Giustizia insieme, all'indomani dell'editoriale pubblicato il 12 ottobre scorso - L’estremo saluto al Protocollo
n.16 annesso alla CEDU - ha attivato un cantiere sul futuro del Protocollo n.16 aperto a studiosi e giuristi, volto a raccogliere opinioni plurali.
Il dibattito si apre, oggi, con uno scritto di Antonio Ruggeri.
Protocollo 16: funere mersit acerbo?
di Antonio Ruggeri
Sommario: 1. La miopia istituzionale resa palese dalla decisione assunta alla Camera di non dare seguito all’esame della discussione sul disegno di legge volto a recepire il prot. 16, le ascendenze di teoria della Costituzione e del potere costituente di cui danno testimonianza atteggiamenti ispirati ad un nazionalismo costituzionale ingenuo ed infecondo, le aporie di costruzione disvelate dalla giurisprudenza costituzionale relativa al posto detenuto in ambito interno dalla CEDU e dalle altre Carte, nonché ai rapporti che esse intrattengono con la Costituzione – 2. Il timore infondato che l’ingresso del protocollo entro le mura della cittadella dello Stato, come il cavallo di Troia, porti a soffocarne la sovranità, frutto di una distorta accezione di quest’ultima, mentre tutt’all’inverso la stessa sovranità, rettamente intesa, può averne non poco beneficio – 3. L’intreccio delle Carte e la questione, alquanto complessa, relativa all’ordine giusto col quale mettere in campo le varie specie di pregiudizialità – 4. La pregiudizialità convenzionale quale strumento utile alla conoscenza ed alla salvaguardia della identità costituzionale.
1. La miopia istituzionale resa palese dalla decisione assunta alla Camera di non dare seguito all’esame della discussione sul disegno di legge volto a recepire il prot. 16, le ascendenze di teoria della Costituzione e del potere costituente di cui danno testimonianza atteggiamenti ispirati ad un nazionalismo costituzionale ingenuo ed infecondo, le aporie di costruzione disvelate dalla giurisprudenza costituzionale relativa al posto detenuto in ambito interno dalla CEDU e dalle altre Carte, nonché ai rapporti che esse intrattengono con la Costituzione
Improprio forse evocare il titolo della nota poesia carducciana per riassumere ed emblematicamente rappresentare l’esito toccato in sorte al prot. 16, se non appunto per lo struggente rimpianto per ciò che avrebbe potuto essere e che non è stato e non sarà. Il figlioletto del poeta era, infatti, comunque venuto alla luce e, sia pure per un breve arco temporale, aveva allietato l’esistenza dell’illustre genitore, a differenza del protocollo che – è da temere – la luce stessa non vedrà (salva una ad oggi poco probabile resipiscenza dei decisori di turno), diversamente da altri ordinamenti nei quali ha trovato accoglienza e nei quali potrà dunque crescere sano e forte, grazie alla lungimiranza di coloro che in essi hanno avuto (ed hanno) responsabilità di governo, intuendone il benefico potenziale espressivo[1]. E, invero, afflitta da grave miopia (per non dire, cecità) politico-istituzionale, un autentico boomerang, appare essere la decisione adottata qualche mese addietro dalle Commissioni II e III della Camera di non dare seguito all’esame del protocollo in parola[2], frutto – a me pare – della mancata consapevolezza delle implicazioni che potrebbero aversene non soltanto per ciò che attiene alla ottimale implementazione dei diritti riconosciuti dalla CEDU – ciò che, com’è chiaro, è già di per sé produttivo di effetti di considerevole rilievo – ma, come tenterò di mostrare, anche in ordine ai rapporti tra diritto interno e diritto dell’Unione, laddove potrebbe registrarsi un grave pregiudizio a carico dei diritti riconosciuti dalla Carta di Nizza-Strasburgo. Ancora più a fondo, poi, conseguenze negative di non poco conto potrebbero aversi per gli stessi diritti previsti dalla Costituzione, con riguardo al loro modo di comporsi in “sistema” e di farsi complessivamente valere al meglio di sé alle condizioni oggettive di contesto.
Questa, infatti, senza alcuna enfasi o esasperata rappresentazione, la posta in gioco. E, invero, il riferimento al “sistema” non sembri esagerato o, come che sia, improprio, ove si convenga a riguardo del fatto che, nel presente contesto segnato da una integrazione sovranazionale avanzata e che si porta comunque avanti, pur se a fatica e in modo non lineare e alquanto sofferto, nonché da vincoli discendenti dalla Comunità internazionale viepiù intensi e pressanti, non è più possibile seguitare a proporre antichi schemi teorico-ricostruttivi elaborati al tempo in cui lo Stato nazionale aveva raggiunto il suo massimo fulgore, schemi nei quali si rispecchiava ed emblematicamente rappresentava l’idea di un ordinamento autosufficiente, chiuso in sé e per sé, indisponibile a soggiacere a limiti all’esercizio dei propri poteri sovrani al di fuori di quelli dallo stesso acconsentiti. Perfettamente in linea con questa antica credenza era, poi, l’immagine mitica o sacrale di Costituzione al tempo invalsa e largamente diffusa, frutto immediato e genuino dell’idea di un potere costituente onnipotente, che rinveniva unicamente in se stesso la giustificazione della propria esistenza.
Ormai da tempo, però, specie a seguito della fine della seconda grande guerra e dell’avvento delle nuove Carte costituzionali, questo scenario e l’apparato teorico che ne dà la descrizione non sono più – com’è di tutta evidenza – proponibili. Eppure, per la forza d’inerzia che è propria di talune raffinate ricostruzioni teoriche, perfettamente aderenti alla realtà che ne ha determinato l’affermazione, ancora oggi gli schemi suddetti sempre più stancamente si trascinano e seguitano ad essere tralaticiamente ripetuti, malgrado il contesto di riferimento non li supporti più e reclami con vigore il loro corposo adattamento o, diciamo pure, la sostituzione con altri schemi fedeli ad una realtà ormai profondamente cambiata. Non è, d’altronde, per mero accidente che un’accreditata dottrina da qualche anno a questa parte abbia avvertito il bisogno di prendere le distanze dalla teoria del potere costituente onnipotente[3], per quanto per vero di fatti costituenti si abbiano ancora oggi non pochi riscontri, nel mentre anche l’Europa non sembra riuscire a restarne immune[4]. Per la mia parte, da tempo[5] mi sono fatto portatore dell’idea di una Costituzione (e di un ordinamento costituzionale) “intercostituzionale”, per significare e rimarcare il senso complessivo, profondo, dell’apertura della Costituzione stessa e dell’intero ordinamento alla Comunità internazionale e ad organizzazioni che in essa vedano la luce (tra le quali, ovviamente, le Comunità europee prima ed ora l’Unione), a beneficio delle quali prendono corpo e si giustificano limitazioni della sovranità in funzione della salvaguardia della pace e della giustizia tra le nazioni, secondo la pregnante indicazione assiologico-normativa dell’art. 11.
Ora, l’apertura è, in primo luogo – per ciò che è qui di specifico interesse –, ad altri documenti materialmente (o – come li ha qualificati la Consulta in una sua discussa e discutibile pronunzia, la 269 del 2017 – “tipicamente”) costituzionali, le Carte dei diritti, tra le quali, oltre alla Carta dell’Unione e, ancora prima di questa, la CEDU. Un’apertura – tengo qui nuovamente a precisare – di certo non incondizionata ma, all’inverso, subordinata a quello che in altri luoghi ho qualificato come un autentico “metaprincipio”, che è dato dalla ricerca della massimizzazione della tutela dei diritti in gioco in occasione delle singole vicende processuali e, per ciò stesso, della ottimale combinazione dei principi fondamentali, della fissazione cioè del punto più elevato possibile, in ragione dei casi, del loro congiunto appagamento, del loro fare “sistema” insomma[6].
“Intercostituzionale”, nel senso appena detto, essendo la Costituzione, “sistema di sistemi” non può, dunque, che essere quello che prende forma ed incessantemente si rinnova per il fatto stesso della crescente integrazione interordinamentale in corso. Una integrazione, certo, ad oggi immatura, incompiuta, gravata da perduranti tensioni e non rimosse contraddizioni e che, tuttavia, già in parte c’è e sarebbe pertanto mistificatorio ignorarne la esistenza e la consistenza, gli effetti di primo momento ad essa conseguenti.
Ora, questa integrazione ha, appunto, la sua massima espressione – come si è qui pure rammentato – al piano delle Carte e del loro ottimale utilizzo per la risoluzione dei casi della vita, in ispecie di quelli maggiormente spinosi e complessi, portati alla cognizione dei giudici. Ne è avvertita da tempo la stessa giurisprudenza costituzionale che ne ha dato una sintetica ma concettualmente densa rappresentazione in una pronunzia, la n. 388 del 1999, cui ho più volte fatto richiamo nelle mie riflessioni in tema di diritti e di rapporti interordinamentali, laddove si riconosce il bisogno della mutua integrazione di tutte le Carte (Costituzione inclusa) nella interpretazione. Una formula pregnante e gravida di implicazioni a mia opinione ad oggi solo in parte esplorate, che nondimeno evoca lo scenario di un paritario confronto tra le Carte, di una sana competizione che tra le stesse ogni volta si rinnova in ragione dei casi, nell’intento di offrire quanto di più e di meglio ciascuna di esse ha da dare, concorrendo tutte assieme ad innalzare fin dove possibile la tutela dei diritti in campo, allo stesso tempo rigenerandosi ed alimentandosi a vicenda senza sosta.
Fa a pugni con la felice intuizione racchiusa nella pronunzia suddetta, per un verso, l’affermazione nella stessa rinvenibile secondo cui la Costituzione, in ogni caso, non offrirebbe mai ai diritti una tutela meno intensa di quella risultante dalle altre Carte, contraddetta peraltro dal carattere “sussidiario” che ogni Carta riconosce a se stessa, intendendo valere sub condicione: sempre che, cioè, la tutela stessa risulti maggiormente avanzata ed adeguata ai peculiari connotati dei casi rispetto a quella discendente dalle altre Carte. Un riconoscimento che – come si sa – si ha per tabulas nella CEDU e nella Carta dell’Unione ma che – come si è tentato di argomentare in altri luoghi – è insito nello stesso art. 11, nel suo fare “sistema” con gli artt. 2 e 3 e i principi fondamentali restanti, ove si convenga a riguardo del fatto che i valori di libertà ed eguaglianza compongono quella che a me piace chiamare la coppia assiologica fondamentale dell’ordinamento, in nome dei quali si giustificano le limitazioni di sovranità suddette e dai quali ogni altro principio fondamentale costantemente si alimenta[7]. Libertà ed eguaglianza, infatti, al pari peraltro di ogni altro valore, tendono incessantemente e vigorosamente alla propria massima affermazione possibile, in ragione delle condizioni complessive di contesto; ed è chiaro che nulla può escludere che ab extra venga ai diritti di volta in volta in campo un appagamento ancora maggiore di quello che è loro dato in ambito interno, a partire dalla stessa Costituzione: nulla, se non appunto – se posso esprimermi con cruda franchezza – la presunzione o, diciamo pure, la vera e propria superbia, alimentata da un nazionalismo costituzionale ingenuo ed esasperato, di chi assiomaticamente reputi in ogni caso inarrivabili le garanzie offerte ai diritti nell’ordinamento di appartenenza rispetto a quelle che possono aversi da fuori. Non si dimentichi al riguardo che il Trattato dell’Unione, nel fare obbligo a quest’ultima di prestare osservanza non soltanto alle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri ma anche a quelle proprie di ciascuno Stato, quali risultanti dai suoi principi di struttura (art. 4.2), ribadisce per ciò solo il vigore di quel “metaprincipio” della massimizzazione della tutela, cui si faceva poc’anzi cenno, e, con esso, la natura “sussidiaria” della Carta della stessa Unione.
Per un altro verso, fa poi a pugni con l’affermazione della mutua integrazione delle Carte la loro supposta subordinazione gerarchica nei confronti della Costituzione: ai soli principi fondamentali di quest’ultima, quanto alla Carta eurounitaria; ad ogni norma, invece, quanto alla Convenzione (ed è da ritenere ad ogni altra Carta), giusta la qualifica di fonte “subcostituzionale” datane con le famose sentenze “gemelle” del 2007. Una qualifica – come si sa – ad oggi tenuta ferma, pur in presenza di talune oscillazioni anche vistose dei successivi sviluppi giurisprudenziali, senza che peraltro si riesca a capire (quanto meno non riesce a me di capire) come sia mai possibile immaginare una sistemazione siffatta quando di tutte le Carte si riconosca in partenza la comune natura di documenti materialmente costituzionali[8]. Non si trascuri, poi, che l’ordine gerarchico suddetto è dalla stessa Carta dell’Unione ripudiato nel momento in cui pretende di essere intesa e fatta valere alla luce della Convenzione, salva la eventualità che l’una porti ad un innalzamento della tutela dei diritti rispetto a quella discendente dall’altra. Un dato, questo, al quale – come si dirà tra non molto – occorre prestare la massima attenzione.
Il vero è che la Corte delle leggi sembra farsi portatrice di una certa visione di stampo prevalentemente formale-astratto al piano della teoria delle fonti, emblematicamente rappresentato nella sistemazione suddetta, e, di contro, di una visione di ordine assiologico-sostanziale a quello della teoria della interpretazione, non avvedendosi tuttavia della impossibilità della loro reductio ad unum o, come che sia, della composizione in un quadro metodico-teorico internamente coerente e rispondente alle condizioni oggettive di contesto. E il vero è che l’una teoria seguita a risentire pesantemente dell’influenza degli antichi schemi forgiati al tempo dello Stato nazionale, così come lo è l’idea azzardata e non vigilata, sopra già riferita, secondo cui la nostra Carta non temerebbe mai, in alcun caso, il confronto con gli altri documenti costituzionali della sua stessa natura, comunque in tesi (una tesi appunto assiomaticamente affermata ma non dimostrata né dimostrabile) giudicati meno avanzati della prima quanto all’attitudine a dare appagamento ai diritti.
Ora, poiché le Carte vivono per il modo con cui è ad esse data voce dalle Corti che se ne fanno garanti, è evidente che il punto naturale, obbligato, di riferimento al fine della “misurazione” e dell’apprezzamento in concreto del “metaprincipio” suddetto non può che essere dato dagli indirizzi giurisprudenziali per il cui tramite il diritto vigente si converte e risolve nell’esperienza, si fa – come suol dirsi – “diritto vivente”. Ed è qui che, dunque, avrebbe potuto (o, magari, un domani potrebbe…) entrare in gioco il meccanismo previsto dal prot. 16 e che, perciò, acquista rilevante, negativo rilievo la decisione presa alla Camera di stralciarne l’esame dall’articolato di base, circoscrivendolo al solo prot. 15.
2. Il timore infondato che l’ingresso del protocollo entro le mura della cittadella dello Stato, come il cavallo di Troia, porti a soffocarne la sovranità, frutto di una distorta accezione di quest’ultima, mentre tutt’all’inverso la stessa sovranità, rettamente intesa, può averne non poco beneficio
La domanda che subito viene spontaneo porsi, anche in considerazione del carattere soft della previsione del meccanismo suddetto, in cui – come si sa – è prefigurata una mera consultazione della Corte europea senza alcun vincolo di seguito per l’autorità giudiziaria interpellante, è cosa mai osti all’ingresso e, quindi, al possibile utilizzo dello strumento in parola, quali rischi o inconvenienti cioè possano aversene per gli operatori e l’ordinamento interno nella sua interezza. Né – com’è chiaro – è la stessa cosa che fare riferimento alla giurisprudenza europea, comunque bisognosa di essere tenuta presente, quanto meno – a dire della Consulta – laddove espressiva di indirizzi “consolidati”[9]. Altro è infatti l’utilità, innegabile, che può venire dallo spoglio della giurisprudenza pregressa (sempre che, naturalmente, vi sia in relazione ai peculiari connotati del caso…) ed altro avere una risposta diretta e mirata riguardante le complessive esigenze di una vicenda processuale data sulla quale si solleciti appunto una esplicita presa di posizione del giudice di Strasburgo. Non si trascuri, poi, che lo strumento in parola può rivelarsi una risorsa preziosa anche per il caso che l’iniziativa del giudice nazionale solleciti il ripensamento di un precedente punto di vista espresso dalla Corte europea (in sede consultiva ovvero giurisdizionale), magari corredando la domanda con la velata prospettazione della possibile denunzia della norma convenzionale vivente davanti al giudice costituzionale per incompatibilità rispetto alla nostra Carta: né più né meno – come si vede – dello schema fatto valere sul versante dei rapporti con la Corte dell’Unione in Taricco.
Ed allora, tornando alla domanda sopra posta, si teme forse che l’ingresso del protocollo 16 entro le mura della cittadella statale sia come quello del cavallo di Troia che porti ad espugnarla, soffocando la sovranità dello Stato?
Se le cose dovessero stare così come sono qui ipotizzate, quella data alla Camera sarebbe una tangibile, pessima testimonianza di un nazionalismo costituzionale ancora assai duro da rimuovere o – se posso esprimermi in modo franco – di un autentico crampo mentale che offusca e distorce la lineare ricostruzione dei rapporti tra le Corti e le Carte di cui le prime sono garanti.
Tutt’all’inverso di ciò che potrebbe ad una prima (ma erronea) impressione sembrare, la sovranità dello Stato, una volta rettamente intesa, può averne un guadagno dalla messa in atto del meccanismo suddetto e, con essa, l’insieme dei valori fondamentali dell’ordinamento, a partire proprio da quelli di libertà ed eguaglianza.
Sulla sovranità, infatti, occorre una buona volta fare chiarezza.
Intesa, in linea con una inveterata e radicata tradizione teorica, quale summa di poteri di comando idonei a manifestarsi nei riguardi di individui, gruppi, enti, la sovranità non può più considerarsi “piena” o, diciamo pure, tale e quale era un tempo immaginata e con enfasi rappresentata, tanto al piano delle relazioni che lo Stato intreccia in seno alla Comunità internazionale ed all’Unione europea quanto a quello dei rapporti di diritto interno.
Non al primo, laddove – piaccia o no (ed ai nazionalisti ad oltranza, ovviamente, non piace) – è giocoforza riconoscere che, in un mondo sempre più globalizzato, i vincoli discendenti ab extra a carico dello Stato si fanno viepiù intensi e penetranti, alle volte senza che se ne abbia neppure consapevolezza. Così, è sufficiente, ad es., una presa di posizione delle agenzie di rating per mettere in moto processi politico-economici imprevedibili e dagli effetti talora incontenibili. Non vale, dunque, opporre che i vincoli stessi sarebbero il frutto di un’autolimitazione della sovranità, come pure la lettera dell’art. 11 farebbe intendere e come parrebbe avvalorato dai meccanismi costituzionalmente previsti allo scopo di dare ingresso alle norme della Comunità internazionale. L’esempio sopra fatto parla, infatti, da solo, rendendo testimonianza di come talune misure di ordine politico-economico poste “liberamente” in essere dagli organi nazionali della direzione politica siano, a conti fatti, lo sbocco inevitabile di una pressione formidabile esercitata dall’alto. Certo, i decisori di turno potranno stabilire quali provvedimenti adottare per far fronte alla crisi, ma la loro adozione risulta comunque un fatto obbligato[10].
Quanto poi ai rapporti (ieri con le Comunità europee ed oggi) con l’Unione, come si è altrove rilevato, è venuto a delinearsi ed a prendere forma, sia pure per vero non poco confusa, uno scenario connotato da una “sovranità condivisa”, secondo riparti mobili di competenze varî da un campo materiale all’altro e, per uno stesso campo, nel tempo, alla luce di quanto stabilito nei Trattati e, soprattutto, alla luce di talune tendenze, alle volte dagli stessi devianti, impostesi a forza nell’esperienza. Tentare di fare chiarezza al riguardo è un’impresa davvero improba, comunque di tutta evidenza qui neppure avviabile, richiedendo analisi plurime ed approfondite per ciascun campo e proiettate nel tempo. Quel che è certo, ad ogni buon conto, è che, per un verso, i vincoli a carico dello Stato discendenti dall’Unione si fanno vieppiù pressanti ed incisivi[11], nel mentre, per un altro verso, né l’Unione né i singoli Stati possono dirsi pleno iure sovrani, ancora di più poi se le relazioni tra gli stessi sono fatte oggetto di studio non tanto inter se quanto nel più ampio scenario delle relazioni internazionali, dal momento che eventi significativi che dovessero venire alla luce anche fuori del teatro europeo lasciano poi un segno ora più ed ora meno marcato sugli indirizzi politici adottati sia dall’Unione ut sic sia dai singoli Stati che vi appartengono.
Sul fronte interno, poi, contrariamente ad una inveterata e ad oggi radicata credenza, sovrano, nell’antica accezione del termine, non può ormai più dirsi lo Stato nei rapporti che intrattiene con gli individui e gli enti in genere (territoriali e non) in esso operanti[12]. Non lo è secondo Costituzione, che – secundum verba – appunta la sovranità in capo al popolo, e non lo è neppure secondo esperienza, tanto più poi se gli svolgimenti di quest’ultima si rivedono alla luce delle relazioni di diritto esterno sopra evocate che – come si faceva poc’anzi notare – lasciano comunque un segno marcato nelle scelte d’indirizzo politico man mano adottate.
Non lo è per il primo aspetto, dal momento che, per la sua tradizionale accezione di stampo soggettivo, dovrebbe semmai dirsi che sovrana sia la Repubblica nella sua interezza, quale risulta dagli enti menzionati nell’art. 114[13], tutti infatti dotati di poteri di comando nei riguardi di individui, gruppi, enti: una Repubblica, peraltro, che – com’è da molti e da tempo rilevato – si fa ed incessantemente rinnova “dal basso”, a partire cioè proprio dagli enti maggiormente vicini al cittadino. E tuttavia – qui è il punto di cruciale rilievo su cui occorre fermare particolarmente l’attenzione – la stessa Repubblica veramente e fino in fondo sovrana non è, per la elementare ragione che essa riceve i poteri di cui è dotata dalla Costituzione che ne stabilisce forme e limiti di espressione.
Come si è altrove osservato, per l’aspetto storico-politico, non v’è dubbio alcuno che la Repubblica sia venuta prima della Costituzione e, per ciò stesso, in un certo senso l’abbia “fondata”. Per l’aspetto giuridico-positivo, però, una volta venuta alla luce la Costituzione si legittima da sé e, legittimandosi, giustifica o fonda che dir si voglia e pertanto limita la stessa Repubblica da cui pure è nata.
Ora, poiché l’essenza della Costituzione, ciò che ne dà i tratti maggiormente espressivi, l’identità costituzionale appunto, risulta dai principi fondamentali (e, risalendo, dai valori pregiuridici ai quali i primi danno voce, esprimendoli nel modo più genuino, diretto, qualificante), se ne ha che – secondo la pregnante indicazione teorica di un’accreditata dottrina[14] – occorre “desoggettivizzare” la sovranità, apprezzandosene il significato e le complessive valenze in prospettiva assiologico-oggettiva. La “sovranità dei valori” – come ha incisivamente rilevato, riassumendola in una formula assai efficace, la dottrina cui si fa ora riferimento – è, dunque, la ricetta giusta per la ricostruzione del concetto ora in esame, congrua ad uno Stato costituzionale che è nato (ed intende seguitare ad essere ed a trasmettersi anche alla generazioni che verranno) per far implementare al proprio interno e concorrere a diffondere anche fuori di sé i valori di libertà, eguaglianza, democrazia, giustizia sociale e, in ultima istanza, dignità della persona umana, che tutti in sé li ricomprende e riassume ed in funzione della cui salvaguardia i valori stessi si sono affermati e sono stati fatti propri dalla nostra al pari delle altre Carte dei diritti.
È in questo scenario, qui molto sommariamente rappresentato, che si può, a mia opinione, cogliere il senso profondo delle relazioni in genere tra le Corti e, con esso, quello racchiuso nel meccanismo di cooperazione tra di esse qui di specifico rilievo.
La domanda sopra posta allora deve riproporsi nei termini seguenti: la sovranità dei valori fondamentali, in ispecie appunto di quelli veicolati dalla coppia assiologica di libertà ed eguaglianza, può soffrire una incisione o, all’inverso, ricevere beneficio dalla introduzione del meccanismo suddetto? Il che, poi, vale come chiedersi: l’ottimale tutela dei diritti si ha se le Corti nazionali si chiudono a riccio in se stesse non intessendo, laddove gliene sia offerta l’opportunità, un dialogo assiduo e diffuso ai più varî ambiti materiali con la Corte di Strasburgo ovvero la si ha rendendosi disponibili al dialogo stesso e giovandosene alla bisogna?
Ebbene, non ho esitazione alcuna ad optare per il secondo corno dell’alternativa che, alla luce delle cose fin qui dette, porta naturalmente a concludere che, limitandosi in modo accorto la “sovranità dei poteri”, può crescere e fiorire la “sovranità dei valori”, sempre e solo al servizio della dignità della persona. E ciò, poi, tanto più se si considera che – come si è sopra rammentato – le indicazioni venute da Strasburgo risultano pur sempre suscettibili di essere “filtrate” alla luce del canone fondamentale della massimizzazione della tutela, senza peraltro trascurare la circostanza, dietro già evocata, per cui agli indirizzi di cui la Corte europea si fa portatrice va riconosciuto rilievo unicamente se “consolidati” e ferma, in astratto, la possibilità (che, nondimeno, giudico assai remota) di ricorrere avverso le norme convenzionali “viventi” alla Consulta perché le devitalizzi (a mezzo del collaudato ingranaggio della caducazione della legge di esecuzione “nella parte in cui…”)[15].
È, poi, pur vero che il parere reso dalla Corte di Strasburgo risulta dotato di una innegabile, non secondaria forza persuasiva, se non pure autenticamente prescrittiva, ove si consideri che – come si è altrove rilevato[16] – a suo sostegno soccorre il sempre possibile ricorso esperibile davanti alla stessa Corte in sede giurisdizionale avverso le decisioni dei giudici che se ne siano discostati. Questo dato, nondimeno, non toglie che si dia una differenza strutturale, di fondo, tra la pronunzia resa nell’una veste (consultiva) e quella adottata nell’altra (giurisdizionale) e che, ad ogni buon conto, come si diceva poc’anzi, la richiesta del parere può dar modo al giudice nazionale di sollecitare correttivi di rotta al giudice europeo. E poi – è da chiedersi – perché non dare il giusto rilievo alla circostanza per cui, grazie a un uso adeguato dello strumento di cooperazione previsto dal prot. 16, si possono contenere, anche in considerevole misura, i casi di ricorso in via giurisdizionale alla Corte europea? Prevenire una lesione della Convenzione non è forse meglio che averne la repressione quando si è ormai consumata?
Il rilievo da ultimo fatto smentisce un autentico leit motiv diffusamente circolante[17] secondo cui l’attivazione dello strumento in parola comporterebbe un allungamento dei tempi di maturazione delle vicende processuali, con un costo evidente per l’amministrazione della giustizia e i diritti di coloro che ne mettono in moto la macchina.
Il primo rilievo – come si è appena veduto – si confuta da sé e l’inconveniente da esso messo a nudo è comunque altamente compensato dall’abbassamento del numero delle controversie giudiziarie che è ragionevole attendersi grazie ad un uso congruo dello strumento suddetto.
Il secondo, poi, non tiene conto di un dato elementare, esso pure di tutta evidenza, vale a dire che i diritti hanno tutto da guadagnare dall’interpello della Corte europea, mentre privare i giudici nazionali degli elementi di conoscenza che la Corte stessa è in grado di offrire fa correre – come si è venuti dicendo – rischi di non poco conto, specificamente per il caso che si travisi il senso complessivo degli enunciati della Convenzione o se ne dia una riduttiva lettura, con conseguente impoverimento del patrimonio dei diritti in essi riconosciuti e pregiudizio di una loro efficace tutela.
3. L’intreccio delle Carte e la questione, alquanto complessa, relativa all’ordine giusto col quale mettere in campo le varie specie di pregiudizialità
Si accennava all’inizio di questa succinta esposizione dell’intreccio sempre più fitto di cui si ha riscontro al piano dei rapporti tra le Corti, in ispecie di quelli che si intrattengono tra i giudici nazionali e la Corte dell’Unione per un verso, la Corte di Strasburgo per un altro.
Ebbene, delle pronunzie emesse in sede consultiva da quest’ultima può non poco giovarsi anche il giudice eurounitario, ad es. nei casi in cui ne sia sollecitata la discesa in campo per il tramite del rinvio pregiudiziale. D’altronde, sappiamo che nel somministrare le sue letture della Carta di Nizza-Strasburgo (con riflessi, dopo la 20 del 2019, anche per le norme di diritto derivato ad essa “connesse”[18]) il giudice lussemburghese è tenuto a tenere nel dovuto conto la CEDU e, perciò, le letture che di quest’ultima prendono forma a Strasburgo, sciogliendosi dal vincolo da esse discendente unicamente laddove reputi che dalla prima Carta si abbia una protezione accresciuta rispetto a quella offerta dalla seconda.
Piuttosto, con riguardo al modo di operare del giudice nazionale è da chiedersi quale sia la via opportuna da battere nei casi in cui tutte le Carte si trovino simultaneamente in gioco.
Preliminarmente va rammentato che il meccanismo predisposto dal prot. 16 è attivabile unicamente per mano dei giudici di ultima istanza, fermo restando ovviamente che tutti gli operatori di giustizia possono (e devono) poi avvalersi dalle risposte date dalla Corte europea. Non sto qui a discutere se questa soluzione riduttiva (e, forse, francamente asfittica) sia giustificata e quale potrebbero esserne i costi, oltre quello immediatamente visibile del sovraccarico di lavoro per la Corte, unitamente però ai sicuri benefici, conseguenti all’eventuale allargamento all’intera platea dei giudici nazionali della cerchia degli organi abilitati a fare uso dello strumento introdotto dal protocollo. Si tratta, infatti, di un discorso ozioso, praticamente improduttivo di alcun effetto e non giova, pertanto, seguitare ad occuparsene in questa sede.
Quanto ai giudici che invece possono avvalersene, è da chiedersi se convenga dare la precedenza al rinvio pregiudiziale alla Corte dell’Unione ovvero alla richiesta della consultazione della Corte di Strasburgo o, ancora, se sia preferibile adire subito la Consulta, laddove si sospetti la simultanea violazione di tutte le Carte.
Come si sa, la Consulta si è dichiarata dell’avviso che, in caso di doppia pregiudizialità, “comunitaria” (rectius, eurounitaria) e costituzionale a un tempo, sia opportuno dare la priorità temporale alla seconda. Una precedenza che però – come si è tentato di mostrare in altri luoghi – non tiene conto, a tacer d’altro, della circostanza per cui solo dopo aver interpellato la Corte lussemburghese il giudice nazionale può in non pochi casi sapere se la violazione della Carta dell’Unione (o di altra fonte ad essa “connessa”) si abbia davvero e, perciò, se ricorrano le condizioni oggettive di una doppia pregiudizialità[19].
Coi dovuti adattamenti, questa obiezione resiste anche per il caso nostro, non potendosi molte volte stabilire con sicurezza se si dia una violazione della Convenzione senza che si sia previamente acquisito il punto di vista della Corte europea. Tutt’all’inverso, dunque, di quanto paventato da un’accreditata dottrina[20] dichiaratasi contraria alla ricezione del protocollo a motivo, tra l’altro, del fatto che se ne avrebbe una menomazione delle competenze della Corte costituzionale e del Parlamento, le notazioni appena svolte avvalorano piuttosto l’idea che tanto il legislatore quanto il giudice delle leggi non possano che averne un guadagno sia per il caso che si lamenti a sproposito una lesione (insussistente) della Convenzione e sia pure nel caso che la lesione davvero si abbia, dalle indicazioni fornite dal giudice europeo venendo comunque utili elementi per la normazione futura e l’attività di giudizio. E ciò, non foss’altro che per il fatto che si rende possibile fugare il rischio di pericolosi fraintendimenti del dettato della Convenzione, cui nondimeno occorre pur sempre prestare osservanza.
Si aggiunga che lo stesso rinvio pregiudiziale al giudice lussemburghese potrebbe trarre non poco giovamento dal previo interpello della Corte di Strasburgo, in considerazione del fatto, dietro già rilevato, che la Carta dell’Unione richiede di essere intesa alla luce della Convenzione stessa; e non è chi non veda come sia di estremo interesse stabilire se la Corte di giustizia abbia, o no, fatto (e faccia) buon uso dei canoni interpretativi che è tenuta ad osservare, in ispecie orientando la lettura della Carta stessa verso la CEDU.
Insomma, a me pare che, così come si dà una naturale, seppur non obbligata, precedenza della pregiudizialità eurounitaria rispetto a quella costituzionale, parimenti la pregiudizialità convenzionale – se così vogliamo etichettare, con una certa approssimazione, l’interpello in via consultiva della Corte di Strasburgo – dovrebbe precedere tanto quella eurounitaria quanto (e più ancora) quella costituzionale.
Sta di fatto che, alla luce delle indicazioni ad oggi date dalla giurisprudenza costituzionale, ogni determinazione circa l’ordine temporale con cui far luogo all’interpello delle Corti è rimessa – come si sa – all’esclusivo apprezzamento del giudice nazionale che dovrà farsene carico, con la non secondaria avvertenza che, mentre il rinvio pregiudiziale e la rimessione di questioni di costituzionalità sono nella disponibilità di ogni operatore di giustizia, l’interpello della Corte di Strasburgo – come si rammentava poc’anzi – compete alle sole autorità di ultima istanza. È pertanto incombente il rischio che un uso malaccorto degli strumenti di cui le autorità stesse dispongono si riveli poi non rimediabile per il caso che si sia nel frattempo prodotta la cosa giudicata[21].
4. La pregiudizialità convenzionale quale strumento utile alla conoscenza ed alla salvaguardia della identità costituzionale
La “pregiudizialità” convenzionale può, poi, tornare non poco utile (tanto più – come si diceva – laddove messa in atto in via prioritaria) non soltanto al fine di avere lumi circa il significato degli enunciati della CEDU ma, per ciò stesso, anche per intendere nel modo giusto gli stessi enunciati della Costituzione. Dopo le cose fin qui dette, non occorre spendere molte parole a dimostrazione di quest’assunto sul quale nondimeno giova, in conclusione, fermare rapidamente l’attenzione. È sufficiente, infatti, tornare alla preziosa intuizione espressa nella già richiamata sent. n. 388 del 1999 secondo cui tutte le Carte s’immettono in uno stesso circolo interpretativo, rigenerandosi a vicenda, per avere conferma del fatto che le letture delle rispettive Carte fornite dalle Corti europee possono, opportunamente considerate, giovare ad alimentare incessantemente e in rilevante misura i processi interpretativi della nostra legge fondamentale in ambito interno, presso ogni sede istituzionale in cui s’impiantano e svolgono. Anche a prescindere dai casi di doppia pregiudizialità, eurounitaria o convenzionale che sia, la presentazione di molte questioni di costituzionalità “secche” potrebbe, infatti, essere prevenuta in partenza proprio grazie ad una rilettura della Costituzione illuminata ed orientata da alcune indicazioni provenienti ab extra. È pur vero tuttavia (ed onestà intellettuale impone che se ne dia atto) che anche i ricorsi alla Consulta possono in talune circostanze tornare utili, specie laddove diano modo al giudice costituzionale di avvalersi in prima persona degli strumenti di rinvio pregiudiziale (in larga accezione), di cui si è venuti dicendo, per formulare in modo adeguato questioni alle Corti europee e magari – perché no? – sollecitarne la revisione e complessiva messa a punto di precedenti orientamenti giudicati incompatibili con le indicazioni della Costituzione (ancora una volta, Taricco docet).
Spetta, in ultima istanza, come si diceva, pur sempre ai giudici comuni – i punti di partenza e d’arrivo di ogni vicenda processuale concernente i diritti – reggere saldamente in mano il timone della barca, specie laddove il mare si presenti minaccioso (fuor di metafora la questione davanti ad essi pendente sia particolarmente complessa e spinosa), pilotandola con consumata abilità verso un approdo sicuro.
Ciò che, nondimeno, preme qui mettere maggiormente in evidenza è che, proprio grazie alla rigenerazione semantica di cui beneficia la Costituzione per effetto del supporto venutole dalle altre Carte nel loro farsi “diritto vivente” e con le quali fa “sistema”, possono aversi indicazioni preziose per la opportuna chiarificazione e salvaguardia della identità costituzionale, quale risultante in prospettiva assiologicamente orientata dall’insieme dei fini-valori fondamentali dell’ordinamento cui la Costituzione stessa dà voce. È un punto, questo, di cruciale rilievo, sul quale ho già avuto modo d’intrattenermi altrove e che perciò non giova ora nuovamente toccare[22].
Quel che è certo, in conclusione, è che lo strumento di cooperazione inventato dal protocollo non giova soltanto (e già solo per ciò meriterebbe di far parte della dotazione di cui i giudici dispongono) al fine della più ampia diffusione ed efficace implementazione dei diritti riconosciuti dalla Convenzione ma anche – come si è tentato di mostrare – di quelli di cui alla Carta di Nizza-Strasburgo ed alla stessa Costituzione (e, in generale, ad ogni altra Carta avente vigore in ambito interno), al fine dunque della ottimale conoscenza e salvaguardia di… noi stessi, della nostra identità appunto.
Si riuscirà, dunque, a rimediare alla miopia di cui hanno dato mostra i parlamentari non proseguendo l’esame del protocollo? In fondo, si tratta solo di dotarsi delle lenti giuste per riuscire a vedere con chiarezza la realtà che ci circonda ed anche – come si è veduto – di vedere meglio dentro noi stessi.
[1] Le ragioni che depongono a favore della ricezione del protocollo in ambito interno sono state con chiarezza illustrate dalla più avvertita dottrina [di recente, R.G. Conti, Il Protocollo di dialogo fra Alte corti italiane, Csm e Corte Edu a confronto con il Protocollo n. 16 annesso alla Cedu. Due prospettive forse inscindibili, in Quest. giust. (www.questionegiustizia.it), 30 gennaio 2019, e, dello stesso, Chi ha paura del protocollo 16 – e perché?, in Sist. pen. (www.sistemapenale.it), 27 dicembre 2019; v., inoltre, con varietà di accenti ed argomenti, l’intervista dello stesso Conti in Giustizia insieme (www.giustiziainsieme.it) a M. Castellaneta, A. Di Stasi e A. Tancredi, su La CEDU e l’Accademia europeista-internazionalista, 23 gennaio 2020, e quella a P. Biavati, G. Costantino ed E. D’Alessandro su La CEDU e i processualcivilisti, 6 febbraio 2020; altri riferimenti in I. Anrò, Il Protocollo n. 16 alla CEDU in vigore dal 1° agosto 2018: un nuovo strumento per il dialogo tra Corti?, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2019, 189 ss., e, se si vuole, nel mio Sliding doors per la “doppia pregiudizialità” (traendo spunto da Corte App. Napoli, I Unità Sez. lav., 18 settembre 2019, in causa n. 2784 del 2018, XY c. Balga), in Giustizia insieme (www.giustiziainsieme.it), 25 maggio 2020, nonché in Dir. comp. (www.diritticomparati.it), Working paper, 1/2020, 1 giugno 2020. Con riguardo alle implicazioni di ordine istituzionale che potrebbero aversene, v., poi, C. Masciotta, Il Protocollo n. 16 alla CEDU alla prova dell’applicazione concreta e le possibili ripercussioni sull’ordinamento italiano, in Dir. pubbl. comp. eur., 1/2020, 183 ss., e, in prospettiva comparata, L. Pierdominici, Genesi e circolazione di uno strumento dialogico: il rinvio pregiudiziale nel diritto comparato sovranazionale, in Federalismi (www.federalismi.it), 20/2020, 24 giugno 2020, 226 ss. Riserve e critiche di vario segno sono, invece, venute da G. Cerrina Feroni, Il disegno di legge relativo alla ratifica dei Protocolli 15 e 16 recanti emendamenti alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, in Federalismi (www.federalismi.it), 5/2019, 6 marzo 2019; M. Luciani, Note critiche sui disegni di legge per l’autorizzazione alla ratifica dei Protocolli n. 15 e n. 16 della CEDU, in Sist. pen. (www.sistemapenale.it), 27 novembre 2019; F. Vari, Sulla (eventuale) ratifica dei Protocolli n. 15 e 16 alla CEDU, in Dir. fond. (www.dirittifondamentali.it), 13 novembre 2019; nella stessa Rivista, M. Esposito, I d.d.l. di ratifica del Protocollo 16 della CEDU: un altro caso di revisione costituzionale per legge ordinaria?, 2/2019, 30 dicembre 2019; G. Zampetti, Ordinamento costituzionale e Protocollo n. 16 alla CEDU: un quadro problematico, in Federalismi (www.federalismi.it), Focus Human Rights, 3/2020, 5 febbraio 2020, 157 ss.].
[2] Ne dà conto, con giusta preoccupazione, l’Editoriale a Giustizia insieme (www.giustiziainsieme.it), 12 ottobre 2020, dal titolo L’estremo saluto al Protocollo n. 16 annesso alla CEDU.
[3] … ormai giudicato “esaurito” (M. Luciani, Il voto e la democrazia. La questione delle riforme elettorali in Italia, Roma 1991, 8 s. e passim, e, dello stesso, L’antisovrano e la crisi delle costituzioni, in Riv. dir. cost., 1996, 124 ss., spec. 136 ss.; U. Allegretti, Il problema dei limiti sostanziali all’innovazione costituzionale, in AA.VV., Cambiare costituzione o modificare la Costituzione?, a cura di E. Ripepe e R. Romboli, Torino 1995, 29; M. Dogliani, Potere costituente e revisione costituzionale, in Quad. cost., 1995, 7 ss.).
[4] Inquietanti alcune vicende in corso, specie per i loro temibili prossimi sviluppi. Così, in particolare, per ciò che concerne la condizione di palese sofferenza in cui versa l’indipendenza dei giudici in alcuni Paesi dell’Est europeo che sembravano essere stati recuperati a pieno alla democrazia a seguito degli eventi maturati dopo la caduta del muro di Berlino e il crollo dell’egemonia sovietica.
[5] … a partire da Sovranità dello Stato e sovranità sovranazionale, attraverso i diritti umani, e le prospettive di un diritto europeo “intercostituzionale”, in Dir. pubbl. comp. ed eur., 2/2001, 544 ss.
[6] Il canone fondamentale in parola è stato fatto oggetto di una critica serrata da parte di un’accreditata dottrina [part., R. Bin, in più scritti, tra i quali Critica della teoria dei diritti, FrancoAngeli, Milano 2018, spec. 63 ss., ma passim; Cose e idee. Per un consolidamento della teoria delle fonti, in Dir. cost., 1/2019, 11 ss., spec. 21 ss.; Sul ruolo della Corte costituzionale. Riflessioni in margine ad un recente scritto di Andrea Morrone, in Quad. cost., 4/2019, 757 ss., spec. 764 e nt. 15; Intervista su Giudice e giudici nell’Italia postmoderna?, a cura di R.G. Conti, in Giustizia insieme (www.giustiziainsieme.it), 10 aprile 2019], ai cui argomenti mi sono sforzato di replicare nei miei Intervista, sopra cit.; Tecniche decisorie dei giudici e “forza normativa” della Carta di Nizza-Strasburgo, in Forum di Quad. cost. (www.forumcostituzionale.it), 8 aprile 2020, e La Carta di Nizza-Strasburgo nel sistema costituzionale europeo, in Riv. AIC (www.rivistaaic.it), 3/2020, 10 luglio 2020, 130 ss. V., inoltre, A. Randazzo, Il “metaprincipio” della massimizzazione della tutela dei diritti, in Dir. fond. (www.dirittifondamentali.it), 2/2020, 10 giugno 2020, 689 ss.; I. Anrò, Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e CEDU: dieci anni di convivenza, in Federalismi (www.federalismi.it), 19/2020, 17 giugno 2020, 109 ss.; F. Donati, Tutela dei diritti e certezza del diritto, in Lo Stato, 14/2020, 49 ss., spec. 67 s., e, da ultimo, C. Caruso, Granital reloaded o di una «precisazione» nel solco della continuità, in Giustizia insieme (www.giustiziainsieme.it), 19 ottobre 2020.
[7] Ha, con opportuni rilievi, messo in evidenza le mutue implicazioni che s’intrattengono tra i valori suddetti e la funzione complessiva da essi assolta in alcune delle più salienti esperienze istituzionali G. Silvestri, Dal potere ai principi. Libertà ed eguaglianza nel costituzionalismo contemporaneo, Laterza, Roma-Bari 2009.
[8] Per la verità, il riconoscimento in parola è esplicito nella 269 del 2017 unicamente per la Carta di Nizza-Strasburgo; è, però, chiaro che ciò si deve al fatto che nella circostanza aveva rilievo la Carta stessa e che, dunque, esso non può non valere altresì per altre Carte ad essa accomunate per natura e funzione.
[9] Un filtro, questo, di cui per vero si fatica a comprendere quale possa esserne il fondamento e la ratio, perché mai ad es. dovrebbe valere per le pronunzie della Corte di Strasburgo e non pure per quelle della Corte lussemburghese, o, meglio, non valere per nessuna delle due. Di tutto ciò, nondimeno, in altri luoghi.
[10] È come per le leggi costituzionalmente obbligatorie o imposte, che devono appunto esservi pur risultando dotate dei contenuti più varî.
[11] Ne dà limpida testimonianza ciò che si ha ogni anno al momento del varo della manovra finanziaria (particolarmente sofferta – come si ricorderà – la vicenda del dicembre 2018, in occasione della quale sono “saltate” le regole, costituzionali e non, concernenti la formazione delle leggi ed ha preso corpo una complessiva torsione istituzionale davanti alla quale la Consulta, adita da esponenti della opposizione del tempo, ha chiuso un occhio e, forse, tutti e due, con la ord. n. 17 del 2019). E ne dà altresì testimonianza la circostanza per cui, nel momento in cui la crisi economica si è fatta particolarmente acuta, molti Governi dell’eurozona, tra i quali il nostro a guida Berlusconi, sono stati costretti a gettare la spugna, ancorché provvisti della fiducia parlamentare: a conferma del fatto che – come vado dicendo da tempo – i Governi stessi soggiacciono ormai – piaccia o no – a plurime “fiducie” (dei Parlamenti e, soprattutto, dei partners europei e dei mercati internazionali), trovandosi pertanto obbligati a rassegnare le dimissioni una volta che ne siano rimasti privi.
[12] Maggiori ragguagli sulla tesi qui succintamente richiamata possono, volendo, aversi dai miei Il valore di “unità-autonomia” quale fondamento e limite dei giudizi in via d’azione e della “specializzazione” dell’autonomia regionale (prime notazioni), in Riv. Gruppo di Pisa (www.gruppodipisa.it), 3/2020, 28 settembre 2020, 100 ss., e Autonomia e unità-indivisibilità della Repubblica: il modello costituzionale alla prova dell’emergenza, in Dir. fond. (www.dirittifondamentali.it), 3/2020, 18 ottobre 2020, 132 ss.
[13] Sull’idea di Repubblica, per tutti, v. E. Di Carpegna Brivio, Il concetto di Repubblica nella Costituzione italiana, Giuffrè, Milano 2015.
[14] Il riferimento è alla nota tesi di G. Silvestri, La parabola della sovranità. Ascesa, declino e trasfigurazione di un concetto, in Riv. dir. cost., 1996, 3 ss., che ha animato un fitto e ad oggi ininterrotto dibattito [ex plurimis, L. Ventura, Sovranità. Da J. Bodin alla crisi dello Stato sociale, Giappichelli, Torino 2014, 55 ss.; E. Castorina - C. Nicolosi, “Sovranità dei valori” e sviluppo della tutela dei diritti fondamentali: note sull’evoluzione della giurisprudenza statunitense, in Forum di Quad. cost. (www.forumcostituzionale.it), 19 novembre 2015, nonché in Scritti in onore di G. Silvestri, I, Giappichelli, Torino 2016, 519 ss. e, pure ivi, II, G. Gemma, Riflessioni sul pensiero di Silvestri in tema di sovranità, 1068 ss.; A. Morrone, Sovranità, in Riv. AIC (www.rivistaaic.it), 3/2017, 2 agosto 2017, 92 s., e, pure ivi, C. Salazar, Territorio, confini, “spazio”: coordinate per una mappatura essenziale, 8, e A. Spadaro, Dalla “sovranità” monistica all’“equilibrio” pluralistico di legittimazioni del potere nello Stato costituzionale contemporaneo, 2 s. Infine, O. Chessa, Dentro il Leviatano. Stato, sovranità e rappresentanza, Mimesis, Milano-Udine 2019, spec. 310 ss.].
[15] Il giudice costituzionale, peraltro, farà verosimilmente di tutto per evitare il deprecabile e traumatico esito della caducazione della norma impugnata, attingendo al corposo armamentario tecnico ed argomentativo di cui dispone. Così, ad es., potrà evocare in campo la “dottrina” dell’indirizzo “consolidato” che – come si è qui pure rammentato – spiana una via di fuga dallo scontro frontale con Strasburgo oppure potrà avvalersi dello strumento apprestato dal prot. 16 (che, in tal modo, si conferma essere assai utile) per sollecitare un mutamento d’indirizzo da parte della Corte europea, e via dicendo.
[16] Il rilievo è affacciato nel mio Ragionando sui possibili sviluppi dei rapporti tra le Corti europee e i giudici nazionali (con specifico riguardo all’adesione dell’Unione alla CEDU e all’entrata in vigore del prot. 16), in Riv. AIC (www.rivistaaic.it), 1/2014, 7 febbraio 2014, spec. al § 3, ed è quindi stato ripreso da R. Romboli, Corte di giustizia e giudici nazionali: il rinvio pregiudiziale come strumento di dialogo, nella stessa Rivista, 3/2014, 12 settembre 2014, e, più di recente, da G. Cerrina Feroni, Il disegno di legge relativo alla ratifica dei Protocolli 15 e 16 recanti emendamenti alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, cit., 7, e F. Vari, Sulla (eventuale) ratifica dei Protocolli n. 15 e 16 alla CEDU, cit., 6 s.
[17] V., nuovamente, gli scritti, dietro citt. in nt. 1, della dottrina dichiaratasi contraria alla ricezione del protocollo.
[18] Ad oggi in attesa di chiarificazione da parte della giurisprudenza il concetto di “connessione” in parola, nelle sue specifiche applicazioni ai rapporti tra la Carta dell’Unione e la disciplina normativa che ad essa si raccorda, diversamente da ciò che si è avuto per altre esperienze (come, ad es., quanto alla insindacabilità dei parlamentari) sulle quali la giurisprudenza è tornata molte volte a pronunziarsi ed ha pertanto avuto modo di mettere adeguatamente a fuoco il concetto in parola. Non ho dubbi, ad ogni buon conto, in merito al suo carattere “plurale”, come tale idoneo a caricarsi di peculiari significati in ragione dei campi materiali sui quali si radica e manifesta.
[19] Se n’è avuta, ancora non molto tempo addietro, conferma in un caso che ha fatto molto discutere, laddove si è avuta appunto riprova della inammissibilità del rinvio alla Corte dell’Unione, trattandosi a giudizio di quest’ultima di questione ricadente in ambito materiale estraneo alla Carta di Nizza-Strasburgo (nella circostanza, si trattava della proposizione congiunta di una questione di costituzionalità e di una domanda in via pregiudiziale da parte della Corte d’Appello di Napoli, quindi dichiarata – come si diceva – irricevibile da Corte giust., VII Sez., ord. del 4 giugno 2020).
[20] M. Luciani, Note critiche sui disegni di legge per l’autorizzazione alla ratifica dei Protocolli n. 15 e n. 16 della CEDU, cit.; G. Cerrina Feroni, Il disegno di legge relativo alla ratifica dei Protocolli 15 e 16 recanti emendamenti alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, cit.; F. Vari, Sulla (eventuale) ratifica dei Protocolli n. 15 e 16 alla CEDU, cit., 5 ss.
[21] … fatti salvi, ovviamente, i casi di possibile revisione del processo e salvo altresì il sempre possibile esperimento di un conflitto tra poteri davanti alla Consulta avverso le stesse decisioni giudiziarie non altrimenti impugnabili.
[22] Rimando, perciò, al mio Protocollo 16 e identità costituzionale, in Dir. comp. (www.diritticomparati.it), 1/2020, 5 gennaio 2020, 213 ss.