QUESITO n. 1
Il primo dei quattro referendum sul lavoro si propone di ottenere la abrogazione della disciplina sui licenziamenti del contratto a tutele crescenti introdotta con il decreto legislativo n. 23 del 2015.
Con questa riforma è stato istituito il cosiddetto contratto a tutele crescenti che si applica ai dipendenti assunti dopo il 7 marzo 2015. Il contratto a tutele crescenti è un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato che non ha alcuna differenza sostanziale con il normale rapporto di lavoro dipendente: l’unica differenza è rappresentata dalla disciplina sul licenziamento illegittimo.
Sul punto occorre chiarire subito un dettaglio non insignificante: quando si discute di tutela contro il licenziamento, non ci si riferisce a un qualunque recesso del datore di lavoro dal contratto di lavoro, ma solo all’espulsione illegittima del lavoratore. Il licenziamento motivato e legittimo non dà luogo a reintegrazioni o risarcimenti. Il licenziamento contro il quale sono previste tutele è solo quello nullo o illegittimo.
Attualmente ai dipendenti assunti dalle imprese con più di 15 dipendenti prima del 7 marzo 2015 si applica l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, così come modificato dalla riforma Fornero nel 2012, mentre ai lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015 si applica la normativa che il referendum intende abrogare.
Nella sua versione originaria, l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori sanciva una regola molto semplice: in caso di licenziamento illegittimo sia per motivi formali che per motivi sostanziali il lavoratore aveva sempre diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro, oltre al risarcimento del danno patito pari alle retribuzioni maturate dalla data del licenziamento sino alla reintegrazione effettiva.
In sostanza si tratta di una forma di risarcimento in forma specifica o tutela reale che ripristina la situazione di fatto precedente all’atto illecito. Il ripristino della situazione precedente all’illecito non esclude comunque il risarcimento dell’ulteriore danno patrimoniale o non patrimoniale eventualmente subito. Con la tutela per equivalente, invece, si rimedia al pregiudizio subito dal lavoratore solo attraverso la elargizione di una somma di denaro.
La riforma Fornero del 2012 prima ed il Jobs act successivamente nel 2015 hanno marginalizzato la reintegrazione, configurando il risarcimento del danno (la c.d. tutela per equivalente) come ipotesi generale di rimedio al licenziamento invalido: la reintegrazione è stata prevista infatti solo in casi eccezionali. Tale capovolgimento di prospettiva è stato fortemente ridimensionato a seguito di numerose sentenze della Corte costituzionale.
Attualmente, dunque, la normativa del 2015 applicabile ai lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015 prevede:
a) per tutti i casi di licenziamenti discriminatori e nulli per le varie ipotesi di violazione di norme imperative prevista dalla legge la reintegrazione ed il pagamento delle retribuzioni e dei contributi dalla data del licenziamento alla data della effettiva riammissione in servizio (norma applicabile anche nella ipotesi di datori di lavoro con meno di 15 dipendenti);
b) per i licenziamenti illegittimi intimati per motivi disciplinari (giustificato motivo soggettivo e giusta causa) la reintegrazione ed il pagamento delle retribuzioni e dei contributi sino ad un massimo di 12 mensilità nel caso in cui il giudice accerti l’insussistenza del fatto contestato al lavoratore e nella ipotesi in cui la contrattazione collettiva preveda per quel determinato illecito contestato in modo specifico una sanzione conservativa (tale ipotesi è stata aggiunta per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 129/2024): in sostanza nei casi in cui il datore di lavoro licenzia il lavoratore per una condotta per la quale il codice disciplinare prevede espressamente una sanzione conservativa, la conseguenza sanzionatoria è la reintegrazione, mentre per tutte le altre ipotesi residue è previsto un indennizzo tra un limite minimo di 6 ed un limite massimo di 36 mensilità di retribuzione quantificato sulla base dell’anzianità di servizio e di altri criteri;
c) nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo (il c.d. licenziamento per motivi economici ed organizzativi) è prevista, a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 128/2024, la reintegrazione con il pagamento delle retribuzioni e dei contributi sino ad un limite massimo di 12 mensilità nella ipotesi in cui sia dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale allegato dal datore di lavoro, mentre negli altri casi, come ad esempio nella ipotesi di mancata ricollocazione del lavoratore in mansioni equivalenti oppure in mansioni inferiori, al lavoratore spetta solo l’indennizzo sempre con i limiti tra 6 e 36 mensilità;
d) per i licenziamenti collettivi (ossia i licenziamenti previsti per le ristrutturazioni aziendali e le riorganizzazioni del lavoro) il solo indennizzo (sempre con il limite minimo di 6 ed il limite massimo di 36 mensilità) sia per i casi di violazione delle procedure sindacali che per i casi di violazione dei criteri di scelta.
Nel caso in cui il referendum raggiungesse il quorum e avesse esito positivo, anche ai dipendenti assunti a partire dal 7 marzo 2015 si applicherebbero le misure sanzionatorie disciplinate dall’art. 18 Stat. Lav., così come modificato dalla “Legge Fornero” del 2012 che si applicano attualmente ai lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015.
Ebbene la c.d. riforma Fornero, così come rimodulata a seguito di alcune sentenze della Corte Costituzionale, ha previsto
e) per tutti i casi di licenziamenti discriminatori e nulli per violazione di norme imperative previste dalla legge la reintegrazione ed il pagamento delle retribuzioni e dei contributi dalla data del licenziamento sino alla data della effettiva reintegrazione (norma applicabile anche nella ipotesi di datori di lavoro con meno di 15 dipendenti);
a) per i licenziamenti soggettivi e per giusta causa la reintegrazione ed il pagamento delle retribuzioni e dei contributi con un limite massimo di 12 mensilità, quando viene accertata l’insussistenza del fatto contestato al lavoratore o quando il Giudice rileva la applicabilità al fatto contestato di una sanzione conservativa, anche nella ipotesi in cui l’addebito contestato non sia tipizzato in modo specifico dal contratto collettivo applicato, nonché il solo indennizzo con un limite minimo di 12 ed un limite massimo di 24 mensilità nelle ipotesi residue;
b) per i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo la reintegrazione ed il pagamento delle retribuzioni e dei contributi sino ad un massimo di 12 mensilità, quando viene accertata l’insussistenza delle ragioni addotte dal datore di lavoro o la violazione dell’obbligo di ricollocazione in azienda, mentre l’indennizzo con un limite minimo di 12 ed un limite massimo di 24 mensilità di retribuzione per tutte le altre ipotesi;
c) per i licenziamenti collettivi per ristrutturazione e riduzione del personale la reintegrazione per i soli casi di violazione dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare e l’indennizzo da 12 a 24 mensilità di retribuzione per i casi di violazione delle procedure sindacali.
Ebbene sussistono ancora differenze di trattamento a seconda che si applichi l’art. 18, così come modificato dalla riforma Fornero oppure il D.Lgs. n. 23 del 2015.
Infatti il decreto n. 23 del 2015, a seguito dell’intervento della Corte costituzionale (sentenza n. 129 del 2024), prevede la reintegrazione nella ipotesi in cui il fatto contestato sia insussistente o il contratto collettivo preveda per quella specifica condotta in modo espresso una sanzione diversa dal licenziamento, come il rimprovero scritto, la multa o la sospensione dal lavoro: ciò significa che per un inadempimento lieve, non specificatamente contemplato dal contratto collettivo tra le sanzioni conservative (e ciò accade frequentemente, in quanto le clausole dei contratti collettivi sono spesso generiche), il licenziamento, pur essendo illegittimo, può non comportare la reintegrazione, ma un semplice indennizzo.
Ad esempio il lavoratore, assunto dopo il 7 marzo 2015 e licenziato per un ritardo anche minimo nell’inizio della attività lavorativa, se il ritardo non è contemplato in modo espresso dal contratto collettivo applicato come ipotesi di illecito disciplinare cui applicare una sanzione conservativa come la multa o la sospensione dal lavoro, può ottenere giudizialmente un semplice indennizzo, mentre nella stessa ipotesi il lavoratore, assunto prima del 7 marzo 2015 cui si applica l’art. 18, può ottenere la reintegrazione sul posto di lavoro ed il pagamento delle retribuzioni.
Inoltre con il Jobs Act spetta al lavoratore il semplice indennizzo e non la reintegrazione nella ipotesi di licenziamento per motivi economici o organizzativi, ad esempio per soppressione del posto di lavoro o riorganizzazione della struttura, anche quando viene provato in giudizio che il datore di lavoro avrebbe potuto collocare il dipendente in altro posto disponibile (cd. violazione dell’obbligo di repechage).
Ugualmente al lavoratore assunto dopo il 7 marzo 2015 spetta il solo indennizzo e non la reintegrazione nel caso di un licenziamento collettivo in cui vengono violati i criteri di scelta previsti dalla legge, come l’anzianità di servizio o i carichi di famiglia.
Non è pertanto corretto affermare che, con l’eventuale successo del referendum ed il conseguente ritorno alla disciplina Fornero, i lavoratori nella ipotesi di licenziamento illegittimo otterrebbero sempre e comunque solo un indennizzo tra le 12 e le 24 mensilità, ossia una tutela deteriore rispetto all’importo previsto dal Jobs Act a titolo di indennizzo tra un limite minimo di 6 ed un limite massimo di 36 mensilità. Come è stato rilevato, il rimedio dell’indennizzo è divenuto un rimedio assolutamente residuale, in quanto, a seguito delle numerose sentenze della Corte Costituzionale che si sono succedute negli ultimi anni, lo schema che prevedeva l’indennizzo come rimedio generale e la reintegrazione come ipotesi sanzionatoria eccezionale è stato integralmente capovolto: la reintegrazione rappresenta attualmente il rimedio tendenzialmente generale sia con riferimento all’impianto normativo previsto dalla riforma Fornero che in relazione al Jobs Act.
A tal proposito occorre anche ricordare che il lavoratore, a seguito della sentenza del Giudice che dispone la reintegrazione, preferisce nella maggioranza dei casi non rientrare in azienda ed esercitare la c.d. opzione alternativa, sostitutiva della reintegrazione, che prevede a carico dell’ex datore di lavoro il versamento di 15 mensilità di retribuzione, oltre il pagamento delle retribuzioni con i versamenti contributivi.
È evidente, dunque, che se vi sono più possibilità normative di ottenere la reintegrazione (nella disciplina della riforma Fornero le possibilità di ottenere la reintegrazione sono più accentuate rispetto al c.d. Jobs act), più alta è la possibilità per il lavoratore illegittimamente licenziato di ottenere con la opzione sostitutiva un ristoro economico più corposo.
QUESITO n. 2
La norma interessata dal quesito è l’art. 8 della L. 604/1966: “Quando risulti accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giusta causa o giustificato motivo, il datore di lavoro è tenuto a riassumere il prestatore di lavoro entro il termine di tre giorni o, in mancanza, a risarcire il danno versandogli un'indennità di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 6 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo al numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni dell'impresa, all'anzianità di servizio del prestatore di lavoro, al comportamento e alle condizioni delle parti. La misura massima della predetta indennità può essere maggiorata fino a 10 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai dieci anni e fino a 14 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai venti anni, se dipendenti da datore di lavoro che occupa più di quindici prestatori di lavoro.”
La norma citata disciplina le sanzioni del licenziamento disciplinare ed economico dichiarato illegittimo applicabili ai datori di lavoro con un numero di dipendenti inferiore a 15 assunti prima del 7 marzo 2015 e che, se avesse successo il referendum di cui al quesito n. 1, si applicherebbe anche ai dipendenti assunti dal 7 marzo 2015
Orbene la norma in questione prevede esclusivamente un indennizzo con un limite minimo di 2,5 ed un limite massimo di 6 mensilità di retribuzione. La norma prevede la possibilità dell’innalzamento del limite massimo a 10 e 14 mensilità, ma tale ipotesi può verificarsi solo in alcuni casi, ossia quando il lavoratore ha un’anzianità di servizio di 10 anni per elevare il tetto a 10 mensilità e di 20 anni per elevare il tetto a 14 mensilità e che sia dipendente di un datore di lavoro che occupa più di 15 prestatori di lavoro se distribuiti su più unità produttive collocate in comuni diversi e nel complesso fino a 60 dipendenti.
Nel caso in cui il referendum raggiungesse il quorum e avesse esito positivo, il Giudice che ritenesse illegittimo il licenziamento potrebbe condannare il datore di lavoro a un risarcimento a partire da 2,5 mensilità senza un tetto massimo. In sostanza il Giudice in questa ipotesi accerterebbe il danno effettivo che il licenziamento provoca in capo al lavoratore.
Sicuramente un tetto massimo di sei mensilità per lavoratori che hanno una anzianità di servizio notevole è ben poca cosa, dal momento che molto spesso le imprese con meno di 15 dipendenti hanno una caratura economica e finanziaria superiore alle imprese con più di 15 dipendenti.
Il rischio paventato da alcuni secondo cui il Giudice del lavoro, nella ipotesi di superamento del quorum e vittoria del sì, possa riconoscere un risarcimento sproporzionato ed eccessivo appare infondato, in quanto la norma che residuerebbe dalla abrogazione imporrebbe comunque al lavoratore l’onere di provare il danno in concreto effettivamente subito. È evidente che il datore di lavoro avrebbe sempre l’onere di provare il c.d “aliunde perceptum”, ovvero la riduzione del danno derivante dalla circostanza che il lavoratore ha percepito altri redditi dopo la cessazione del rapporto di lavoro.
Inoltre va ricordato che il giudice è sempre tenuto a spiegare con la motivazione le ragioni per le quali ha deciso di optare per quella determinata quantificazione, tenendo conto della anzianità di servizio del lavoratore, delle dimensioni dell’impresa e del numero dei dipendenti della stessa.
Peraltro la stessa Corte costituzionale ha affermato che, anche per i lavoratori delle imprese con meno di 15 dipendenti, il risarcimento deve essere effettivo e dissuasivo verso la tenuta di condotte illecite.
Ed allora non si comprende per quale ragione alla ipotesi del danno derivante dal licenziamento illegittimo non debba applicarsi lo stesso principio che si applica in ogni ipotesi di danno provocato da un terzo. Se infatti il proprietario di un fondo che subisce un danno ad un immobile di proprietà da parte di un terzo che ha attraversato il fondo ha il diritto di pretendere dal soggetto danneggiante il risarcimento integrale del danno effettivamente subito, lo stesso principio civilistico di copertura integrale del danno effettivamente subito deve valere anche per il rapporto di lavoro.
QUESITO n. 3
La norma interessata dal terzo quesito referendario è l’art. 19, primo comma, del d.lgs. n. 81 del 2015 “Apposizione del termine e durata massima”: “1. Al contratto di lavoro subordinato può essere apposto un termine di durata non superiore a dodici mesi. Il contratto può avere una durata superiore, ma comunque non eccedente i ventiquattro mesi, solo in presenza di almeno una delle seguenti condizioni: a) nei casi previsti dai contratti collettivi di cui all'articolo 51; b) in assenza delle previsioni di cui alla lettera a), nei contratti collettivi applicati in azienda, e comunque entro il ((31 dicembre 2025)), per esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva individuate dalle parti; b-bis) in sostituzione di altri lavoratori.”
Il terzo quesito è finalizzato ad ottenere l’abrogazione di alcune porzioni di disposizioni dell’articolo 19 del d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81, ossia la norma che stabilisce le condizioni alle quali è possibile assumere un lavoratore con un contratto a termine.
In base alla disciplina vigente più volte modificata nel 2023 e nel 2024 l’assunzione a termine può avvenire senza la necessità di specificare alcuna motivazione o giustificazione per i primi 12 mesi. Una volta superato tale termine, e comunque nel rispetto del limite massimo di 24 mesi, è possibile per un datore di lavoro assumere con un contratto a termine solo al fine di sostituire lavoratori assenti e nei casi previsti dalla contrattazione collettiva, oppure ancora sino alla fine dell’anno 2025 per esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva individuate dalle singole parti.
In sostanza, con il superamento del quorum e l’eventuale vittoria dei sì, l’utilizzo del contratto a termine sarebbe sempre subordinato alla esplicitazione di motivi specifici indicati dalla legge, ossia ragioni sostitutive di altri lavoratori assenti ad esempio per maternità, ferie, infortuni, aspettative o altro e nei casi previsti dagli accordi sindacali stipulati con le associazioni sindacali più rappresentative.
La novità della eventuale abrogazione sarebbe il venir meno della possibilità di assumere a termine senza alcuna motivazione per il periodo di 12 mesi. Attualmente infatti tali assunzioni non devono essere motivate.
Non vi è alcun dubbio che nel nostro ordinamento giuridico il contratto a tempo indeterminato rappresenti la forma comune dei rapporti di lavoro ed il contratto a termine una eccezione: è chiaro l’intento perseguito dai promotori del referendum di limitare il più possibile il ricorso da parte dei datori di lavoro al lavoro precario. Tuttavia la possibilità di ricorrere al contratto a termine per un anno senza l’onere di addurre motivazione appare un giusto compromesso tra le esigenze di tendenziale stabilità del posto del lavoro di lavoro del lavoratore e le esigenze di flessibilità perseguite dal datore di lavoro.
QUESITO n. 4
La norma interessata dal referendum è l’art. 26, comma 4, del d.lgs 81/2008: “Ferme restando le disposizioni di legge vigenti in materia di responsabilità solidale per il mancato pagamento delle retribuzioni e dei contributi previdenziali e assicurativi, l'imprenditore committente risponde in solido con l'appaltatore, nonché con ciascuno degli eventuali subappaltatori, per tutti i danni per i quali il lavoratore, dipendente dall'appaltatore o dal subappaltatore, non risulti indennizzato ad opera dell'Istituto nazionale per l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (INAIL) o dell'Istituto di previdenza per il settore marittimo (IPSEMA). Le disposizioni del presente comma non si applicano ai danni conseguenza dei rischi specifici propri dell'attività delle imprese appaltatrici o subappaltatrici”.
L’art. 26 del Testo Unico sulla salute e sicurezza nei luoghi di lavoro è la norma che si occupa dei problemi di sicurezza che si pongono in caso di affidamento in appalto o subappalto di lavori, servizi e forniture all'interno dell’azienda o nell'ambito dell'intero ciclo produttivo della committente: il presupposto della applicazione della norma è che il committente abbia la disponibilità dei luoghi in cui si svolge la attività appaltata.
Il comma 4 prevede che il committente degli appalti, ossia la società che sceglie l’impresa appaltatrice risponda, insieme all’appaltatore o subappaltatore, dei danni alla salute con riferimento agli importi non coperti dalle indennità previdenziali ai dipendenti che operano nell’ambito dei lavori appaltati e che subiscano infortuni o contraggano malattie professionali in tale contesto ambientale: si pensi al danno alla salute permanente, al danno alla salute temporaneo, oppure al danno patrimoniale da perdita di capacità lavorativa.
In sostanza questa disposizione esclude la responsabilità solidale del committente in caso di infortunio subito da un lavoratore dipendente di impresa appaltatrice o subappaltatrice, quando l’infortunio derivi da rischi specifici propri dell’attività dell’impresa esecutrice. Se l’evento lesivo è imputabile esclusivamente a un rischio tipico dell’appalto, il committente non ne risponde.
Ad esempio se una società della grande distribuzione affida la ristrutturazione di un proprio supermercato ad una impresa edile e un muratore dipendente di quest’ultima subisce un infortunio o muore durante la fase della demolizione o della costruzione, in base alla normativa attualmente vigente la società in questione non è tenuta a risarcire i danni all’operaio infortunato o alla sua famiglia in caso di decesso.
Con il successo del referendum la responsabilità si estenderebbe anche ai danni da violazione delle misure di sicurezza su tali rischi specifici ovviamente sempre in relazione a quelle attività che si svolgono nei luoghi a disposizione del committente.
L’idea che il committente debba rispondere, insieme all’appaltatore, dei danni subiti dal lavoratore, anche quando non ha una responsabilità diretta, potrebbe non essere ritenuta giusta, anche se occorre ricordare che la responsabilità risarcitoria solidale rappresenta anche uno strumento di tutela del lavoratore che non ha alcuna possibilità di intervenire sulla scelta dell’appaltatore e sull’organizzazione dell’appalto.
La responsabilità solidale può anche costituire uno stimolo per le società committenti a selezionare le imprese più affidabili ed a non utilizzare l’appalto come uno strumento per perseguire solo risparmi sul costo del lavoro. Per i lavoratori la estensione della responsabilità solidale comporterebbe anche una maggiore possibilità di tutela in quei casi di infortuni o malattie professionali non indennizzati perché l’appaltatore o il subappaltatore è insolvente (ipotesi non infrequente).
Tutti i contributi sui referendum dell'8 e del 9 giugno 2025 apparsi sulla nostra rivista si possono trovare qui.
Immagine: Diego Velázquez, Filatrici (La favola di Aracne), 1655, olio su tela, Museo del Prado, Madrid.