Vorrei iniziare il mio intervento riferendo alcuni aneddoti relativi alla mia esperienza nella consiliatura 2018-2023 e verificatisi al momento dell’insediamento.
Il primo riguarda l’assegnazione delle stanze ai consiglieri. Appena insediato, infatti, chiesi di poter ricevere in assegnazione una stanza collocata al secondo piano, quella ad angolo di sinistra per chi guarda il Palazzo dei Marescialli da Piazza Indipendenza.
Questa richiesta aveva una ragione di carattere politico e una di carattere personale.
La ragione politica era di natura simbolica. Quella stanza era stata storicamente sempre occupata da un rappresentante di Magistratura Democratica. Nella consiliatura immediatamente precedente, però, il gruppo di AREADG (che all’epoca ancora includeva Magistratura Democratica), era risultato il più rappresentato, con ben 7 consiglieri, e aveva scelto di collocarsi nelle stanze al primo piano, che, sul piano simbolico, era il piano del “potere”, dove si trovavano il Vicepresidente, il Comitato di Presidenza, il Segretariato Generale. Anche le stanze poste a quel piano erano quindi, a loro volta, stanze simbolo “del potere”, storicamente occupate dai rappresentanti di Magistratura Indipendente, prima e da quelli di Unità per la Costituzione, poi.
Ritornare al secondo piano, nella storica stanza di Magistratura Democratica, per me, che ero stato eletto come rappresentante anche di Magistratura Democratica (la scelta di Magistratura Democratica di rompere con AREADG maturerà negli anni successivi), significava simbolicamente ri-allontanarsi dal “potere”, recuperare la vocazione originaria del nostro gruppo associativo di estraneità alle logiche di potere e alle prassi corporative, consociative e clientelari, che negli ultimi anni, ed in particolare nell’ultima consiliatura, si era un po’ persa.
Sul piano personale mi sarebbe piaciuto occupare la stanza che era stata, nella consiliatura 1982/1986, di Salvatore Senese, che, come alcuni sanno, è stato mio amico e maestro, e al quale rivolgo con piacere un commosso ricordo (Salvatore è mancato nel giugno del 2019) in questa sede, nella sua città, nell’Università che lo ha visto protagonista di tanti momenti di riflessione e di confronto, e in una giornata dedicata alla memoria di Alessandro Pizzorusso, al quale Salvatore è stato legato da lunga e profonda amicizia.
Mi sembravano queste delle ottime ragioni. Ma ricevetti, comunque, un categorico no: le stanze, mi fu detto, venivano assegnate ai gruppi nel rigoroso rispetto dell’ordine di risultato elettorale. Peraltro, ma non è rilevante in questa sede, era sbagliato anche il metodo di calcolo del risultato elettorale, in quanto veniva determinato sommando esclusivamente i voti conseguiti nei diversi collegi dai soli candidati risultati eletti. Provai a protestare, rappresentando che il sistema elettorale vigente (quello dei tre collegi plurinominali) non contemplava in alcun modo i “gruppi”. Ma ricevetti una risposta definitiva e senza appello: “si è sempre fatto così”. Una risposta che negli anni successivi mi è capitato più volte di ricevere.
In quei primi giorni chiesi altre due cose:
a) di consentire un dibattito sulla elezione del Vicepresidente, sulla base di una illustrazione, da parte dei componenti laici che avessero voluto offrire la disponibilità ad assumere l’incarico, della loro idea del ruolo del Consiglio e del ruolo del Vicepresidente: un tema non nuovo, che si è riproposto ciclicamente in molte consiliature, come ci ha ricordato Tommaso Giovannetti rievocando, appunto, il discorso mai pronunciato di Alessandro Pizzorusso;
b) di consentire, a chi lo volesse, di sedersi in Plenum accanto ai componenti del proprio gruppo: Ernesto Lupo, nella sua relazione scritta, ci ha ricordato quando e come nacque la scelta di far sedere in Plenum i consiglieri secondo ordine di anzianità, ma io ho sempre pensato che fosse una scelta sbagliata. In primo luogo perché ai componenti di un organo costituzionale, eletti da magistrati, si dovrebbe riconoscere una libertà di autodeterminazione maggiore di quella riconosciuta agli alunni di una classe elementare. In secondo luogo perché penso che nascondere una realtà che non piace non solo non aiuti a modificarla, ma anzi la peggiore, in quanto vi aggiunge, come elementi negativi, opacità e clandestinità.
Anche su queste due richieste la risposta fu negativa: “si è sempre fatto così”. Appunto!
Ho scelto di raccontare questi aneddoti perché, secondo me, rappresentano in maniera molto chiara, anche sul piano simbolico, i fraintendimenti, le ambiguità e, direi anche le ipocrisie, che sovente accompagnano il dibattito, e le prassi, sul rapporto tra correnti e auto-governo.
Nel dibattito pubblico in molti tendono, più o meno in buona fede, a confondere, e a sovrapporre, le correnti, cioè le libere associazioni di magistrati fondate sulla comunanza di idee e di valori, con il correntismo, cioè con l’esercizio del potere fondato su logiche corporative e clientelari, e pensano che l’unico modo per eliminare il correntismo sia eliminare le correnti: un intento di recente ribadito da un esponente del governo con una citazione piuttosto infelice. Un po’ come quelli che hanno pensato, e pensano, che si potessero eliminare la corruzione e il malgoverno eliminando i partiti e gli altri corpi intermedi.
Ma nella pratica concreta, molti di costoro pensano, in realtà, che questo obiettivo, quello della eliminazione delle correnti, e del correntismo, sia impossibile. E che allora sia meglio provare a conviverci, stando attenti però a non farsi vedere, a nascondersi il più possibile, nella convinzione, tutta italiana, che l’ipocrisia in fondo non sia così male, essendo pur sempre un omaggio alla virtù. Sono quelli, e sono tanti, che hanno conservato ben in vista sul tavolo il manuale Cencelli, solo che lo hanno rivestito con la copertina della “Critica della ragion pura”: tu lo apri, pensando di trovarci la legge morale e invece trovi i criteri per la attribuzione delle stanze oppure, per fare un esempio molto più concreto e meno simbolico, per la attribuzione delle presidenze delle commissioni.
“Mi troverò bene”, pensai tra me in quei primi giorni, rievocando una delle più felici battute, anche se non la più famosa, del film “Bianca” di Nanni Moretti.
Nonostante questo, insieme ai colleghi del gruppo di AreaDG, abbiamo provato sin dall’inizio a procedere in direzione “ostinata e contraria”, cercando di dimostrare, nei comportamenti concreti, che era possibile un modello diverso, nel quale la orgogliosa e trasparente rivendicazione della propria appartenenza ideale si accompagnasse alla rigorosa rinuncia alle pratiche clientelari, corporative e consociative.
Sono pienamente d’accordo, al riguardo, con quanto detto da Ernesto Lupo nel suo intervento: il corporativismo e il clientelismo sono mali seri della magistratura e del suo governo autonomo. Dirò di più: io sono convinto che queste pratiche stiano corrodendo dall’interno il governo autonomo della magistratura e finiranno, se non eliminate, per distruggerlo.
Per questo sin dall’inizio della consiliatura formulammo un pressante invito a tutti i gruppi a fare un passo indietro rispetto a queste logiche.
Nei nostri primi documenti arrivammo a parlare esplicitamente di “disarmo unilaterale”. In una chiara e trasparente assunzione di responsabilità, in chiave autocritica, per i comportamenti assunti in passato anche dal nostro gruppo, dichiarammo che ogni nostra scelta sarebbe stata sempre fondata esclusivamente sul merito e del tutto slegata da logiche di appartenenza. E chiedemmo agli altri gruppi di fare lo stesso, nella convinzione che questo fosse l’unico modo per salvare, tutti insieme, il governo autonomo della magistratura.
Quel primo anno al Consiglio fu un anno durissimo. Noi non conoscevamo quello che accadeva fuori dal Consiglio e che poi avremmo letto nelle intercettazioni, ma toccavamo con mano la enorme difficoltà di aprire una breccia, un canale di dialogo e di confronto.
Mi ha molto colpito al riguardo il ricordo del Prof. Silvestri dello stupore provato dal Prof. Pizzorusso all’esito di un dibattito nel quale tutti avevano mostrato di apprezzare e condividere il suo intervento, salvo poi votare in maniera opposta. Mi ha ricordato le parole che mi rivolse uno dei componenti togati del Consiglio dopo un mio accalorato intervento in Plenum: parla, parla, tanto poi votiamo, frase che poi riferì, orgogliosamente, ai partecipanti della famosa serata dell’hotel Champagne.
Ancora oggi io sono convinto che quella fosse la strada giusta, che alla lunga avrebbe prodotto i suoi frutti. E che sia questa l’unica strada da percorrere, in quanto non esistono soluzioni semplici a problemi complessi.
In questo contesto i fatti dell’Hotel Champagne sono stati certamente un fulmine, che ha scosso alle fondamenta il Palazzo dei Marescialli, ma certo non un fulmine a ciel sereno, in quanto il cielo era visibilmente scuro per chi avesse solo voluto guardarlo.
Certo è che quella vicenda ha avuto un impatto molto forte sul Consiglio e ha segnato l’intera consiliatura. Con conseguenze che, valutate complessivamente oggi e a mente fredda, non possono considerarsi del tutto positive.
Certamente la evidenza dei fatti ha costretto tutti a prenderne in qualche modo atto, ha smosso reazioni diffuse e indignate tra i magistrati e nell’opinione pubblica e ha, quindi, favorito un percorso di comune assunzione di responsabilità.
Ma la gestione concreta delle ricadute di quei fatti è stata particolarmente difficile.
Il Consiglio non poteva sottrarsi, a mio avviso, al dovere di accertare le responsabilità dei singoli e di trarne le dovute conseguenze con riferimento alle decisioni di propria competenza (valutazioni di professionalità, conferme per incarichi direttivi e semidirettivi, trasferimenti di ufficio per incompatibilità territoriale o funzionale, disciplinare). Su questo si sono registrate molte difficoltà e resistenze. Sotto molti punti di vista, in termini di esercizio dell’azione disciplinare, di avvio delle pratiche di incompatibilità ambientale, di tempi di trattazione delle valutazioni e delle conferme (alcune delle quali, per queste “difficoltà”, hanno finito per arrivare alla nuova consiliatura).
Ciò ha restituito una immagine poco chiara e disorganica della reazione del Consiglio e di sostanziale ingiustizia degli esiti derivante dalla disparità di trattamento tra situazioni analoghe.
Ingiustizia aggravata dalla comune consapevolezza che il “faro” attivato dall’iniziativa della Procura di Perugia (di sequestro del cellulare del dott. Palamara e di invio della copia integrale del suo contenuto al Consiglio e alla Procura Generale della Cassazione) aveva giocoforza illuminato solo una parte della realtà, quella che, appunto, era in qualche modo collegata con il titolare del telefono, lasciando nell’ombra i comportamenti di altri.
Noi abbiamo sempre detto che rispetto alle pratiche clientelari che emergevano da quelle comunicazioni fosse necessaria una forte autocritica collettiva e una comune assunzione di responsabilità da parte di tutti, nella consapevolezza che certe prassi distorte erano ampiamente diffuse e condivise.
Però, poi, quando si passava all’esame delle singole pratiche, che riguardavano persone in carne ed ossa, tutto diventava più difficile.
La difficoltà di gestione concreta delle ricadute di quei fatti è stata, inoltre, aggravata da una falsa narrazione della vicenda e delle sue conseguenze, alimentata da alcuni protagonisti di quei fatti, cui ha dato ampio spazio una parte della stampa, che hanno preteso di reinterpretare le vicende consiliari degli anni successivi con quello che è probabilmente l’unico metro di giudizio in loro possesso, quello degli accordi di potere e delle scelte fondate su logiche di appartenenza. Di qui la rappresentazione di un “ribaltone” attraverso il quale la sinistra giudiziaria (cioè io e i miei colleghi di AreaDG) avrebbe ripreso, con la complicità di Davigo, il “potere”, accaparrandosi le nomine più importanti. Nulla di più lontano dal vero.
Io feci fare una rilevazione statistica, con la quale dimostrai inconfutabilmente la falsità di questa narrazione, indicando tutte le nomine nelle quali il gruppo di AreaDG e quello di Autonomia e Indipendenza avevano votato insieme (in contrapposizione agli altri gruppi), dimostrando che erano molte meno di quelle in cui il gruppo di Davigo aveva votato insieme agli altri gruppi in contrapposizione ad AreaDG.
Ma come in altre occasioni ho dovuto constatare come a volte non conta che una narrazione sia vera o falsa, conta che “serva”, che sia funzionale all’obiettivo di chi se ne serve.
Tutto ciò ha reso più difficile avviare quel necessario percorso condiviso di costruzione di un diverso modello di governo autonomo, con lo scopo di restituire trasparenza e credibilità all’azione del Consiglio, che noi consiglieri per primi eravamo chiamati ad avviare e gestire: dal Presidente della Repubblica, dai tanti magistrati perbene, dall’opinione pubblica
Un percorso certamente complesso che richiedeva perciò una analisi approfondita delle cause della crisi dell’istituzione e la individuazione dei rimedi di “sistema” sul piano della normativa primaria e secondaria.
Ed è proprio il percorso che già indicava Alessandro Pizzorusso nel suo discorso mai pronunciato e richiamato da Tommaso Giovannetti con parole così chiare e nette, che meritano di essere ribadite: Senza la chiara consapevolezza dei propri obiettivi, che sono prima di tutto obiettivi di ordine culturale, il Consiglio non potrà certamente affermare la propria autonomia nei confronti degli altri soggetti istituzionali con la forza della ragione, che è l'unica di cui dispone, e finirà per subire le influenze della maggior forza politica di cui essi possono avvalersi. Certamente, il Consiglio deve offrire la sua collaborazione più sincera e professionalmente qualificata al capo dello Stato, al ministro della giustizia, alle commissioni giustizia delle camere del parlamento, ed a tutti gli altri operatori politico-costituzionali, e deve altresì saper fare in modo che la sua collaborazione sia accettata e valorizzata. Ma ciò non deve avvenire con uno spirito di rassegnata subordinazione, bensì nella piena consapevolezza di essere portatore di un progetto culturale più ricco e più forte di quelli cui mostrano di ispirarsi i suoi recenti denigratori.
A mio avviso le cause profonde di questa crisi, per molti versi collegate alla riforma dell’ordinamento giudiziario introdotta nel 2006, erano da individuarsi in una serie di fattori, interdipendenti e connessi tra loro:
a) il carrierismo, cioè un mutato rapporto dei magistrati con la carriera, con gli incarichi, con le promozioni;
b) il verticismo e la gerarchizzazione, figli di una malintesa idea secondo la quale la soluzione della crisi della giustizia doveva essere affidata alla guida illuminata, al comando, di un “capo”;
c) la burocratizzazione e il produttivismo, diretta conseguenza di quella visione verticistica, che ha portato i “capi”, in realtà nella stragrande maggioranza dei casi privi di effettive doti organizzative e manageriali, a chiedere ai “sottoposti” di produrre di più, di fare numeri. E ha indotto i magistrati a ripiegarsi sul particolare, a disinteressarsi della organizzazione dell’ufficio e dei risultati della propria attività, per occuparsi solo di tenere in ordine le carte;
d) il clientelismo e il corporativismo, inteso come gestione del potere di governo della magistratura (a tutti i livelli: la dirigenza degli uffici; il governo autonomo locale e centrale) secondo logiche di protezione e di promozione legate esclusivamente alla appartenenza (di corrente, di amicizia, di territorio).
Una serie di fattori che richiedevano interventi strutturali, di sistema, sul piano della normativa primaria e di quella secondaria, che provo ad indicare solo per punti.
Sul piano delle riforme legislative:
a) introdurre una vera temporaneità degli incarichi direttivi e semidirettivi, in modo da trasformare l’incarico direttivo in una parentesi della vita professionale di un magistrato, la cui occupazione principale deve restare l’esercizio della giurisdizione, così evitando che la carriera direttiva diventi un vero e proprio percorso alternativo;
b) ridurre il numero di incarichi semidirettivi, prevedendo l’attribuzione di competenze organizzative all’interno dell’ufficio ai magistrati con maggior esperienza nel settore;
c) modificare la legge elettorale del CSM, introducendo nuovamente il sistema proporzionale su base nazionale, l’unico sistema compatibile con il ruolo di garanzia del Consiglio e con il pluralismo ad esso connaturato; unico sistema, inoltre, che attribuisce un reale potere di scelta agli elettori, i quali attraverso il voto di preferenza possono davvero determinare gli eletti all’interno della lista; unico sistema, infine, che garantisce, in presenza della regola costituzionale della ineleggibilità dei componenti uscenti, una responsabilità politica degli eletti, atteso che le scelte compiute dagli eletti ricadono sul risultato elettorale della lista nella tornata successiva.
Nessuno di questi interventi è stato realizzato. Dopo discussioni infinite sul sorteggio e i suoi derivati, la politica ci ha consegnato un sistema elettorale quasi identico a quello che c’era prima. Il risultato elettorale, ampiamente previsto, è lì a dimostrarlo.
Sul piano della normazione secondaria, invece, alcune cose importanti sono state fatte nella consiliatura.
In particolare ricordo:
a) la circolare sulle tabelle, che ha introdotto, tra le altre cose, limiti stringenti ai poteri dei dirigenti sulla attribuzione di incarichi di collaborazione, in modo da ridurre i rischi di gerarchizzazione degli uffici giudicanti legati anche al “potere” di distribuire a discrezione titoli spesso funzionali a percorsi dirigenziali;
b) la circolare sulla organizzazione delle procure, che, anche per questi uffici, ha introdotto limiti al potere dei dirigenti nella attribuzione degli incarichi (di collaborazione ma anche di coordinamento di gruppi), ma ha anche rafforzato l’autonomia interna dei magistrati dell’ufficio intervenendo nella regolamentazione della assegnazione e gestione degli affari;
c) la circolare sull’accesso agli uffici di legittimità, che ha introdotto limiti alla discrezionalità valutativa del Consiglio e attribuito un peso preponderante alla esperienza professionale maturata negli uffici giudiziari e al giudizio della Commissione Tecnica;
d) la modifica delle disposizioni del TU sulla dirigenza in tema di conferma negli incarichi direttivi e semidirettivi, finalizzata ad assicurare una verifica effettiva e rigorosa sull’esercizio di tali funzioni e ad evitare il crearsi di un percorso separato di carriera per i dirigenti.
Non si è riusciti, invece, a completare l’intervento di riforma su due ulteriori, fondamentali aspetti:
a) la riforma del TU sulla dirigenza relativamente ai criteri di nomina dei dirigenti. La V Commissione aveva approvato all’unanimità un testo di riforma le cui direttrici principali erano la valorizzazione della esperienza professionale, la riduzione della discrezionalità valutativa e la eliminazione del peso delle cd. medagliette. Un testo che aveva ricevuto l’intesa del Ministro della Giustizia pro tempore e che il Plenum non riuscì a discutere e votare. Mi auguro che possa essere una buona base di lavoro per l’attuale Consiglio.
b) la riforma della circolare sulle valutazioni di professionalità che pure fu approvata in Commissione, ma non fu votata dal Plenum, e le cui direttrici erano:
la semplificazione del procedimento;
la riduzione degli spazi di valutazione e di giudizio da parte del dirigente;
l’obbligo per il dirigente di segnalare i fatti rilevanti ai fini della valutazione;
In uno slogan: più fatti e meno aggettivi.
Ma per restituire al Consiglio Superiore della Magistratura un ruolo di protagonista nel dibattito politico e culturale sui temi della giustizia è necessaria anche una riflessione sui meccanismi di funzionamento dell’organo e sulle sue criticità.
I ricorrenti tentativi di ridimensionare il ruolo del Consiglio e di ridurlo ad organo di amministrazione del personale di magistratura, ai quali molti degli interventi hanno fatto riferimento, passano, infatti, anche attraverso una crisi di funzionalità e di efficacia dell’azione del Consiglio.
Vi è in primo luogo un problema di elefantiasi dell’attività del Consiglio: il numero di pratiche da trattare è enorme e questo crea spesso ritardi e incertezze. A questo proposito è opportuno ricordare che la auspicata riduzione del numero di incarichi semidirettivi avrebbe l’ulteriore vantaggio di alleggerire il carico del Consiglio.
Allo stesso modo una semplificazione delle procedure di valutazione di professionalità potrebbe consentire di decentrare ai Consigli Giudiziari la decisione sulle pratiche che non presentano profili di problematicità e concentrare l’attenzione del Consiglio sulle situazioni più critiche. Un forte decentramento si potrebbe realizzare anche nella materia tabellare, per riservare al Consiglio le pratiche più sensibili sul piano della finalità intrinseca dell’organizzazione tabellare e quelle controverse.
In ogni caso andrebbero rafforzate le strutture di supporto alle attività dei consiglieri, aumentando in maniera significativa il numero dei Magistrati Segretari e di quelli addetti all’Ufficio Studi.
Torna, però, anche qui un problema di fondo che richiama nuovamente la irrinunciabilità del ruolo dei gruppi associativi nel sistema di governo autonomo.
Come è noto il Consiglio Superiore si rinnova completamente ogni quattro anni e, per espressa previsione costituzionale, i suoi componenti non sono immediatamente rieleggibili. Questa previsione è più che condivisibile, ma è del tutto evidente che un organo che si rinnova integralmente ogni quattro anni, deve scontare ogni volta le difficoltà della fase di avvio, e le necessarie lentezze ad essa connesse. Nel passato ciò che ha dato continuità all’azione del Consiglio sono state proprio le “correnti” e la loro elaborazione culturale, che creavano un ponte tra gli uscenti e i nuovi eletti, tale da eliminare o ridurre le soluzioni di continuità. E un ruolo rilevante in questo senso era dato anche dai magistrati addetti alla struttura, i quali fin quando sono stati selezionati anche in considerazione delle diverse aree associative e culturali di riferimento, hanno garantito continuità e consapevolezza all’azione dell’Istituzione.
In questo caso risulta evidente come l’azione diretta ad indebolire le “correnti” per il malinteso intento di combattere così il correntismo, si traduca in un indebolimento dell’organo e della sua funzione politico-culturale.
Se, infatti, i componenti del Consiglio - sia quelli di nomina elettiva che gli addetti alla struttura - sono scelti prevalentemente sulla base delle loro qualità tecnico-professionali e non sulla base delle idee sulla magistratura e sul governo autonomo di cui sono portatori, ne deriva giocoforza un ridimensionamento del ruolo del Consiglio.
Se chi si candida al Consiglio rivendica esplicitamente di voler svolgere il suo mandato nello stesso modo in cui svolge la funzione di magistrato, cioè limitandosi ad applicare la legge e se, in palese contrasto con la lettera e lo spirito della Costituzione, addirittura si ipotizza la possibilità di sorteggiare i componenti del Consiglio, è evidente che con queste opzioni si finisce per spingere il Consiglio nella ridotta dell’attività amministrativa di gestione, non essendo con esse compatibili le attività di promozione politico-culturale del Consiglio, quali i pareri sulle riforme, le proposte di intervento legislativo, la relazione annuale sullo stato della giustizia, le pratiche a tutela della autonomia dei magistrati, gli interventi sulla deontologia dei magistrati.
E senza con questo incidere in alcun modo sui mali seri del corporativismo e del clientelismo, in quanto l’esperienza concreta dei sedicenti indipendenti eletti in Consiglio ha dimostrato, e dimostra anche nell’attualità, che questi sono difetti propri dei magistrati e non solo delle correnti.
Non condivido, invece, l’idea avanzata nel dibattito da Ernesto Lupo di un rafforzamento del ruolo del Comitato di Presidenza, quale longa manus del Presidente della Repubblica e, in quanto tale, possibile argine alle derive clientelari e corporative.
Nel disegno del costituente, infatti, questa funzione dovrebbe essere svolta dai membri laici del Consiglio, in quanto portatori di un punto di vista esterno alla corporazione.
Sono ben consapevole del fatto che nell’esperienza pratica ciò non è avvenuto e che purtroppo in alcuni casi i componenti laici hanno dato, su questo terreno, prova peggiore di quella offerta dai togati. Ma a questo si può provare ad ovviare rivedendo i meccanismi di selezione dei componenti laici, in modo da ricondurli al modello pensato dal costituente. In questa direzione sembrava muoversi la riforma Cartabia, che però, in sede di prima applicazione, è stata di fatto disapplicata dal Parlamento.
Mentre mi lascia piuttosto scettico l’idea di affidare un improprio ruolo di “tramite” tra il Presidente della Repubblica e l’Assemblea Plenaria al Vicepresidente e ai due membri di diritto. Non sono certo tra quelli che pensano che il Presidente possa prendere parte alla vita del Consiglio solo partecipando alle sedute ed esprimendo il suo voto. Anzi, penso abbia pienamente ragione il prof. Silvestri quando ha ricordato quali insidie vi fossero nella scelta del Presidente dell’epoca di partecipare alle sedute e di esprimere il voto anche su nomine controverse. Ma credo che vi siano molti altri modi diversi, anche più diretti ed efficaci, per consentire al Presidente di esercitare a pieno il suo ruolo di equilibrio e di garanzia nella vita del Consiglio, senza necessità di un ulteriore irrigidimento dei protocolli, già fin troppo ingessati.
Sono tempi molto difficili i nostri, nei quali lo scontro e la divisione sembrano prevalere su ogni possibilità di ragionamento e di confronto (e non parlo ahimè solo delle nostre pur sempre piccole questioni).
La mia personale convinzione, invece, lo dico da sempre, è che tutti gli attori istituzionali abbiano il dovere di dismettere ogni approccio bellicista e di confrontarsi laicamente, e senza pregiudiziali ideologiche, sul merito dei singoli problemi, il che consentirebbe a mio avviso di trovare soluzioni condivise sulla gran parte dei problemi a cui ho fatto cenno.
Questo credo sarebbe il miglior omaggio che potremmo fare alla memoria del Professor Pizzorusso, il quale nella sua vita di studioso e di giurista ha sempre utilizzato come uniche armi la Ragione, il dialogo e il confronto.
*Intervento di Giuseppe Cascini nel seminario La partecipazione di Alessandro Pizzorusso al CSM (1990-1994) e le successive " stagioni", Università di Pisa, 15 dicembre 2023.
(Immagine: A classroom with children sitting at long tables and a teacher standing with a book in her hand, litografia di J.B. Sonde, Wellcome Collection, Londra)