Il finalismo rieducativo di cui all’art. 27, comma 3, della Costituzione nell’attuale contesto degli istituti di pena
Sommario: 1. Premessa – 2. La funzione della pena nella costituzione – 3. L’ “essere” e il “dover essere” nell’esecuzione penale – 4. Le recenti modifiche alla disciplina dell’esecuzione penale e gli interventi normativi ancora in itinere – 5. Considerazioni conclusive.
1. Premessa.
La presente pubblicazione si riallaccia ad alcuni dei temi trattati nel capitolo della memoria resa dal Procuratore Generale della Corte dei conti in occasione del giudizio sul rendiconto generale dello Stato per l’esercizio 2023, avente ad oggetto la gestione affidata al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria[1].
Prima di addentrarsi nell’analisi, tuttavia, si vuole evidenziare l’esistenza di un diffuso pregiudizio, serpeggiante nella pubblica opinione, che vede il mondo delle carceri come una sorta di realtà a sé stante, un’isola solo lambita dal diritto e poco interessante per i giuristi: il tema, infatti, viene spesso ricondotto a mere esigenze di sicurezza, da soddisfare attraverso l’innalzamento di mura invalicabili entro le quali costringere i rei quanto più a lungo possibile, se necessario costruendo nuove prigioni, inasprendo le pene, infliggendole al massimo edittale, prevedendo nuove e sempre più specifiche figure di reato e circostanze aggravanti, in modo da allontanare il tempo in cui il reprobo potrà, malauguratamente, contaminare con la propria presenza la società dei liberi.
Quel che sembra essenziale, in un’ottica populista, insomma, è che si provveda a “buttare via le chiavi” delle celle, affinché sia compiuta la “vendetta pubblica” per il male fatto e ci si protegga da nuove aggressioni[2].
La certezza della pena – nella prospettiva descritta – equivale alla certezza del carcere, che dovrebbe fungere da deterrenza alle scelte criminali.[3]
Questa visione, purtroppo oggi assai diffusa, potrebbe indurre a considerare la relazione che ha dato origine al presente lavoro il frutto di un’eccentrica incursione della magistratura contabile in un territorio estraneo al proprio orizzonte e, comunque, di scarso rilievo giuridico.
Al di là della non condivisibilità dell’obiezione e dell’approccio sotteso – anche per ragioni legate al dettato costituzionale – non deve dimenticarsi che l’attività di ogni articolazione dell’amministrazione è soggetta, oltre che alle regole peculiari del settore, anche alle norme e ai principi generali che sovraintendono l’esercizio dei pubblici poteri, necessariamente proteso, in base al principio sancito dall’art. 97 della Costituzione, alla cura degli interessi pubblici agli stessi affidati, da perseguirsi mediante un corretto utilizzo delle risorse pubbliche.
Un esempio concreto, tratto dalla casistica afferente alla sottoposizione al visto di atti, rende evidente il rapporto fra i compiti intestati alla Corte dei conti e la tematica oggetto di indagine[4].
Nel caso di specie, il punto di contatto concerne la qualità del vitto offerto ai detenuti, cui deve essere garantita “un’alimentazione sana e sufficiente, adeguata all’età, al sesso, allo stato di salute, al lavoro, alla stagione, al clima”, come prescritto dall’art. 9 della legge 26 luglio 1975, n. 354, recante “Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà” .
Si fa riferimento alle diverse delibere con cui la Sezione Regionale di Controllo per il Lazio ha ricusato il visto sui decreti di approvazione di contratti riguardanti la fornitura del vitto nell’ambito di numerose strutture carcerarie site nella regione.[5]
Nelle ipotesi esaminate, l’amministrazione aveva formulato bandi di gara riguardanti il solo servizio obbligatorio e principale di vitto, assegnandolo alle aggiudicatarie che avevano presentato consistenti ribassi, tali da condurre ad un impegno alla consegna delle derrate alimentari necessarie al confezionamento dei pasti giornalieri completi (colazione, pranzo e cena) ad un prezzo estremante contenuto (in due ipotesi 2,39 euro; 2,25 euro e 3 euro nelle altre); la fornitura del sopravvitto, acquistato dai detenuti con i fondi del proprio peculio, invece, era considerata meramente accessoria e la possibilità di richiederla ex post era rimessa alla valutazione discrezionale degli istituti di pena, i quali, di fatto, in realtà, si erano sistematicamente avvalsi di tale facoltà.
Il Collegio del controllo, valutate tali circostanze, osservava che il servizio di vitto non era economicamente sostenibile ove svincolato dai ricavi del sopravvitto e che quest’ultimo, in effetti, non aveva una natura realmente accessoria, data la sua centralità sotto il profilo della convenienza dell’operazione, interamente gestita da un’unica impresa in posizione di potenziale conflitto di interessi, a tutto discapito della qualità della fornitura dei beni alimentari primari.
La Sezione, quindi, considerato che le offerte avevano riguardato solo il vitto, ravvisava la violazione degli artt. 35, comma 4, e 95 del codice dei contratti, nella versione applicabile ratione temporis, e del sotteso principio della tutela della concorrenza e – scorgendo anche il rischio della compromissione dei basilari diritti dei detenuti fondati sugli artt. 27, comma 2, e 32 Cost. – trametteva le proprie delibere anche al Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale.
Il tema dell’eventuale inadeguatezza dell’alimentazione offerta ai detenuti, peraltro, si palesa estremamente attuale: si attendono, infatti, gli esiti del processo – avviato in seguito ad un esposto presentato dalla Garante di Roma Capitale – inerente al reato di frode nelle pubbliche forniture a carico dei vertici di una ditta incaricata del servizio di vitto cui è stato contestato di aver servito cibo scadente ed avariato o, comunque, non conforme alle prescrizioni del capitolato. –
Sembra opportuno, quindi, che ciascuno degli attori istituzionali coinvolti si impegni in un’attenta vigilanza sulla quantità e qualità del vitto e sull’accessibilità dei costi del sopravvitto, trattandosi di aspetti inerenti alla cura del bene primario della salute degli ospiti degli istituti di pena.
Sotto altro profilo, si rammenta che la Corte svolge un controllo successivo sulla gestione, effettuato, sulla base di programmi annuali, accertando, anche in base all'esito di altri controlli, la rispondenza dei risultati dell'attività amministrativa agli obiettivi stabiliti dalla legge, valutando comparativamente costi, modi e tempi dello svolgimento dell'azione amministrativa.
Ai fini d’interesse si richiama la deliberazione n.3/2021/G, riguardante “L’attuazione della legislazione di riforma dell’organizzazione della polizia penitenziaria nell’ambito del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria”, in cui la Sezione centrale di Controllo per le amministrazioni dello Stato ha espresso la raccomandazione di procedere alla copertura delle piante organiche e all’allocazione delle risorse umane sotto il profilo territoriale.
La Corte dei conti e il mondo dell’esecuzione penale, dunque, non sono così distanti, posto che la prima è custode e garante della corretta gestione delle risorse pubbliche, ivi comprese quelle afferenti al settore di interesse, a vantaggio e presidio dell’intera collettività, composta, ovviamente, anche da coloro vivono una situazione di privazione della libertà.
2. La funzione della pena nella costituzione
La realtà penitenziaria, dunque, si presta ad essere scrutinata sotto il profilo dell’efficacia dell’apparato in rapporto all’obiettivo istituzionalmente prefissato, che non può indentificarsi nel mero contenimento del reo o nell’inflizione di un male simmetrico a quello compiuto.
Il legislatore costituzionale, infatti, all’art. 27, comma 3, della Carta fondamentale ha chiaramente stabilito che finalità della pena consiste nella rieducazione del reo, da interpretarsi come tensione verso la risocializzazione e il reinserimento sociale.[6]
La pena, inoltre, per dirsi rispettosa del sistema di principi e valori costituzionali, deve essere in linea con ulteriori disposizioni, dal momento che i detenuti – seppure inevitabilmente privati di una parte della loro libertà, essenzialmente quella di movimento – restano titolari dei diritti all’integrità fisica, al lavoro, alla professione della propria religione, ai rapporti familiari e all’affettività, all’informazione, alla libertà di pensiero, alla salute, all’istruzione, rispettivamente tutelati dagli artt. 2, 4, 19, 21, 29, 30,31, 32, 34 Cost., che devono essere loro garantiti.[7]
L’applicazione dell’art. 3 Cost. implica, poi, la necessità di rivolgere un’attività di recupero sociale nei confronti di coloro che hanno trasgredito a causa di una condizione di inferiorità ed emarginazione, dovendosi riservare ai soggetti che delinquono pur senza trovarsi in una situazione di svantaggio, tecniche rieducative diverse.
Altre norme, riguardanti direttamente lo stato di restrizione della libertà personale, rilevano in negativo, indicando ciò che la pena non deve essere: l’art. 13, comma 4, Cost., rende punibile ogni violenza fisica e morale inflitta a coloro che versano in tale situazione e lo stesso art. 27, comma 3, Cost. vieta i trattamenti contrari al senso di umanità.
Lo Stato, infine, in base all’art. 117 Cost., che impone il rispetto dei vincoli internazionali, è tenuto al rispetto delle fonti convenzionali quali la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) e la Convenzione europea per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti.
3. L’ “essere” e il “dover essere” nell’esecuzione penale
I principi sopra elencati, però, rischiano di restare formule astratte ed inattuate, come se avessero un valore meramente programmatico.
Se è vero, infatti, che sul piano normativo e teorico la pena detentiva non può consistere in una “vendetta pubblica” né in uno strumento esclusivamente securitario, sul piano concreto e fattuale la realtà degli istituti di pena – per come descritta dai rapporti del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale e risultante dalle testimonianze dei garanti territoriali, dai magistrati di sorveglianza e dalle pagine dei quotidiani che scandiscono il triste elenco, in continua progressione, dei detenuti che hanno scelto di togliersi la vita – appare ben lontana dal rispecchiare il modello delineato dalla Costituzione.[8]
Il sovraffollamento degli istituti, in crescente aumento, costituisce il primo ed il più evidente elemento (anche non certamente l’unico) che marca il divario fra l’essere e il dover essere nell’ambito d’interesse: al 9 dicembre 2024 erano presenti 62.363 detenuti (di cui 9.918 in attesa di primo giudizio) a fronte dei 46.666 posti regolarmente disponibili ed di una capienza regolamentare di 51.165 (con un divario di 4.499 posti); il relativo indice passa dal 115,36% registrato il 30 giugno 2022 all’attuale percentuale di 133,64%.
Si tratta di una situazione prossima a raggiungere il livello di criticità sanzionato con la “sentenza Torreggiani” dell’8 gennaio 2013, ma, del resto, le condanne pronunciate nel contesto dell’ordinamento interno, certificano la persistenza nel contesto delle carceri italiane di situazioni tali da dover qualificare le condizioni detentive quali inumante e degradanti.[9]
Il sovraffollamento poi, influendo negativamente sulle condizioni di vita dei detenuti e sull’ambiente lavorativo degli operatori interessati, produce ulteriori tragici corollari, fungendo da spinta, quanto meno concausale, delle scelte suicidarie.
Si delinea così un rapporto di correlazione che, oltre ad essere intuitivo, è stato di recente oggetto di un’accurata analisi da parte del Garante nazionale, rappresentata nel “Focus suicidi e decessi in carcere anno 2024”, costantemente aggiornato.
I numeri, nella loro fredda asetticità, in realtà – se si rammenta che ogni cifra esprime la decisione di uno uomo o di una donna di togliersi la vita, non tollerando il protrarsi delle proprie sofferenze – sono impietosi: alla data del 20 dicembre 2024 sono stati accertati 83 suicidi (cui aggiungere 20 decessi per cause ancora da accertare), con un incremento rispetto al 2023, in cui, a quella data, si erano registrati 66 casi.
Fra i parametri esaminati dal Garante rientrano l’età, il reato ascritto, la posizione giuridica, il tempo di permanenza nell’istituto, la tipologia delle sezioni (aperta o chiusa), le motivazioni del gesto, se note (riconducibili, in alcuni casi, a “sconforto”) e il sovraffollamento degli istituti.
Il raffronto basato sull’ultimo degli indici elencati, come sopra anticipato, appare particolarmente significativo: su 54 degli istituti in cui si sono verificati gli eventi suicidari, 51 registrano un indice di affollamento superiore a 100 e, fra questi, 22 superiore a 150.
Alla luce dei dati esposti, quindi, appare del tutto plausibile che l’affollamento dei luoghi, la sua ricaduta sulle condizioni materiali e sulla spersonalizzazione soggettiva, insieme alle fragilità individuali, compongano il contesto entro il quale si collocano sia le scelte suicidarie sia, più in generale, gli eventi critici espressione del disagio detentivo, quali gli atti di autolesionismo, le aggressioni fisiche al personale di Polizia Penitenziaria e al personale amministrativo e le proteste.
Il tema delle proteste, in particolare, induce ad una riflessione in merito al clima di tensione che contribuisce a suscitarle e alle modalità della loro repressione, tenuto conto delle informazioni fornite da Antigone nel “Ventesimo rapporto sulle condizioni di detenzione.”[10]
L’associazione riferisce di vicende processuali, ancora in itinere, riguardanti, fra l’altro, le ipotesi di gravi abusi e violenze che sarebbero state inflitte ai detenuti ristretti presso le Casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere e di Melfi come ritorsione per le proteste intentate durante l’emergenza COVID.
Non sono state dimostrate le eventuali responsabilità dei singoli, innocenti fino ad un’eventuale condanna definitiva, ma, in ogni caso, lo scenario che risulta dalle pagine del rapporto merita attenzione, anche a proposito del dibattito riguardante l’istituzione del nuovo reato di “rivolta penitenziaria”, che secondo quanto sostenuto da qualificati operatori ed esegeti[11], esprimerebbe una scelta di criminalizzazione non adeguata alla cura degli interessi da proteggere in luogo di altri interventi volti a mitigare le difficoltà e le asprezze che caratterizzano i luoghi di pena.
Gli aspetti che rendono la pena una forzata permanenza in luogo insalubre a scapito della finalità rieducativa, comunque, non si riducono al sovraffollamento e alle sue ricadute[12]: il catalogo è ampio e, fra gli altri, ci si limita a citare il tema delle difficoltà dei detenuti ad accedere alle cure mediche, specie se afflitti da patologie psichiatriche, nonché la questione della preclusione allo svolgimento di colloqui di carattere riservato, pur all’indomani della storica sentenza della Consulta n. 10/2024, che, secondo quanto chiarito dalla I Sezione della Cassazione con la sentenza n. 8/2025, non fonda solo una mera aspettativa ma sancisce il diritto all’esercizio dell’affettività all’interno degli istituti.[13]
4. Recenti modifiche alla disciplina dell’esecuzione penale e interventi normativi ancora in itinere.
Il quadro normativo è stato di recente inciso da innovazioni (in parte ancora in fieri) in ordine alle quali – senza pretesa di esaustività – si propongono le brevi riflessioni che seguono.
4.1. Occorre prendere in esame, in primo luogo, il D.L. n. 92 del 4 luglio 2024, recante “Misure urgenti in materia penitenziaria, di giustizia civile e penale e di personale del Ministero della Giustizia”, convertito nella legge 8 agosto 2024, n. 112, proponendo preliminarmente una duplice considerazione di carattere generale.
Una prima riflessione attiene alla scelta dello strumento della decretazione di urgenza, previsto dall’art. 77, comma secondo, Cost., con riguardo ai relativi presupposti e alle misure individuate.
Sotto il primo profilo, non può dubitarsi che le condizioni critiche in cui versa il sistema carcerario integrino la straordinaria necessità e urgenza richiesta dalla disposizione richiamata, trattandosi di una situazione che, anche in ragione dell’elevato numero dei suicidi, richiede provvedimenti incisivi e non più procrastinabili.
Sul fronte delle misure, invece, si riscontra un disallineamento fra il presupposto dell’urgenza e il differimento dell’attuazione di alcune disposizioni, non di immediata applicazione, come pure è previsto dall’art. 15, comma 3, della l. 23 agosto 1988, n. 400,[14] e, soprattutto, come suggerito dalla gravità dell’emergenza da fronteggiare.
Una seconda osservazione, non disgiunta da quella che precede, attiene alla ratio ispiratrice della riforma, prevalentemente mossa dal proposito di migliorare il funzionamento degli istituti di pena attraverso l’incremento del personale di polizia penitenziaria e della dirigenza e dall’esigenza di razionalizzare alcuni benefici, semplificando anche le relative procedure di accesso; l’intento di ridurre la popolazione carceraria, invece, non è ricompreso fra le finalità perseguite.[15]
a) Passando all’esame delle singole disposizioni, deve sicuramente apprezzarsi l’assunzione di agenti e di nuovi dirigenti, oltre allo scorrimento delle graduatorie dei concorsi per ispettori già espletati, di cui agli articoli 1, 2 e 3, volta a ridurre la scopertura di organico che affligge il settore, con un intervento dichiaratamente attuato extra ordinem, vale a dire ulteriore e aggiuntivo rispetto al ricambio reso necessario dal turn over.[16]
Residuano, tuttavia, alcune perplessità.
La prima attiene alle significative e perduranti carenze del personale di Polizia penitenziaria, che rendono la misura, seppur utile e sicuramente apprezzabile, non risolutiva. [17]
Inoltre, la possibile diminuzione del periodo di formazione degli agenti prevista dall’art. 4, pur ispirata a comprensibili finalità acceleratorie dell’immissione in servizio, rischia di incidere negativamente sulla loro preparazione ad affrontare il compito estremamente delicato e complesso della gestione quotidiana delle persone detenute, anche sotto i profili della tutela dei diritti fondamentali delle persone custodite e delle capacità di fronteggiare eventi critici, purtroppo, non infrequenti.
Del resto, il motto del Corpo recita despondere spem munus nostrum (garantire la speranza è il nostro compito) e non sembra che possa prescindersi da un addestramento che possa aiutare gli agenti ad onorarlo con il loro faticoso lavoro quotidiano.
Si osserva, ancora, che le nuove assunzioni non riguardano altre figure, pure gravemente carenti all’interno delle carceri ed essenziali per poter delineare percorsi risocializzanti, quali educatori, psicologi, mediatori culturali, della cui presenza beneficerebbe l’intera comunità penitenziaria[18].
b) In fase di conversione, al fine di far fronte alla grave situazione di sovraffollamento degli istituti penitenziari, è stato inserito un articolo 4-bis[19], che istituisce di un Commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria – cui sono attribuiti amplissimi poteri, in carica sino al 31 dicembre 2026, chiamato a compiere tutti gli atti necessari per realizzare “nuove infrastrutture penitenziarie” e “opere di riqualificazione e ristrutturazione delle strutture esistenti, al fine di aumentarne la capienza e di garantire una migliore condizione di vita dei detenuti” .
Si tratta del primo passo di un programma molto vasto ed articolato, ancora non concretamente delineato: in attesa di apprezzarne lo sviluppo, sulla base della lettura della norma, si ritiene di dover diversificare il giudizio a seconda degli obiettivi da perseguire, nei termini esplicitati.
Il proposito di riqualificare le strutture esistenti, recuperandone porzioni fatiscenti e ripensando gli spazi della detenzione, nell’ottica del miglioramento delle attività trattamentali e delle condizioni di vita dei detenuti (anche sotto il profilo dell’individuazione di aree dedicate all’affettività) appare pienamente condivisibile.
Alla costruzione di nuove carceri, destinate inevitabilmente a saturarsi, invece, sembra che debbano essere preferite altre strategie, incentrate su una visione non carcero – centrica e di respiro più ampio della mera repressione, tanto più che le deficienze di organico riguardanti tutte le figure professionali coinvolte nell’esecuzione penale renderebbero poco produttivo l’impegno rivolto alla realizzazione di nuove strutture, destinate anche esse a restare sguarnite di personale[20].
c) L’art. 5 interviene in materia di liberazione anticipata; le detrazioni, finora concesse su istanza dell’interessato, verranno applicate d’ufficio della magistratura di sorveglianza che le calcolerà al momento della valutazione di istanze riguardante l’accesso a una misura alternativa (o ad un altro beneficio) o all’approssimarsi del fine pena, a meno che il detenuto non presenti una richiesta sorretta da uno specifico interesse.
Anche a tale riguardo, pur apprezzandosi l’intento semplificativo della novella, non possono sottacersi alcuni dubbi.[21]
Una prima criticità attiene alla scelta di fare a meno delle valutazioni semestrali, che, diradando il confronto con gli interlocutori istituzionali, rischia di amplificare il senso di solitudine dei detenuti.
Ciò in quanto gli interessati sono esposti a un giudizio consuntivo, espresso, nel caso di pene di consistente entità, solo dopo un prolungato silenzio, venendo privati del riscontro fornito dalle periodiche indicazioni, valorizzate nella sentenza della Corte costituzionale n. 276/1990, e utili a rafforzare buoni propositi e a scoraggiare tempestivamente il protrarsi di condotte non consone.
Eventuali ritardi nella decisione, inoltre, specie con riferimento alle decisioni da assumere in vista dell’approssimarsi del fine pena, inciderebbero in modo significativo sulla posizione del detenuto, dal momento che eventuali difficoltà ad ottenere una pronuncia tempestiva comporterebbero una indebita permanenza in carcere.
La mancata previsione di una disciplina intertemporale, infine, rischia di confondere, oltre che gli aspiranti beneficiari, anche i qualificati interpreti che dovranno applicare le nuove disposizioni.
Sullo sfondo restano due questioni irrisolte.
La prima riguarda il sottodimensionamento degli organici sia magistratuali che amministrativi degli uffici di sorveglianza – oberati da un’enorme mole di lavoro, non supportati dalle misure di rafforzamento previste dal PNRR e non adeguatamente informatizzati – non superabile dagli accorgimenti semplificatori introdotti.
La seconda attiene al sovraffollamento, sul quale il legislatore non ha inteso incidere mediante un incremento del numero dei giorni di detrazione della pena, pur trattandosi di uno strumento utilizzabile per alleviare, in questo caso con effetto immediato, il congestionamento del sistema, come già avvenuto all’indomani della condanna inflitta all’Italia con la “sentenza Torregiani”.
d) L’art. 6 ha previsto un incremento del numero colloqui telefonici, aumentati dal numero di uno la settimana a sei al mese a seguito di una modifica da apportare, per mezzo di un regolamento da adottarsi ai sensi dell'articolo 17, comma 1, della legge 23 agosto 1988, n. 400, all’art. 39 del D.P.R. 30 giugno 2000, n. 230; nel frattempo, le direzioni dei singoli istituti potranno autorizzare ulteriori colloqui oltre i limiti attualmente previsti.
La norma si propone di sistematizzare la materia, interessata da diverse modifiche, limitando la discrezionalità sull’ampliamento dei colloqui.
La portata dell’innovazione (che risente di uno scarso coordinamento con l’art. 2-quinquies della legge 25 giugno 2020, n. 70, fonte, fra l’altro, di rango superiore al regolamento), tuttavia, avrebbe potuto essere più significativa, fino a spingersi a concedere ai detenuti, in assenza di esigenze cautelari ovvero di ragioni ostative di carattere processuale o legate alla pericolosità sociale del soggetto, la libertà di intrattenere quotidiani contatti con i loro cari, attenuando il rischio suicidario e favorendo la risocializzazione; la nuova disciplina, inoltre, avrebbe potuto essere ispirata ad una maggiore coerenza rispetto ai principi recentemente espressi dalla Corte Costituzionale in tema dell’affettività dei ristretti e di colloqui telefonici.[22]
e) L’occasione di adeguarsi ai principi affermati dalla Consulta non è stata colta neppure in riferimento alla lettera f dell’art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario, incisa dalle sentenze n.186/2018 n. 97/2020 che ne hanno dichiarato l’incostituzionalità nelle parti in cui prevedeva il divieto di cucinare cibi ed affermava l’assoluta impossibilità di scambiare oggetti, anche tra detenuti appartenenti al medesimo gruppo di socialità: la norma, infatti, è restata immutata nella sua formulazione, se non per la modifica del segno di interpunzione, in precedenza un punto fermo, divenuto un punto e virgola che precede la nuova lettera f-bis, inserita dall’art. 7 del decreto in commento, alla lettera b dell’unico comma.
Tale disposizione vieta ai detenuti ostativi l’accesso ai percorsi di giustizia riparativa, ponendo una preclusione assoluta, non in linea con l’orientamento del giudice delle leggi che ha ritenuto le limitazioni contenute nel richiamato 41-bis compatibili con i principi costituzionali solamente a condizione che siano finalizzate in modo congruo e proporzionato a prevenire rischi per la sicurezza, risolvendosi altrimenti in una mera vessazione (cfr. le sentenze della Corte Costituzionale n. 351 del 1996 e n.149 del 2018)[23].
f) L’art. 8, concernente le “misure penali di comunità” prevede la creazione di un registro presso il Ministero della Giustizia, in cui potranno essere iscritte quelle strutture che, oltre ad offrire una residenza, garantiscano lo svolgimento di servizi di assistenza, riqualificazione professionale e reinserimento socio-lavorativo anche a vantaggio di soggetti che soffrono di dipendenza da alcool e stupefacenti o di problematiche psichiatriche il cui trattamento non necessiti di ricovero in reparti specificamente attrezzati.
Al fine di agevolare l’ingresso degli interessati, le strutture verranno incluse in elenco tenuto e aggiornato dal Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità del Ministero della Giustizia, che provvederà anche ad esplicare un’attività di vigilanza, secondo le modalità che verranno dettagliate con decreto del Ministro della Giustizia da adottarsi ai sensi dell’art. 17, comma 3, della legge n. 400/1988, cui si rimandano ulteriori aspetti esplicativi; a beneficio dei detenuti sprovvisti di domicilio idoneo e che sono in condizioni socio-economiche non sufficienti per provvedere al proprio sostentamento, vengono stanziati 7 milioni euro annui.
In sede di prima la lettura, la norma sembra apprezzabile in quanto comporta una deflazione della popolazione carceraria e il reindirizzamento verso percorsi risocializzanti esterni, anche estesi a soggetti che versano in particolari difficoltà.
La disposizione, che così come altre esaminate, non è di immediata applicazione, tuttavia, rivela, in nuce, potenziali criticità che potranno essere scongiurate in fase di redazione della normativa secondaria e della successiva attuazione.
Si fa riferimento, in primo luogo, alla necessità che l’organizzazione delle strutture non ricalchi quella che caratterizza gli istituti penitenziari, posto che, in questo caso si assisterebbe a un’inammissibile privatizzazione dell’esecuzione penale e, nella sostanza, all’elusione della ratio sottesa alla disposizione.
La previsione, inoltre, non sopperisce alle difficoltà di gestire i numerosi detenuti tossicodipendenti o affetti da patologie psichiatriche necessitanti della presa in carico presso apposite strutture terapeutiche, attualmente non adeguate e presenti in numero significativamente inferiore alle esigenze effettive.[24]
4.2. In secondo luogo, occorre fare riferimento al disegno di legge di iniziativa governativa (c.d. pacchetto sicurezza) approvato dalla Camera dei deputati il 18 settembre 2024 e attualmente all'esame del Senato, recante "Disposizioni in materia di sicurezza pubblica, di tutela del personale in servizio, nonché di vittime dell'usura e di ordinamento penitenziario", ispirato prevalentemente all’esigenza di fornire una risposta alle esigenze di maggiore sicurezza e tutela dei cittadini.
Al riguardo, deve evidenziarsi che, se al D.L.n.42/2024 può essere imputato di non esplicare significativi effetti deflattivi del numero dei detenuti, il disegno di legge sopra menzionato è addirittura destinato a produrre un aumento della popolazione carceraria, quale inevitabile ricaduta dell’introduzione di nuovi reati e di circostanze aggravanti, nel quadro della criminalizzazione o della più severa repressione di condotte per lo più espressione di contesti di marginalità sociale[25].
Due fattispecie meritano un attento scrutinio.
a) L’art.15, comma 1, interviene sugli artt. 146 e 147 c.p., rendendo facoltativo anziché obbligatorio, il rinvio dell’esecuzione della pena per le donne incinte e per le madri di prole fino a un anno, così come già avviene nel caso di figli di età da uno a tre anni, mantenendo quale unica distinzione fra le due ipotesi la necessità che, nel primo caso, l’esecuzione abbia luogo in un istituto a custodia attenuata per detenute madri; l’esecuzione, inoltre, non potrebbe essere rinviata qualora sussista il rischio, di eccezionale rilevanza, di commissione di ulteriori delitti, presumibilmente riscontrabile nel caso di serialità di pregressi reati contro il patrimonio e nella mancanza di fonti di reddito.
Sul piano concreto, occorre tener presente che il numero delle detenute madri, alla data del 9 dicembre 2024 era pari a 12 e, ipotizzando un corrispondente numero di madri in attesa o con prole inferiore ad un anno interessate dalla misura, non pare di scorgere un fenomeno di entità tale da giustificare un allarme sociale.[26]
Sempre su un piano fattuale, si fa presente che l’attenuazione della rigorosa previsione mediante l’indicazione di un più idoneo luogo di custodia è più apparente che reale, posto che sul territorio sono presenti solo cinque ICAM, con la conseguenza che, nella maggior parte dei casi, la detenuta madre, specie se residente in una delle regioni del sud, subirebbe il peso della scelta fra la prosecuzione della gravidanza e la cura del neonato in alternativa alla vicinanza degli altri affetti presenti nel proprio territorio, teoricamente garantita dagli artt. 28 e 42, comma 2, dell’ordinamento penitenziario.
Ciò premesso, la modifica non persuade, segnando una netta inversione di tendenza rispetto al percorso normativo e giurisprudenziale teso alla tutela della detenuta madre, in funzione dei “best interests of the child”, secondo la definizione dell’art. 3 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo e all’attuazione degli artt. 27, comma 3, sotto il profilo del senso di umanità, e dell’art.31 della Costituzione, che assegna alla Repubblica il compito di proteggere la maternità e l’infanzia.
Il differimento obbligatorio della pena, fino ad ora concesso ai sensi dell’art. 146 c.p., infatti, costituisce un importante tassello del predetto sistema di tutela, la cui dismissione nuocerebbe a bambini molto piccoli, che, trovandosi fin dalla nascita costretti in spazi ridotti in una situazione di deprivazione sensoriale, rischierebbero una grave compromissione del proprio sviluppo psichico e motorio.
Il costo dell’incremento della sicurezza “percepita”, in definitiva, verrebbe scaricato su pochi soggetti estremamente vulnerabili, spesso già vittime di un contesto di marginalità sociale e di disuguaglianza economica, se non del tutto incolpevoli, come i nascituri e i minori.[27]
b) L’art. 26, dedicato al “Rafforzamento della sicurezza negli istituti penitenziari”, al primo comma, lettera b, introduce nel codice penale l’art. 415-bis, rubricato “rivolta all’interno di un istituto penitenziario”, sanzionando con la pena della reclusione da uno a cinque anni (da elevarsi fino al limite di anni 20 al ricorrere delle aggravanti previste) la partecipazione alla rivolta attuata mediante atti di violenza o minaccia o di resistenza all’esecuzione degli ordini impartiti, commessi da tre o più persone riunite, incriminando anche le condotte di resistenza passiva, quando le stesse “avuto riguardo al numero delle persone coinvolte e al contesto in cui operano i pubblici ufficiali o gli incaricati di un pubblico servizio, impediscono il compimento degli atti dell’ufficio o del servizio necessari alla gestione dell’ordine e della sicurezza.”
Un rischio, non teorico, è che un detenuto responsabile di un reato non eccessivamente grave, trovandosi coinvolto in una rivolta carceraria – anche in quanto resistente passivo – subisca una condanna che, al ricorrere delle aggravanti previste, potrà arrivare fino a 20 anni.
La norma ha sollevato molteplici critiche, soprattutto per la rilevanza attribuita alla resistenza passiva, che, secondo l’orientamento costante della giurisprudenza, non integra il delitto di resistenza a pubblico ufficiale di cui all’art. 337 c.p. né può giustificare l’uso legittimo delle armi scriminato dall’art. 51 c.p.
Si è dubitato, in primis, della compatibilità della disposizione con principi di ragionevolezza, di offensività e di proporzionalità, tanto più in considerazione dell’equiparazione delle condotte di resistenza passive agli altri comportamenti sanzionati; la norma, inoltre, non pare rispondere ad uno standard di sufficiente determinatezza, risultando suscettibile – data la genericità del riferimento al “contesto” di realizzazione della condotta – di una applicazione arbitraria, declinata in funzione dell’esigenza di reprimere ogni contestazione sollevata all’interno di strutture inadeguate e afflitte da una situazione emergenziale di sovraffollamento.[28]
Fermi restando i sospetti di legittimità sopra avanzati, si dubita anche dell’efficacia di una risposta meramente repressiva alle gravi criticità del mondo penitenziario, trattandosi di un elemento di acutizzazione di un clima di tensione che, al contrario, avrebbe bisogno di essere smussato attraverso l’ascolto delle esigenze dei detenuti e il miglioramento delle loro condizioni di vita.
Questa opinione, che si ritiene meritevole di attenta considerazione, è stata espressa, con sostanziale unità di vedute dall’accademia, dagli organismi rappresentativi del foro e non da ultimo, a una rappresentanza di coloro che operano all’interno delle carceri.[29]
5. Considerazioni conclusive.
Le conclusioni rassegnate in seno al capitolo della memoria del Procuratore generale, nonostante siano trascorsi alcuni mesi, appaiono del tutto attuali: permane, infatti, la presenza delle criticità che marcano il divario fra la pena legale e quella reale, contraddicendo l’attuazione del finalismo rieducativo, poco credibile quando rivolto ad individui che subiscono la compromissione di diritti fondamentali e della propria dignità.[30]
Le massime autorità civili e politiche hanno colto la gravità della situazione, lanciando messaggi di forte impatto: il Papa, con l’apertura della porta santa Rebibbia, e il Capo dello Stato, nel discorso di fine d’anno, auspicando che i detenuti possano “respirare un’aria diversa da quella che li ha condotti alla illegalità e al crimine.”
Appare particolarmente significativo, inoltre, in considerazione delle specifiche ed elevate competenze dei firmatari, l’appello rivolto alle istituzioni alla società civile, dell’Associazione Italiana dei Professori di Diritto Penale (AIPDP) e dall’Associazione tra gli Studiosi del Processo Penale "G.D." Pisapia (ASPP), che, alla luce dei dati contenuti nel report sui suicidi in carcere predisposto dal Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, hanno espresso il proprio sconcerto per l’allarmante realtà delle carceri italiane.[31]
Ciò posto, si intravede un duplice percorso attraverso il quale la pena può cessare di essere “vendetta pubblica” per diventare un momento di speranza, di riflessione e di ripartenza, come preteso dalla carta fondamentale.
Una prima misura, di immediata praticabilità, potrebbe riguardare l’introduzione di meccanismi di sfoltimento della popolazione carceraria, eventualmente da rivolgersi a quella porzione che sta scontando pene brevi o esigui residui di pena (nel più recente report del Garante il numero dei detenuti che stanno scontando una pena di durata inferiore ad un anno risulta pari a 1.418 e quello dei condannati ad una pena inferiore ai due anni è di 3000; in riferimento ai residui di pena al di sotto delle predette soglie sono presenti rispettivamente 8.137 e 8.378 detenuti)[32].
Si tratta di interventi non procrastinabili nelle more dell’attuazione delle riforme già varate, o della realizzazione di progetti in itinere, in quanto, parafrasando il detto che recita che “l’ottimo è nemico del buono”, in questo caso può dirsi che l’“ottimo” è nemico del senso di umanità e del rispetto dovuto ad ogni individuo, dato che, nell’attesa di una futura riorganizzazione, si consuma un incessante sacrificio di vite umane.
Anche le strategie a lungo termine, peraltro, dovrebbero presupporre una visione non carcero -centrica che – valorizzando una lettura evolutiva dell’art. 27 Cost. nella parte in cui declina al plurale il sostantivo “pena” quale strumento tendente ad attuare il finalismo rieducativo – conduca all’effettivo ampliamento dello spettro delle sanzioni, ricomprendendovi soluzioni alternative alla detenzione (da riservarsi agli autori dei reati più gravi), meno devastanti per chi è tenuto a scontarle, con miglior impatto risocializzante, più efficaci e meno costose per l’erario.
Ancora più a monte, potrebbe immaginarsi un impegno delle istituzioni diretto a prevenire e non a reprimere comportamenti illeciti, incidente sulla fascia di popolazione condannata da una situazione di marginalità sociale e di povertà economica e culturale a condurre quell’esistenza degradata che è l’anticamera della trasgressione delle norme penali: per questo bisognerebbe arruolare quell’ “esercito di insegnanti” invocato da Gesualdo Bufalino.
Infine, tornando al nesso fra il mondo delle carceri e l’ambito delle funzioni del giudice contabile, si evidenzia che il contrasto alle disfunzioni descritte non è estraneo ai compiti della Corte.
La stessa, infatti, in qualità di custode delle risorse pubbliche, è chiamata a scongiurarne gli sprechi e a garantire, in corrispondenza ai diversi ruoli assegnati a ciascuna delle sue articolazioni, il loro corretto impiego: sul punto occorre ribadire con chiarezza – in via conclusiva – che le risorse costruttivamente utilizzate per creare condizioni di vita più umane nelle carceri, migliorando le attività trattamentali e le offerte formative, nella prospettiva di un reale reinserimento dei soggetti interessati, non sono sprecate, ma ben impiegate per garantire la sicurezza di tutti.
[1] La Corte dei conti, secondo quanto previsto dall’art. 40 del Regio Decreto 12 luglio 1934, n. 1214, delibera sul rendiconto generale dello Stato a Sezioni riunite e con le formalità della sua giurisdizione contenziosa, comportanti la trattazione in udienza pubblica e la partecipazione del Pubblico Ministero contabile. Quest’ultimo agisce a tutela dell’interesse generale alla regolarità della gestione finanziaria e patrimoniale. Vd. anche l’art. 6 del Regolamento per l’organizzazione delle funzioni di controllo della Corte dei conti, approvato con le delibera delle SS.RR. n. 14 del 16 giugno 2000.
[2] L’espressione è tratta dal titolo del volume di M. Bortolato – E. Vigna Vendetta pubblica. Il carcere in Italia, edito da Laterza nel 2020.
[3] Cfr., sulle ragioni del superamento di una simile concezione, il contributo di R. Bartoli, intitolato Sulle recenti riforme in ambito penale tra populismo, garantismo e costituzionalismo, apparso, il 3 ottobre 2024 sulla rivista Sistema penale,
[4] L’attribuzione alla Corte di conti della funzione di controllo della legittimità di atti è coeva alla sua stessa istituzione, risultando dall’art. 13 della legge 14 agosto 1862, n.800; la disciplina del controllo preventivo di legittimità è contenuta nell’art. 24 del R.D. 12 luglio 1934, n. 1214, nell’art. 3 della legge 14 gennaio 1994, n. 20 e nell’art. 27 della legge 29 settembre 2000, n. 300; disposizioni successive hanno modificato il novero degli atti da sottoporre a controllo differenziando le relative discipline.
[5] Cfr. le deliberazioni n.101/2021/PREV, n. 102/2021/PREV. n. 103/2021/PREV e n.104/2021/PREV. della Sezione di controllo per la regione Lazio.
[6] La disposizione in esame, peraltro, trova un importante riflesso in alcune delle disposizioni contenute nella legge 26 luglio 1975, n. 354, recante “Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà”, che all’art. 1, comma 2, prevede l’attuazione di un trattamento che tenda, anche attraverso i contatti con l'ambiente esterno, al reinserimento sociale, specificando, all’art. 15, che il trattamento deve essere svolto “avvalendosi principalmente dell'istruzione, del lavoro, della religione, delle attività culturali, ricreative e sportive e agevolando opportuni contatti con il mondo esterno ed i rapporti con la famiglia;” e che, salvo casi di impossibilità, “al condannato e all'internato è assicurato il lavoro”.
[7] L’importanza di garantire ogni diritto che non sia necessariamente inciso dallo stato di restrizione è facilmente intuibile; la Corte costituzionale, nella decisione 11 dicembre 2012, n. 301, ha chiarito che “chi si trova in stato di detenzione, pur privato della maggior parte della sua libertà, ne conserva sempre un residuo, che è tanto più prezioso in quanto costituisce l’ultimo ambito nel quale può espandersi la sua personalità individuale.”
[8] G. Fiandaca, nella premessa del suo saggio Punizione, edito da “il Mulino”, rivela che, in occasione della sua esperienza di Garante regionale dei detenuti, l’osservazione ravvicinata della drammatica condizione dell’universo penitenziario gli ha consentito di prendere atto dei molti fattori che oggettivamente determinano un ampio divario tra la astratta configurazione della pena detentiva e la sua dimensione concreta.
[9] La sentenza riguarda sette ricorsi, depositati tra il 2009 e il 2010, da altrettanti detenuti che lamentavano di aver subito un trattamento inumano e degradante per essere stati alloggiati in celle scarsamente illuminate di nove metri quadrati, da condividere con altre due persone, con limitazioni all’accesso all’acqua calda per le docce, per periodi che andavano da 14 a 54 mesi, tra il 2006 e il 2011.
In quella occasione, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia per la violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti umani in relazione ai trattamenti inumani o degradanti subiti dai ricorrenti, detenuti in una situazione di sovraffollamento degli istituti che li ospitavano, aggravata anche dalle descritte disfunzioni nei servizi.
A quell’epoca il sistema carcerario italiano ospitava intorno a 65.905 persone detenute.
Dopo la sentenza “Torreggiani” il Governo italiano ha adottato il decreto-legge 23 dicembre 2013 n.146 (c.d. decreto “Svuota-carceri”), successivamente convertito nella legge 21 febbraio 2014, n.10, introducendo nell’ordinamento penitenziario nuovi rimedi preventivi e risarcitori in favore dei detenuti e degli internati destinatari di trattamenti non rispettosi dell’art. 3 della CEDU.
In particolare, l’art. 35-bis dell’ordinamento penitenziario, ha previsto il reclamo giurisdizionale da proporre al magistrato di sorveglianza, dettandone la relativa disciplina mediante il rinvio agli artt. 666 e 678 c.p.p.; l’art. 35-ter, rubricato “Rimedi risarcitori conseguenti alla violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali nei confronti di soggetti detenuti o internati”, che consente ai destinatari di trattamenti inumani o degradanti (a causa del sovraffollamento o per altre cause) di conseguire un ristoro per la violazione subita, consistente in una riduzione della pena da espiare, nella misura di un giorno per ogni dieci giorni di pregiudizio subito, o, in via subordinata, in un indennizzo economico, corrispondente ad 8 euro per ogni giorno di pregiudizio patito.
[10] Cfr. la sezione del rapporto riguardante i procedimenti penali per il reato di tortura di cui all’articolo 613 bis c.p.
[11] Vd. il contributo del Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Cagliari L. Patronaggio pubblicato sul quotidiano la Repubblica il 10 dicembre 2024 e l’intervista rilasciata il 28 dicembre 2024 dal segretario generale del sindacato UilPa della Polizia Penitenziaria Gennarino De Fazio, su “Il Dubbio.”
[12] Cfr. il contributo di C. Mistrorigo, pubblicato il 12 dicembre 2024 sulla rivista Sistema penale, intitolato Una fotografia delle indegne condizioni presenti nelle carceri italiane in una ordinanza del magistrato di sorveglianza di Firenze a seguito di reclamo ex art. 35 bis o.p. e dell’allegata ordinanza del magistrato di sorveglianza presso il Tribunale di Firenze, e sulla stessa rivista, la lettera scritta da detenuti nel carcere di Brescia, Nerio Fischione, Canton Mombello, pubblicata il 17 agosto 2024 (Dai detenuti una lettera straziante e una lezione dal carcere).
[13] Cfr., su Sistema penale il contributo del 5 gennaio 2025 di G.L. Gatta, La Cassazione sull'affettività in carcere come diritto: ammissibile il reclamo del detenuto al quale sia negato un colloquio con il coniuge in condizioni di intimità e l’articolo di F. Cimino, Il diritto all’affettività ristretta. A quasi un anno dalla pronuncia della Corte costituzionale in materia di colloqui intimi, in Giurisprudenza Penale Web, 2024, 12.
[14] L’art. 77, sotto il profilo di interesse, deve comunque essere letto alla luce delle decisioni della Consulta n. 16 del 24 gennaio 2017 e n.170 del 12 luglio 2017.
[15] Questo aspetto è lucidamente evidenziato – insieme a molti altri – nel documento dalla Conferenza dei Garanti territoriali intitolato Alcune note sul Decreto-Legge n. 92 del 4 luglio 2024, recante «Misure urgenti in materia penitenziaria, di giustizia civile e penale e di personale del Ministero della Giustizia» e proposte di intervento IMMEDIATO al fine di porre termine alle condizioni drammatiche delle carceri italiane apparso il 22 luglio 2024 sulla rivista “Sistema Penale” (D.l. Nordio e carcere: il documento della Conferenza Nazionale dei Garanti Territoriali).
[16] Cfr. l’audizione del Capo del Dap, Giovanni Russo sul D.l./2024, resa in data 10 luglio alla Commissione Giustizia del Senato.
[17] Cfr. la Relazione sul rendiconto generale dello stato per il 2023, Volume II, tomo I, e precisamente la nota 36 di pag. 226, dove si chiarisce che “nel corso del 2023 si è provveduto all’assunzione di 312 unità di personale non dirigente nei diversi profili. Ciò nonostante, dato l’effetto del turn over, detto personale passa dalle complessive 36.257 unità del 2022 alle 35.818 rispetto ad un organico incrementato da 42.384 unità a 42.666.”
[18] Il tema – insieme a quelli inerenti alle modifiche alla liberazione anticipata, ai colloqui con i familiari e all’albo delle comunità, inquadrati nel contesto del decreto – viene affrontato nel contributo di E. Romano intitolato D.L. 92/2024 “Carcere Sicuro”, note sparse ad una prima lettura: nulla di straordinario, poco di necessario, scarsamente urgente, pubblicato su Giustizia Insieme il 9 luglio 2024 e nell’ articolo di F. Gianfilippi Il decreto-legge 4 luglio 2024 n. 92 “Carcere sicuro” e le attese del mondo penitenziario, pubblicato il 10 giugno sulla stessa rivista; vd. anche l’Audizione di M. Cristina Ornano sul D.L. 92/2024 "carcere sicuro" Commissione Giustizia del Senato 10 luglio 2024”, pubblicata su Giustizia Insieme il 15 luglio 2024.
[19] La disposizione è stata da ultimo modificata dall’art. 6 del D.L. 29 novembre 2024, n. 178, convertito nella legge 23 gennaio 2025, n. 4, che, fra l’altro, ha prorogato la durata in carica del Commissario.
[20] Le modifiche e le innovazioni apportate al decreto sono oggetto del contributo di F. Gianfilippi La conversione in legge 112/2024 delle misure (anche) in materia penitenziaria del d.l. 92/2024: pochi correttivi, nuove criticità e capitoli tutti ancora da scrivere, pubblicato su Giustizia insieme il 6 settembre 2024.
[21] Si rinvia ai contributi di E. Romano D.L. 92/2024 “Carcere Sicuro”, note sparse ad una prima lettura: nulla di straordinario, poco di necessario, scarsamente urgente e di F. Gianfilippi: Il decreto-legge 4 luglio 2024 n. 92 “Carcere sicuro” e le attese del mondo penitenziario e “La conversione in legge 112/2024 delle misure (anche) in materia penitenziaria del d.l. 92/2024: pochi correttivi, nuove criticità e capitoli tutti ancora da scrivere”, già citati.
[22] Si fa riferimento alle decisioni n.10 del 26 gennaio 2024 e n. 85 del 13 maggio 2024.
[23] Cfr. sul punto, le Riflessioni sui possibili margini di intervento parlamentare in sede di conversione del decreto-legge 4 luglio 2024, n. 92 (decreto carcere). Appunti a prima lettura di M. Ruotolo, pubblicato in data 11 luglio 2024 su Sistema penale, anche per gli spunti riguardanti altri aspetti del decreto, all’epoca in corso di conversione, incluso il tema dei colloqui telefonici; vd. anche l’“Audizione di M. Cristina Ornano sul D.L. 92/2024 "carcere sicuro" Commissione Giustizia del Senato 10 luglio 2024”, cit.
[24] Si rimanda ai contributi menzionati alle note 20, 21 e 23.
[25] Cfr. l’articolo di G. L. Gatta, Il pacchetto sicurezza e gli insegnamenti, dimenticati di Cesare Beccaria, pubblicato il 7 novembre su Sistema Penale
[26] Fonte: “Report analitico” del Garante Nazionale, tabella n.6, pag.10.
[27] Cfr. su Sistema penale, l’”Osservatorio sulla violenza contro le donne n. 4/2024 – Crimini di strada e condizionamenti sociali e ambientali: l’applicazione della disciplina della continuazione ai reati commessi dalle “borseggiatrici.” e i contributi di M. Ruotolo, Su alcune criticità costituzionali del c.d. pacchetto sicurezza (A.S. 1236) pubblicato il 9 ottobre 2024” sulla stessa rivista nonché l’articolo di F. Gianfilippi, Il DDL Sicurezza e il carcere pubblicato su Giustizia insieme” il 29 ottobre 2024.
[28] Cfr. i menzionati interventi di G. L. Gatta, Il pacchetto sicurezza e gli insegnamenti, dimenticati, di Cesare Beccaria; di Fabio Gianfilippi Il DDL Sicurezza e il carcere e di M. Ruotolo, Su alcune criticità costituzionali del c.d. pacchetto sicurezza (A.S. 1236).
[29] Cfr. su Sistema penale l’articolo di R. Cornelli Il Ddl Sicurezza alla prova della ricerca criminologica: prime annotazioni critiche”, pubblicato il 27 maggio 2024; vd. sempre su Sistema penale, i documenti con cui le camere penali italiane hanno deliberato lo stato di agitazione (Pacchetto sicurezza: l'Unione delle Camere Penali Italiane delibera lo stato di agitazione, del 2 ottobre 2024) e, in seguito, l’astensione dalle udienze (Pacchetto sicurezza: l'Unione delle Camere Penali Italiane delibera l'astensione dalle udienze dal 4 al 6 novembre e indice una manifestazione nazionale chiamando a confronto Avvocatura e Accademia, del 31 ottobre 2024, nonché, su Giustizia Insieme il comunicato dell’associazione italiana dei professori di diritto penale (Il diritto penale italiano verso una pericolosa svolta securitaria, del 24 ottobre 2024).
[30] Cfr. l’articolo “Detenuti senza dignità”, a firma del magistrato di sorveglianza Marcello Bortalato, Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Firenze, sulla rivista Questione Giustizia.
[31] Cfr., sulla rivista Sistema penale, il contributo del 1° gennaio 2025 intitolato Record di suicidi ed eventi critici in carcere nel 2024: i dati nel report del Garante dei detenuti. Il Presidente Mattarella nel messaggio di fine anno: l'alto numero di suicidi "è indice di condizioni inammissibili e sulla stessa rivista, pubblicato in data 27 dicembre 2024, il documento dell’Associazione Italiana dei Professori di Diritto Penale (AIPDP) e l'Associazione tra gli Studiosi del Processo Penale "G.D." Pisapia (ASPP), intitolato Un triste primato del 2024: l’ennesimo record dei sucidi in carcere.
[32] Fonte: Report analitico del Garante Nazionale, tabella n.8 di pag. 10.