Sommario: 1. Qualche numero – 2. Una battaglia perduta – 3. Ritorna il ricatto sociale – 4. Un nuovo umanesimo per il lavoro?
Della tutela dei lavoratori è possibile trattare su molti versanti. Il convegno organizzato da AreaDG insieme con CGIL Liguria riannoda i fili del rapporto tra magistratura e sindacato dopo che la legislazione degli ultimi venti anni li ha visti meno impegnati che in passato in un dibattito comune, malgrado l’impegno rispettivo nel confronto sul piano giuridico ed economico in un momento di messa in discussione globale dei diritti di settore.
La discesa di questi diritti dal piano inclinato su cui sono stati collocati da almeno vent’anni ha condotto a risultati drammatici, così come testimoniano – ed è questa l’altra peculiarità dell’incontro genovese – le esperienze di giudici operanti nell’ambito penale. Lo sbigottimento manifestato dal magistrato, pure avvezzo al contatto con le vittime dei delitti più efferati, di fronte alle calamità che investono il mondo del lavoro è sintomatico di una realtà recondita, per quanto esposta allo sguardo comune.
1. Qualche numero[1]
L’occupazione generale in Italia è in crescita (+ 1,5% nel 2024 rispetto all’anno precedente; + 3,8% nell’arco 2019-24; nei primi due trimestri 2025 la tendenza è confermata, sebbene con una flessione tra aprile e giugno) grosso modo al pari di quanto avvenga in Germania, ma meno di quanto si registri in Francia o Spagna. Restiamo in ogni caso all’ultimo posto tra i Paesi U.E. per tasso di disoccupazione. Al di là di questo elemento comparativo, sono almeno cinque gli indici che illustrano la crisi italiana del lavoro.
La crescita del numero degli occupati continua a concentrarsi – attualmente all’80% - nella fascia d’età 50-64 anni; nel primo semestre 2025 questo aumento si è accentuato nel Mezzogiorno. Diminuisce per contro il tasso di disoccupazione in via progressiva nelle fasce più giovani. Aumentano gli occupati tra i laureati, ma il 35,9% dei laureati tra i 25 e i 34 anni risulta sovraistruito, adibito, cioè, a impieghi non adeguati al proprio titolo d’istruzione. Esiste quindi un problema sfaccettato di bassa occupazione giovanile, che si accompagna a un costante invecchiamento della forza lavoro e che impatta ancora più che in passato sul debito pensionistico.
L’aumento generico dell’occupazione si accompagna alla riduzione di quanto hanno smesso di cercare nuove opportunità. Ma nel 2024 è tornato a crescere il numero degli inattivi lontani dai circuiti tradizionali del mondo del lavoro. Ci si riferisce a chi abbia avuto esperienze lavorative in passato o abbia partecipato a concorsi pubblici o contattato agenzie private di intermediazione o somministrazione. Prosegue invece – e la tendenza è confermata anche dai dati più recenti (+ 104.000, pari all’1% nel trimestre aprile-giugno 2025) – la crescita di quanti hanno smesso di cercare lavoro o sono indisponibili a cercarlo. È un sintomo ulteriore della forbice crescente tra gruppi di popolazione.
Sul piano delle ore lavorate l’Italia si colloca all’estremità superiore (39 a settimana) della media UE (compresa tra 37,5 e 39). Il 10% dei lavoratori subordinati lavora però ben 49 ore a settimana; la media degli autonomi è 47. Si tratta di punte evidentemente inaccettabili, nella loro estensione, frutto di politiche industriali che nel tempo hanno reso diseguale anche il tempo lavorativo delle persone.
A fine 2024 è risultato inalterato anche il divario di genere. Le donne impiegate a tempo parziale superano per quasi il 10% gli uomini. Le lavoratrici subordinate percepiscono una retribuzione oraria mediamente inferiore del 5,6% a quella dei colleghi maschi; la differenza sale al 16% nel caso di lavoratrici laureate.
Ai quattro indici di diseguaglianza ricordati si aggiunge il dato sistemico più allarmante: la riduzione continua della produttività del lavoro in Italia. Nel periodo 2000-24 essa è scesa del 5,8%, mentre Germania, Francia e Spagna condividono una crescita compresa tra l’11 e il 12%. I lavoratori nel nostro Paese sono dunque tendenzialmente allocati in comparti a minore produttività; attualmente 1/3 dei nostri dipendenti è impiegato infatti nel settore alberghiero-ristorativo. Urgerebbe una loro ricollocazione in ambiti che garantiscano tassi più elevati in via diretta e immediata (settori tecnologici, industriali, manifatturieri) o almeno indiretta (settori dedicati a ricerca e innovazione) di produzione di ricchezza collettiva.
2. Una battaglia perduta
Non è difficile comprendere perché, nel quadro sintetizzato, le retribuzioni dei lavoratori italiani non abbiano avuto incrementi, nell’ultimo quarto di secolo, solo almeno paragonabili a quelle dei cittadini dei Paesi a economie comparabili; dopo essere calati addirittura del 7,5% tra il 2021 e il 2024, i nostri salari medi reali annui dovrebbero aumentare per la prima volta nel 2025. Il loro aumento nominale sarà tuttavia assorbito dall’inflazione prevista, sicché essi continueranno ad attestarsi intorno alla trentesima posizione della graduatoria OCSE[2].
Crescono le diseguaglianze, dunque, e non solo in Italia. Ma in Italia più che altrove manca un progetto complessivo di politiche attive, che non può essere basato su un unico strumento[3], ma che, in uno scenario sempre più composito di innovazioni e accelerazioni tecnologiche e di dinamiche antiche, richiede al contrario una rete di misure, di supporti e di soggetti.
I centri per l’impiego, così come attualmente concepiti, non sono la soluzione. Le assunzioni nell’attuale mercato del lavoro passano attraverso i percorsi più diversi e imprevedibili, spesso con soccorsi pubblici d’emergenza per aziende in crisi. Non è questa la vita per assicurare riqualificazione professionale e l’agognato bilanciamento tra “la flessibilità in uscita e la flessibilità in entrata”. Se siamo ancora qui a parlare di lavoro povero, contratti pirata e precarietà giovanile significa che stiamo attestando il fallimento di un disegno che compie ormai venticinque anni.
L’assunto secondo cui l’autonomia individuale nel contratto di lavoro sarebbe stata la chiave per ridare vitalità al mercato del lavoro[4] è venuto meno. La retorica fondata sul mito della flexicurity non ha più voce: non perché abbia messo da parte il suo strumentario argomentativo, ma perché non serve più. Il capitale e la finanza hanno vinto, il sogno dell’uguaglianza dei cittadini nel mondo del lavoro ha perduto.
3. Ritorna il ricatto sociale
Il diritto del lavoro dallo Statuto in poi si regge sulla premessa della disparità delle posizioni tra le parti del contratto. Il tentativo di riconoscere maggiori tutele ai lavori autonomi e parasubordinati, estendendovi alcune di quelle della subordinazione, nasce da una duplice valutazione: da un lato, la constatazione della debolezza di chi agisce in un mercato a concorrenzialità sfrenata e in una società con ridotta offerta di servizi (in cui l’autonomia è sovente apparenza esteriore), dall’altro lato la sopravalutazione dell’effettività dei diritti assicurati al prestatore subordinato.
Quando il part-time non è un’opzione, ma l’unica soluzione disponibile, quando la prestazione oraria è pagata 4-5 euro, quando si accettano turni settimanali comprensivi regolarmente di domenica e festivi e una sede lavorativa distante oltre un’ora dall’abitazione, quando basta un messaggio telefonico a cambiare l’organizzazione di una giornata o di una vita, quando gli ordini vengono da personaggi di cui non si comprendono ruolo e autorità, quando non esiste alcuna relazione, diretta o mediata, col datore di lavoro, le analisi economico-giuridiche non possono arrestarsi al mero dato contrattuale, che assume un significato formale, statistico, senza descrivere la realtà dell’individuo che vi è legato.
Eppure, sono queste le condizioni che il mercato oggi impone, senza margini di negoziato. Si assiste a una regressione culturale, prima che giuridica, che tollera, giustifica, persino motiva un ricatto che si pensava ormai superato e oggi si ripropone in una veste nuova, più cruda, forte della solitudine di un lavoratore che è sempre meno parte di una comunità, sia essa civica, politica o sindacale.
Si spiegano così i salari mortificanti, le professionalità generiche impiegate in produzioni che richiederebbero invece specializzazione ed esperienza, il rischio accettato talvolta senza nemmeno la consapevolezza, la rinuncia a denunciare lo sfruttamento, la vessazione, l’infortunio, la malattia.
4. Un nuovo umanesimo per il lavoro?
La domanda che ci poniamo è se ancora sia possibile credere in un lavoro a misura di uomo. Le parole che abbiamo ascoltato in questo incontro indicano una direzione. Dal segretario generale di Fillea-CGIL si è levato un monito: “torniamo a contrattare”. È rivolto non solo al sindacato, che deve riacquisire centralità nei luoghi di lavoro, ma a chiunque abbia un ruolo di responsabilità verso chi presta la propria opera, affinché non commetta l’errore di lasciarlo confinato ai margini delle scelte produttive.
Di questo tema si è occupata la professoressa Annamaria Donini, immaginando una via per ridare centralità all’individuo contro il ritorno di una logica di un arido scambio tra salario e prestazione lavorativa. Forse la strada sta nel coinvolgimento del lavoratore nell’attività dell’impresa, soluzione verosimilmente inevitabile per prevenire nuove forme di conflittualità sociale e che già conosce esperienze straniere notevoli, che, tuttavia, non appaiono immediatamente replicabili in Italia. Occorre dunque immaginazione e, prima di tutto, la volontà di ridare produttività al lavoro.
La centralità dell’essere umano passa attraverso la centralità del diritto. Un lavoro non mercificato va guardato non più soltanto con la lente dell’economista, ma anche (o, prima ancora) con quella del giurista.
Da anni gli allarmi documentati e appassionati del consigliere di Cassazione Bruno Giordano sulle cause dello sfruttamento e delle morti sul lavoro restano patrimonio di una minoranza. Il racconto commosso del consigliere del CSM Genantonio Chiarelli sulla propria esperienza giudiziaria nella vicenda simbolicamente ricondotta alla “Palazzina Laf” non suscita soltanto emozione. Se pensiamo che dietro la riforma costituzionale Meloni-Nordio v’è il disegno di una magistratura fiaccata e remissiva, sorge infatti anche lo sgomento per un futuro possibile nel quale i diritti dei più deboli non possano trovare la stessa tutela che fino a oggi hanno potuto chiedere e ottenere nelle aule giudiziarie.
Ritornano, vividi, gli ammonimenti della Corte costituzionale: di ieri, nel riconoscere, a proposito della compatibilità dell’art. 2118 c.c., il diritto al lavoro “quale fondamentale diritto di libertà della persona umana, che si estrinseca nella scelta e nel modo della libertà lavorativa”[5]; e di oggi, con le sentenze 194/2018 e 22/2024, le quali, nel ricondurre le astrattezze del Jobs Act ai valori e ai principi della nostra Carta fondamentale, hanno restituito centralità a una tutela giurisdizionale che sappia essere individualizzata ed effettiva.
Il testo raccoglie l’intervento introduttivo e le conclusioni svolti dall’autore al convegno “La tutela dei diritti dei lavoratori”, tenutosi a Genova il 9 ottobre 2025.
[1] I dati riportati in questo paragrafo sono tratti dai rapporti trimestrali Istat, consultati sino a quello del Secondo trimestre 2025 in www.istat.it.
[2] Cfr. l’Employment outlook 2025 dell’OCSE, in www.oecd.org.
[3] F. GIUBILEO, Politiche attive: l’offerta congrua non esiste, in www.lavoce.info, 16 novembre 2021.
[4] Cfr. P. ICHINO, Chi ha paura dell’autonomia individuale? in RGL, 1992, 1, I, 81; M. CORTI, Flessibilità e sicurezza dopo il jobs Act. La flexicurity italiana nell’ordinamento multilivello, Torino, Giappichelli, 2018, 83.
[5] Corte cost. 26 maggio 1965, n. 45.
