di Paola Chirulli
Sommario: 1. Legittimità e merito nel pensiero di Eugenio Cannada-Bartoli- 2. L’ampliamento della nozione di legittimità come presupposto per un sindacato pieno - 3. La relatività della distinzione tra legittimità e merito - 4. Alcune recenti evoluzioni. Qualche riflessione conclusiva.
1. Legittimità e merito nel pensiero di Eugenio Cannada-Bartoli
Qualunque tentativo di indagare il controverso rapporto tra legittimità e merito, al fine di delimitare i poteri del giudice amministrativo, non può prescindere da una rilettura degli scritti di Eugenio Cannada-Bartoli.
Nella voce “Giustizia amministrativa” - che è quasi uno scritto monografico, conoscendo la sinteticità dell’A. - e che è opera della piena maturità, nella quale vengono ripresi e sviluppati temi approfonditi in una vita di studi, la distinzione tra legittimità e merito è il filo conduttore della trattazione[1]. Lì Cannada-Bartoli scrive che non vi è una separazione netta tra i due ambiti e che la distinzione si rivela un ostacolo solo apparente all’individuazione dell’ambito della giurisdizione del giudice amministrativo[2]. Essa ha un carattere storico e relativo, ossia è soggetta a continua revisione[3].
L’affermazione non è elusiva come potrebbe sembrare; vuole anzi sottolineare che non si è nel regno dell’incertezza o dell’indeterminatezza, bensì in quello dell’evoluzione, dell’affinamento progressivo. Ma anche della sensibilità alle circostanze del caso concreto e, aggiungo, di come nel tempo si atteggiano i rapporti tra poteri pubblici, a loro volta specchio del modo in cui essi rispondono alle attese della società, dunque, anche di come il giudice stesso vede il proprio ruolo.
Il giudice amministrativo svolge un compito fondamentale, poiché esso contribuisce quotidianamente alla revisione della distinzione tra legittimità e merito[4], alla sua definizione nel singolo caso concreto, e a una costante verifica critica dei propri limiti.
Gli insegnamenti del Maestro inducono anche a riflettere sul fatto che la distinzione tra legittimità e merito attiene da sempre al modo di esercizio del controllo giurisdizionale più che attingere al diritto sostanziale, nel quale emergerà tardi e con difficoltà[5]. Essa è in buona parte un portato storico del processo di formazione del nostro sistema di giustizia amministrativa, a cui si deve l’aver accentuato, in taluni momenti, la differenza tra legittimità e merito e in altri, l’averla ridotta. La stessa tipizzazione dei tre vizi di legittimità ha spesso condotto a una individuazione ristretta dell’ambito della legittimità, a vantaggio dell’estensione di quella del merito, lasciata indefinita.
E tuttavia, pur sfumata e mobile nel tempo, quella distinzione esiste, per il semplice fatto che la nostra costituzione la presuppone laddove definisce la giurisdizione di legittimità come generale, quella di merito come eccezionale. Inoltre, il controllo di legittimità non esaurisce le forme di sindacato giurisdizionale previste dall’ordinamento[6].
Quanto alla storicità, il quadro delle fonti sulla giustizia amministrativa si è arricchito rispetto a quello tenuto presente da E. Cannada-Bartoli, eppure molti suoi insegnamenti risultano attuali.
Il codice del processo amministrativo, all’art. 7, individua la giurisdizione di merito come un’ “estensione” della giurisdizione del giudice amministrativo, che consente a quest’ultimo, nelle specifiche materie in cui ciò è previsto, di sostituirsi all’amministrazione.
La norma non aiuta, giacché, col riferirsi alla “sostituzione” e alla “cognizione”, per certi versi dice troppo poco, per altri dice troppo.
Quanto all’uso del termine “sostituzione”, conviene tornare allo scritto sulla giustizia amministrativa del Maestro, nel quale, riprendendo Chiovenda, egli osservava che, in realtà, l’intera attività giurisdizionale è sostituzione, e ciò che conta è “determinare quale sia la regola dell’attività altrui, che viene sostituita dal giudice[7].”
Se il termine sostituzione dice troppo, il termine “cognizione” sembra non dire abbastanza, perché porta a circoscrivere l’ambito del sindacato di legittimità, lasciando intendere che esso si caratterizzi per una cognizione più limitata rispetto alla giurisdizione di merito.
Ma, a ben vedere, così non è. Non tutte le questioni di cui il giudice può (e deve) conoscere, può anche decidere. L’azione di annullamento ne è un esempio emblematico: qui la cognizione segna il perimetro di ciò che il giudice può verificare e accertare, mentre la sentenza, pur basandosi su ciò che è stato accertato dal giudice, non sempre può spingersi a tradurre in regola positiva ciò che è stato conosciuto. E tuttavia, misurando i poteri di cognizione su quelli di decisione, si corre il rischio di individuare una nozione molto restrittiva del sindacato di legittimità rispetto all’esercizio dei poteri discrezionali. Di qui, l’ambiguità dello stesso termine “sindacato”.
2. L’ampliamento della nozione di legittimità come presupposto per un sindacato pieno.
È per l’ampliamento della cognizione sottesa al controllo di legittimità che, secondo Cannada-Bartoli, deve passare il processo evolutivo della giurisdizione amministrativa.
Centrale è, anzi, la nozione stessa di legittimità[8], che è riferimento essenziale, al contempo, per la definizione dell’interesse legittimo, inteso come interesse alla legittimità dell’attività amministrativa[9]. Per come la nozione si è sviluppata nell’arco dei decenni con il contributo della dottrina e della giurisprudenza, e soprattutto con le innovazioni apportate dalla costituzione, essa non si esaurisce nella mera legalità, ma si integra con l’applicazione dei principi di buona amministrazione, di logicità, ragionevolezza e di economicità: in sintesi, buon andamento e imparzialità[10]. Inoltre, da attributo del “buon provvedimento”, essa è divenuta canone dell’intera attività amministrativa, e innanzitutto del suo incedere procedimentalizzato, ed è dunque flessibile parametro per il controllo giurisdizionale.
Ciò significa automaticamente rafforzare la posizione di interesse legittimo, connotandone ulteriormente le significative peculiarità, e valorizzando il suo intrecciarsi con processo di definizione dell’interesse pubblico concreto.
Per questo, accorciare la distanza tra legittimità e merito invocando la retorica del “bene della vita”, e la logica della “spettanza”, ossia tentando di equiparare gli interessi ai diritti, non si rivela tecnica promettente.
Secondo Cannada-Bartoli, la costituzionalizzazione (innovativa e non confermativa) delle due diverse forme di tutela - l’una legata ai diritti, l’altra agli interessi - si fonda su una diversità tra le due situazioni giuridiche, sul piano sostanziale prima ancora che processuale.
Sappiamo che la principale differenza sta tra la certezza e la mera probabilità del conseguimento di un bene[11]che la situazione assicura al suo titolare. Ed è un giudizio di probabilità quello che in molti casi il giudice amministrativo è chiamato a effettuare[12].
Così come il titolare dell’interesse, nemmeno il giudice ha la disponibilità di trasformare la probabilità di un bene in certezza[13]. In altre parole, non può sostituire la tutela dell’interesse alla probabilità di conseguire un bene con l’attribuzione di una certezza, tutte le volte che questa non possa ricavarsi dalle norme attributive del potere e dai principi che vi sono sottesi, nonché dai fatti e dalle risultanze dell’attività amministrativa istruttoria, ma richiede una nuova valutazione dell’amministrazione. Né può lo stesso ricorrente optare per la pretesa “maggiore” - quella cioè all’ottenimento di un provvedimento specifico satisfattivo - laddove ciò non sia consentito dalle norme processuali (perché non vi è una delle ipotesi in cui il giudice può sostituirsi nella produzione dell’effetto), o sostanziali (perché vi è un margine di discrezionalità da spendere non conformabile dal giudice).
Questo limite non è solo presente nei casi in cui il giudizio non può estendersi alla spettanza, ma anche in quelli della c.d. opinabilità, ancorché vi sia in gioco un interesse non di tipo pretensivo ma oppositivo. In questi casi il giudice si trova preclusa l’individuazione dell’interesse pubblico concreto e del correlato effetto giuridico, nonché la sua produzione, sia questo il rilascio di un provvedimento favorevole, ovvero l’eliminazione di uno sfavorevole e l’individuazione, attraverso il contenuto conformativo della sentenza, degli effetti da produrre in suo luogo. E ciò in quanto al giudice non viene demandata dall’ordinamento la decisione sul caso concreto, ma l’individuazione, sulla base del materiale probatorio, delle risultanze processuali e della normativa rilevante, dei criteri di “giustizia” per pervenire a una scelta legittima[14].
E tuttavia, è proprio questa natura “condizionata” dell’interesse legittimo a giustificare una tutela non soltanto di tipo negativo, ma anche e soprattutto di contenuto positivo, di tal che la probabilità non si trasforma in certezza ad opera del giudice, e tuttavia possiede un valore giuridico autonomo ed esce “accresciuta” dal giudizio[15].
Ed è, secondo il M., l’art. 97 della costituzione a fondare il potere conformativo del giudice, “che deve collegarsi alla domanda proponibile in giudizio per la tutela dell’interesse legittimo[16]”, e che non è “octroyé”[17], ossia graziosamente concesso, ma dovuto, laddove possibile nel suo esercizio.
Sulla base di questa nozione, il cittadino ha diritto a una definizione dell’interesse pubblico concreto che si conformi ai principi della corretta azione amministrativa e della buona amministrazione intesa come valore giuridico[18]. Provvedimento legittimo è anche quello che tutela l’interesse privato coincidente con l’interesse pubblico e sappiamo che quella dialettica non è necessariamente di opposizione, anzi: l’atto illegittimo lede tanto l’interesse privato quanto l’interesse pubblico.
Il ricorrente domanda la verifica dell’operato amministrativo ai principi di imparzialità e buon andamento, e chiede l’utilizzazione di una tecnica non basata su un criterio di verità né spesso su uno di certezza, ma su quello di probabilità. Nel fare ciò, il giudice può stabilire regole di diritto amministrativo[19], può individuare cioè qual è il modo corretto che l’amministrazione avrebbe dovuto seguire, sulla base dei criteri ricavabili dall’ordinamento, per giungere all’individuazione dell’interesse pubblico concreto nello specifico caso.
Se ne ricava una nozione evidentemente molto ampia di legittimità, e conseguentemente una concezione molto evoluta del controllo giurisdizionale[20].
3. La relatività della distinzione tra legittimità e merito.
Le indicazioni di E. Cannada-Bartoli offrono spunti per comprendere anche la relatività della distinzione tra legittimità e merito, che poco tollera la sussunzione in formule predeterminate. Si pensi all’affermazione, talora ancora diffusa, secondo la quale il controllo di legittimità implica un sindacato “debole” o “esterno”, di tipo non sostitutivo, sulla discrezionalità, frutto di una semplificazione, che omette di tenere in considerazione il fatto che la discrezionalità non è mai uguale a se stessa, perché dipende dal modo in cui il suo esercizio è disciplinato, si è svolto in concreto, nonché dal tipo di interessi sui quali l’amministrazione è chiamata a intervenire.
I primi due punti esprimono la circostanza che la discrezionalità non è un fenomeno statico, ma è un processo dinamico, di cui la scelta rappresenta soltanto il fotogramma ultimo.
L’esercizio dell’attività discrezionale dipende innanzitutto dalla maggiore o minore complessità di ciascun procedimento nella disciplina specifica che esso riceve, ossia dall’articolazione della norma attributiva del potere. È innanzitutto nel riesame delle modalità di svolgimento del procedimento, e nel loro rapporto con la scelta finale adottata, che il giudice ha la possibilità di confrontarsi con i parametri di buon andamento e imparzialità, di verificare cioè il corso funzionale o disfunzionale dell’esercizio del potere.
Poi vi sono le vicende concrete della singola fattispecie, la scomposizione dei singoli passaggi logico-argomentativi, il riesame della c.d. attività conoscitiva svolta dall’amministrazione, sui quali ci ha illuminato il contributo di Bruno Tonoletti[21]. Qui il giudice ha la massima ampiezza di osservazione, di conoscenza e di apprezzamento dei fatti. E in molti casi, se questo esame è svolto accuratamente, si avrà già modo di sindacare la scelta discrezionale nel suo farsi[22]. Sappiamo che il controllo di legittimità si è giovato del progressivo affinamento delle conoscenze tecniche relative anche all’organizzazione e all’attività amministrativa, e dei parametri di cui avvalersi in giudizio, sviluppando un potere di cognizione praticamente illimitato.
Non può del resto sottovalutarsi la questione della c.d. discrezionalità consumata, che si lega strettamente al rilievo che precede, e al cospetto della quale il giudice può spingere in là il limite dei suoi poteri decisori, perché non resta molto o niente di ancora aperto nella formula decisionale che l’amministrazione deve completare. Ciò può dipendere sia dal modo in cui le norme attributive del potere e la complessiva fattispecie del provvedere configurano il percorso decisionale, sia dalla presenza di scelte di predeterminazione già compiute. È quanto il codice del processo ha previsto all’art. 31, co. 3, nel caso dell’inerzia e dell’azione contro il silenzio, laddove ha stabilito che “Il giudice può pronunciare sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio solo quando si tratta di attività vincolata o quando risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non sono necessari adempimenti istruttori che debbano essere compiuti dall’amministrazione.”
Vero è che vi sono “materie”, nelle quali il peso della scelta soggettiva è più elevato che in altre, ed è sbilanciato rispetto a quello dell’istruttoria, ovvero l’amministrazione che è chiamata a compiere la scelta ha una posizione peculiare nell’ordinamento: concessione della cittadinanza, revoca del porto d’armi, aggiudicazione di appalti, trasferimenti militari, provvedimenti del Consiglio Superiore della Magistratura, vincoli storico-artistici, attività di pianificazione, provvedimenti di gestione dell’emergenza e del rischio, decisioni intrinsecamente politiche, come quelle sull’esercizio del golden power.
Qui la verifica “critica” dei propri limiti di sindacato si fa più delicata per il giudice, soprattutto quando sono in gioco valutazioni comparative, decisioni pervase da politicità, o attribuite a organi dotati di una peculiare posizione costituzionale[23]: per dirla con Cammeo, sarà più difficile isolare la “volontà” dall’“intelligenza” delle questioni oggetto del decidere[24].
Ma anche in questi casi, non possono semplicisticamente individuarsi campi preclusi. Non esistono questioni in astratto, o sempre non decidibili[25]. Il grado di sostituibilità non è individuabile ex ante, o affidabile a formule precostituite[26].
Allo stesso modo, non esistono questioni sempre decidibili da parte del giudice, sol perché la particolare materia richiede uno standard di tutela delle situazioni soggettive particolarmente elevato: il riferimento ai provvedimenti sanzionatori delle amministrazioni indipendenti lo rende particolarmente evidente. Qui mi sembra valere la medesima regola: in taluni, non rari casi, si potrà arrivare a un sindacato “sostitutivo”, perché le condizioni del caso specifico lo consentono, ma non può dirsi che il sindacato possa e debba essere sempre e del tutto sostitutivo[27]. La narrativa della full jurisdiction non è a mio avviso del tutto convincente, né risolutiva: che il nostro giudice, anche e soprattutto nei giudizi in materia di sanzioni pecuniarie di tipo afflittivo, sia dotato di una giurisdizione piena (e in parte anche di merito) non mi sembra dubitabile. Ma da ciò, e dalle stesse sentenze che spesso vengono citate, non si ricava che un sindacato pieno sul fatto o sul diritto – così come richiesto dalla CEDU - significhi sostituzione della decisione nel caso concreto, ossia quell’estensione massima del sindacato che identifica l’ambito della giurisdizione di merito. La stessa Corte di Giustizia, nell’escludere di incontrare limiti che le impediscano il sindacato della discrezionalità, in materia di sanzioni antitrust continua a distinguere tra full jurisdiction e unlimited jurisdiction, la prima riguarda la pienezza della giurisdizione, la seconda attiene alla sola possibilità di modificare il quantum della sanzione[28]. Alla possibilità di sostituire sempre anche l’esito dell’accertamento sull’an della sanzione[29] mi sembra che allo stato ostino il combinato disposto dell’art. 134, lett. c) e dell’art. 34, co.1, lett. d), c.p.a., nonché l’art. 7 d. lgs. n. 3/2017[30], per come interpretati dalla giurisprudenza prevalente, e sul punto sarebbe necessario un intervento del legislatore.
In secondo luogo, neppure la tesi pretoria secondo la quale il giudice può sempre vagliare la maggior attendibilità tra le tesi prospettate dalle parti[31] sembra cogliere interamente nel segno, giacché la sua praticabilità è subordinata almeno a due presupposti: richiede innanzitutto che il ricorrente prospetti una soluzione, un metodo, un criterio decisionale alternativo che sia argomentato e che si presti a essere paragonato a quello utilizzato dall’amministrazione, e apprezzato dal giudice, anche attraverso verificazioni o consulenze tecniche[32]. Occorre poi che, quand’anche sia così, ne discenda in ogni caso una regola per il decidere, che il giudice sia in grado di apprezzare nella sua oggettività e nella sua maggior conformità ai canoni della corretta amministrazione. Da ciò discende la possibilità di estendere al merito il contenuto del comando giudiziale, oppure di limitarlo a un annullamento implicante una nuova valutazione, sia pure essa un’applicazione della tecnica valutata come maggiormente attendibile dal giudice.
Proprio perché il sindacato si lega a un fenomeno dinamico, la sua estensione non è misurabile e valutabile ex ante, ma ex post.
4. Alcune recenti evoluzioni. Qualche riflessione conclusiva.
Non mancano casi in cui la giurisprudenza e la stessa legislazione hanno ipotizzato un effetto sostitutivo pieno, che consenta di attribuire al ricorrente l’agognato bene della vita, anche in casi in cui non vi sarebbe una sola scelta possibile, e si tratta di giudizio opinabile, ovvero a discrezionalità c.d. “non consumata”.
Qui la storicità e la relatività della distinzione tra legittimità e merito emergono in tutta la loro evidenza e intercettano l’opera del giudice che esplora criticamente ed empiricamente i propri limiti[33]. Basta evocare l’invenzione giurisprudenziale del one shot c.d. temperato, creata per rafforzare la portata dell’effetto preclusivo delle statuizioni giudiziali, e utilizzata (pure raramente), per arrivare a un effetto sostitutivo pieno da parte del giudice.
Vi sono, poi, anche norme che oggi espressamente sembrano garantire il “diritto incondizionato al bene della vita”, sancendo la consumazione del potere di valutazione dell’amministrazione a fronte di interessi legittimi pretensivi e introducendo delle preclusioni assolute al riesercizio del potere in senso sfavorevole al ricorrente. Il legislatore l’ha recepita estremizzandola con la riforma dell’art. 10-bis l. proc., che ha introdotto la regola del one-shot assoluto, sia pure subordinandola, espressamente o implicitamente, a una serie di condizioni. Nonostante l’apparente assolutezza della previsione, la giurisprudenza ne sta facendo un’applicazione piuttosto limitata, poiché in molti casi l’effetto preclusivo è impedito dalla portata ancora aperta della regola conformativa, ovvero in presenza di una discrezionalità non consumata, ancora disponibile per l’amministrazione[34].
È certamente vero che il codice del processo amministrativo ha previsto il potere del giudice di pronunciarsi sulla fondatezza della domanda in caso di silenzio, di condannare all’adozione delle misure idonee a tutelare la situazione dedotta in giudizio. È inoltre caduto il limite della salvezza degli ulteriori provvedimenti, sostituito da quello, ritenuto più blando, del divieto di pronunciarsi su poteri non ancora esercitati.
Sono indicazioni che spingono verso l’utilizzazione da parte del giudice di tutti i poteri di cognizione e di decisione che sono nella sua disponibilità. Su questi temi - pur a fronte di una disciplina processuale differente - aveva ragionato diversi anni fa Eugenio Cannada-Bartoli, commentando la sentenza del Consiglio di Stato anticipatrice della dottrina del c.d. one shot[35], e tornando a uno dei suoi temi più cari, il giudizio di ottemperanza e il suo rapporto con il giudicato[36], e completando altre riflessioni sulla necessità di sfruttare appieno tutte le possibilità decisorie e in particolare di evitare il ricorso alla tecnica dell’assorbimento dei motivi, ritenuto dallo studioso un’omissione di pronuncia[37].
L’A. dubitava che la fonte della preclusione ad addurre nel nuovo provvedimento di diniego motivazioni non in precedenza considerate fosse la sentenza del giudice, e non piuttosto una regola sostanziale che impone all’amministrazione di esaminare sempre l’affare nella sua interezza prima di provvedere, raccogliendo alcune suggestioni dottrinali e anticipando così riflessioni sui temperamenti al principio dell’inesauribilità del potere[38].
Il discorso ci porterebbe troppo lontano dal tema che ci occupa.
In conclusione, tra la massima utilizzazione dei poteri cognitori e decisori e l’esercizio di un’attività interamente sostitutiva continua a non esservi piena equivalenza e la giurisdizione “estesa al merito” implica qualcosa in più[39].
Più che espressione di un anacronistico attaccamento al principio della separazione dei poteri, dal quale potrebbe al più ricavarsi una “preferenza” di amministrazione[40], tale conclusione appare la più compatibile con un’interpretazione delle norme sul processo amministrativo conforme al testo costituzionale.
Il merito, così come residualmente circoscritto, e di volta in volta individuato, continua a sfuggire ai poteri decisori del giudice tutte le volte che non è esercizio di giurisdizione, e se questi si spingesse a individuare l’assetto definitivo degli interessi, completando egli stesso la fattispecie aperta discrezionale, senza che ciò fosse argomentabile alla luce delle norme e dei principi, lo farebbe utilizzando regole e strumenti – in altre parole, poteri - che non gli appartengono[41].
Per questo motivo, nei rari casi in cui il giudice amministrativo, pur nell’intento di offrire una tutela satisfattiva al privato, ha chiuso il cerchio dell’elusione, pronunciandosi in luogo dell’amministrazione, e ha riempito egli stesso gli spazi di una discrezionalità non esaurita sostituendosi a giudizi opinabili e soggettivi, privi di un ancoraggio oggettivo e di una motivazione giuridica, esso – in una inedita interpretazione del proprio ruolo – ha esercitato una funzione non solo giurisdizionale, ma anche punitiva e sanzionatoria, ossia più propriamente amministrativa[42].
Può concludersi, allora, che nell’accezione dinamica e relativa che si è tratteggiata, il “merito” non sia sempre precluso al giudice amministrativo, purché questi rimanga nei limiti compatibili con la natura giurisdizionale dell’attività svolta, ricordando, per dirla ancora una volta col Maestro, che “il merito è stato distinto dalla legittimità……non perché “merito”, ma perché amministrativo, dell’autorità amministrativa.[43]”
* Intervento presentato alle giornate di studio sulla giustizia amministrativa svoltesi a Modanella il 16 e il 17 giugno 2023 sul tema “Sindacato sulla discrezionalità amministrativa e ambito del giudizio di cognizione”.
[1] E. Cannada Bartoli, Giustizia amministrativa, in Dig. disc. pubbl., VII, 1991, 508.
[2] Id., 561.
[3] Revisione da parte dell’interprete e “precipuamente dal giudice”: così E. Cannada-Bartoli, Di alcuni aspetti del diritto amministrativo, Studi in onore di G. Zingali, 1965, II, 69.
[4] Il ruolo determinante del giudice è, secondo l’A. una conseguenza del carattere non scritto dello stesso diritto amministrativo.
[5] A. Romano Tassone, Sulle vicende del concetto di “merito”, in Dir. amm., 2008, 524. L’A. sottolineava come l’affiancamento del binomio legittimità-merito a quello sindacato di legittimità-sindacato di merito avesse portato a fare del merito una nozione non solo diversa da quella di legittimità, ma ad essa opposta, determinando la trasformazione della coppia in un binomio “a terzo escluso” e portando, di fatto, a una crisi e a una dissoluzione del concetto di merito.
[6] V. F. Francario, L’incerto confine tra giurisdizione di legittimità e di merito, in www.giustiziainsieme.it.
[7] E. Cannada-Bartoli, Giustizia amministrativa, cit., 544.
[8] Id., Una nozione necessaria: la legittimità degli atti amministrativi, in Foro it., 1955, IV, 201 ss.
Il tema è stato ripreso di recente nel lavoro monografico di A. Cioffi, Il problema della legittimità nell’ordinamento amministrativo, Padova, 2012.
[9] E. Cannada-Bartoli, Interesse (dir. amm.), Enc. Dir., XXII, 1972, 9: “Se l’art. 97, stabilendo i canoni dell’imparzialità e del buon andamento, costituisce la norma fondamentale dell’azione amministrativa, tale norma fonda, ad un tempo, la compiuta risoluzione dell’interesse pubblico nell’ordinamento e, mediante la nozione di legittimità, il contenuto dell’interesse legittimo, che non è possibile definire che in relazione all’interesse pubblico siffattamente risolto.”
[10] Lo precisa A. Cioffi, op. cit., 161, laddove, richiamando quella che definisce essere la grande intuizione della dogmatica classica, dice che “ragionevolezza, giustizia, imparzialità e buon andamento sono i principi della legittimità. Ma non sono esterni ad essa: “sono” la legittimità.”
[11] E. Cannada-Bartoli, Giustizia amministrativa, cit., 560.
[12] Sulla non coincidenza dell’oggetto dell’interesse con il bene della vita, v. F. G. Scoca, L’interesse legittimo. Storia e teoria, Torino, 2017, 410 ss.
[13] Su questo tema, v. le considerazioni di A. Romano Tassone, Giudice amministrativo e interesse legittimo, in Dir. proc. amm., 2006, 286 ss., laddove l’A. osservava come “la posizione del titolare di un interesse legittimo è dunque contrassegnata da una strutturale incertezza circa la soddisfazione finale dell’interesse di base” e come la possibilità attuativa dipenda dalla “predisposizione normativa di congegni limitativi e conformativi del potere”. Di qui, il limite per il giudice “dell’impossibilità di supplire egli stesso alla mancata attivazione dei congegni sostanziali di tutela dell’interesse legittimo.”
[14] In altre parole, al giudice viene attribuito il potere di decidere “non arbitrio judicis, ma ratione judicii” (E. Cannada-Bartoli, voce Giustizia, cit., 562), come recentemente rammentato da A. Scognamiglio, Rileggendo la voce “interesse” di Cannada-Bartoli, qualche riflessione sul metodo, in Dir. amm., 2022, 986.
[15] E. Cannada-Bartoli, Giustizia, cit., 562.
[16] Ibid., 560.
[17] Secondo una visione del giudice quale “padre spirituale dell’autorità amministrativa”: E. Cannada-Bartoli, op.loc.ult.cit.
[18] E. Cannada-Bartoli, Giustizia, 532. Già F. Cammeo, nel Commentario delle leggi sulla giustizia amministrativa, Milano, s.d., 315, aveva parlato del concetto equitativo del “buon amministratore”. Per un recente tentativo di ricostruire una nozione giuridica di efficienza, riconducendola nell’ambito della buona amministrazione, D. Vese, Sull’efficienza amministrativa in senso giuridico, Padova, 2017.
[19] Nella voce Processo amministrativo (considerazioni introduttive), Nuov. Dig. It., 1966, vol. XIII, 1084, il M. sottolineava come una delle particolarità della materia fosse proprio l’apporto del giudice amministrativo, anche di legittimità, allo “stabilimento del diritto amministrativo”. Scriveva: “La prova contemplata nell’art. 2697 c. Civ. presuppone la qualificazione normativa, formalmente posta (esterna, quasi) di un fatto produttivo di determinate conseguenze giuridiche. Il giudice amministrativo, invece, operando sulla base del principio costituzionale del buon andamento e dell’imparzialità, concorre a determinare, per integrazione di siffatto principio, regole di diritto amministrativo, epperò la qualifica di determinati fatti”. Sulla giustizia amministrativa come “svolgimento del diritto amministrativo”, o “diritto amministrativo nel suo svolgimento”, v. E. Cannada-Bartoli, Vanum disputare de potestate: riflessioni sul diritto amministrativo, in Dir. proc. amm., 1989, 155,
[20] Come sottolineato da A. Scognamiglio, Rileggendo la voce “interesse”, cit., 986.
[21] Nella sua relazione sul sindacato degli atti valutativi e di giudizio, in questo convegno.
[22] Sul punto, sia consentito un rinvio a P. Chirulli, Provvedimenti precauzionali in materia di sicurezza del territorio e sindacato giurisdizionale della discrezionalità tecnica, in Quaderni della Riv. giur. ed., 2014, 102 ss.
[23] V. però ad es. Cons. Stato, Sez. VII, 19 aprile 2023, n. 3990, in materia di attribuzione di un incarico di Procuratore Generale di corte d’appello.
[24] F. Cammeo, Commentario, cit., 134.
[25] V. E. Cannada-Bartoli, Giustizia amministrativa, cit., 562: “Si può ammettere e, deriva, anzi, dalle premesse che non in ogni caso la questione sulla giustizia nell’amministrazione sia decidibile; si esclude che sia sempre non decidibile.”
[26] Ricorre in alcune recenti pronunce la seguente affermazione: “La differenza tra giurisdizione di legittimità e giurisdizione di merito, infatti, riposa nel fatto che, nel giudizio di legittimità, il giudice agisce “in seconda battuta”, verificando, nei limiti delle censure dedotte, se le valutazioni effettuate dall’organo competente sono viziate da eccesso di potere per manifesta irragionevolezza o da travisamento dei fatti, vale a dire se le stesse, pur opinabili, esulano dal perimetro della plausibilità, mentre, nel giudizio di merito, il giudice agisce “in prima battuta”, sostituendosi all’Amministrazione ed effettuando direttamente e nuovamente le valutazioni a questa spettanti, con la possibilità, non contemplata dall’ordinamento, se non per le eccezionali e limitatissime ipotesi di giurisdizione con cognizione estesa al merito di cui all'art. 134 c.p.a., di sostituire la propria valutazione alla valutazione dell'Amministrazione anche nell’ipotesi in cui quest’ultima, sebbene opinabile, sia plausibile”: v. ad es. Cons. Stato, Sez. VII, 3 aprile 2023, n. 3409.
[27] Sia consentito un rinvio, anche per opportuni richiami bibliografici e giurisprudenziali, a P. Chirulli, Provvedimenti sanzionatori antitrust e sindacato giurisdizionale: è davvero tempo di una svolta?, in Scritti per F.G. Scoca, Napoli, 2020, vol. I, 781.
[28] Si veda la sentenza Schindler Holding Ltd c. Commissione, caso C-501/11 (ECLI:EU:C:2013:522), e ancor più il par. 38 delle conclusioni dell’A.G. Kokott sul caso ECLI:EU:C:2013:248.
[29] Ipotizzato da ultimo da F. Goisis, Il concetto di full jurisdiction nel sindacato giurisdizionale sulle sanzioni amministrative nella giurisprudenza della Corte EDU e della Corte Europea di Giustizia. Recenti conferme e sviluppi, in www.giustiziainsieme.it.
[30] E’ la norma, invero molto contestata, con cui, in materia di private enforcement antitrust, il legislatore ha previsto l’efficacia vincolante delle decisioni antitrust ai fini del giudizio sul risarcimento, precisando inoltre che “Il sindacato del giudice del ricorso comporta la verifica diretta dei fatti posti a fondamento della decisione impugnata e si estende anche ai profili tecnici che non presentano un oggettivo margine di opinabilità, il cui esame sia necessario per giudicare la legittimità della decisione medesima.”
[31] La tesi è stata formulata dalla nota sentenza Cons. Stato, sez. VI, n. 4990 del 15 luglio 2019, in materia di sanzioni antitrust.
[32] A tal fine, non può farsi affidamento a mio avviso sul metodo acquisitivo dell’istruttoria nel processo amministrativo.
[33] V. la relazione di F. Francario, cit.
[34] Si vedano, ex multis, Aspetti processuali dell’assorbimento dei motivi e Dubbi sull’assorbimento, in Giur. it., 1996, risp. 838 e 161.
[35] Cons. Stato, V sez., 6 febbraio 1999, n. 134, in cui, al fine di distinguere le parti di provvedimento su cui poteva pronunciarsi il giudice dell’ottemperanza, e quelle che invece andavano separatamente impugnate, il Supremo Consesso individuava un punto di equilibrio tra il diritto del cittadino alla rapida definizione dell’affare dopo un giudicato d’accoglimento e la giustificata aspettativa del potere pubblico di esercitare la propria discrezionalità anche sugli aspetti del rapporto controverso prima non esaminati, e precisava che l’amministrazione, dopo un annullamento giurisdizionale debba riesaminare la vicenda “con un’attenzione tutta particolare. Non deve apparire negativamente prevenuta nei confronti dei privati che hanno dovuto rivolgersi al giudice; e dunque non deve esporli alla prospettiva di una pluralità di altri giudizi ulteriori. Né deve ingombrare per troppe volte, rispetto al medesimo rapporto, gli uffici giudiziari. Risultati, questi, che possono realizzarsi richiedendosi all’amministrazione – dopo un giudicato di annullamento da cui derivi il dovere o a facoltà di provvedere di nuovo – di esaminare l’affare nella sua interezza, sollevando tutte le questioni he ritenga rilevanti, dopo di ciò non potendo tornare a decidere sfavorevolmente neppure in relazione a profili non ancora esaminati.”
[36] Specialità del giudizio di ottemperanza, in Giur. it., 1999, 2414, poi confluito negli scritti in onore di Elio Casetta.
[37] Per indicazioni dottrinali e giurisprudenziali, e per un commento critico della disposizione, può vedersi il contributo di P. Chirulli e S. Tuccillo, Il preavviso di rigetto, in Principi e regole dell’azione amministrativa, Milano, IV ed., in corso di stampa.
[38] Riferendosi – è dato presumere – alla monografia di M. Clarich, Giudicato e potere amministrativo, Padova, 1989, e suggerendo che, appunto, possano individuarsi delle preclusioni sostanziali alla riedizione del potere. Il tema è stato ripreso e sviluppato da M. Trimarchi,L’inesauribilità del potere amministrativo, Napoli, 2018, 206 ss.
[39] Si richiama sul punto quanto argomentato da A. Romano Tassone, Sulle vicende, cit., 545, il quale non vedeva contrapposizione tra sindacato di legittimità e di merito, ma una di continuità, di evoluzione, e affermava come sembrasse necessario “impostare il discorso sulla base (quanto meno) di una scansione triadica, nella quale i principali tipi di riscontro positivamente effettuabili nei confronti delle decisioni pubbliche sono ordinati secondo una scala crescente, vuoi di intensità e penetrazione del controllo, vuoi di soggettività della valutazione a tal fine compiuta.”
[40] Id., op. ult. cit., 536.
[41] Scriveva in merito già F. Cammeo, in tutt’altro contesto costituzionale (Commentario, cit., 316): “Se il giudizio di opportunità rimane sempre identico nella sostanza, quale che ne sia la forma, se cioè costituisce sempre funzione amministrativa, l’ordinarlo con metodo giurisdizionale non è aggiungere nessuna garanzia, che proceda da impulsi e da considerazioni nuove, ma moltiplicare istanze di uguale tipo. E la moltiplicazione delle istanze, quando nulla aggiunge di veramente migliore, è spesso inutile. Può esser utile solo in quanto la revisione presenti garanzie di imparzialità per la indipendenza del giudice improprio, che la compie. Ma questa indipendenza la quale non è dannosa nei giudizi in materia di diritto, nella quale il giudice è vincolato precisamente alla legge, è un pericolo grave nei giudizi di opportunità, dove questo vincolo preciso e, per quanto intimo, controllabile manca. Perché indipendenza significa irresponsabilità: e quindi con lo spostamento di competenze meramente amministrative, che viene a verificarsi in questi casi, l’amministrazione tende a ridursi in mani irresponsabili.”
[42] Il riferimento è alla nota Cons. Stato, Sez. VI, 25 febbraio 2019, n. 1321, che ha condannato l’amministrazione al rilascio di un’abilitazione scientifica nazionale che troppe volte era stata negata in sede di riedizione del potere successivamente a sentenze di annullamento, affermando che “La consumazione della discrezionalità può essere anche il frutto della insanabile “frattura” del rapporto di fiducia tra Amministrazione e cittadino, derivante da un agire reiteratamente capzioso, equivoco, contradittorio, lesivo quindi del canone di buona amministrazione e dell’affidamento riposto dai privati sulla correttezza dei pubblici poteri. In presenza di una evenienza siffatta, resta precluso all’amministrazione di potere tornare a decidere sfavorevolmente nei confronti dell’amministrato anche in relazione ai profili non ancora esaminati.” Sulle perplessità che una siffatta ipotesi di consumazione della discrezionalità solleva, si v. i condivisibili rilievi di S. Vaccari, Il Consiglio di Stato e la ‘riduzione progressiva della discrezionalità’. Verso un giudicato a ‘spettanza stabilizzata’?, in Dir. proc. amm., 2019, 1216.
[43] E. Cannada-Bartoli, Giustizia amministrativa, cit., 561.