Mettere i bambini al centro delle decisioni utilizzando le norme che già prevedono la necessità di iscrivere alla nascita i due genitori che hanno messo al mondo il bambino. È questo il senso di un documento sottoscritto da 276 giuristi - docenti universitari, giudici, avvocati - mobilitati nel giro di poche ore per chiedere che il dibattito esca dalle pastoie della polemica politica e del pregiudizio e torni a basarsi su una attenta analisi dei dati giuridici.
Il monito al legislatore espresso dalla Corte Costituzionale nel 2021 perché intervenisse senza indugio a colmare il vuoto di tutela dei bambini nati da coppie omosessuali è caduto nel vuoto e, anzi, il mancato intervento della Consulta viene utilizzato oggi in modo strumentale per sottoporre questi bambini e le persone lgtbi+ ad un duro attacco, ricacciando questi bambini e una intera comunità indietro nel tempo.
Il documento sottoscritto da alcuni dei più insigni cultori della materia della famiglia e della filiazione propone un’attenta riflessione condotta sulle norme vigenti, con una stringente critica dei principali argomenti giuridici spesi, anche in alcune sentenze, al fine di negare protezione sin dalla nascita ai bambini e alle bambine nati da due mamme. L’istituto dell’adozione in casi particolari si muove in una prospettiva squisitamente adultocentrica, perché consente all’adulto di decidere se adottare o meno (peraltro con i noti problemi in termini di tempi ed effetti), ma non assicura la piena protezione del bambino alla nascita, come accade a chi viene al mondo con identica PMA eterologa da genitori eterosessuali. La circostanza che secondo la prima sezione Cedu non vi sia violazione della Convenzione non esime dalla ricerca della soluzione più giusta secondo il diritto nazionale vigente. L’analisi del quadro normativo attuale conduce dunque ad un invito all'esercizio della giurisdizione al fine di prevenire una pesante discriminazione dei bambini nati da due mamme.
Il documento vede fra i firmatari alcuni degli studiosi più noti del diritto di famiglia e della filiazione, come Vincenzo Barba, Gilda Ferrando, Leonardo Lenti, Maria Rosaria Marella, Pina Palmeri (che è anche una delle promotrici del documento), Salvatore Patti, Ugo Salanitro, Marica Venuti, Paolo Zatti, oltre che giudici di cassazione, tanti giudici di merito e notissimi giuristi di vari campi del diritto del calibro di Marzia Barbera, Thomas Casadei, Giovanni Comandè, Emilio Dolcini, Elena Malfatti, Marco Pellissero, Francesca Poggi, Paolo Ridola, Paolo Veronesi.
Pina Palmeri (ordinaria di diritto privato, Università di Palermo), Marco Gattuso (giudice Tribunale Bologna)
Il diritto stia dalla parte dei bambini e delle bambine
Le persone lgbti+ e le loro famiglie sono oggetto di un duro attacco che non può che suscitare allarme e malessere in quanti hanno a cuore i valori dell’uguaglianza e della non discriminazione. È un attacco rivolto, in nome di una presunta volontà della maggioranza, contro persone inermi, discriminate per le loro qualità e identità personali. L’offensiva in questi mesi si rovescia con particolare violenza sui soggetti più deboli fra tutti: i bambini e le bambine con genitori dello stesso sesso.
Anche in ambito giuridico visioni affette da un malcelato pregiudizio nei confronti delle persone omosessuali e delle loro famiglie conducono a letture poco condivisibili dei dati tecnico-giuridici, entro cui sarebbe invece necessario confinare il dibattito.
Quali studiosi e operatori, studiose e operatrici del diritto siamo convinti che sia compito della cultura giuridica ricomporre al più presto il quadro delle tutele alla luce di una attenta e severa ricostruzione sistematica e tecnica. Mentre la questione della protezione di chi nasce da gestazione per altre e altri (da coppie eterosessuali e, in minor misura, omosessuali) ha avuto maggiore attenzione seppure con esiti ancora incerti e insoddisfacenti, siamo convinti che sia tuttora poco approfondito il dibattito sulla protezione dei bambini e delle bambine nate da due mamme, le quali intraprendono normalmente un percorso di procreazione medicalmente assistita (PMA) con donazione di seme maschile, in tutto identico a quello delle coppie eterosessuali.
A tale riguardo, dobbiamo evidenziare come la discussione sia minata da una lettura spesso imprecisa delle disposizioni della legge 40 che regolano la protezione alla nascita di tutti i nati e le nate con tecniche di PMA.
In particolare rileviamo che:
- Non è corretto assumere che la condizione di chi viene messo al mondo da due mamme sia regolata dalla norma della legge 40 che impedisce alle coppie di donne di accedere alla PMA, poiché la regola sullo status dei bambini e delle bambine è stabilita in una differente disposizione della medesima legge (Disposizioni concernenti la tutela del Nascituro) che prevede che i bambini nati da PMA sono figli “della coppia” che ha deciso di accedere a tale tecnica. Mentre il divieto concerne le condotte degli adulti, le norme sulla tutela del nascituro si pongono nella prospettiva della protezione del minore, non riguardando il divieto le vicende successive al compimento degli atti di PMA.
– I divieti contenuti nella legge 40, infatti, non si estendono – né potrebbero estendersi – alla fase che segue il compimento della condotta sanzionata, non potendo i figli subire conseguenze negative per gli atti posti in essere dai genitori, e ciò in base ad un principio divenuto cardine nel nostro ordinamento.
– Non è vero che la disposizione per cui i nati sono figli della “coppia” che ha voluto la loro nascita non possa applicarsi a chi ha due madri, posto che la legge parla di “coppia” senza ulteriori specificazioni e che la parola “coppia” denota comunemente, nel diritto italiano e in quello europeo, sia le coppie eterosessuali che quelle omosessuali.
– Non è vero che questa disposizione possa essere applicata solo a chi esegue la PMA secondo le regole di accesso vigenti in Italia, poiché il complesso delle norme “a tutela del nascituro” è stato previsto proprio per chi ricorreva all’estero a tecniche, come la PMA eterologa, che la stessa legge 40 vietava (e la Cassazione difatti l’ha ritenuta regola generale applicabile anche in caso di violazione dei presupposti per l’accesso alla PMA, ad es. in caso di PMA post mortem).
– Non è vero che nonostante l’univoco dato letterale della disposizione, i giudici dovrebbero darne una interpretazione restrittiva perché una interpretazione letterale sarebbe eccentrica rispetto al sistema e perché contrasterebbe con il “modello” di famiglia tradizionale, atteso che compito dei giudici non è la difesa ideologica dei “modelli”, ma l’applicazione delle disposizioni vigenti che prevedono la protezione in concreto dei bambini e delle bambine sin dalla loro nascita.
– Non è vero, in particolare, che la tutela dei bambini e delle bambine secondo le disposizioni previste dalla legge 40 introdurrebbe un diverso, incompatibile, “modello” di procreazione, atteso che la legge 40, seppure fondata in origine sul dogma del necessario rapporto genetico fra genitori e figli, sicché vietava la PMA eterologa, si preoccupava comunque di proteggere i nati anche in assenza di tale rapporto senza che ciò, nell’intenzione del legislatore, desse luogo ad un insanabile conflitto con il “modello” tradizionale.
– Non è vero che il compito di provvedere alla tutela dei nati spetta al legislatore, sicché interpretando la norma i giudici non ne rispetterebbero le prerogative, perché lo Stato di diritto impone che in ogni caso di inerzia del legislatore sia comunque affidata alla giurisdizione la salvaguardia dei diritti fondamentali dei minori, dei soggetti deboli, degli appartenenti a minoranze.
– Non è comunque vero che sia ragionevole considerare preferibile per i minori la famiglia tradizionale composta da uomo e donna, in quanto assicurerebbe al minore “migliori condizioni di partenza”, poiché tali affermazioni sono in aperto contrasto con quanto accertato da decenni dalla scienza ufficiale.
– Non è vero, in particolare, che i giudici debbano muoversi in questa materia sulla base di un principio di precauzione, posto che da diversi decenni gli statements ufficiali rilasciati dalle associazioni di psicologi, pediatri, psichiatri e psicanalisti del mondo occidentale continuano ad affermare che la crescita sana dei bambini e delle bambine non è legata all’orientamento sessuale dei genitori ma alle loro capacità di accudimento ed è provato che tali capacità si rinvengono in pari modo fra le coppie eterosessuali e omosessuali. Ne consegue che è precluso ai giudici di non dare conto nelle loro decisioni di tale quadro scientifico, poiché in caso contrario la decisione, come affermato dalla Cassazione sin dal 2013, finirebbe per essere fondata su un “pregiudizio”.
– È dunque da escludere che il benessere del minore possa essere valutato tenendo conto delle opinioni maggioritarie nel paese e non del contributo della scienza.
– Non è peraltro neppure vero, in ogni caso, che la decisione dipende da una diversa valutazione dell’interesse del minore, posto che comunque la si pensi il bambino e la bambina resteranno nella loro famiglia, sicché non è qui in gioco un giudizio sulle coppie omosessuali, ma il manifesto e indiscusso interesse del bambino ad essere pienamente protetto nell’ambito delle sue relazioni familiari, come già sottolineato dalla Corte costituzionale.
– È giuridicamente errato sostenere che la legge Cirinnà avrebbe escluso l’applicabilità della disposizione sulla protezione dei nati da PMA alle coppie dello stesso sesso, perché l’unica esclusione contenuta in tale legge riguarda le norme del codice civile e la legge sulle adozioni: fuori da tali eccezioni la legge Cirinnà, invece, impone senz’altro l’equiparazione.
– Non è giuridicamente corretto affermare che si possa negare ai bambini e alle bambine addirittura il riconoscimento alla nascita del rapporto con la loro mamma genetica, atteso che appare priva di fondamento e piuttosto sorprendente l’affermazione per cui il legame genetico non avrebbe alcuna rilevanza nel nostro ordinamento nel rapporto fra madre e figlio, sicché, in buona sostanza, il dna avrebbe rilevanza giuridica solo per gli uomini ma sarebbe del tutto irrilevante per le donne. A tale riguardo l’affermazione della totale irrilevanza del dato genetico per la genitorialità femminile (erroneamente desunta dalla rilevanza che certamente assume il legame gestazionale) è affermazione del tutto nuova e inusitata nel mondo del diritto (non si conoscono né precedenti giurisprudenziali né indirizzi dottrinari, in Italia e nel mondo in tal senso) che tradisce, ancora una volta, l’intento di rendere invisibile la specificità femminile in ambito procreativo ed insieme la volontà di continuare ad esercitare sul corpo delle donne un forte potere di “disciplinamento”.
– Non è vero che la lettura che nega l’efficacia dei certificati che riconoscono la responsabilità genitoriale alla nascita del genitore d’intenzione sia compatibile con il diritto europeo, perché i figli di due genitori dello stesso sesso una volta varcato il confine italiano rischiano d’essere privati di un genitore, in evidente violazione, tra gli altri, del loro diritto alla libertà di circolazione in ambito Ue.
– Non è vero che l’adozione in casi particolari è rimedio sufficiente, perché l’adozione è subordinata alla volontà dell’adulto, mentre la legge 40 impone la protezione dei nati anche quando non vi sia tale volontà. L’adozione, difatti, presuppone necessariamente una istanza dell’adottante, mentre il dispositivo di cui alla legge 40 è diretto a inchiodare il genitore intenzionale alla sua responsabilità genitoriale in ragione del consenso prestato alla PMA.
Siamo convinti che il continuo richiamo ai “modelli” di famiglia e al “diritto dell’adulto” di adottare (peraltro assicurato con i noti limiti rispetto ai tempi e agli effetti), tradisca una logica che permane schiettamente adultocentrica e che sostanzialmente ignora o comunque sottovaluta le esigenze e la stessa identità personale dei bambini e delle bambine.
Non assume al riguardo rilievo dirimente la recente decisione della prima sezione della Corte di Strasburgo che in composizione ristretta ha ritenuto che l’Italia non abbia superato l’ampia discrezionalità di cui disponeva rispetto all’attuazione dei mezzi per stabilire o riconoscere la filiazione. La Corte si è limitata a rilevare la mancata violazione della Convenzione in questi casi concreti (che non riguardavano ipotesi di rifiuto del genitore intenzionale di riconoscere o adottare il bambino), ma non ha affrontato la diversa questione della interpretazione del diritto interno, che non le compete. Un Paese che, come il nostro, gode di una forte e solida tradizione giuridica e costituzionale, non deve attestarsi al livello più basso di protezione dei diritti fondamentali consentito dall’ampio margine di apprezzamento riconosciuto in questa materia, dovendo l’Italia ambire ad una esegesi delle proprie norme interne che non l’allontani dal novero di quegli ordinamenti con cui condivide una affine civiltà giuridica.
Il nostro quadro legislativo consente ed anzi impone di porre il bambino al centro della decisione e di dargli piena tutela sin dalla nascita. In mancanza di una riforma, è dunque indispensabile che la giurisprudenza assicuri la corretta applicazione delle norme esistenti a tutti i bambini senza pregiudizi e condizionamenti dovuti ai modi in cui si può nascere e/o all’orientamento sessuale dei genitori.
Non è superfluo segnalare come anche nell’opinione pubblica si manifesti una sempre maggiore consapevolezza e solidarietà nei confronti delle coppie lgbti+ e dei loro bambini. In ogni caso, anche se così non fosse va sottolineato con forza che quando i dubbi espressi da una parte dell’opinione pubblica appaiono privi di razionale base giuridica e scientifica, e quando ci si inizia a mobilitare contro i diritti dei soggetti più deboli, in uno Stato di diritto è più che mai compito della giurisdizione assicurare che ogni persona, specie se è particolarmente vulnerabile e indifesa come un bambino o una bambina, non subisca alcuna discriminazione.