Sommario: 1. Come per Sacco e Vanzetti – 2. Il primo maggio in Italia – 3. L’ultimo primo maggio di guerra – 4. Dopoguerra, un primo maggio in Sicilia – 5. Primo maggio, oggi.
Si dice bonariamente che la mamma va festeggiata tutto l’anno, non in un giorno solo di maggio. Con meno trasporto sentimentale, ma più raziocinio, dovremmo dire la stessa cosa per la categoria dei lavoratori. Magari in questo modo sarebbe più difficile dimenticare le questioni irrisolte della loro precarietà, della povertà dei salari (in Italia vantiamo il record europeo), delle morti sul lavoro (1.090 i decessi denunciati all’INAIL nel 2024, 4,7% in più dell’anno precedente; 138 nei primi due mesi del 2025, 16% in più dello stesso bimestre del 2024).
Col suo carico simbolico, in un Paese in cui la progressiva polarizzazione si nutre dell’indifferenza e dell’inettitudine all’indignazione e alla vergogna, il primo maggio è divenuta nel tempo festa sempre più divisiva, come se la parola “lavoro” non ricorresse in tutti i testi costituzionali d’Europa e, tra questi, nell’art. 1 del nostro.
Proviamo almeno a fare un po’ di storia, dunque, per ricordare le radici della festa.
1. Come per Sacco e Vanzetti
Negli Stati Uniti la festa dei lavoratori cade il primo lunedì di settembre. Eppure, la scelta invece della ricorrenza il primo maggio, da parte di 26 Paesi europei e numerose altre nazioni mondiali, risale a un evento verificatosi a Chicago, al culmine di uno sciopero generale, con lo scoppio di una bomba ad Haymarket square, di cui furono accusati quattro anarchici.
Nella seconda metà dell’Ottocento, nel pieno della rivoluzione industriale americana, si stavano susseguendo le manifestazioni per i diritti degli operai delle fabbriche, indette dai “Knights of Labor”, i Cavalieri del lavoro. Nel 1866 fu approvata in Illinois, la prima legge delle otto ore lavorative giornaliere, che entrò in vigore l’1 maggio dell’anno successivo. Per lo stesso giorno del 1866 venne proclamato uno sciopero, poiché le organizzazioni sindacali ritenevano che, dopo diciannove anni, fossero ormai maturati i tempi per estendere a tutti gli Stati uniti la legge sulle otto ore. Negli anni precedenti altre grandi manifestazioni si erano tenute in diversi centri, con alcuni episodi violenti.
L’epicentro delle manifestazioni del primo maggio 1886 fu ancora Chicago, Illinois, dove ben presto la polizia intervenne a reprimere la protesta, sparando sui dimostranti radunatisi intorno alla fabbrica di macchine agricole Mc Cormick e uccidendo due persone.
Nei giorni seguenti gli scontri proseguirono ininterrotti, finché il 4 maggio gli anarchici si sostituirono alla federazione sindacale con un’adunanza di protesta contro la violenza della polizia nella piazza del mercato di Chicago. Da una traversa fu lanciata una bomba – si accerterà poi che si trattava di dinamite – che provocò la morte di sei poliziotti e il ferimento di decine di presenti.
Le forze dell’ordine reagirono sparando sui manifestanti. Il numero complessivo delle vittime della giornata resterà per sempre ignoto. Quali autori dell’attentato, dopo un rapido processo, il 20 agosto 1987 furono condannati otto anarchici, sette dei quali alla pena capitale. Per due di loro, di origine germanica, l’intervento di cancellerie europee indurrà il Governo americano a commutare la pena nell’ergastolo. Gli altri cinque saranno invece impiccati a Chicago l’11 novembre.
Quarant’anni dopo, toccherà ad altri due anarchici, Ferdinando Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, acquisire fama universale per la condanna a morte inflitta dalla giustizia americana.
Non c’era internet e le notizie arrivavano oltreoceano giorni, se non settimane dopo. Ciò nonostante i fatti di Haymarket square ebbero in breve una tale risonanza da indurre i Governi europei ad adottare misure preventive per l’ordine pubblico. Il cancelliere Otto Von Bismarck vietò in tutta la Germania manifestazioni di sostegno agli anarchici e al socialismo.
L’eco internazionale e le pressioni sindacali spinsero lo stesso presidente USA Grover Cleveland a proclamare già nel 1987 il primo maggio come festa nazionale. Per scongiurare il rischio che l’iniziativa consolidasse la credibilità delle forze socialiste, dopo l’iniziale commemorazione dei tragici eventi di Chicago il presidente pensò di dedicare la festa per gli anni seguenti ai Cavalieri del lavoro.
Il 14 luglio del 1889 l’assemblea dei partiti laburisti e socialisti europei, fondando a Parigi la Seconda internazionale, come suo primo atto proclamò il primo maggio giornata internazionale dei lavoratori.
2. Il primo maggio in Italia
La prima reazione per i fatti di Chicago nel nostro Paese si registra a Livorno, dove la cittadinanza si mobilita scendendo nelle strade: prima si dirige verso il porto, dove sono ancorate le navi statunitensi, tentando di darvi l’assalto, poi alla Questura, dove si diceva si fosse rifugiato il console.
Nel 1890 si hanno le prime manifestazioni per il primo maggio[1], ma solo l’anno dopo l’evento viene ufficializzato.
La festa si celebrerà per trentadue anni. Nel 1923 il fascismo la anticipa al 21 aprile, in coincidenza con il “Natale di Roma”. Con regio decreto-legge n. 833/23 si stabilisce infatti che tutti gli accordi tra industriali e operai per la “giornata di vacanza” del primo maggio avrebbero trovato applicazione il 21 aprile, vale a dire due giorni dopo la pubblicazione del decreto (!).
Scatta di conseguenza la repressione contro i tentativi delle organizzazioni dei lavoratori di celebrare la festività originaria. Vengono eseguite decine di arresti di manifestanti. Ancora l’anno dopo, però, molti operai continueranno ad astenersi dal lavoro il primo maggio. Mettendo a repentaglio la propria libertà in tanti cercano così di salvare una ricorrenza gravida di significati[2].
Nel 1946 il Governo De Gasperi ripristinerà la celebrazione che tre anni dopo verrà inserita tra le festività nazionali.
3. L’ultimo primo maggio di guerra
Per molti lavoratori dell’industria del nord Italia il primo maggio 1944 sarebbe stato l’ultimo. Il Natale di Roma non si festeggiava già più, ma la mera condizione di operai specializzati stava per mettere in pericolo la loro esistenza.
Il 16 giugno, infatti, a Genova gli occupanti tedeschi, coadiuvati dai fascisti della RSI, compiono una retata inattesa, che coinvolge circa 1.500 uomini, lavoratori di Siac, San Giorgio, Piaggio e Cantiere navale Ansaldo. Il rastrellamento si estende ad altri operai liguri e del triangolo industriale. Da tempo essi stavano boicottando, con scioperi, proteste o azioni di danneggiamento, la produzione destinata a favorire la causa tedesca. Il nazifascismo trova dunque un facile pretesto per porre in essere un atto repressivo che ha però una finalità essenzialmente economica: reperire manodopera per il Reich che vada a rimpiazzare i vuoti determinati nel sistema produttivo tedesco soprattutto dal fabbisogno di crescenti contingenti di uomini da inviare sul fronte orientale della guerra.
Nei lager della Germania, come ad esempio il famigerato Mauthausen, gli operai trovano condizioni di vita simili, anche se meno assassine, di quelle dei deportati per ragioni razziali. Essi sono divenuti schiavi degli aguzzini tedeschi, votati solo al servizio del Fuhrer.
Ricorda in proposito Francesco Rossi: “Lavoravo nello stabilimento Stejer di Linz ed ero detenuto nel lager di Haid. La sveglia ogni mattina era alle tre. Nel tempo di quindici minuti occorreva essere pronti e veniva distribuita una gamella con un po’ di acqua calda ed una fettina di pane nero, circa 15 grammi per tutta la giornata. Quindi venivamo incolonnati e condotti sotto scorta ad attendere l’arrivo del treno che ci trasportava a Linz. A volte l’attesa del treno durava ore in un freddo glaciale, perché quello adibito per i deportati doveva dare la precedenza al trasporto delle truppe o dei civili. Alla stazione di Linz sempre incolonnati raggiungevamo la fabbrica, riorganizzata e sistemata in un gran numero di gallerie sotterranee. Nei vari reparti si lavorava dodici ore con un intervallo di mezz’ora in cui veniva consumata una brodaglia di rape. A sera tra le 18 e le 19 veniva ripetuto il tragitto contrario. Per lo più accadeva che il treno dei deportati non venisse neppure formato, per cui il ritorno al lager doveva essere fatto a piedi lungo il terrapieno della ferrovia. Ci si trascinava per oltre due ore e talvolta per le nevicate si giungeva alle baracche oltre la mezzanotte”[3].
Per alcuni deportati non ci sarà ritorno in Italia. Chi di loro sopravviverà rientrerà tra fine maggio e agosto 1945, non di rado in condizioni tali da renderlo inabile al lavoro. Ad alcuni, quali i dipendenti della San Giorgio, l’azienda riconoscerà una specie di cassa integrazione. Altri resteranno disoccupati.
La storia di quanti fecero Resistenza militante nelle fabbriche del Nord italiano, pagando per questo, è ancora misconosciuta. Anche per loro è la festa del primo di maggio.
4. Dopoguerra, un primo maggio in Sicilia
Sono circa 2.000 i lavoratori, per la gran parte contadini, che nel 1947 si riuniscono nella piana di Portella della Ginestra, a Piana degli Albanesi, per celebrare la festa dei lavoratori del primo maggio. V’è da festeggiare anche la vittoria alle elezioni regionali del 20 aprile del Fronte Popolare, l’alleanza PCI-PSI, che ha nel suo programma l’abolizione del latifondismo e la distribuzione delle terre ai braccianti.
Un calzolaio di San Giuseppe Jato, Giacomo Schirò, è il segretario della locale sezione socialista. Sta intrattenendo la folla, in attesa degli oratori ufficiali, quando un gruppo di persone armate sopraggiunte inizia a sparare sulla folla dei presenti. La fuga non è immediata, perché i manifestanti scambiano per qualche secondo i colpi di arma da fuoco con quelli dei mortaretti. Si accerterà tempo dopo che in realtà gli autori avevano utilizzato armi da guerra; erano attrezzati, dunque, per una vera azione militare, avviata con un lancio iniziale di granate volto a disperdere le frange dell’adunanza più esterne.
La strage di Portella della Ginestra è cruenta: muoiono dodici persone; ventotto restano ferite, alcune mortalmente.
Il 2 ottobre 1948 Salvatore Giuliano, con una lettera inviata a L’Unità, attribuisce la responsabilità a sé e alla sua banda, dandole uno scopo politico e alludendo a propri rapporti con noti esponenti politici, tra cui Mario Scelba. La lettera ha uno scopo evidente: è l’avviso dell’esecutore ai mandanti che non lo si sarebbe potuto mettere a tacere facilmente.
Nel frattempo Giuliano alza il livello della tensione, con nuovi attentati compiuti nel territorio palermitano. Il culmine si registra a Bellolampo il 19 agosto 1949: mentre una quindicina di uomini della banda assedia la caserma locale dei Carabinieri, allora alle porte del capoluogo, una camionetta che sta accorrendo a rinforzo, con diciotto militi a bordo, salta su una mina che era stata piazzata in contrada Passo di Rigano: ne muoiono sette, mentre gli altri undici rimangono feriti.
Il tempo per il bandito Giuliano, però, sta ormai scadendo. Diversi suoi uomini defezionano; altri vengono arrestati.
Il 5 luglio Giuliano viene ritrovato morto nel cortile dello studio di un avvocato a Castelvetrano, vittima – dirà il Ministero dell’interno – di uno scontro a fuoco coi Carabinieri. La versione ufficiale, piena di incongruenze, cozza con quella ufficiosa, secondo cui sarebbe stato il suo luogotenente Gaspare Pisciotta a ucciderlo, una volta passato dalla parte dello Stato. Pisciotta non arriverà mai rendere una testimonianza definitiva sull’accaduto, poiché il 9 febbraio 1954 viene avvelenato, bevendo un caffè con la stricnina.
La strage del primo maggio a Portella della Ginestra s’inserisce pertanto tra i misteri d’Italia, non tanto sulla dinamica e gli autori materiali, quanto sull’identità dei veri mandanti.
5. Primo maggio, oggi
Portella della Ginestra è l’ultimo evento drammatico di rilievo nella giornata della festa dei lavoratori non si hanno in Italia e in Europa. Il primo maggio assurge davvero a occasione per esaltare pubblicamente il significato del lavoro, un momento breve, ma significativo di sospensione della vita quotidiana.
Così come per il 25 aprile, questa giornata rappresenta non solo la celebrazione di un rituale che ha un significato proprio, ma anche la commemorazione degli eventi e delle persone che s’identificano con la lotta per la tutela della dignità del lavoro.
Nel 1990 la “triplice” (CGIL, CISL e UIL) istituisce il concertone in collaborazione col Comune di Roma. Nell’ultimo decennio altre civiche amministrazioni riproducono l’evento a dimensioni ridotte. Dal 2013 a Taranto c’è il festival musicale “Libero e pensante”, altrimenti detto controconcerto, organizzato dall’associazione Cittadini e Lavoratori Liberi e Pensanti. Taranto è diventata a sua volta un luogo simbolo del disagio sociale causato dal ricatto insito nel conflitto tra il diritto alla salute e il diritto al lavoro, dalla traiettoria disastrosa del più grande stabilimento siderurgico d’Europa, dagli illeciti di chi ha perseguito il profitto sulla pelle dei lavoratori e della cittadinanza.
Tra le finalità dell’associazione organizzatrice il suo statuto annovera la tutela di alcuni diritti fondamentali connessi al lavoro: all’assistenza sanitaria pubblica; alla salubrità ambientale; alla stabilità occupazionale. C’è, inoltre, “la promozione della cultura della salute e della sicurezza negli ambienti di lavoro, come garanzia di effettività del diritto, normativamente riconosciuto, ad un ambiente lavorativo sicuro e salubre”.
La sociologia del nuovo millennio prefigura un futuro di cambiamenti talmente radicali, legati alla tecnica avanzata, da rendere il bisogno dell’apporto umano alla produzione pressoché inesistente. È un fenomeno non irrealistico, che tuttavia oggi contrasta con la realtà delle perduranti questioni radicatesi nell’Ottocento e rimaste irrisolte. In più ci troviamo ad affrontarle nel corso del tentativo, da tempo in atto e di portata disgregante, teso a marginalizzare le organizzazioni dei lavoratori nella loro capacità rappresentativa e nella loro unitarietà.
Fintanto che il futuro non sarà tra noi, coi nuovi problemi che porrà per l’individuo, non potremo quindi dismettere le categorie tradizionali nelle riflessioni sul mondo del lavoro, se vogliamo davvero attuare con pienezza, qui come altrove, la Costituzione.
[1] A Forlì la rivista La Rivendicazione pubblica il 26 aprile 1890 un articolo, intitolato Per primo maggio, che così esordisce: “Il primo maggio è come parola magica che corre di bocca in bocca, che rallegra gli animi di tutti i lavoratori del mondo, è parola d'ordine che si scambia fra quanti si interessano al proprio miglioramento”.
[2] Il primo maggio a Roma e nel mezzogiorno, in La giustizia, 2 maggio 1924.
[3] 16 giugno 1944: la razzia dei lavoratori genovesi, in Storia e memoria, n. 1/2024, ILSREC - Istituto ligure per la storia della resistenza e dell’età contemporanea “Raimondo Ricci”.
Immagine: la partigiana Anna Marengo, nome di battaglia "Fiamma" a Vercelli il 1° maggio 1945.