorizzazione alla ratifica del Protocollo n. 16 che consente alle “alte giurisdizioni” nazionali di richiedere alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo pareri consultivi (facoltativi sia quanto alla richiesta sia quanto alla loro ricezione effettiva nel giudizio in corso) su questioni di principio relative all’interpretazione o all’applicazione dei diritti e delle libertà fondamentali definiti dalla Convenzione o dai suoi protocolli[1].

    Il Protocollo 16 introduce quindi una importante funzione consultiva (advisory jurisdiction, come dicono gli anglosassoni) che è, d’altronde, per così dire, nella natura stessa delle Corti internazionali[2]. Avrebbe consentito un dialogo ex ante tra le nostre corti di vertice e la Corte EDU sia in funzione deflattiva del contenzioso in sede sovranazionale sia – ed è questo l’obiettivo “nobile” che vale la pena enfatizzare – in funzione di potenziare il principio di sussidiarietà che sta alla base dell’intera architettura convenzionale, e che in questo caso avrebbe significato fornire al giudice che la richiede una guida soft, ma assai autorevole, quanto all’interpretazione di un principio rilevante nel caso pendente[3].

    Non mi soffermerò sulle molteplici questioni tecniche che caratterizzano il funzionamento di questo procedimento consultivo, trattate con grande lucidità da chi molto meglio di me padroneggia la materia[4].

    Mi limiterò invece a fare alcune riflessioni più generali su due punti che mi paiono estremamente rilevanti, e cioè sul significato politico di questa espulsione e sulla portata – mi sia consentito il termine – filosofica dell’esigenza di stabilire strumenti formali e istituzionalizzati di dialogo tra le corti.

    Il dibattito sul Protocollo 16 non riguarda infatti solo una questione tecnica, un dettaglio operativo, ma tocca alcuni tra i punti più nevralgici circa il ruolo e la posizione delle corti al tempo presente. In gioco, quindi, c’è molto, c’è la direzione che si sta percorrendo. È quindi cruciale saper fornire una narrazione del fenomeno che tenga conto delle più mature consapevolezze circa la funzione del giudice oggi.    

    2. Il Protocollo 16 e la competenza consultiva della Corte EDU vittima della retorica nazionalista  

    Le motivazioni rese esplicite dietro alla scelta della mancata ratifica, nella loro vaghezza quasi stereotipata, si inseriscono perfettamente, e prevedibilmente, nell’odierna retorica della discussione politica, tutta concentrata sulla contrapposizione tra sovranismo e globalizzazione[5]. Un modo certamente erroneo di discutere del tema e che non ne coglie gli aspetti essenziali. La divisione tra nazionalismo ed europeismo, tra protezione del… made in Italy giuridico, riletto in chiave populista, e l’assalto di indebite influenze estere è, d’altronde, un segno dei tempi, non solo italiano[6].

    Eppure questa retorica politica (che è più un clima, un’atmosfera ideologica) è riuscita a fermare pur questa “grande-piccola” innovazione. Dico “grande-piccola” perché, se da un lato questa avrebbe consentito una più effettiva e rinforzata partecipazione dell’Italia al dibattito e alla “costruzione dialogica” della protezione dei diritti, dall’altro lo strumento sarebbe stato (ed è) molto più innocuo rispetto ad altri dispositivi di integrazione già presenti nel nostro tessuto, quale ad esempio quello (certo, diversissimo quanto a struttura e funzione) del rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea ex art. 267 TFUE[7].

    Balza agli occhi il vizio logico delle argomentazioni nazionaliste. I diritti fondamentali individuali sono universali: è la loro natura, la loro essenza, la loro vocazione. O sono tali o non sono. Fu questa la consapevolezza (antica almeno quanto la Rivoluzione Francese) che animò l’istituzione, nel dopoguerra, della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, in quanto ente di controllo e protezione extra statale, esterno, valido per tutti gli Stati firmatari. I diritti fondamentali non sono e né possono essere di esclusiva competenza degli Stati, non conoscono confini (altrimenti non sarebbero, appunto, diritti fondamentali).

    Certo, gli Stati membri appartengono, a loro volta, a molteplici tradizioni, storie, modi di concepire la giuridicità (epistemologie, diremmo), culture, e via dicendo, pur essendo accomunati da un patrimonio valoriale comune, da una ispirazione umana condivisa. Ecco perché la Corte è una grande impresa comparatistica, la quale necessita del dialogo; perché il suo operato si situa sempre in tensione tra pluralità e unità, tra esigenze di armonia e rispetto delle voci che pure ci sono all’interno di questa grande casa.    

    3. Il giudice nella rete  

    Ritornerò a breve sull’importanza del dialogo. Mi sia consentita però prima una constatazione ancora più generale.

    Ora, non c’è dubbio che - piaccia o no - il giudice nazionale è al centro di un reticolo. Eppure questa lettura fatica a farsi spazio. È la rete, non più la piramide, che spiega la struttura dei sistemi[8]. La piramide – ha scritto Mario Losano – ha un fascino simbolico.[9] Essa è l’immagine dell’autorità, e quindi della certezza e della chiarezza. La piramide simboleggia l’ossessione (kelseniana) per l’ordine.

    La rete, invece, che non ha angoli né vertice, ma numerosi nodi decentralizzati e fili che si intersecano, è metafora di disordine, incertezza e quindi, alla fine, di arbitrio. Ecco che molti si augurerebbero il ritorno rassicurante a quella piramide, che, nel contesto delle fonti del diritto, significherebbe la piena “soggezione del giudice solo alla legge” però formalmente e formalisticamente intesa, quale insieme, appunto, di ordini, comandi, emanazioni dirette e immediate del potere statale, dello Stato-nazione sovrano.

    Ma questa è una ricostruzione che oggi risulta, dal punto di vista filosofico, desolatamente semplicistica. Non riesce a rendere conto non solo della complessità della moltitudine dei centri di produzione del diritto, spesso in competizione tra loro[10], ma nemmeno – cosa che qui è più grave - delle esigenze “naturali” di protezione dei diritti fondamentali, che esigono, per loro stessa natura e struttura, attenti e mobili bilanciamenti (cioè di giudizi in senso pieno).

    Immaginare un ritorno alle antiche certezze - che poi non sono null’altro se non le antiche “mitologie” del diritto[11] - è tanto ingenuo quanto impossibile (anche se, ahimè, politicamente efficace, come abbiamo visto) nel contesto attuale. Significherebbe fare un pericolosissimo salto indietro nelle consapevolezze acquisite, e in particolare nella coscienza che i giudici e le corti svolgono un ruolo strategico nella protezione dei diritti e delle libertà, e che tra creare, interpretare e proteggere un diritto (l’enfasi è soprattutto sull’ultima parola) – tre attività senza dubbio concettualmente differenti e distinguibili – corre molta meno differenza, nella prassi, di quello che molti sarebbero disposti a pensare.

    È insomma la consapevolezza del costituzionalismo odierno, che ha una vocazione per natura globale, trascendente, nel senso letterale che tra-scende (idealmente, nel migliore dei mondi possibili) confini e tradizioni, culture e famiglie giuridiche. Il che non significa uniformità, omogeneità negli intenti e nelle soluzioni, ma bensì sforzo costante.    

    4. Passi indietro nella costruzione di una global community of courts  

    Le corti hanno capito bene questa vocazione comunitaria del loro lavoro o della loro missione.

    A livello internazionale esistono, e sono vive, reti di contatto, conferenze periodiche aventi finalità di studio, di collaborazione, di consultazione tra organi giurisdizionali; sono raccordi, modalità di interazione tra giudici, anche a livello personale, alcuni formali, altri meno, dove si costruisce, passo a passo, quel progetto di condivisione di conoscenza e di valori, dove si fa esperienza delle diverse impostazioni di tradizione e di cultura giuridica, di lingua (la differenza linguistica, nel diritto, non è mai solo qualcosa di “esteriore”, ma qualcosa di estremamente profondo), dove si attua un confronto continuo su temi e decisioni[12]. Per limitarci a quanto più vicino a noi, in seno allo stesso Consiglio d’Europa è attiva la Superior court network, che unisce 93 corti da 40 Stati[13] e in Italia già esistono protocolli d’intesa tra giurisdizioni superiori e la Corte EDU[14].

    Anne-Marie Slaughter, celebre giusinternazionalista statunitense, Professor of Politics and International Affairs alla University of Princeton, nel (lontano) 2003 pubblicò sulle pagine dell’Harvard International Law Journal un lungo articolo che diede origine a un nuovo modo di studiare la posizione del giudice[15]. In quello che lei definiva, forse un po’ enfaticamente, il nuovo ordine mondiale (new world order) si andava formando una global community of courts, non casuale, ma, per la prima volta nella storia, sostenuta dalla consapevolezza dei suoi membri di farne parte. La realtà planetaria nella quale viviamo – affermava Slaughter - è caratterizzata da continui scambi giuridici, siano formalizzati oppure no, di prestiti (borrowings and lendings) e di contaminazioni (cross-fertilizations) reciproche. Il mondo non solo è finanziariamente interconnesso, fenomeno non nuovo, ma più profondamente si trova ad affrontare problemi culturalmente comuni che richiedono, in virtù della loro comunanza, una giurisprudenza globale (global jurisprudence)[16]. Una comunità, peraltro, niente affatto elitaria, circoscritta alle “alte giurisdizioni” o alle corti costituzionali, ma che coinvolge giudici di più diversa estrazione, statali e no.

    Da lì è fiorita una abbondante letteratura sull’uso di precedenti appartenenti a giurisdizioni straniere per risolvere casi domestici; l’argomento “comparativo” inizia ad assumere un peso determinante[17] (anche se, a dire il vero, nelle corti americane il fenomeno della cross-citation non è mai davvero entrato nella pratica per le fortissime resistenze incontrate nell’establishment giudiziale, con la lodevole eccezione, però, di Ruth Bader Ginsburg[18]).

    Slaughter scriveva queste cose con grande entusiasmo nel 2003 e i suoi maggiori studi sul tema apparvero a partire dalla fine del millennio scorso fino ai primi anni Duemila; letteralmente un’epoca fa nel fluire vorticoso degli accadimenti che abbiamo vissuto. Quel modo di guardare al mondo ha subito certo molte ferite. Venti anni fa la globalizzazione era sul suo punto più alto, prima del precipizio. Non vi era stata ancora la minaccia del terrorismo globale, il tracollo economico del 2008, i problemi e la crisi dei debiti sovrani. Le spinte anti-europeistiche erano qualcosa di marginale, la Brexit era fantascienza, il motto degli Stati Uniti non era ancora Make America Great Again: tutti fenomeni, questi, che hanno portato a chiusure, non ad aperture; ad atteggiamenti difensivi, non collaborativi. Hanno spinto gli stati a ripiegarsi su sé stessi, non a dischiudersi verso la ricerca di soluzioni globali. In questi ultimi venti anni abbiamo visto ergersi muri, non abbatterli, sia in senso concreto sia in senso metaforico. E il diritto, o il modo di guardare ad esso, non ha certo fatto eccezione.

    La mancata ratifica del Protocollo 16 amareggia, quindi, ma non stupisce chi osservi la realtà in modo disincantato. Amareggia, ma non stupisce chi crede in un progetto di costruzione comunitaria, ma vede il clima generalizzato di sfiducia verso istituzioni percepite come “altre”[19].    

    5. Sull’importanza della nozione di dialogo nel diritto a partire da Habermas  

    Che la comunicazione politica sia mutata non significa, però, che lo sia anche la realtà. Nei fatti, quello che diceva Marie-Anne Slaughter è ancora assolutamente vero. Lo ha detto bene la Justice Claire L'Heureux-Dubé, giudice della Corte Suprema Canadese: siamo nell’epoca in cui dalla ricezione siamo passati al dialogo[20]. Ecco dove sta la rottura con il passato. La differenza non è da poco. La ricezione è una cosa, il dialogo un’altra.

    Dialogo è una parola nobile. Il grande pensatore del dialogo, Jürgen Habermas ne ha sondato con profondità la struttura, la funzione, le implicazioni, il significato filosofico con particolare riferimento al contesto pubblico e democratico. L’arena sociale nella quale ci troviamo funziona solo se è percorsa da continue connessioni argomentative, da scambi che si basano sul riconoscimento intersoggettivo e sull’uso della ragione, e che sono diretti, o devono esserlo, all’apertura. Il mondo sociale è fatto di continui ritorni e revisioni, di occasioni di ridiscussione, di un costante interrogarsi, indirizzato, in fine, alla modifica della realtà e del mondo[21]. La Diskursethik non è qualcosa di formale, che riguarda solamente i requisiti esteriori del parlare – anche se leggendo Habermas potrebbe sembrare così. O meglio, lo è, ma nel senso forte e radicale della parola, cioè nel senso che la forma, qui, è già sostanza.

    Tutto ciò è estremamente rilevante per capire gli attuali equilibri dialogici tra le corti, e di questo lo stesso Habermas ne era perfettamente consapevole. Cito direttamente da Sabino Cassese, che nel suo bel libro sul ruolo dei giudici nel contesto mondiale così scrive: «Jürgen Habermas ha osservato che le corti «parlano» e «ascoltano» come eguali e sono, allo stesso tempo, autori e destinatari delle norme. In particolare «i giudici interagiscono tra loro secondo il metodo discorsivo e la concezione proceduralista»[22] (nel senso, però, che si è precisato).

    Ma attenzione a non fraintendere il dialogo. Non c’è nulla di romanticamente facile, di consolatorio, di mite nel dialogo. Tutto all’opposto, il dialogo (che avvenga tra tradizioni, tra culture e ideologie giuridiche) presuppone una grande forza. Esso va duramente conquistato: molto più comodo, e molto meno fruttuoso, fuggire (come è stato fatto).

    I comparatisti lo sanno bene: il dialogo, già anche etimologicamente, presuppone la differenza; anzi, più radicalmente, implica l’alterità, altrimenti non è tale. Ancora di più, presuppone, in un certo senso, una dose di confitto, di conflittualità, che costringe alla negoziazioneEn tout état de cause, le comparatiste agit comme négociateur», spiega Pierre Legrand, nel suo splendido Le droit comparé[23]). È solo nel dialogo che si sviluppa l’etica dell’interlocuzione («le comparatiste doit promouvoir une éthique de l’interlocution…»[24]).

    Sbaglia quindi chi crede che il dialogo sia facile omologazione, remissiva resa; no. Il dialogo è per anime forti. Il dialogo è sforzo; potremmo dire che è forzatura, ma una forzatura benefica. I “grandi dialoghi”, quelli più celebri nelle dinamiche tra Corti nel contesto europeo lo dimostrano perfettamente; non c’è nulla di accomodante, di arrendevole, nella intricata “vicenda Taricco” che ha visto coinvolgere Corti nazionali, Corte costituzionale e Corte di Giustizia dell’Unione Europea[25].

    E, su tutt’altro altro piano, i cultori del diritto processuale civile conoscono bene il lungo percorso della Corte EDU - in continua tensione tra rispetto delle differenze e esigenza di costruire nozioni comuni, tensione che direi che è costitutiva del suo operato - verso la faticosa, ma alla fine fruttuosa e soddisfacente, elaborazione di un concetto unitario e condiviso di azione civile che tenesse conto delle impostazioni, diversissime, esistenti nelle varie tradizioni giuridiche[26].

    6. Quale dialogo nel Protocollo 16?  

    Il Protocollo 16 è ispirato proprio dal desiderio di potenziare questa funzione dialogica che nell’attuale assetto mancava. Esaurite le vie di ricorso interno, infatti, l’intervento della Corte EDU è solo repressivo nei confronti della erronea interpretazione o applicazione della Convenzione per opera delle Corti superiori interne. Lo strumento qui in esame, invece, ha la funzione di sciogliere, per quanto possibile, le difficoltà interpretative evitando il contenzioso e consentendo così ai giudici nazionali di interagire, in condizioni di parità, al dibattito. Il dialogo così formalizzato non è un dialogo qualsiasi: come recentemente sottolineato da Florence Benoît-Rohmer, dovrà essere costruttivo e leale (constructif et loyal), indirizzato al mutuo rinforzo, tanto delle autorità nazionali che di quella sovranazionale (qui renforce tant les autorités nationales que la Cour) e rispettoso la libertà del giudice remittente (qui respecte la liberté du juge national)[27].

    Senza questo strumento, il potere dei giudici italiani ne esce quindi diminuito, non protetto né preservato. Anche perché, lo vediamo dalla pratica, il dialogo in qualche modo già avviene, solo che avviene al di fuori di un canale ufficiale e istituzionalizzato (e senza quindi la possibilità di prenderne parte attiva).

    Ne abbiamo una riprova recentissima: sia la Corte di cassazione, con l’ordinanza n. 8325 del 2020 mediante la quale ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’esclusione del riconoscimento del figlio nato all’estero da gestazione per altri (cd. maternità surrogata)[28], sia poi la Corte costituzionale (qui in modalità self-restraint) hanno citato il parere della Corte EDU che su ugual materia era stato chiesto ex Protocollo 16 dalla Cour de cassation francese[29]. Un atto che, a rigor di logica, non dovrebbe avere nessun valore. E invece, nei fatti, così non è, e non lo sarà. A riprova del fatto che i pareri, anche se “per interposta corte”, anche se non vincolanti e anche in difetto di ratifica, sono considerati meritevoli di considerazione, una base sulla quale costruire i ragionamenti, sia dal giudice di legittimità sia da quello costituzionale.

    E qui (ma il discorso ci porterebbe troppo lontano) il filosofo potrebbe interrogarsi sulla attuale tenuta concettuale della distinzione tra hard law e soft law, tra efficacia solo persuasiva e efficacia vincolante del precedente, di “limiti soggettivi” del giudicato “euroumanitario” e altre suddivisioni nette (ma che però nette non sono) che hanno dato forma al nostro modo di comprendere il diritto.

    Se le corti – giustamente! – considerano meritevole di discussione i responsi di quel dialogo, sceglierne di non farne parte significa precludersi una più attiva e intensa capacità di orientarne le conclusioni. La possibilità di partecipare a quel dialogo, di sollecitarne l’accadere, di attivarlo è testimonianza di rilevanza. Tutto al contrario, quindi, delle paure sollevate in sede di discussione parlamentare.


    [1] Si vedano le considerazioni espresse nell’Editoriale di questa Rivista L'estremo saluto al Protocollo 16 annesso alla CEDU ; v. anche A. Ruggeri, Protocollo 16: funere mersit acerbo?, in https://www.giustiziainsieme.it/it/attualita-2/1354-protocollo-16-funere-mersit-acerbo; Id., Protocollo 16 e identità costituzionale, in https://www.diritticomparati.it/wp-content/uploads/2020/01/Ruggeri-0-2020.pdf

    [2] Ricordiamo che sia la International Court of Justice sia la Inter-American Court of Human Right sia l’African Court of Human and People’s Right hanno competenza consultiva (seppur in quest’ultimo caso scarsamente utilizzata) e la CEDU stessa, anche prima del Protocollo 16, ne aveva una versione in forma assai ristretta e debole. Sulla funzione consultiva della I/ACtHR, che ha conosciuto nel tempo una fortuna notevole, v. J. Schmid, Advisory Opinions on Human Rights: Moving Beyond a Pyrrhic Victory, in 45, Duke Journal of Comp. & Int’l. Law, 2006, 16 (ove anche una comparazione con il Protocollo 16). Sul punto anche P. De Sena, Caratteri e prospettive del Protocollo 16 nel prisma dell'esperienza del sistema interamericano di protezione dei diritti dell'uomo, in Diritti umani e diritto internazionale, 2014, 593.

    [3] La dottrina “europeista” più attenta – pur lodando senza dubbio i due obiettivi – denunciava la scarsa incisività di questo strumento, che avrebbe dovuto essere, piuttosto, potenziato. Mi limito qui a citare K. Dzehtsiarou, N. O’Meara, Advisory Jurisdiction and the European Court of Human Rights: A Magic Bullet for Dialogue and Docket-control?, in 34 Legal Studies, 2014, 444 e J. Gerards, Advisory Opinions, Preliminary Rulings and the New Protocol No. 16 to the European Convention of Human Rights: A Comparative and Critical Appraisal, in 21 Maastricht Journal of European and Comparative Law, 2014, 630.

    [4] La letteratura sul tema è già immensa; cfr., ex multis, R. Conti, Chi ha paura del protocollo 16 - e perché?,  in https://www.sistemapenale.it (2019); Id., La richiesta di “parere consultivo” alla Corte europea delle Alte Corti introdotto dal Protocollo n. 16 annesso alla CEDU e il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia UE. Prove d’orchestra per una nomofilachia europea, in http://www.giurcost.org/studi/conti2.pdf, 2014; E. Lamarque, La ratifica del Protocollo n. 16 alla CEDU: lasciata ma non persa, in questa Rivista; O. Pollicino, La Corte costituzionale è una “alta giurisdizione nazionale” ai fini della richiesta di parere alla Corte EDU ex Protocollo 16?, in http://www.forumcostituzionale.it/wordpress/images/stories/pdf/documenti_forum/paper/0470_pollicino.pdf. Anche la dottrina processualcivilistica si è occupata dell’argomento; cfr., in senso più critico, S. Chiarloni, Il nuovo protocollo 16 per la Corte europea dei diritti dell'uomo: un passo ulteriore verso il governo dei giudici?, in Riv. Dir. Proc., 2014, 1311; poi, sul piano descrittivo, A. Henke, La giurisdizione consultiva della Corte di Strasburgo nel nuovo Protocollo n. 16 alla CEDU, ivi, 2018, 1244 ss.

    [5] Nel dibattito parlamentare il Protocollo n. 16 è stato definito come una «deriva europeista in campo giuridico» tale da determinare «incongruenze rispetto a principi costituzionali e rischio di deresponsabilizzazione dei giudici interni e di dequotazione della Corte costituzionale in tema di diritti fondamentali»; le parole sono riportate nel bel contributo di C. Pinelli, Il rinvio dell’autorizzazione alla ratifica del Protocollo n. 16 CEDU e le conseguenze inattese del sovranismo simbolico sull’interesse nazionale, in  questa Rivista.

    [6] Analoghe affermazioni al momento dell’autorizzazione alla ratifica del Protocollo 16 erano state fatte da Marine Le Pen a l’Assemblée nationale, la quale insisteva molto sulla délégation de souveraineté. Il video è disponibile a https://www.youtube.com/watch?v=kzkmHZ_yzlk

    [7] E questo non solo, o non tanto, perché il rinvio pregiudiziale è, per le giurisdizioni di vertice, obbligatorio, mentre questo è volontario (contrapposizione che, a mio parere, non andrebbe enfatizzata, in quanto chi decide sulla sussistenza dei requisiti dell’obbligatorietà è… pur sempre lo stesso organo che opera il rinvio), quanto perché la decisione pronunciata a seguito del rinvio, come noto, è vincolante per il giudice nazionale, e anche in riferimento a qualsiasi altro caso sulla medesima disposizione (e infatti la Corte di Giustizia ha più volte ribadito che sono irricevibili rinvii puramente “esplorativi”, cioè su questioni generali di natura ipotetica; cfr. Corte Giust. 5 febbraio 2004, C-380/01 e Corte Giust., 31 gennaio 2008, C-380/05). Il parere della Corte EDU invece, in quanto parere, espresso da una particolare composizione della Grande Chambre, non è vincolante. Il parere non decide la causa, ma fornisce uno strumento ex ante che può essere utile per una migliore decisione.

    [8] Il riferimento è, naturalmente, ai lavori del filosofo del diritto belga Francois Ost nei quali egli prefigura l’avvento del cd. “giudice – Hermes” (distinto dal “giudice – Giove” e del “giudice – Ercole): «lo Stato e il diritto sono in rete. Ermes, dio dei viaggiatori e delle comunicazioni, infatti, illustra perfettamente il fenomeno di una nuova regolamentazione propria di una società dove le regole e i governi istituiti gerarchicamente lasciano il posto ad una moltitudine di reti e di poteri in costante interazione. Situato nel cuore dell’interazione di queste diverse fonti del diritto, al crocevia di tutti questi poteri che spesso si accavallano e competono, il giudice cambia ancora una volta il suo metodo, sostituendo la spada dei codici […] con la bilancia degli interessi. Non è più il caso di risolvere una controversia sulla base di una legge o di un programma specifico, ma occorre comporre una serie virtualmente infinita di interessi che si trovano in competizione»; così F. Ost, Il ruolo del giudice. Verso delle nuove fedeltà? (titolo originale: Le rôle du juge. Vers de nouvelles loyautés?) in Rassegna forense, 2013, 701. 

    [9] M. Losano, Diritto turbolento. Alla ricerca di nuovi paradigmi nei rapporti fra diritti nazionali e normative sovrastatali, in Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto, 2005, 403 ss.

    [10] Per un antecedente autorevole (e che vale la pena rileggere per capire la giuridicità odierna), mi permetto di ricordare un grande “torinese”, Enrico di Robilant e la sua nozione di sistemi informativo-normativi; Id., Sistemi informativo-normativi e operatività della società complessa, in Studi in onore di Giovanni Tarello, Vol. II, Saggi teorico-giuridici, 1990, 405.

    [11] P. Grossi, Mitologie giuridiche della modernità, 3 ed., Milano, 2007.

    [12] Importanti cenni in R. Caponi, Dialogo tra corti nazionali e corti internazionali, in Libro dell'anno del Diritto 2013, Treccani, online, https://www.treccani.it/enciclopedia/dialogo-tra-corti-nazionali-e-corti-internazionali_%28Il-Libro-dell%27anno-del-Diritto%29/); Id., Dialogo tra corti: alcune ragioni di un successo, in Il nuovo ruolo delle Corti supreme nell’ordine politico e istituzionale. Dialoghi di diritto comparato, a cura di V. Barsotti, V. Varano, 2012, 121.

    [13] https://www.echr.coe.int/Pages/home.aspx?p=court/dialoguecourts/network&c=

    [14] R. Conti, Il Protocollo di dialogo fra Alte corti italiane, Csm e Corte Edu a confronto con il Protocollo n. 16 annesso alla Cedu. Due prospettive forse inscindibili, in https://www.questionegiustizia.it/articolo/il-protocollo-di-dialogo-fra-alte-corti-italiane-c_29-01-2019.php

    [15] A-M. Slaughter, A Global Community of Courts, in 44, Harvard International Law Journal, 2003, 191. L’Autrice già in precedenza si era occupata del tema, sempre con grandezza di intenti; cfr. Id., Judicial Globalization, in 40 Virginia Journal of Int’l Law, 2000, 1103, Id., A Typology of Transjudicial Communication, in 29 University of Richmond Law Review, 1994, 99; Id., Toward a Theory of Effective Supranational Adjudication, in 107, The Yale Law Journal, 1997, 273.

    [16] Id., A Global Community, cit., 202 ss.

    [17] V. l’indagine, ricca di dati e statistiche, di M. Siems, M. Gelter, Citations to Foreign Courts – Illegitimate and Superfluous, or Unavoidable? Evidence from Europe, in 62 American Journal of Comparative Law, 2014, 35 ss.

    [18] Stephen Yeazel riporta, a questo proposito, che quando le fu chiesto cosa ne pensasse della possibilità per la Corte Suprema Americana di citare precedenti stranieri, Ruth Bader Ginsburg così rispose (e le parole testimoniano la sua apertura fuori dal comune): «one of the examples that I give of that was a case before the Israeli Supreme Court some years ago: it was called The Ticking Bomb Case. The police think that a suspect they have apprehended knows where and when a bomb is going to go off. Can the police use torture to extract that information? And in an eloquent decision Aharon Barak then the Chief Justice of Israel said. “Torture? Never!” and explains that “'We could hand our enemy no greater weapon than to come to look like that enemy in our disregard for human dignity”. Now why should I not read that opinion and be affected by its tremendous persuasive value? So that's just one example», e continua: «Our neighbor to the north, Canada ... is a very interesting supreme court. Probably cited more widely abroad than the U.S. Supreme Court, I think for one reason: You will not be listened to if you don't listen to others. I've been asked so many times by jurists abroad: “We in our country are inspired by model of the U.S. Supreme Court and we refer to your decisions. But you never refer to ours. Don't we have anything to contribute?» (S. Yeazel, When and How U.S. Courts Should Cite Foreign Law, in Constitutional Commentary, 2009, 1028).

    [19] Su 47 Stati Membri, quelli che lo hanno firmato e ratificato sono Albania, Andorra, Armenia, Estonia, Finlandia, Francia, Georgia, Grecia, Lituania, Paesi Bassi, San Marino, Slovenia e Ucraina, mentre lo hanno firmato (ma non ratificato) Bosnia-Erzegovina, Italia, Norvegia, Repubblica di Moldavia, Romania, Slovacchia e Turchia. La lista aggiornata è disponibile sul sito ufficiale del Consiglio d’Europa: https://www.coe.int/en/web/conventions/full-list/-/conventions/treaty/214/signatures?p_auth=KKYMHlux

    [20] C. L'Heureux-Dubé, The Importance of Dialogue: Globalization and the International Impact of the Rehnquist Court, in 34 Tulsa Law Journal, 1998, 1, 15 (che si riferisce al nome dell’allora Chief Justice della Corte Suprema degli Stati Uniti William Rehnquist, dal 1986 al 2005).

    [21] Mi riferisco alla poderosa opera di Habermas, Teoria dell'agire comunicativo, 2 voll., Bologna 1986 (ed. or., Theorie des kommunikativen Handelns, 1981) e poi a Etica del discorso Roma – Bari, 1985 (ed. or., Moralbewußtsein und kommunikatives Handeln, 1983).

    [22] S. Cassese, I tribunali di Babele. I giudici alla ricerca di un nuovo ordine globale, Roma, 2009, 94 (il quale però si richiama a Habermas di Fatti e norme. Contributi a una teoria discorsiva del diritto e della democrazia, Milano, 1996).

    [23] P. Legrand, Le droit comparé, Paris, 1999, 15

    [24] Ibidem, 79. Sono consapevole di – per così dire – strumentalizzare in un certo senso le parole di Pierre Legrand, le cui note posizioni, in quanto comparatista, sono orientate in senso opposto ai tentativi di armonizzazione in generale, derivanti da una esasperata, ma per certi versi encomiabile, etica della differenza e da una radicale allergia per i facili riduzionismi.

    [25] I punti salienti degli scontri sono ripercorsi, ex multis, in A. Apollonio, Dopo “Taricco” la Consulta non sta (più) a guardare, in https://www.giustiziainsieme.it/it/news/29-main/europa-corti-internazionali/590-dopo-taricco-la-consulta-non-sta-piu-a-guardare?hitcount=0; F. De Stefano, Diritto dell’Unione europea e tradizioni costituzionali nel dialogo tra le Corti (parte prima).

    [26] Percorso esaminato a fondo da N. Trocker, nei saggi Dal giusto processo all'effettività dei rimedi: l'azione nell'elaborazione della Corte europea dei diritti dell'uomo (parte prima) e Dal giusto processo all'effettività dei rimedi: l'azione nell'elaborazione della Corte europea dei diritti dell'uomo (parte seconda), in Riv. trim. dir. proc. civ., 2007, 35 ss. e 439 ss. rispettivamente, e ora ristampati anche in Id., La formazione del diritto processuale europeo, Torino, 2011.

    [27] Benoît-Rohmer, Le protocole 16 à la Convention Européenne des Droits de l’homme. Du soliloque au dialogue, in Écrits sur la communauté internationale: enjeux juridiques, politiques et dimplomatiques. On the international community: legal, political, diplomatic issues. Liber amicorum Stelios Perrakis, a cura di J-P. Jacqué, F. Benoît-Rohmer, P. Grigoriou, M. D. Marouda, Atene, 2017, 431 ss.

    [28] In senso critico, G. Luccioli, Il parere preventivo della Corte edu e il diritto vivente italiano in materia di maternità surrogata: un conflitto inesistente o un conflitto mal risolto dalla Corte di Cassazione? in https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-processo-civile/1106-il-parere-preventivo-della-cedu-e-il-diritto-vivente-italiano-in-materia-di-maternita-surrogata-un-conflitto-inesistente-o-un-conflitto-mal-risolto-dalla-corte-di-cassazione-di-gabriella-luccioli; v. anche G. Armone, La gestazione per altri: nuovo appuntamento davanti alla Corte costituzionale, in https://www.questionegiustizia.it/articolo/la-gestazione-per-altri-nuovo-appuntamento-davanti-alla-corte-costituzionale_22-05-2020.php

    [29] Su questo punto, V. R. Conti, Il parere preventivo della Corte Edu (post-Prot. 16) in tema di maternità surrogata, in https://www.questionegiustizia.it/articolo/il-parere-preventivo-della-corte-edu-post-prot-16-in-tema-di-maternita-surrogata_28-05-2019.php

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