75 anni dopo: il voto alle donne e le sfide, sempre aperte, per una democrazia inclusiva.
di Tania Groppi
Una coincidenza? Non direi proprio. Il 2 giugno del 1946 si realizzano due eventi di portata epocale nella storia d’Italia.
Il referendum istituzionale e l’elezione dell’Assemblea costituente pongono le fondamenta della Repubblica italiana, segnando il punto di svolta di un processo che porterà, con l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, a un ordinamento del tutto nuovo, non solo rispetto a quello fascista, ma anche allo Stato liberale prefascista. Un ordinamento inclusivo anziché escludente, rispettoso del pluralismo anziché a una dimensione, pacifista anziché imperialista.
Ebbene, questa trasformazione dell’Italia, una vera e propria rifondazione, un nuovo inizio, un pactum societatis difficilmente immaginabile e costruibile per chi non avesse attraversato quel crogiuolo di dolore, macerie, morti, che era stata la Seconda guerra mondiale, è avvenuta, per la prima volta nella millenaria storia dei popoli che si sono susseguiti sulla penisola italica, con la partecipazione politica delle donne. Sia come elettrici, che come elette.
Giunge così a compimento un processo che nel nostro paese, come in altri, è stato particolarmente lungo e controverso, quello della conquista dell’eguaglianza tra i sessi nel godimento dei diritti politici: le donne avevano fatto parte dei “grandi dimenticati” (insieme ad altri soggetti, come i popoli colonizzati e gli schiavi) dalle rivoluzioni per i diritti della fine del Settecento e non erano riuscite a compiere quel cammino di conquiste che era invece riuscito, tra Ottocento e Novecento, ai movimenti dei lavoratori.
Le donne votano, massicciamente, quel 2 giugno del 1946, e un manipolo di esse riesce anche ad essere eletto. La pattuglia delle 21 “Madri costituenti” (quanti decenni ci sono voluti prima che si iniziasse ad utilizzare questa espressione!) fa il suo ingresso nell’Assemblea costituente, tra i commenti di giornalisti e cinegiornali, che osservano incuriositi questo fenomeno esotico e un po' bizzarro.
Che differenza con quel che sta accadendo in questi giorni, nel 2021, in un ordinamento lontano, ma per tanti versi vicino all’Italia come quello cileno, dove si sta per insediare una Convenzione costituente che, grazie al sistema elettorale utilizzato è completamente paritaria, 78 uomini e 77 donne chiamati a scrivere il nuovo patto fondamentale, a quasi cinquant’anni dall’uccisione di Salvador Allende e dall’avvio della dittatura.
È fin da subito evidente un primo problema, che si trascinerà poi per decenni e che resta ancora oggi insoluto. Tante sono le elettrici, più numerose persino degli uomini, ma poche sono le elette, In mezzo, c’è la questione delle candidate, poche anch’esse, e dell’attitudine dei partiti politici.
Un secondo si affaccia subito dopo. Nell’Assemblea costituente, le donne sono relegate ad occuparsi di tematiche ritenute più consone per il loro genere: eccole così alle prese con diritti delle lavoratrici, famiglia, infanzia, istruzione, lontane dalla “sala delle macchine” della forma di governo o della magistratura. Dove il gioco si fa serio, dove è in ballo il potere, quello non è un “terreno per donne”.
Ciò nonostante, le più combattive tra loro riescono in qualche modo ad emergere, a far sentire la propria voce, a lasciare un segno su alcuni temi, dal principio di eguaglianza (come non ricordare quel “di fatto” inserito grazie a Teresa Mattei nel secondo comma dell’art. 3 della Costituzione) all’accesso alle cariche pubbliche, con gli interventi di Maria Federici che riesce ad evitare che si faccia riferimento alle “attitudini” dei due sessi, per limitarsi ai casi più conosciuti.
La stagione che si apre subito dopo, a partire dal 1948, è come noto quella della inattuazione costituzionale. Anche qui un altro parallelismo, purtroppo in negativo. In tutti i campi, le novità introdotte dai costituenti (e dalle costituenti, dovremmo dire) restano per molto tempo sulla carta. I diritti delle donne non fanno eccezione, a partire da quella eguaglianza “senza distinzione di sesso” dell’art. 3, comma 1, della Costituzione: ci vorranno molti anni, e numerosi interventi della Corte costituzionale, per rimuovere discriminazioni macroscopiche, come la punizione con sanzione penale dell’adulterio femminile o l’impossibilità per le donne di accedere ai concorsi per la magistratura o per le posizioni dirigenziali nelle amministrazioni pubbliche.
Se molti gravi elementi discriminatori sono stati rimossi negli anni 1970 (pensiamo alla riforma del diritto di famiglia), ancora più lento e parziale è stato il cammino verso una vera e propria democrazia paritaria, che comprende non soltanto la partecipazione elettorale femminile, quella per intendersi avviata nel 1946 e che oggi celebriamo, ma la presenza paritaria di donne e uomini nei luoghi dove si adottano le decisioni politiche.
In questo campo, un primo momento di svolta è costituito dagli anni 1990. Qui, benché non vada trascurato l’impulso del diritto internazionale (sono gli anni della Conferenza di Pechino delle Nazioni Unite), spazi nuovi e prima impensati si aprono in Italia grazie al tentativo di rinnovare la rappresentanza politica nel crollo della cd. “Prima Repubblica”. Il vuoto di potere che si crea in conseguenza della fine di equilibri consolidati da decenni, consente che si “insinuino” previsioni legislative finalizzate a promuovere la rappresentanza femminile negli organi elettivi. Se la sentenza della Corte costituzionale n. 422/1995 ha costituito una dura (e non del tutto prevedibile) battuta d’arresto, il processo non si è fermato, spostandosi dal piano legislativo a quello delle fonti costituzionali, come è sembrato richiedere la sentenza stessa, che è stata letta nel senso di rendere necessaria la introduzione di un “ombrello costituzionale”. Ecco così nel 2003 la modifica dell’art. 51 (con l’aggiunta, nel primo comma, di una nuova frase: «A tal fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini»), ma già nel 2001 si era inserito nell’art. 117, sulla potestà legislativa delle Regioni ordinarie (che viene completamente riscritto), un comma, il settimo, dedicato all’eguaglianza donna-uomo, introducendo una obbligazione positiva per i legislatori regionali, nella quale risuona fortemente ̶ come riconoscerà la sentenza n. 4/2010 della Corte costituzionale ̶ l’eco del secondo comma dell’’art. 3: «Le leggi regionali rimuovono ogni ostacolo che impedisce la piena parità degli uomini e delle donne nella vita sociale, culturale ed economica e promuovono la parità di accesso tra donne e uomini alle cariche elettive».
Eccoci quindi arrivati, da quel lontano 2 giugno del 1946 che ha avviato la partecipazione politica delle donne, quasi ai nostri giorni. Cosa è accaduto in questi ultimi venti anni, dovremmo ora chiederci?
Se guardiamo ai dati della presenza femminile negli organi elettivi, essi risultano alquanto migliorati rispetto all’epoca precedente. In particolare, per il parlamento, la legge elettorale n. 165/ 2017 sembra aver prodotto qualche risultato, portando, con 225 elette alla Camera e 109 al Senato, al livello più alto della storia repubblicana il numero di donne parlamentari, ben il 35%. È questo il culmine di un lungo cammino: pensiamo che sono stati necessari 30 anni e sette legislature per eleggere più di 50 donne in parlamento e che soltanto nella X legislatura, cioè nel 1987, le donne hanno superato il 10% dei parlamentari, mentre sono giunte a sfiorare il 20% soltanto nella XVI, nel 2008 (molti altri dati interessanti sono disponibili nel Dossier elaborato nel 2018 dal Senato).
La situazione resta più complicata a livello regionale, dove le norme di riequilibrio via via introdotte, anche a seguito di un impulso dal centro intensificatosi negli ultimi anni (pensiamo, oltre alla legge di principio n. 20/2016, che chiede una presenza del 60/40 nelle liste e la doppia preferenza di genere, alla sostituzione, nel 2021, da parte del governo della Regione Puglia, per non aver attuato tali principi: primo, e per ora unico caso di utilizzo da parte dello Stato del potere sostituivo nei confronti di una regione per omissione legislativa), sembrano prestarsi ad elusioni e aggiramenti. L’EIGE (European Institute for Gender Equality) nel suo rapporto del 2020 dedicato all’Italia, rileva, quanto al “potere politico”, la presenza di un gender gap particolarmente significativo proprio a livello regionale: infatti, sulla base dei dati del 2019, la presenza femminile nei consigli regionali si attesta al 19,7% (a fronte di una media europea, in organi equivalenti, del 29%) e questo dato contribuisce a connotare una posizione italiana non proprio brillante (al 16 posto dell’Europa a 28).
Basti pensare a una regione come la Liguria, andata al voto nel 2020, che ha adeguato proprio in extremis la propria legislazione ai principi statali: il risultato di elezioni svoltesi con la normativa adeguata è di 3 donne su 30 consiglieri. Per non parlare dei presidenti di regione, una categoria nella quale la presenza femminile è assai sporadica, per usare un eufemismo, per non dire quasi inesistente (al momento solo l’Umbria ha una presidente donna).
Ma, oltre alle cariche elettive, la partecipazione femminile resta circoscritta anche in tutti quei luoghi decisionali ai quali si accede per elezione di secondo grado o per nomina: il che comprende sia organi politici, come il governo o le giunte regionali, ma anche autorità indipendenti o di garanzia, dalla Corte costituzionale al Consiglio superiore della magistratura. Inutile qui presentare la lunga lista dei “mai”: mai una donna è stata in Italia presidente del consiglio, mai presidente della Repubblica, mai presidente di una autorità indipendente, mai governatore della banca d’Italia. L’elezione di Marta Cartabia alla presidenza della Corte costituzionale, nel dicembre 2019, ha rappresentato una novità enorme, che non cancella però il fatto che, nella storia della Corte medesima, ci siano state soltanto 7 donne su quasi 120 giudici costituzionali.
Insomma, 75 anni dopo quel 2 giugno 1946, siamo ben lontani da una democrazia paritaria, fatta di donne e di uomini. Che si tratti dell’ennesimo parallelismo, cioè della riprova della incapacità di costruire nel nostro paese una democrazia veramente inclusiva, che consenta la partecipazione di tutti, in condizioni di eguaglianza, alla adozione delle decisioni politiche?
Una delle finalità degli anniversari è quella di suscitare una riflessione pubblica. In questo specifico anniversario, mi pare che la riflessione debba ruotare sul ruolo del diritto nel confrontarsi con una realtà che sembra assai ostile al cambiamento. Nel senso che alcuni settori della società italiana, tra i quali si colloca senza dubbio in una posizione di rilievo quello della politica, restano per le donne di difficile accesso, nonostante l’esistenza di una serie di norme, non troppo stringenti, ma nemmeno del tutto vacue, di riequilibrio.
Che fare? Come può il diritto contribuire a scardinare una mentalità che resta spesso patriarcale? Questo nella convinzione che, come è stato detto da una delle giuriste di punta del pensiero femminista, Catharine Mackinnon, il diritto «non è tutto ma non è nemmeno niente», e che è chiamato a una complessa interazione col tessuto delle norme sociali e dei comportamenti umani.
Sono sufficienti politiche pubbliche nel settore dei servizi sociali, che alleggeriscano la pressione di cura sulle donne, per liberare quelle energie necessarie per affrontare la vita politica? Oppure servono norme più stringenti, vere e proprie azioni positive in senso forte, che prevedano quote femminili nei luoghi decisionali, a partire dal governo, dalle giunte regionali, per arrivare alle autorità indipendenti, alle società partecipate…Norme che portino il genere storicamente subalterno ad essere presente in modo significativo in tali istituzioni, nella consapevolezza che occorre una critical mass minima, considerata almeno pari al 30%, per poter integrare la prospettiva di genere nelle decisioni degli organi collegiali ed evitare il cd. “tokenism”, ovvero la presenza di un numero di donne irrisorio e del tutto incapace di sovvertire le gerarchie di genere.
Tutto ciò nella convinzione, che è anche una speranza e chissà, forse un sogno, che una presenza femminile consistente possa permettere non solo una democrazia più paritaria, ma anche veramente plurale. Una democrazia nella quale le donne possano portare pienamente le proprie competenze e la propria voce. Una voce che dia voce a tutti gli oppressi, uomini e donne, a quella umanità esclusa che per tanti secoli e millenni esse hanno, più di tutti, incarnato. Chissà che questo non fosse il desiderio profondo che animava, quel 2 giugno 1946, quei milioni di donne che per la prima volta poterono dire una parolina, mettendo nell’urna le loro schede.