ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La Corte di Giustizia risponde alle S.U. sull’eccesso di potere giurisdizionale. Quali saranno i “seguiti” a Corte Giust., G. S., 21 dicembre 2021 - causa C-497/20, Randstad Italia? - 4) Renato Rordorf
Intervista di Roberto Conti a Renato Rordorf*
[Per l'introduzione al ciclo di interviste si rinvia all'Editoriale]
1. Il dispositivo reso dalla Corte di Giustizia a conclusione della fase del rinvio pregiudiziale non sembra lasciare margini di dubbio in ordine al “responso” del giudice di Lussemburgo. Chiamata a testare, sotto il profilo della compatibilità con il principio di effettività di matrice UE, l’istituto dell’eccesso di potere giurisdizionale come declinato dal diritto vivente interno, la Grande Sezione ha escluso che la violazione del diritto UE perpetuata dal supremo organo della giustizia amministrativa – nel caso concreto perpetrata per avere ritenuto irricevibile il ricorso contro l’aggiudicazione di un appalto presentato dalla ditta esclusa dalla gara non in via definitiva - possa vulnerare il principio di effettività laddove sia escluso dal sistema interno che gli offerenti partecipanti all’aggiudicazione possono contestare la conformità al diritto dell’Unione della sentenza del supremo organo della giustizia amministrativa nell’ambito di un ricorso dinanzi all’organo giurisdizionale supremo di detto Stato membro. Valuta questa conclusione appagante, soddisfacente o non condivisibile?
La conclusione cui è pervenuta la Corte di Giustizia mi sembra, in linea di massima, senz’altro condivisibile, ed anzi direi che era prevedibile. Quanto però ad appagarsene o a trarne soddisfazione la risposta è assai più complessa.
La conclusione è condivisibile per la fondamentale ragione che nulla davvero consente di ancorare il principio di effettività delle tutele cui si ispira il diritto europeo alla possibilità di proporre ricorso per cassazione avverso una pronuncia emessa dal giudice amministrativo di ultima istanza (ed, ovviamente, il medesimo discorso potrebbe valere anche per le pronunce del giudice contabile di ultima istanza), quasi che soltanto ove un tale ricorso sia ammesso la tutela possa dirsi davvero effettiva. Certo, nessun giudice possiede il dono dell’infallibilità e, quindi, in via teorica è anche possibile sostenere che la tutela delle parti in giudizio sia tanto più efficace quanto più si consente loro di rivolgersi ad un giudice di grado ulteriore per far correggere gli eventuali errori del provvedimento impugnato. Ma un simile ragionamento sarebbe estensibile anche ai provvedimenti emessi dalla stessa Corte di cassazione, la quale neppure è infallibile, e finirebbe allora, per esigenze di coerenza logica, col metterebbe capo ad una catena infinita di impugnazioni: conclusione evidentemente inaccettabile, il che basta a dimostrare la non plausibilità della premessa.
Volta che l’ordinamento interno garantisca la possibilità di ricorrere al giudice per far valere i propri diritti e, come nella vicenda di cui la Corte di giustizia si è dovuta qui occupare, contempli altresì un doppio grado di giudizio, il prevedere o meno anche l’ulteriore sindacato della Corte di cassazione sulla pronuncia del giudice d’appello è una scelta che pienamente compete al legislatore nazionale, perché non può dirsi che con tale scelta sia posta in discussione l’effettività della tutela giurisdizionale richiesta dal diritto dell’Unione europea, la quale non dipende dal numero dei gradi di giudizio contemplati dal diritto processuale di ciascuno Stato membro ma solo dal fatto che vi sia la possibilità di adire un giudice e che questi sia tenuto a provvedere nel rispetto del contraddittorio e del diritto di difesa di tutte le parti.
Appagamento e soddisfazione non sono affatto, tuttavia, i sentimenti che ho provato leggendo la sentenza della Corte di Giustizia di cui stiamo discutendo. Tutt’altro: perché mi pare che da questa vicenda non esca bene nessuna delle nostre magistrature superiori e che i nodi riguardanti il ruolo assegnato alla Corte di cassazione nel decidere le questioni inerenti alla giurisdizione restino irrisolti.
Da molti anni ormai il tema dell’assoggettabilità a ricorso per cassazione delle decisioni del giudice amministrativo (e contabile) di ultima istanza costituisce il terreno di un’ennesima “guerra delle corti”, combattuta sull’interpretazione dell’ultimo comma dell’art. 111 della Costituzione, che quel ricorso ammette “per i soli motivi inerenti alla giurisdizione”. Non occorre che ripercorra qui i termini della contesa, sulla quale fin troppo è già stato scritto (confesso di avervi pure io indegnamente contribuito) e che sono d’altronde ben desumibili anche dalla puntuale ed esauriente Introduzione che precede. Basterà osservare che se, da un punto di vista strettamente semantico, l’espressione adoperata nella citata disposizione costituzionale potrebbe effettivamente prestarsi ad una lettura molto ampia, perché qualsiasi decisione giudiziaria integra un atto di giurisdizione e quindi ogni motivo di censura che la riguardi potrebbe dirsi “inerente alla giurisdizione”, l’uso dell’avverbio limitativo “soli” ed il raffronto con il precedente settimo comma del medesimo art. 111, nel quale invece si prevede l’indiscriminata possibilità di ricorrere in cassazione avverso le sentenze di qualsivoglia giudice ordinario o speciale, rendono evidente che quando si tratta di provvedimenti del Consiglio di Stato o della Corte dei conti il sindacato della Corte di cassazione incontra maggiori limiti. E’ appunto sulla corretta individuazione di tali limiti che si è accesa la disputa, ma – me lo si lasci dire con estrema franchezza – i pur talvolta raffinati argomenti giuridici con i quali quella disputa è stata alimentata non valgono a stemperare la sgradevole sensazione che si tratti pur sempre di una delle purtroppo assai frequenti contese tra corpi dello Stato, più gelosi della propria autonomia o desiderosi di affermare la propria supremazia che preoccupati di dare risposte chiare ed adeguate alle esigenze degli utenti della giustizia.
Credo si debba riconoscere che il tentativo della Corte di cassazione di ampliare la sfera del proprio sindacato di legittimità nei confronti dei provvedimenti di ultima istanza del giudice amministrativo, ricomprendendovi non solo le vertenze in cui si tratti di individuare i presupposti dell'attribuzione del potere giurisdizionale o il giudice al quale di volta in volta tale potere compete ma anche, almeno in certe situazioni, la verifica delle forme in cui la tutela giurisdizionale concretamente si esplica, trova una forte giustificazione nell’indiscriminata proliferazione dei casi di giurisdizione esclusiva contemplati dal legislatore, il quale ha man mano esteso la giurisdizione del giudice amministrativo a settori prima tradizionalmente riservati al giudice ordinario finendo così per porre le premesse di una nomofilachia non coordinata, ed almeno potenzialmente strabica, pur se riferita alle medesime questioni di diritto o a questioni tra loro analoghe. Ma mi pare altrettanto doveroso riconoscere che non appare rimedio adeguato a tali inconvenienti l’elaborazione di una non meglio definita nozione di giurisdizione c.d. "dinamica" (o "funzionale" o "evolutiva"), genericamente ancorata al principio costituzionale del giusto processo o alla primazia del diritto comunitario ma in realtà potenzialmente in grado di estendere il sindacato della Cassazione ad una gamma indefinita di errores in iudicando o in procedendo imputabili al Consiglio di Stato e perciò tale da rendere di fatto quasi impalpabile la limitazione di quel sindacato che invece, come s’è detto, l’ultimo comma dell’art. 111 Cost. pur sempre presuppone. Giacché allora neppure appariva – né ora appare – realistico tagliare il nodo gordiano intervenendo direttamente sulla Costituzione per ripristinare l’unità della giurisdizione (ciò che varrebbe a risolvere in radice il problema in esame e garantirebbe l’esercizio univoco della funzione nomofilattica della Suprema corte), la strada pragmaticamente da imboccare per cercare di superare le suaccennate difficoltà avrebbe dovuto essere – e spero torni ad essere – quella del dialogo tra le corti alla ricerca di soluzioni il più possibile condivise e capaci di dare al quadro giuridico di riferimento la maggiore stabilità consentita. E vorrei ricordare che in questo senso ci si era mossi quando, ad esempio, prima di una delle tante occasioni in cui le Sezioni unite della cassazione sono state chiamate a pronunciarsi su pretesi eccessi di potere giurisdizionale del Consiglio di Stato (fu poi pronunciata dalle Sezioni unite la sentenza n 31226 del 2017), sono stati sollecitati contributi di studio non solo all’Ufficio del Massimario della Suprema corte ma anche all’Ufficio studi dello stesso Consiglio di Stato, e si è dato vita ad un incontro seminariale alimentato da interventi dei magistrati di entrambi i plessi giurisdizionali. Pareva possibile trovare una soluzione condivisa, la quale, nel rifiutare le fughe in avanti insite nella già accennata nozione “dinamica” della giurisdizione e nel ribadire l’incensurabilità in cassazione di qualsiasi eventuale error in procedendo o in iudicando del giudice amministrativo, pur se implicante la violazione del diritto sovranazionale europeo o del principio del giusto processo, lasciava aperta la possibilità di denunciare in cassazione le decisioni con cui quel giudice si fosse rifiutato di decidere il merito della causa per effetto di un radicale stravolgimento dei principi a tal riguardo stabiliti dall’ordinamento; radicale stravolgimento del quale la palese violazione dei diritto dell’Unione europea, come interpretato dalla Corte di Giustizia, avrebbe potuto costituire un forte indizio. Insomma, nulla più di una valvola di sicurezza, che l’esperienza dimostrava essere stata già in passato adoperata di fatto dalla Corte di cassazione con grande senso della misura e che però appariva in grado di porre rimedio a situazioni estreme nelle quali risultasse evidente il rischio per lo Stato italiano di incorrere altrimenti in responsabilità per infrazione del diritto europeo. D’altronde, anche il Consiglio di Stato, per parte sua, nella decisione emessa dall’Adunanza plenaria n. 11 del 2016, aveva ricondotto nell’ambito delle violazioni di limiti esterni della giurisdizione (sui quali può dunque esercitarsi il sindacato della Cassazione) “l’interpretazione da parte del giudice amministrativo di una norma di diritto interno in termini contrastanti con il diritto dell’Unione europea, secondo quanto risultante da una pronuncia della Corte di Giustizia successivamente intervenuta”.
In questo contesto l’intervento della Corte costituzionale (sentenza n. 6 del 2018) non direi che abbia giovato. Negando radicalmente qualsiasi plausibilità alle ragioni che avevano ispirato la più recente evoluzione della giurisprudenza della Cassazione sul punto, la Consulta si è attenuta ad una lettura il più restrittiva possibile dell’ottavo comma del citato art. 111, riconducendo il sindacato delle Sezioni unite sulle decisioni del giudice amministrativo entro i limiti del mero riparto di giurisdizione o dello sconfinamento della giurisdizione in territori ad essa estranei senza ammettere eccezioni o aperture di sorta.
Si è spezzato così il filo del dialogo tra le corti nazionali e l’ordinanza con la quale le Sezioni unite hanno poi chiamato in causa la Corte di Giustizia è parsa quasi un tentativo di alzare la posta invocando l’intervento di un “papa straniero” al quale far risolvere d’autorità una contesa domestica. Una mossa rivelatasi però controproducente, e forse addirittura incauta, perché volta in sostanza a richiedere ai giudici di Lussemburgo la corretta interpretazione non tanto di una qualche norma di diritto europeo quanto piuttosto di una disposizione della Costituzione italiana, sulla quale la Corte costituzionale si era già pronunciata, col rischio di innescare un ulteriore conflitto, questa volta tra la Corte di Giustizia e la stessa Corte costituzionale. Sia chiaro: conflitti di tal fatta sono sempre ben possibili, come l’esperienza dimostra, e non debbono necessariamente suscitare scandalo, ma quella del rapporto tra giudici sovranazionali europei e corti costituzionali dei paesi membri dell’Unione è materia assai delicata, da maneggiare con molta cura, perché attiene al fondamento stesso dei singoli ordinamenti e della costruzione comunitaria.
Com’era prevedibile, adeguandosi alle conclusioni dell’Avvocato generale, la Corte di Giustizia non ha accettato di svolgere il singolare ruolo arbitrale che le veniva richiesto ed il suo verdetto mi sembra chiuda definitivamente la questione in ambito europeo. Non può certo rallegrarsene la Corte di cassazione, la cui iniziativa si è dimostrata alquanto velleitaria. Ma va detto che non ne esce bene neppure il Consiglio di Stato, giacché i giudici europei non hanno mancato di rilevare che effettivamente la decisione del supremo giudice amministrativo impugnata dinanzi alla Corte di cassazione si poneva in contrasto con il diritto dell’Unione europea (come interpretato dalla stessa Corte di Giustizia), non per questo imponendo di assoggettarla al sindacato della Corte di cassazione ma col risultato di esporre lo Stato italiano alla rischio di doverne rispondere.
Siamo dunque tornati al punto di partenza, ma, come anche l’esito della vicenda di cui si sta parlando chiaramente dimostra, non è affatto un punto soddisfacente.
2. La Corte di giustizia ha sottolineato che per eliminare gli effetti dannosi connessi alla violazione del diritto UE perpetrata per effetto di una decisione resa in via definitiva dal giudice amministrativo costituiscono idonei strumenti per eliminare le conseguenze dannose tanto il ricorso per inadempimento da parte della Commissione o l’azione di responsabilità dello Stato per violazione del diritto UE, nella ricorrenza dei presupposti fissati dalla giurisprudenza della Corte stessa- pp.79 e 80 sent. cit.-. Pensa che la fase discendente susseguente alla decisione della Corte di Giustizia potrà avere un seguito diverso da quello che il dispositivo della sentenza della Corte UE sembra avere scolpito in maniera nitida? Pensa, in altri termini, che dopo la pronunzia della Corte di giustizia le Sezioni Unite possano giungere ad un revirement, questa volta sul piano interno e non più su quello del diritto UE, rispetto al diritto vivente formatosi dopo la sentenza della Corte costituzionale n.6/2018 sui confini dell’eccesso di potere giurisdizionale? E in ipotesi di risposta positiva a tale quesito, Lei reputa che sarebbe possibile ampliare l’ambito della figura dell’eccesso di potere giurisdizionale da parte delle Sezioni Unite o risulterebbe necessario sollevare nuovamente una questione di legittimità costituzionale per suscitare una rimeditazione delle conclusioni espresse nella sentenza n.6/2018?
La Corte di Giustizia ha escluso che il diritto europeo imponga all’ordinamento interno degli Stati membri di prevedere la possibilità d’impugnazione dinanzi alla Corte di cassazione dei provvedimenti emessi dall’organo di vertice dalla giurisdizione amministrativa. Ovviamente non ha escluso, però, che una tale possibilità di impugnazione sia invece consentita. Il dibattito sul tema deve quindi necessariamente essere ripreso sul piano del diritto interno e riguarda le corti italiane.
Ciò premesso, a parte ogni considerazione di opportunità, non scorgo facilmente il modo di investire di nuovo la Corte costituzionale della questione. Ciò di cui qui si discute non è la conformità al dettato costituzionale di questa o quella disposizione di legge ordinaria, nell’applicare la quale si possa perciò sollevare un dubbio di costituzionalità. La discussione investe direttamente l’interpretazione di una norma costituzionale – il più volte citato ottavo comma dell’art. 111 – e delle conformi disposizioni contenute nel codice del processo amministrativo e nel codice del processo contabile. Giova infatti ricordare che, nel caso da cui è scaturita la citata sentenza n. 6/2018, della Corte costituzionale, il dubbio di costituzionalità (avente ad oggetto l'art. 69, 7° comma, del d.lgs. n. 165/2001, nella parte in cui prevede che le controversie relative a questioni attinenti al periodo del rapporto di lavoro anteriore al 30 giugno 1998 restano attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo solo qualora siano state proposte, a pena di decadenza, entro il 15 settembre 2000) era stato sollevato dalla Corte di cassazione dinanzi alla quale era stata impugnata la decisione con cui il Consiglio di Stato aveva dichiarato la decadenza del ricorrente dal diritto ad ottenere la invocata tutela previdenziale. Alla Corte costituzionale era stato dunque chiesto di pronunciarsi su una questione che non riguardava direttamente i limiti del sindacato della Corte di cassazione sui provvedimenti del giudice amministrativo. Tuttavia la questione di costituzionalità prospettata dalla Cassazione (a differenza di un’analoga questione sollevata dal Tar Lazio, rigettata nel merito) è stata dichiarata priva di rilevanza, e perciò inammissibile, perché il giudice delle leggi ha ritenuto che la Cassazione non avesse titolo per sollevarla in quanto l’accertamento della dedotta violazione da parte del giudice amministrativo della norma sospettata d’incostituzionalità eccedeva i limiti posti dall’ultimo comma dell’art. 111 Cost.
Stando così le cose, si potrebbe ipotizzare che la Corte costituzionale sia chiamata a riesaminare l’orientamento espresso nella citata sentenza n. 6/2018 solo se la Cassazione sollevasse nuovamente una questione di costituzionalità inerente ad una disposizione in base alla quale sia stata emessa una sentenza del Consiglio di Stato (o della Corte dei conti) impugnata per eccesso di potere giurisdizionale dinanzi alla medesima Corte di cassazione, esponendosi però al rischio di vedere nuovamente dichiarata inammissibile la propria iniziativa senza che la dedotta questione di legittimità costituzionale venga neppure esaminata nel merito.
Resta teoricamente aperta la possibilità per la Cassazione di proseguire nello sviluppo della propria giurisprudenza in materia, cautamente individuando i casi eccezionali in cui una decisione del giudice amministrativo o contabile di ultima istanza appaia a tal punto abnorme da collocarsi obiettivamente al di fuori del perimetro della giurisdizione. Il contrario orientamento espresso in proposito della citata sentenza n. 6/2018 della Consulta non lo impedirebbe, almeno dal punto di vista formale, trattandosi – come già detto – di una mera pronuncia d’inammissibilità per difetto di rilevanza di una questione di legittimità avente uno specifico e diverso oggetto. Se è vero che, in materia d’interpretazione della Costituzione, la Corte costituzionale ha un’indubbia primazia, non per questo può negarsi che anche i giudici ordinari, ed in particolare la Corte di cassazione quale giudice della giurisdizione, specie quando si tratti di definire la propria sfera di competenza, conservi un margine di discrezionalità interpretativa.
In quest’ottica continua ad apparirmi convincente la soluzione, già dianzi richiamata, che lascia aperta la possibilità d’impugnare dinanzi alle Sezioni unite della cassazione, per motivi inerenti alla giurisdizione, una decisione del Consiglio di Stato o della Corte dei conti che appaia così radicalmente in contrasto con la normativa giuridica di riferimento (ed, in particolare, con quella del diritto europeo, come interpretato dai giudici sovranazionali europei) da potersi dire abnorme. La Corte costituzionale non ha condiviso questa impostazione, obiettando anzitutto che essa si fonda su un criterio di ordine essenzialmente quantitativo, come tale inidoneo a dare una diversa qualifica all’una o all’altra violazione di legge a seconda del grado della sua gravità, ed evidenziando poi il carattere vago dell’ipotizzata distinzione e la conseguente difficoltà di individuare con sufficiente precisione le situazioni riconducibili alla nozione di “radicale stravolgimento”. Mi sembra però si possa replicare che la maggiore o minor misura in cui un determinato atto giuridico si discosta dal parametro legale cui dovrebbe attenersi ben può riflettersi sulla natura e sulla qualificazione del vizio che affetta quel medesimo atto. Lo si riscontra, tra l’altro, proprio nell’elaborazione della nozione di atto abnorme, dovuta principalmente alla giurisprudenza penalistica ma che non è estranea neppure all’ambito del diritto civile. E val la pena di notare che lo stesso legislatore se ne è mostrato consapevole nel formulare l’illecito disciplinare previsto dall’art. 2, comma 1, lett. ff), del d.lgs. 23 febbraio 2006, n. 109: illecito che consiste, appunto, nell’adozione da parte del giudice di provvedimenti al di fuori di ogni previsione processuale o che siano frutto di un errore macroscopico o di grave e inescusabile negligenza, sicché tali provvedimenti sono accostati a quelli che costituiscono esercizio di una potestà riservata dalla legge ad organi legislativi o amministrativi ovvero ad altri organi costituzionali. Un atto abnorme del giudice, quindi, può dirsi tale perché la sua difformità dal modello legale è così marcata e manifesta da implicare che esso sia stato emesso al di fuori di alcuna previsione normativa, e perciò in totale carenza di potere giurisdizionale. Quanto poi al margine di vaghezza innegabilmente insito in tale concetto, come del resto accade in presenza di tanti principi giuridici o di norme elastiche presenti nell’ordinamento, mi parrebbe un prezzo da pagare se si vuole evitare di ingessare eccessivamente il sistema e se si vuol consentire – come credo sarebbe opportuno – che almeno nei casi più macroscopici possa operare una valvola di sicurezza idonea ad impedire troppo gravi distorsioni. Ma è appena il caso di aggiungere che questa valvola dovrebbe sempre esser manovrata con senso di misura e riuscendo man mano a costruire una casistica in grado di accrescere la prevedibilità delle decisioni.
È su queste basi che, a mio sommesso avviso, la Suprema corte dovrebbe cercare di misurarsi con i rilievi della Corte costituzionale e sforzarsi di riannodare i fili di un dialogo costruttivo con le altre magistrature superiori, evitando di fomentare ulteriori guerre di territorio tra i giudici, che in ultima analisi si combattono sulla pelle dei cittadini e non fanno bene alla giustizia.
3. Che effetti potrebbe avere sulle questioni qui esaminate la decisione del legislatore che, di recente, ha introdotto quale forma di revocazione delle sentenze rese dal giudice civile ed amministrativo una nuova causa di revocazione -art.1, c.10 l.n.206/2021- per le ipotesi di contrasto della sentenza passata in giudicato resa dal giudice nazionale e una decisione della Corte dei diritti dell’uomo che abbia accertato la violazione della normativa convenzionale?
È difficile fare previsioni in proposito, anche perché la nuova causa di revocazione di cui si tratta è, per ora, contemplata ancora solo nella legge che delega il Governo ad apportare modifiche al codice di procedura civile e sarà quindi solo al momento dell’attuazione di tale delega che se ne potrà valutare a pieno la portata. Oltre a ciò, come per ogni novità normativa, occorrerà poi attenderla alla prova dei fatti, verificando il modo in cui essa sarà effettivamente recepita nel diritto vivente, e solo allora sarà possibile rendersi davvero conto dei possibili effetti di sistema e dei riflessi che ne possono risentire anche altri istituti direttamente o indirettamente interessati dalla novità.
Ciò premesso, non volendo comunque sfuggire alla domanda, azzardo l’ipotesi che la revocazione per contrasto con una sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo possa riguardare non solo i provvedimenti del giudice ordinario, secondo quanto che sarà previsto dal testo del futuro nuovo art. 395 c.p.c., ma anche quelli emessi dal giudice amministrativo e dal giudice contabile, dal momento che la revocabilità di tali provvedimenti è già oggi disciplinata sia dal codice del processo amministrativo sia dal codice del processo contabile sulla falsariga di quanto prevede il codice processuale civile. Poiché l’art. 1, comma 10, lett. f), della già menzionata legge di delega espressamente stabilisce che, a seguito dell’introduzione di tale nuova figura di revocazione, si debbano operare gli adattamenti non soltanto delle disposizioni del codice di procedura civile e del codice civile ma anche “delle altre disposizioni legislative che si rendano necessari”, credo sia ragionevole prevedere che sarà in futuro possibile impugnare per revocazione pure le decisioni degli organi di vertice della giustizia amministrativa o contabile, qualora contrastino con sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo. Questo non varrà certamente a risolvere la differente questione dei limiti entro cui è ammissibile il ricorso per cassazione avverso le anzidette decisioni, rimanendo i presupposti di tale ricorso comunque sempre ben diversi da quelli della revocazione, ma forse almeno in parte varrà a sdrammatizzarla perché farà venir meno la spinta a ricercare nel ricorso per cassazione una possibile valvola di sicurezza, se non per tutti, almeno per alcuni dei casi di possibile contrasto delle decisioni del giudice ammnistrativo o di quello contabile con regole o principi di diritto sovranazionale.
4. Dopo la sentenza resa dalla Corte di Giustizia il 21 dicembre scorso, residuano a suo giudizio, ragioni di dubbi in ordine alla possibilità di sperimentare innanzi alle Sezioni Unite il vizio di eccesso di potere giurisdizionale sotto il profilo della mancata sollevazione del rinvio pregiudiziale innanzi alla Corte di giustizia da parte del giudice speciale di ultima istanza?
Su tale questione i giudici di Lussemburgo non si sono pronunciati, perché non risultava che il mancato rinvio pregiudiziale innanzi alla Corte di giustizia da parte del giudice speciale di ultima istanza fosse stato addotto come motivo di ricorso per cassazione, donde l’irricevibilità del quesito interpretativo formulato a questo riguardo. Ciò nondimeno sono propenso a credere che le argomentazioni poste a base della risposta data al precedente quesito lascino davvero poco spazio per ipotizzare anche in questo caso un esito diverso. Il Consiglio di Stato e la Corte dei conti sono giudici di ultima istanza dei rispettivi plessi giurisdizionali e sono pertanto tenuti ad interpellare la Corte di Lussemburgo quando si ponga un problema d’interpretazione del diritto dell’Unione europea (con i noti limiti enunciati in proposito dalla stessa Corte). Il non farlo certamente comporta quindi una violazione di legge, qualificabile come error in procedendo, ma s’è appena visto che nessun principio di diritto europeo impone al legislatore nazionale di contemplare nel diritto processuale interno la possibilità di proporre ricorso per cassazione in caso di violazione di un precetto di legge sostanziale o processuale commessa dagli organi di vertice della giustizia amministrativa o di quella contabile.
Non mi pare che ad una conclusione diversa si possa pervenire sostenendo che, nell’arrogarsi indebitamente il potere d’interpretare il diritto europeo che spetta invece alla Corte di Giustizia dell’Unione, il giudice nazionale di ultima istanza esorbiterebbe dai limiti – questa volta dai cosiddetti limiti esterni – della propria giurisdizione, onde ciò comporterebbe l’insorgere di una questione inerente alla giurisdizione soggetta al vaglio della Cassazione. La giurisdizione si esercita nell’atto col quale il giudice decide sulla domanda, erogando o meno la tutela richiestagli dalla parte. Nel formulare un questo interpretativo rivolto alla Corte di giustizia egli non si spoglia affatto della propria potestà giurisdizionale, perché sarà comunque sempre lui a dover “dire il diritto” nel caso concreto sul quale è chiamato a decidere. Il quesito interpretativo resta un passaggio interno dell’iter processuale ed il fatto che, per il giudice di ultima istanza, possa trattarsi di un passaggio obbligato non ne muta la funzione né la natura, ma semplicemente ne fa uno dei tanti adempimenti processuali che il giudice è tenuto a rispettare nella conduzione della causa, ove ne ravvisi i presupposti. Non diversamente accade, d’altro canto, quando si profili un dubbio di legittimità costituzionale di una norma da applicare in giudizio ed il giudice della causa, valutata la non manifesta infondatezza e la rilevanza della questione, debba investirne la Corte costituzionale. La stessa Corte di cassazione non ha mai ritenuto che l’eventuale mancata rimessione di un’eccezione d’incostituzionalità da parte di un giudice amministrativo o contabile comporti una questione “inerente alla giurisdizione”, riconducibile alla previsione dell’ultimo comma dell’art. 111 Cost., né quindi che il relativo vizio possa dare adito ad un ricorso dinanzi alle Sezioni unite. Non diversamente mi sembra stiano le cose quando si tratti del vizio di mancato rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia.
5. In definitiva, a suo giudizio è stato utile il dialogo fra Corte di Cassazione a sezione Unite e Corte di giustizia sul tema suscitato dall’ordinanza n.19598/2020 o si è trattato di un tentativo di aggirare l’orientamento espresso dalla sentenza n.6/2018, peraltro non dotato di efficacia vincolante per il giudice comune in relazione alla natura della sentenza di rigetto della questione di legittimità costituzionale da parte della Consulta?
Mi sembra di avere in realtà già risposto prima a tale domanda.
Quello tra Corte di Cassazione a sezioni unite e Corte di giustizia, più che un dialogo costruttivo, mi pare sia stato un secco botta e risposta, che non ha fatto fare alcun concreto passo avanti nella risoluzione di un problema, quello dei limiti della sindacabilità in cassazione delle decisioni dei giudici speciali di ultima istanza, che però credo sia destinato a restare vivo nonostante la brusca battuta di chiusura fatta segnare dalla sentenza n. 6/2018 della Corte costituzionale.
Mi auguro si possa riprendere con spirito costruttivo la strada del dialogo tra le corti, non per disputarsi la giurisdizione ma per realizzare il più possibile una nomofilachia condivisa.
*Già Primo presidente aggiunto della Corte di Cassazione.
La Corte di Giustizia risponde alle S.U. sull’eccesso di potere giurisdizionale. Quali saranno i “seguiti” a Corte Giust., G. S., 21 dicembre 2021 - causa C-497/20, Randstad Italia? - 2) Giancarlo Montedoro
Intervista di Roberto Conti a Giancarlo Montedoro*
[Per l'introduzione al ciclo di interviste si rinvia all'Editoriale]
1. Il dispositivo reso dalla Corte di Giustizia a conclusione della fase del rinvio pregiudiziale non sembra lasciare margini di dubbio in ordine al “responso” del giudice di Lussemburgo. Chiamata a testare, sotto il profilo della compatibilità con il principio di effettività di matrice UE, l’istituto dell’eccesso di potere giurisdizionale come declinato dal diritto vivente interno, la Grande Sezione ha escluso che la violazione del diritto UE perpetuata dal supremo organo della giustizia amministrativa – nel caso concreto perpetrata per avere ritenuto irricevibile il ricorso contro l’aggiudicazione di un appalto presentato dalla ditta esclusa dalla gara non in via definitiva - possa vulnerare il principio di effettività laddove sia escluso dal sistema interno che gli offerenti partecipanti all’aggiudicazione possono contestare la conformità al diritto dell’Unione della sentenza del supremo organo della giustizia amministrativa nell’ambito di un ricorso dinanzi all’organo giurisdizionale supremo di detto Stato membro. Valuta questa conclusione appagante, soddisfacente o non condivisibile?
La valuto ineccepibile con riguardo al principio di autonomia procedurale degli Stati membri.
L’esito di questa rimessione era largamente prevedibile.
La decisione della Corte UE non sarà priva di conseguenze tuttavia in ordine all’esposizione dello Stato e del giudice a responsabilità risarcitorie evocate espressamente nel punto 80 della sentenza della Corte UE in commento.
Il numero delle controversie pendenti innanzi alle Sezioni Unite analoghe a quella che ha originato la rimessione alla Corte UE – non vorrei far la Cassandra - è destinato in parte a trasformarsi in cause risarcitorie contro lo Stato e contro il giudice (amministrativo).
È evidente la sovraesposizione del giudice amministrativo quale risultato paradossale del “combinato disposto” di vari principi quali 1) l’obbligo di rimessione alla Corte Ue da parte del giudice di ultima istanza, 2) la responsabilità dello Stato per violazione del diritto comunitario (a partire dalla nota sentenza Francovich della Corte UE); 3) l’assetto dei rapporti processuali fra Consiglio di Stato e Corte di Cassazione derivante dalla sentenza Corte Cost. n. 6 del 2018 che ha paralizzato il diritto vivente (negando ogni possibilità di interpretare l’art. 111, 8 comma Cost. nel senso di consentire la valutazione nel cono “prospettico” della denegata giustizia di eclatanti vizi in iudicando od in procedendo), nonché 4) la giurisprudenza comunitaria che – in ossequio al principio di parità delle parti – ha superato – imponendone la disapplicazione i tradizionali orientamenti del Consiglio di Stato sul ricorso incidentale c.d. “paralizzante”.
2. La Corte di giustizia ha sottolineato che per eliminare gli effetti dannosi connessi alla violazione del diritto UE perpetrata per effetto di una decisione resa in via definitiva dal giudice amministrativo costituiscono idonei strumenti per eliminare le conseguenze dannose tanto il ricorso per inadempimento da parte della Commissione o l’azione di responsabilità dello Stato per violazione del diritto UE, nella ricorrenza dei presupposti fissati dalla giurisprudenza della Corte stessa- pp.79 e 80 sent. cit.-. Pensa che la fase discendente susseguente alla decisione della Corte di Giustizia potrà avere un seguito diverso da quello che il dispositivo della sentenza della Corte UE sembra avere scolpito in maniera nitida? Pensa, in altri termini, che dopo la pronunzia della Corte di giustizia le Sezioni Unite possano giungere ad un revirement, questa volta sul piano interno e non più su quello del diritto UE, rispetto al diritto vivente formatosi dopo la sentenza della Corte costituzionale n.6/2018 sui confini dell’eccesso di potere giurisdizionale? E in ipotesi di risposta positiva a tale quesito, Lei reputa che sarebbe possibile ampliare l’ambito della figura dell’eccesso di potere giurisdizionale da parte delle Sezioni Unite o risulterebbe necessario sollevare nuovamente una questione di legittimità costituzionale per suscitare una rimeditazione delle conclusioni espresse nella sentenza n.6/2018?
La domanda è cruciale.
Personalmente sono moderatamente favorevole alla concezione c.d. dinamica dell’eccesso di potere giurisdizionale (il provvedimento abnorme è un non provvedimento non un provvedimento viziato da violazione di legge sostanziale o processuale ma il crinale è delicato e per evitare sconfinamenti della Corte di Cassazione nell’ambito di giurisdizione riservato al Consiglio di Stato la Corte costituzionale ha fissato i principi della nota sentenza n. 6 del 2018 ).
Mi sembra difficile percorrere la via del revirement giurisprudenziale solo da parte della Corte di Cassazione senza ripassare dalla Corte Costituzionale.
La Corte Costituzionale con la sentenza n. 6 del 2018 ha bocciato il “diritto vivente” relativo all’eccesso di potere giurisdizionale sulla base di un’interpretazione restrittiva dell’art. 111 comma 8 della Carta Costituzionale.
Solo la stessa Corte può eventualmente “risagomare”, tenendo conto della sua precedente giurisprudenza, l’ambito di un eccesso di potere giurisdizionale fondato sul concetto di “sentenza abnorme” per ridare elasticità al sistema.
Un’altra strada – a fronte dell’ampliamento delle ipotesi di giurisdizione esclusiva e degli insegnamenti ritraibili dalla complessa vicenda ILVA ( alla luce delle valutazioni della CEDU ) – è esplorare la possibilità di consentire un ricorso per Cassazione ai sensi dell’art. 111 comma 7 Cost. avverso le sentenze del Consiglio di Stato nel caso della violazione di diritti umani “indegradabili”.
Ma questo nulla ha a che vedere con il ricorso incidentale paralizzante ma piuttosto con l’esigenza di consentire una effettiva tutela dei diritti umani nel caso in cui essi non trovino risposta nell’alveo della giurisdizione esclusiva cresciuto in modo non prevedibile alla luce del dettato originario della Carta Costituzionale.
V’è poi la possibilità prevista dalla legge delega sulla riforma del processo civile di introdurre nuove ipotesi di revocazione nel caso di contrasto sopravvenuto con sentenze della Corte CEDU ( tale previsione è solo parziale ed andrebbe valutato, in sede di attuazione della delega, se estenderla al caso di contrasto con sentenze preesistenti al giudicato ed altresì se includervi le sentenze della Corte UE).
Sul punto si attende ancora l’esito della rimessione pregiudiziale del Consiglio di Stato di cui all’ordinanza n. 2327 del 2021 ( collegio da me presieduto ).
3. Che effetti potrebbe avere sulle questioni qui esaminate la decisione del legislatore che, di recente, ha introdotto quale forma di revocazione delle sentenze rese dal giudice civile ed amministrativo una nuova causa di revocazione – art.1, c.10 l.n.206/202 – per le ipotesi di contrasto della sentenza passata in giudicato resa dal giudice nazionale e una decisione della Corte dei diritti dell’uomo che abbia accertato la violazione della normativa convenzionale?
Mi sembra chiaro che andrà esplorata la possibilità di introdurre ipotesi di revocazione che siano più ampie di quelle finora previste.
Il costituzionalismo multilivello induce a questa alternativa drammatica: o aumentano esponenzialmente le cause risarcitorie contro lo Stato ed il giudice o si rende flessibile il giudicato.
La questione è stata dallo scrivente posta sin dal 2015 nel saggio Esecuzione delle pronunce della CEDU e cosa giudicata nelle giurisdizioni nazionali ( visionabile nel sito Internet del Consiglio di Stato alla voce dottrina e poi nel libro del 2018 Il diritto pubblico fra ordine e caos per cui mi limito a ricordare tali riflessioni già svolte in tempi per così dire “non sospetti” ed oggi arrivate a maturazione e diffusa consapevolezza tanto che è stata redatta una norma di delega ).
Non penso affatto che la flessibilizzazione del giudicato sia una buona cosa in assoluto penso solo che sia il portato dei tempi storici in attesa della maturazione di una sovranità politica europea che restituirà alla giurisdizione tratti di ordine kelseniano.
Essa mi pare il portato della esistenza dei c.d. Tribunali di Babele (Cassese) ossia di molteplici sistemi giurisdizionali di nomofilachia che andrebbero in qualche modo ricondotti ad unità evitando l’insostenibile ricatto delle cause risarcitorie che rischiano di condizionare i giudici nazionali e che in Italia hanno facile corso dopo la revisione della legge n. 117 del 1988 da parte della legge n. 18 del 2015.
Tale proliferazione è anche legata al crescente desiderio sociale di verità (legato al giudizio storico) che sopravanza quello di giustizia (legato al processo) ed alla pretesa di assoluto che esso desiderio di verità inevitabilmente contiene.
La vita però è maestra di relativismo ed esso riaffiora al fondo di tali dinamiche.
Intendo dire che nessun sistema giurisdizionale può permettersi eterni processi al processo.
L’assoluto – in logica eraclitea - si trasforma o è destinato a trasformarsi in relativo.
In ridiscussione continua e quindi in continua messa in questione.
C’è sempre un altrove da invocare nel mondo globale del futuro fino al costituirsi di un nuovo ordine sovrastatuale più sostenibile di quello attualmente esistente.
Ma v’è di più : si intravede la connessione di questa situazione con il complesso rapporto fra Stato e mercati.
Ho ipotizzato in alcuni studi che questa evoluzione giuridica – costituzionalismo multilivello e spinta alla flessibilizzazione dei giudicati- sia connessa alle forme del capitalismo finanziario in questa fase storica,
Si tratta di questo : se i mercati si basano su scommesse sempre più aggressive e sfidanti controllate algoritmicamente i giudicati possono / debbono essere ridiscussi per guadagnare tempo e consentire gestioni di bilancio che garantiscano la sopravvivenza di imprese che sparirebbero per effetto di giudicati sfavorevoli con pesanti conseguenze economiche .
In ultimo va notato come la revocazione sia sempre un rimedio solo parziale : essa interviene dopo un certo tempo e quindi lascia aperto il tema dei danni medio tempore verificatisi.
Andrebbe costruito un sapiente sistema di tutela cautelare sui danni medio tempore verificatisi da mancata sospensione di sentenza revocanda.
4. Dopo la sentenza resa dalla Corte di Giustizia il 21 dicembre scorso, residuano a suo giudizio, ragioni di dubbi in ordine alla possibilità di sperimentare innanzi alle Sezioni Unite il vizio di eccesso di potere giurisdizionale sotto il profilo della mancata sollevazione del rinvio pregiudiziale innanzi alla Corte di giustizia da parte del giudice speciale di ultima istanza?
La questione non è stata trattata espressamente dalla Corte UE ma non potrebbe avere sorte diversa da quella relativa alla violazione del diritto UE.
Ciò traspare dal complesso della motivazione della sentenza e deriva dal principio di autonomia procedurale o processuale degli Stati membri .
Mi preme invece sottolineare che il punto 63 della sentenza della Corte UE del 21 dicembre 2021 in commento rimette comunque alla Corte di Cassazione di valutare se non esista alcun rimedio di tutela effettiva nel caso concreto con ciò invitando la Corte di Cassazione – data la sua centralità nel sistema giurisdizionale italiano – ad esplorare direttamente nuove vie ( allo stato precluse dalla sentenza Corte Cost. n. 6 del 2018 sulla quale rimando alle osservazioni precedenti ) .
5. In definitiva, a suo giudizio è stato utile il dialogo fra Corte di Cassazione a sezione Unite e Corte di giustizia sul tema suscitato dall’ordinanza n.19598/2020 o si è trattato di un tentativo di aggirare l’orientamento espresso dalla sentenza n.6/2018, peraltro non dotato di efficacia vincolante per il giudice comune in relazione alla natura della sentenza di rigetto della questione di legittimità costituzionale da parte della Consulta?
Credo che sia sempre utile il dialogo fra le Corti, ma a condizione che il frutto di questo non sia un aumento dei caratteri ormai bizantini del nostro sistema giuridico.
*Presidente di sezione del Consiglio di Stato
Si conclude, con la pubblicazione di Giuseppe Arbia dedicata all'album "The wall" dei Pink Floyd, la carrellata di contributi che hanno accompagnato ed allietato il tempo di fine e di inizio anno nuovo, dando un senso alle aspirazioni ed alle aspettative espresse nell'editoriale "Ponti versus muri, o muri e ponti" pubblicato il 18 dicembre scorso, al cui interno sono oggi visionabili tutti gli articoli, attraverso il collegamento ipertestuale appositamente attivato. Idee, impressioni, argomentazioni di particolare pregio grazie alla straordinaria disponibilità degli Autori ai quali va un caloroso ringraziamento.
La redazione
Ponti versus muri, o muri e ponti. 14) Pink Floyd - The wall
di Giuseppe Arbia
In questa apprezzabile collezione di articoli di Giustizia Insieme dedicati a « Ponti e muri », credo non possa mancare il muro per antonomasia della musica rock: il celebrato album «The wall» dei Pink Floyd il quale costituisce, per certi versi, il vertice musicale del gruppo. Dal long playing, inciso alla fine degli anni ’70, è stato successivamente ricavato anche un film musicale diretto da Alan Parker e presentato nel 1982 al 35º Festival di Cannes. Il celebre disco ci costringe ad un cambiamento di punto di vista e sposta l’enfasi dai muri di natura sociale, ai quali per lo più si sono riferiti i contributi in questa interessante rassegna, ai muri individuali eretti da ciascuno di noi.
Come molti ricorderanno, il disco (ed il film) racconta le vicende della rockstar Pink sotto le cui spoglie si nasconde l’autore delle musiche nonché l’ideatore del concept album e del film: il mitico bassista del gruppo Roger Waters. La vicenda umana di Pink è costellata di avvenimenti che lo portano ad erigere progressivamente un muro intorno a sé ed a chiudersi in un cupo individualismo. Le sue vicende umane sono viste metaforicamente come mattoni che si aggiungono al muro («antoher brick in the wall »). Nelle vicende narrate nel disco e nel film, il personaggio principale viene, infatti, presentato nelle varie fasi della sua vita fin dall’infanzia quando deve affrontare alcuni tragici avvenimenti. Innanzitutto, la morte del padre in guerra e il senso di abbandono da essa derivato (elemento questo che sarà poi ripreso dallo stesso Waters in uno degli album successivi del gruppo e l’ultimo con la sua partecipazione: « The final cut »). Un ulteriore elemento traumatico è costituito dalla scuola e dagli insegnanti autoritari i quali, utilizzando punizioni corporali, lo portano ad una ribellione contro i metodi di insegnamento e contro il controllo del pensiero, i quali sfociano in un altro mattone sul muro. Crescendo Pink dovrà affrontare una madre iperprotettiva la quale, non accettando l'idea del bambino che diventa uomo, sia pure nella buona intenzione di proteggerlo dalla crudeltà della società, contribuisce invece alla erezione del suo muro. Divenuto adulto e famoso, il personaggio affronta i problemi del matrimonio creati dalla scarsa comunicazione, dall’infedeltà della moglie e dalla presenza di fan disposte a tutto pur di stare con lui. Tutti questi elementi conducono il matrimonio alla rovina e, in conseguenza di ciò, alla perdita della ragione da parte protagonista. Da questo momento, Pink si chiude all’interno del suo muro psicologico considerando inutile qualsiasi rapporto con gli altri e, per quanto disperato per il suo isolamento, non riesce a fare altro che dire addio al mondo intero e a rifugiarsi nelle droghe.
A questo punto della vicenda, il protagonista subisce un processo nel quale viene giudicato per aver commesso un crimine contro sé stesso, contro la sua umanità. Al processo partecipano, in qualità di testimoni sul banco dell’accusa i vari personaggi della sua vita: il maestro di scuola, la moglie che lo accusa di non aver mai cercato davvero un rapporto con lei, la madre che lo vuole riportare a casa. Al termine del processo il giudice emette la sua sentenza e lo condanna all’abbattimento del muro riesponendolo al mondo reale.
Nel brano finale l'artista afferma come sia difficile rimanere sani di mente « … quelli che davvero ti amano, camminano su e giù fuori dal muro, qualcuno mano nella mano, qualcuno si riunisce in band. I cuori sanguinanti e gli artisti fanno la loro comparsa e, quando hanno dato tutto ciò che potevano, alcuni barcollano e cadono. Dopo tutto non è facile sbattere il tuo cuore contro un muro di pazzi...»
I molti esegeti dei Pink Floyd hanno segnalato diversi piani di lettura dell’album. Il primo, il più immediato, è quello di natura autobiografica (la morte del padre in Italia durante il secondo conflitto mondiale, i problemi dell'educazione scolastica nel periodo delle rivolte studentesche, il difficile rapporto con la madre etc.). Il secondo piano di lettura è di natura più sociale e si riferisce all'incomunicabilità nei rapporti di coppia, al tema della rockstar onnipotente ed alla sua esposizione ai fan. Il terzo piano, infine, si concentra esclusivamente sulla follia del protagonista, e si riferisce non già all’autore dei testi (Waters), ma al suo amico Syd Barrett, uno dei membri fondatori della band, il quale, a causa dell’abuso delle droghe, perse la salute mentale e dovette abbandonare la band dopo le prime incisioni.
Se il disco uscisse oggi, probabilmente Waters aggiungerebbe nuovi mattoni che contribuiscono all’erezione del muro psicologico tra gli individui. Primo fra tutti l’autoisolamento al quale ci costringiamo con la sovraesposizione alle immagini ed ai social network nel crescente fenomeno dell’ "allotopia” in virtù del quale, anche quando siamo insieme, invece di comunicare, ci trasportiamo altrove per pseudo-comunicare con persone lontane. Emblematiche le scene quotidiane di gruppi di persone di tutte le età sedute insieme attorno ad un tavolo in un bar o in un ristorante, ma ciascuno chiuso all’interno del muro del proprio smartphone. In questo era stato profetico negli anni immediatamente successivi all’uscita di “The wall” un altro capolavoro cinematografico: il meraviglioso “Fino alla fine del mondo” di Wim Wenders girato nel 1991. In riferimento a questa pellicola il regista dichiarò che l’ispirazione era stata soprattutto legata ai suoi timori circa l’impatto che avrebbe avuto sulla nostra psiche la produzione continua di immagini e filmati. Sono memorabili (e tremende riviste oggi!) le immagini del film che descrivono l'ossessione visiva che ad un certo punto assale i due protagonisti, che vediamo per giorni e giorni con lo sguardo fisso su apparecchi audiovisivi che portano sempre con sé per rielaborare i propri sogni. «Divennero tutti come dei drogati: vivevano per vedere i loro sogni, e quando dormivano sognavano i loro sogni» fa dire Wenders al suo protagonista. Peccato che Wenders non abbia chiesto all’epoca anche ai Pink Floyd di arricchire la già grandiosa colonna sonora del suo film affidata ai più grandi artisti rock dell’epoca. Sarebbe stato probabilmente un altro mattone nel muro nell’immaginario di Roger Waters ... e un’altra perla musicale ad arricchire la pellicola.
Negli ultimi due anni poi, la pandemia che ci ha colto, tra i suoi numerosi effetti collaterali, registra sicuramente anche quello di contribuire a creare un muro di diffidenza, di paura, se non addirittura di rigetto dell’altro. A fronte delle incertezze, dei rischi e delle paure che ci assalgono in questi anni, corriamo davvero il rischio di rinchiuderci ulteriormente in noi stessi, guardando l’altro solo come un preoccupante elemento di contagio e condannandoci a fare divenire quel lockdown che purtroppo abbiamo a lungo sperimentato, uno status mentale permanente, un muro, appunto, come quello descritto dai Pink Floyd. Anche su questo Waters avrebbe oggi sicuramente qualcosa da aggiungere al suo disco. Anche questo è “another brick in the wall “.
Ma trovo che sia significativa la chiusura del disco quando, al processo, ci indica che, se cadessimo in questa trappola, se ci rassegnassimo a vedere crescere mattone su mattone un muro intorno a noi, se lasciassimo che anche questa sventurata congiuntura che ci ha assalito rappresenti l’ultimo e definitivo mattone posto in cima al muro divenuto indistruttibile ed invalicabile, commetteremmo innanzitutto un crimine verso noi stessi, verso il nostro essere uomini e donne. La condanna pronunciata dal giudice che chiude il disco è, in ultima analisi, un invito a tornare a vivere in pieno la nostra umanità nonostante tutto sembri condannarci all’autoisolamento: la dolce condanna a vivere: “Dal momento che, amico mio, hai rivelato la tua paura più profonda, ti condanno ad essere esposto ai tuoi pari e ad abbattere il muro».
Dopo tutto, come ha affermato Papa Francesco in occasione della XXXI Giornata mondiale della gioventù del 2016. “È più facile costruire ponti che innalzare muri”.
Attività consiliare e tutela: il delicato equilibrio tra autonomia e controlli * di Sandro Saba
* Tratto dal volume Migliorare il CSM nella cornice costituzionale editore CEDAM, collana: Dialoghi di giustizia insieme.
Il tema assegnato concerne il (sofferto) rapporto tra autonomia dell’organo di autogoverno e tutela dei diritti e interessi legittimi del magistrato singolo (valori entrambi costituzionalmente sanciti), ossia il delicato equilibrio tra prerogative del CSM (di cui all’art. 105 Cost.) ed effettività dei principi di buon andamento e imparzialità nonché inviolabilità del diritto di difesa (artt. 24 e 97 Cost.).
È oltremodo ovvio che l’individuazione delle tutele accordate al singolo dipenda dalla preliminare definizione della natura giuridica dell’ente delle cui decisioni si discetta (o, quantomeno, dalla qualificazione della funzione esercitata). Ora, s’è indubbiamente al cospetto di un organo esterno alla pubblica amministrazione (ove intesa in termini classici), circostanza che, in uno alla considerazione costituzionale del CSM, rimette all’interprete il difficile compito di individuare forme di tutele (procedimentali e giurisdizionali) che siano compatibili con le peculiarità dello stesso.
Pare doveroso prendere le mosse (e sarà perdonata la digressione) dai lavori preparatori della l.n. 195/58, in cui, inizialmente, addirittura s’ipotizzò d’attribuire al CSM natura espressamente giudiziaria, con esclusione della sindacabilità (esterna) degli atti adottati, con doppia declinazione della soluzione alternativa: esclusione tout court della sindacabilità degli atti ovvero previsione di forme di autodichia. Agli sgoccioli della seconda legislatura è stata tuttavia adottata la legge n. 195 del 58, nella formulazione che tutti conosciamo: l’art. 17 enuncia – ai commi primo e secondo – due norme, che consegnano all’operoso interprete preziosi elementi per la qualificazione della natura giuridica dell’attività del CSM e, conseguentemente, individuazione delle forme di tutela riconosciute al magistrato.
La prima norma prevede che gli atti del Consiglio siano recepiti con decreto presidenziale, controfirmato dal Ministro ovvero con decreto ministeriale (nei casi previsti dalla legge). La seconda assegnava – e assegna tuttora, con le modifiche intervenute nel tempo (dagli anni ‘90 all’adozione del codice del processo amministrativo) – al giudice amministrativo la cognizione sui predetti.
S’è subito affermato in dottrina che l’illustrata normativa in realtà integrasse mero precipitato di principi generali che concernono l’agire amministrativo. Se il CSM interviene esercitando un potere, nell’interesse pubblico, disciplinando casi concreti e specifici, attraverso un’equa ponderazione degli interessi in gioco, allora esercita un’attività propriamente amministrativa. L’atto è oggettivamente amministrativo e la norma – come affermerà poi la Corte Costituzionale nel ’68 – serve unicamente ad attribuire il corretto involucro (amministrativo) a un atto che tale già doveva considerarsi (quantomeno nella sostanza).
In dottrina sono state formulate diverse tesi: dell’atto composto, ineguale (dove l’ineguaglianza formalmente indica la prevalenza del ministro, ma sostanzialmente esprime la prevalenza del CSM), della proposta vincolante, dell’atto presupposto, della decretazione come forma ad substantiam. Rimane il dato che il giudice amministrativo ha, sin da principio, ritenuto che gli atti in commento fossero amministrativi, come tali sindacabili e correttamente attribuiti alla giurisdizione generale di legittimità. Così le pronunce del ’62 del Consiglio di Stato (nn. 248 del 14 marzo 1962 e 752 del 28 novembre 1962). Fin quando però la questione venne portata all’attenzione della Corte Costituzionale. Con la prima pronuncia – n. 168 del 12 dicembre 1963 – il Giudice delle Leggi riconosce natura sostanzialmente amministrativa all’attività del CSM. È tuttavia la sentenza n. 44 del 30 aprile 1968 il più importante e completo pronunciamento sul punto: nell’ordinanza di rimessione delle Sezioni Unite si paventava il rischio d’indebita ingerenza (nell’autonomia costituzionalmente tutelata) insito nell’assegnazione a diversa giurisdizione del sindacato sugli atti del CSM. L’Avvocatura dello Stato sostenne, addirittura, che la soluzione più corretta fosse quella dell’insindacabilità tout court delle delibere o, in alternativa, della previsione di forme di autodichia (come già da lavori preparatori). La Corte Costituzionale innanzitutto chiarisce quale sia il rapporto tra atto amministrativo e delibera consiliare: l’atto amministrativo (presidenziale o ministeriale) è di mero recepimento. Con l’adozione della delibera nasce un obbligo giuridico a carico dell’esecutivo di recepire l’atto. Atto che diviene efficace nei confronti del magistrato soltanto col recepimento; ma l’adozione in sé attribuisce e genera l’obbligo di recepire con decreto il provvedimento consiliare. Si ribadisce, poi, quanto già affermato con la precedente pronuncia n. 168: si parla, nuovamente, di attività sostanzialmente amministrativa e quindi relativa sindacabilità, che – correttamente – è attribuita al giudice amministrativo, quale autorità giudiziaria chiamata a conoscere della legittimità degli atti amministrativi. La Corte Costituzionale menziona anche un elemento di opportunità (a suffragio della bontà dell’opzione legislativa): la scelta non solo è ragionevole, in quanto rispondente alla storica (e usuale) distribuzione del potere giurisdizionale; è, altresì, opportuna, siccome fuga il rischio (insito nell’alternativa attribuzione al Giudice ordinario) della “confluenza che verrebbe a verificarsi, negli appartenenti allo stesso ordine, di destinatari dei provvedimenti del Consiglio superiore della magistratura e di giudici della regolarità del medesimi”.
Se il provvedimento – come s’è chiarito con questo breve inciso – ha natura amministrativa, bisogna comprendere quali siano le tutele accordate al destinatario dello stesso (sia giurisdizionali che procedimentali).
Quelle giurisdizionali sono le prime ad aver formato oggetto di studio e approfondimento, simmetricamente a quanto avvenuto sul fronte amministrativo classico, per tarda emersione del tema delle tutele nel procedimento soltanto con l.n. 241/90. Si reputa, tuttavia, preferibile abbandonare il criterio cronologico e aderire a un’impostazione logica e, così, prendere le mosse dall’esame delle seconde (sebbene di più recente elaborazione).
A tale proposito, il CSM si è interrogato sulla possibilità di applicare la normativa sul procedimento amministrativo alla propria attività, opzione non scontata, trattandosi di disciplina formalmente riservata, a mente dell’art. 29, alle sole amministrazioni statali (e, tecnicamente, tale non è il CSM). Già nel ’92, con la risoluzione del 27 maggio (adottata a seguito di animato e dotto dibattito, come emerge dal verbale della seduta), si è ipotizzata un’estensione, in via tendenziale, della disciplina in commento all’attività consiliare, da realizzarsi – si diceva – attraverso il meccanismo dell’adeguamento regolamentare (ai sensi dell’art. 20 n. 7, l.n. 195/58).
Con la successiva risoluzione del 24 marzo 1993 s’è verificata la compatibilità dei singoli articoli della l.n. 241/90 con le peculiarità dell’organo di autogoverno. È parso d’indubbia applicabilità l’art. 1 (sui principi generali dell’attività amministrativa), in quanto precipitato dei canoni di imparzialità e buon andamento, a caratura costituzionale (art. 97 Cost.), sicuramente riferibili anche all’operato del CSM. Del pari gli artt. 2, comma 1, e 3, sull’obbligo di provvedimento espresso, sorretto da congrua motivazione.
Più problematica la traslazione della restante parte dell’art. 2, sui tempi del procedimento. In un primo momento si è ipotizzato un intervento regolamentare d’individuazione dei termini finali dei procedimenti, differenziati in ragione delle diverse competenze delle Commissioni (con previsione di un meccanismo di conclusione immediata del procedimento o della fase, in caso di superamento di detti termini, attraverso l’azione della Presidenza delle Commissioni e del Consiglio, chiamate a individuare in via ultimativa la seduta di definizione della pratica, fatta salva la possibilità di chiedere motivate proroghe). Tuttavia, con successiva delibera del 21 settembre 2005, abbandonata l’idea dell’intervento regolamentare, s’è rimessa alle singole commissioni l’individuazione dei termini dei relativi procedimenti, con espressa statuizione dell’irrilevanza esterna degli stessi. Allo stato, al di là delle tempistiche dettate per il procedimento disciplinare (di cui al d.lgs. n. 109/06), parrebbe che l’unica norma sui termini sia l’art. 42 del nuovo Regolamento interno del 26 settembre 2016, in tema di trasferimenti per incompatibilità ambientale e funzionale (attuato con circolare del 28 luglio 2017 – art. 4), probabilmente per affinità (in termini di sostanziale incidenza) dei provvedimenti definitori dei due diversi procedimenti.
Il CSM, con la succitata risoluzione del ’93, ha reputato non estensibili le disposizioni sul responsabile del procedimento (artt. 4 ss., l.n. 241/90), trattandosi di disciplina concepita per il modello tipico dell’organizzazione amministrativa, caratterizzata da rapporti interni di sovraordinazione o di vera e propria gerarchia tra il dirigente dell’unità organizzativa e i dipendenti alla medesima addetti, tutti peraltro legati alla Pubblica Amministrazione da un rapporto d’impiego.
Ben diversi – s’è detto – sono invece il tessuto e l’organizzazione del CSM. I componenti partecipano ai lavori e alle deliberazioni del Consiglio in posizione di parità. Il che vale anche per i presidenti delle commissioni, cui competono soltanto poteri di formazione dell’ordine del giorno, di convocazione e di distribuzione del lavoro. L’attività nell’ambito dei lavori consiliari è, inoltre, sempre di tipo collegiale, non avendo il relatore neppure per gli atti istruttori il potere di adottare determinazioni di sorta. Fondate obiezioni, che tuttavia privano il singolo di un ben preciso interlocutore, quale unico referente del Consiglio.
In tema di partecipazione (artt. 7-13, l.n. 241/90), si ritengono pacificamente applicabili gli artt. 7 (sulla comunicazione di avvio del procedimento), 9 (sull’intervento nel procedimento, purché fondato su situazioni differenziate, di diritto soggettivo o interesse legittimo) e 10-bis (sul c.d. preavviso di rigetto, non contemplato dalla delibera, siccome di successivo conio, ma riconosciuto da consolidata giurisprudenza amministrativa: cfr. Tar Lazio – Roma, sez. I, n. 3265/07). Diversamente, è parso (correttamente) incompatibile con le funzioni consiliari, dal contenuto non negoziabile, l’art. 11, in materia di accordi integrativi o sostitutivi del provvedimento. Parimenti non applicabile s’è reputata la disciplina sulla semplificazione amministrativa (artt. 14-21), tra cui il modulo procedimentale della conferenza di servizi, siccome precipuamente destinata alla sola Pubblica amministrazione in senso proprio. In particolare, in tema di silenzio assenso (art. 20), il CSM, con successiva risoluzione del 18 ottobre 2009, ha escluso la generale applicabilità della formula semplificatoria all’attività consiliare (nonostante le modifiche apportate dal Legislatore del 2005, in ragione – nuovamente – dell’estraneità dell’organo di autogoverno alla pubblica amministrazione), salve espresse previsioni (come, ad esempio, in materia d’incarichi extragiudiziari, prevedendo la circolare n. 22581 del 9 dicembre 2015, all’art. 18, l’eventuale definizione mediante silenzio significativo dei relativi procedimenti autorizzatori).
Si registra un’aumentata sensibilità nel tempo anche in tema di diritto di accesso ai documenti amministrativi (corrispondenti artt. 22-28, l.n. 241/90). L’art. 18 del Regolamento interno del 6 aprile 1988 (primo intervento normativo sul punto) contemplava unicamente: il rilascio di copia dei verbali delle sedute pubbliche del plenum, a richiesta di chiunque vi avesse un giustificato motivo, su autorizzazione del Comitato di Presidenza; l’ostensione dei verbali delle sedute del Consiglio, ove non pubbliche, e delle Commissioni soltanto ai magistrati che, a giudizio della competente Commissione o del Consiglio (in caso di mancata maggioranza sul punto), vi avessero interesse; il rilascio, da parte del Comitato di Presidenza, di copia degli atti acquisiti o formati nel corso dei procedimenti consiliari, definiti in seduta pubblica, a richiesta di chiunque (nuovamente) vi avesse giustificato motivo. Si trattava, evidentemente, di una tutela assolutamente contenuta del diritto alla trasparenza dell’agire consiliare. Così, preso atto delle sopravvenienze normative nonché d’incalzanti pronunzie giurisprudenziali (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 14 aprile 2010, n. 2093), si è proceduto a radicale riforma dell’istituto con delibera del 5 dicembre 2012, dal contenuto sostanzialmente trasposto nell’art. 33 del nuovo Regolamento interno del settembre 2016. Come illustrato nella delibera del 2012, la disposizione di nuovo conio disciplina due distinti profili, il diritto alla pubblicità dell’azione del CSM e il diritto di accesso in senso proprio. Al primo si riferisce il comma 1, che sancisce il diritto di tutti di ottenere copia o visione dei verbali delle sedute pubbliche del Consiglio e delle delibere consiliari, anche adottate dalle Commissioni, ove siano assunte in seduta pubblica, che rende conoscibili alla generalità dei consociati il documento, in funzione della assicurazione di un controllo democratico diffuso sulla attività del CSM, previsto e garantito dal legislatore, in modo non dissimile da quanto avviene, ad esempio, per la fase dibattimentale dei procedimenti penali. I restanti commi dell’art. 33 concernono, invece, il diritto di accesso in senso stretto. Al comma 2 sono poste le limitazioni all’ostensione, involgenti documenti coperti da segreto per espressa previsione legislativa; che riguardino sicurezza personale dei magistrati, sfera sanitaria e sfera privata delle persone; documenti attinenti a procedimenti penali, disciplinari o concernenti l’iscrizione di ricorsi amministrativi, fatta eccezione per la fase pubblica dei procedimenti. È comunque garantito ai richiedenti l’accesso e il rilascio di copia dei documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere propri interessi giuridici. La prevalenza dell’accesso difensivo sul diritto alla riservatezza è verificata caso per caso e in concreto rispetto alle effettive esigenze di difesa prospettate dal richiedente l’accesso (commi 3 e 4). È poi delineata la disciplina relativa all’accesso ai verbali delle Commissioni e agli atti e documenti formati o acquisiti nel corso dei procedimenti consiliari, distinguendosi tra procedure definite o meno. Nel primo caso (comma 5), la visione o il rilascio di copia sono accordati, su autorizzazione del Comitato di Presidenza (previo parere della Commissione), a tutti i soggetti (privati e pubblici), compresi quelli portatori d’interessi diffusi, che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente a una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento del quale è chiesto l’accesso. La visione o il rilascio di copie delle delibere adottate in seduta segreta non sono consentiti nei casi in cui la segretazione sia stata disposta per esigenze di tutela della sicurezza di beni o persone, salvo che la richiesta provenga dal magistrato interessato al procedimento. Contro il diniego di autorizzazione, anche parziale, è ammesso reclamo al Consiglio che delibera entro trenta giorni (comma 5). Per i procedimenti non ancora definiti, la visione o il rilascio di copia dei verbali delle Commissioni nonché degli atti e dei documenti formati o acquisiti nel corso del procedimento sono autorizzati dal Comitato di Presidenza, previo parere della Commissione, esclusivamente nel caso in cui la conoscenza o la copia di tali atti siano strettamente necessari al richiedente per far valere propri diritti o interessi in giudizio. Contro ogni diniego, anche parziale, di autorizzazione è ammesso reclamo al Consiglio, che delibera entro trenta giorni (comma 6). È evidente la compressione del diritto d’accesso (riconosciuto soltanto ove finalizzato alla tutela giurisdizionale) in ipotesi di procedimenti non ancora conclusi.
Esaurito il tema delle facoltà accordate nella fase procedimentale di adozione dell’atto (che s’è detto sostanzialmente amministrativo), residua l’analisi del versante giurisdizionale delle tutele riconosciute avverso la statuizione consiliare. L’impiego del plurale è d’obbligo, essendovene più d’una: amministrativa generale di legittimità (art. 17, comma 2, l.n. 195/58), amministrativa esclusiva sul rapporto d’impiego (art. 133, comma 1, lett. i, codice del processo amministrativo) e ordinaria, rimessa alle sezioni unite della Corte Suprema di Cassazione, sui provvedimenti disciplinari (art. 17, comma 3, l.n. 195/58).
Oggetto del presente approfondimento sarà la prima, ovvero quella prevista a fronte di provvedimenti che si assumano lesivi di interessi legittimi (pretensivi o oppositivi). L’analisi deve necessariamente prendere le mosse dal dettato dell’art. 17, comma 2, l.n. 195/58, come modificato nel tempo (con particolare riferimento all’interpolazione operata con d.lgs. n. 104/10, di approvazione del codice del processo amministrativo).
L’originaria formulazione attribuiva al Consiglio di Stato la competenza a conoscere della legittimità degli atti del CSM, poi assegnata al TAR Lazio con l.n. 74/90. Si tratta, come chiarito con l’art. 135 del codice del processo amministrativo, di competenza funzionale e inderogabile, come già da interpretazione dominante, fatta salva dalla Corte costituzionale (sentenza n. 189 del 22 aprile 1990), che ha reputato non irragionevole la deroga al foro di servizio, in considerazione della particolare natura del CSM (organo di rilievo costituzionale); dello status del magistrato, che lo distinguerebbe da tutti i dipendenti pubblici; infine, dell’esigenza di assicurare uniformità della giurisprudenza fin dalle pronunce di primo grado. In dottrina si sono da subito manifestate perplessità sull’attribuzione della cognizione al Giudice amministrativo, derivanti dalla concentrazione in capo allo stesso della giurisdizione sulle controversie riguardanti gli appartenenti tanto alla magistratura ordinaria quanto a quella amministrativa (come noto, di qualsiasi provvedimento concernente il giudice speciale, anche di contenuto sanzionatorio, s’è sempre affermata la natura squisitamente amministrativa: cfr. Cass. civ., sez. un., 29 settembre 2000, n. 1049; Cass. civ., sez. un., 10 aprile 2002, n. 5126; Cass. civ., sez. un., 20 aprile 2004, n. 7585).
Vi sarebbe, poi, il rischio di un “intreccio contraddittorio”: il Giudice amministrativo, le cui decisioni sono pur sempre ricorribili in Cassazione, anche se per soli motivi di giurisdizione (art. 111 Cost.), è in condizione – s’è detto – di incidere sull’ordinamento giudiziario, compreso il suo organo di vertice, eventualità tutt’altro che remota, giacché gran parte del contenzioso attiene al conferimento degli uffici direttivi e, già nel 2007, l’intervento del giudice amministrativo (nei due gradi di giudizio) ha riguardato proprio la nomina del Primo Presidente della Corte di Cassazione.
Venendo all’oggetto del giudizio, inizialmente si accordava la facoltà d’impugnazione del solo decreto di recepimento della delibera consiliare, reputandosi quest’ultima meramente preparatoria e, per quanto vincolante per l’Esecutivo, ancora priva di effetti giuridici esterni. S’è, poi, fatta strada la tesi della diretta impugnabilità dell’atto del CSM, nel caso in cui difettasse, per natura dello stesso, una decretazione governativa di recepimento. Ci si riferisce, in particolare, alle statuizioni di verifica dei titoli di ammissione dei componenti togati del Consiglio (art. 20, n. 1, l.n. 195/98), sulle quali il Consiglio di Stato, con pronuncia n. 567 del 18 maggio 1971, ha rivendicato la propria cognizione diretta (onde evitare un vuoto di tutela, incompatibile col dettato dell’art. 24 Cost.), poi assegnata alla giurisdizione del Giudice ordinario, siccome concernente posizioni di diritto soggettivo pieno (cfr. Cass. civ., sez. un., 7 ottobre 1972, n. 2918). S’è, inoltre, affermata la facoltà d’immediata impugnazione della delibera consiliare, pur in mancanza di formale decreto, ove comunque messa in esecuzione (così Tar Lazio, sez. I, 4 febbraio 1976, n. 69). Infine, con la pronuncia Tar Lazio, sez. I, 8 giugno 1983, n. 491, è stata definitivamente sostenuta la diretta impugnabilità di qualsiasi statuizione consiliare, sostenendosi (addirittura) la natura soggettivamente amministrativa del CSM, per quanto non collocato nell’ambito della pubblica amministrazione intesa come insieme delle autorità che fanno capo al Governo e che da questo dipendono (orientamento confermato in Cass. civ., sez. un., 21 febbraio 1997 n. 1617).
Quanto alle parti processuali, la legittimazione attiva è riconosciuta a chi possegga lo status di magistrato ordinario, inclusi i giudici di pace e i giudici onorari (ritenuti comunque appartenenti all’ordine giudiziario) nonché i magistrati in tirocinio, limitatamente gli atti di nomina che attribuiscono lo status di magistrato. La legittimazione passiva era, inizialmente, attribuita al solo Ministero, in aderenza alla ricostruzione teorica che vedeva nel decreto ministeriale l’atto conclusivo del procedimento amministrativo e nella delibera del Consiglio superiore della magistratura un atto meramente endoprocedimentale (sprovvisto di autonomia funzionale amministrativa). Tuttavia, con la citata pronunzia Cass. SSUU n. 1617/97, s’è evidenziato che “nessuna norma espressa attribuisce la legittimazione processuale al solo Ministero di Grazia e Giustizia. In considerazione, anzi, sia della posizione costituzionale del Consiglio suddetto, sia del fatto che al Ministero di Grazia e Giustizia non è consentito di sindacare il contenuto delle delibere consiliari, sia - infine - del fatto che le deliberazioni consiliari sono immediatamente impugnabili, la legittimazione processuale del Consiglio Superiore della Magistratura nei giudizi amministrativi concernenti le sue delibere non può che essere riconosciuta, quanto meno come legittimazione in via sostitutiva. Se così non fosse, dalla conseguente posizione di soggezione al Ministro in ordine alla difesa giudiziale dei propri provvedimenti non potrebbero non derivare, al Consiglio, significative menomazioni alla sua autonomia”. Anche in materia di appello avverso sentenze sfavorevoli si è riconosciuta legittimazione concorrente, peraltro con facoltà di ricorso, per il CSM, ad avvocati del libero Foro (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 20 aprile 2006, n. 2227).
In merito alla cognizione, come sancito all’art. 7, comma 4, codice del processo amministrativo, “sono attribuite alla giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo le controversie relative ad atti, provvedimenti o omissioni delle pubbliche amministrazioni, comprese quelle relative al risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi e agli altri diritti patrimoniali consequenziali, pure se introdotte in via autonoma”, ossia le due azioni di annullamento (per violazione di legge, incompetenza ed eccesso di potere: cfr. art. 21-octies, l.n. 241/90, nonché art. 29 del codice del processo amministrativo) e condanna (art. 30, citato codice).
In ordine al profilo caducatorio, rilevano essenzialmente i vizi di legittimità della violazione di legge e dell’eccesso di potere. Quanto al primo, integrano gli indefettibili parametri di valutazione sia la normativa di rango primario che la produzione paranormativa del CSM, quale autovincolo all’attività dello stesso. È, tuttavia, il positivo riscontro del secondo (ossia dell’eccesso di potere) – quale patologia tipica dell’agire discrezionale – a destare maggiori perplessità e preoccupazioni, per l’insopprimibile esigenza di evitare indebiti travalicamenti dei limiti del sindacato di mera legittimità assegnato al Giudice amministrativo. Invero, come reiteratamente affermato, “il giudice non può sostituire proprie valutazioni a quelle dell’organo di governo della magistratura, sicché una valutazione di questo, se opinabile ma sorretta in punto di fatto da adeguata istruttoria ed esatta rappresentazione della realtà, è perciò stessa sottratta al sindacato di legittimità, perché l’opinabilità delle valutazioni e delle conseguenti scelte costituiscono il proprium dell’esercizio della discrezionalità” (così Cons. Stato, sez. IV, 3 marzo 2006, n. 10835). La violazione della regola di riparto, tra azione amministrativa e controllo di legittimità, determina eccesso di potere giurisdizionale (censurabile con ricorso per cassazione, ai sensi dell’art. 91 del codice del processo amministrativo), come lucidamente affermato in Cass. civ., sez. un., 5 ottobre 2015, n. 19787, a mente della quale “l’individuazione dell’eccesso di potere giurisdizionale corre lungo la linea di discrimine tra l’operazione intellettuale consistente nel vagliare l’intrinseca tenuta logica della motivazione dell’atto amministrativo impugnato e quella che si sostanzia invece nello scegliere tra diverse possibili opzioni valutative, più o meno opinabili, inerenti al merito dell’attività amministrativa di cui si discute: altro è l'illogicità di una valutazione, altro è la non condivisione di essa”, sicché “il Consiglio di Stato travalica i limiti esterni della giurisdizione qualora, nel giudizio avente ad oggetto la legittimità della corrispondente delibera del primo, operi direttamente una valutazione di merito del contenuto del provvedimento e ne apprezzi la ragionevolezza – così sovrapponendosi all’esercizio della discrezionalità del CSM, espressione del potere, garantito dall’art. 105 Cost., di autogoverno della magistratura – piuttosto che limitarsi a sindacarne la legittimità, anche a mezzo del vizio dell’eccesso di potere”.
V’è, poi, il tema dell’esecuzione (obbligatoria) delle decisioni del Giudice amministrativo. All’art. 17, comma 2, l.n. 195/58, come modificato con d.lgs. n. 104/10, è espressamente contemplato il giudizio d’ottemperanza, destinato a concludersi, in ipotesi di accoglimento del ricorso introduttivo, con l’assegnazione al CSM di un termine per provvedere. Si tratta, tuttavia, di un’ottemperanza mitigata (per inapplicabilità di alcune delle previsioni di cui all’art. 114 del codice del processo amministrativo), non potendosi, infatti, prescrivere le modalità dell’ordinato adempimento (anche mediante determinazione del contenuto del provvedimento o, in alternativa, emanazione dello stesso in luogo dell’autorità consiliare, come ordinariamente consentito). Sulla piena compatibilità della stessa con le garanzie di autonomia del CSM si veda Corte cost. 6 settembre 1995, n. 419, ove s’afferma che “una decisione di giustizia che non possa essere portata ad effettiva esecuzione (eccettuati i casi di impossibilità dell’esecuzione in forma specifica) altro non sarebbe che un’inutile enunciazione di principi, con conseguente violazione degli artt. 24 e 113 della Costituzione, i quali garantiscono il soddisfacimento effettivo dei diritti e degli interessi accertati in giudizio nei confronti di qualsiasi soggetto; e quindi anche nei confronti di qualsiasi atto della pubblica autorità, senza distinzioni di sorta, pur se adottato da un organo avente rilievo costituzionale qual è il CSM. In questi termini la previsione di una fase di esecuzione coattiva delle decisioni di giustizia, in quanto connotato intrinseco ed essenziale della stessa funzione giurisdizionale, deve ritenersi costituzionalmente necessaria”, pronuncia con la quale è stata pure riconosciuta la legittimità della designazione di un commissario ad acta (nel caso di specie l’allora Ministro di grazia e giustizia). Orientamento ribadito dalla successiva giurisprudenza amministrativa (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 20 aprile 2016, n. 1551).
Sempre in tema d’ottemperanza s’è, da ultimo, affermato che “non è affetta dal vizio di eccesso di potere giurisdizionale la decisone adottata dal Consiglio di Stato, all’esito di giudizio di ottemperanza, con lo quale lo stesso si pronunci su rinnovate valutazioni della P.A. prospettate, al contempo, come elusive del giudicato ed innovative – giacché fondate su circostanze sopravvenute – rispetto a quelle già ritenute illegittime dal giudice amministrativo” (Cass. civ., sez. un., 20 giugno 2017, n. 15275), per l’esigenza di concentrazione nonché di celere e definitiva composizione della controversia amministrativa. D’altronde, come sostenuto in Cons. Stato, sez. IV, 12 giugno 2013, n. 3259, dopo un giudicato di annullamento, dal quale derivi per l’amministrazione il dovere o la facoltà di provvedere di nuovo, “sussiste l'obbligo per la stessa di esaminare l’affare nella sua interezza sollevando, una volta per tutte, tutte le questioni che ritenga rilevanti, dopo di ciò non potendo tornare a decidere sfavorevolmente neppure in relazione a profili non ancora esaminati, essendo fondamentale impedire che l’amministrazione proceda più volte all’emanazione di nuovi atti, in tutto conformi alle statuizioni del giudicato, ma egualmente sfavorevoli al ricorrente, in quanto fondati su aspetti sempre nuovi del rapporto, non toccati dal giudicato”, onde garantire adeguata effettività alle sentenze del Giudice amministrativo, contenere in tempi ragionevoli la risposta giurisdizionale nonché evitare inutili duplicazioni di accesso alla tutela giurisdizionale stessa (così già Cons. Stato, Ad. Plen., 15 gennaio 2013, n. 2). Nel solco tracciato dalle menzionate pronunzie, s’è da ultimo affermato che “tenore letterale delle norme in materia d’ottemperanza e ratio dell’istituto inducono a concludere nel senso dell’ammissibilità e, in ogni caso, della procedibilità del ricorso proposto ai sensi dell’art.112 codice del processo amministrativo, pur se non vi sia stata l’impugnazione del provvedimento sopravvenuto elusivo del giudicato, non potendosi ravvisare qualsivoglia preclusione o decadenza processuali in conseguenza della mancata impugnazione” (cfr. Cons. Stato, sez. III, 22 giugno 2016, n. 2769).
Intimamente connesso risulta, infine, il tema degli effetti dell’annullamento delle decisioni consiliari (in materia di dirigenza) sulla persistente legittimazione del dirigente nonché della validità degli atti da questi adottati (dalla nomina e successivamente alla pronuncia demolitoria).
Secondo il Giudice amministrativo (così TAR Lazio – Roma, sez. I, 26 maggio 2014, n. 5571), dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione (quand’anche solo provvisoriamente esecutiva) il destinatario del provvedimento di nomina cessa dalle funzioni e dall’ufficio (con applicazione della disciplina sulla supplenza), senza necessità di ulteriori provvedimenti esecutivi. La validità degli atti medio tempore emanati è fatta salva, nonostante l’efficacia ex tunc dell’annullamento, mediante ricorso alla teoria del funzionario di fatto: “allorché venga annullata in sede giurisdizionale la nomina del titolare di un organo, l’accertata invalidità dell’atto di investitura non ha di per sé alcuna conseguenza sugli atti emessi in precedenza, tenendo conto che quando l’organo è investito di funzioni di carattere generale, il relativo procedimento di nomina ha una sua piena autonomia, sicché i vizi della nomina non si riverberano sugli atti rimessi alla sua competenza generale” (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 21 maggio 2008, n. 2407).
Diversamente opina il CSM, come da risposta a quesito del 16 ottobre 2013: il titolare dell’incarico direttivo non è tenuto a dare esecuzione spontanea e autonoma alla sentenza del giudice amministrativo, in quanto egli non dispone del rapporto di servizio in cui è incardinato; occorre sempre un provvedimento amministrativo che, se del caso, rimuova il titolare dall’incarico e lo assegni ad altro; il titolare di un ufficio è comunque tenuto ad assicurare la continuità dello stesso, di cui è stato investito, sino a quando l’amministrazione, che ad esso l’ha assegnato, non provveda diversamente, rimuovendolo ed attribuendogli altro incarico; nelle more in cui il CSM provveda a riesercitare il potere, detto magistrato, nella costanza del rapporto di impiego pubblico e in ottemperanza ai doveri ad esso connessi, è tenuto a continuare ad esercitare le funzioni conferite con la delibera annullata, sicché gli atti successivamente emessi non possono considerarsi inesistenti ovvero radicalmente nulli (venendo al più in rilievo la figura del funzionario privo di investitura) né sono ravvisabili ipotesi di usurpazione di pubbliche funzioni.
È evidente la frizione tra le opposte letture offerte, come d’altronde già in tema d’ottemperanza, trattandosi della difficile composizione delle contrapposte esigenze, a matrice costituzionale, della salvaguardia della piena autonomia dell’organo di autogoverno e dell’effettività delle tutele giurisdizionali riconosciute al singolo, quale tema di assoluta attualità e (temo) di non prossima soluzione.
* Testo della relazione presentata al Convegno Migliorare il Csm nella cornice istituzionale, Roma, 11 ottobre 2019. Tratto dal volume Migliorare il CSM nella cornice costituzionale editore CEDAM, collana: Dialoghi di giustizia insieme, in tema di riforma del CSM pubblicati su questa Rivista: La rappresentanza di genere nel CSM; I sistemi elettorali nella storia del CSM: uno sguardo d’insieme, Migliorare il Csm nella cornice costituzionale; le ragioni della composizione mista e delle modalità di formazione, Il Consiglio superiore della magistratura tra crisi e prospettive di rilancio; I difetti dell’attuale sistema elettorale del CSM: una prospettiva per il futuro prossimo che non metta a rischio l’autonomia della magistratura; Il metodo elettorale del sorteggio. Appunti sul ruolo storico del sorteggio nella selezione dei titolari di poteri pubblici.
Tutela effettiva contrattuale “individuale”: le c.d. nullità di protezione[1]
di Enzo Vincenti*
Sommario: 1. Premessa e inquadramento del problema - 2. La giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea - 3. La giurisprudenza della Corte di cassazione: in particolare, le nullità c.d. selettive (e il criterio della buona fede) - 4. Conclusioni.
1. Premessa e inquadramento del problema
Nell’ambito di una più ampia riflessione che investe i profili “collettivo” e “individuale” del principio di effettività della tutela in ambito contrattuale e dei correlati poteri del giudice, le considerazioni che seguono atterranno soltanto al secondo degli anzidetti profili.
Il settore in cui detto principio (o anche meta-principio di orientamento) è potuto maturare e consolidarsi, secondo un’evoluzione costante, sebbene non sempre lineare, è certamente quello consumeristico, che, nella sua configurazione di tutela individuale, ha rinvenuto il proprio referente privilegiato e ormai tradizionale anzitutto nella materia, di matrice europea, delle clausole abusive (note nel nostro ordinamento come clausole vessatorie), di cui alla datata direttiva 93/13 (ma di recente modificata dalla direttiva 2161/2019/UE, in un’ottica di pubblic enforcement); ambito nel quale, poi, ha trovato alimento e definizione l’apparato rimediale di tutela e, dunque, la perimetrazione dei poteri esercitabili dal giudice.
È, in particolare, il territorio – forse non ancora del tutto sminato – delle nullità di protezione (di cui, anzitutto, all’art. 36 del codice del consumo, sulla base legale dell’art. 6 della citata dir. 93/13), la cui declinazione al plurale non deve, però, ingannare sull’aspirazione di quella frammentazione casistica di fattispecie disseminate in più settori, secondo le peculiari esigenze dello specifico mercato di riferimento, a strutturarsi in categoria di sistema – quella della nullità di protezione al singolare -, così da entrare anch’essa a far parte della dogmatica tradizionale delle invalidità negoziali, e ciò in base a taluni caratteri unificanti.
Caratteri che la dottrina (o meglio parte di essa, perché altra parte contrasta decisamente questa aspirazione unitaria) ha individuato essenzialmente nei tratti della “necessaria parzialità”, nella “legittimazione relativa”, nella “rilevabilità d’ufficio” e, rispetto a quest’ultimo carattere, nei corollari della “inefficacia relativa ab origine” del contratto e della sua “sanabilità” ad opera del solo consumatore o, meglio, del contraente debole.
E questo perché, come accennato, la vocazione della nullità di protezione è di farsi categoria che va oltre il perimetro della tutela propriamente legata all’abusività della clausole contrattuali imposte dal professionista a danno del consumatore, per farsi paladina di una situazione oggettivabile, ossia della debolezza contrattuale, al fine di ristabilire a valle l’equilibrio sostanziale dell’accordo che difetta in origine proprio per l’asimmetria di posizioni (dovuta, per lo più, a gap informativi, ma non solo) e che ritroviamo anche – in via solo esemplificativa - nella disciplina sull’abuso di dipendenza economica (art. 9, comma 1, l. 192/1998) o in quella sui ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali (art. 7, comma 1, d.lgs. n. 231/2002).
Di quell’opera sistematrice può, dunque, dirsi in qualche modo concorrente la giurisprudenza della Cassazione, che, con le note sentenze gemelle del 2014 delle Sezioni Unite (n. 26242 e n. 26243), prendendo in considerazione precipuamente il carattere della rilevabilità officiosa, ha inteso ravvisare anche nelle nullità di protezione il carattere della virtualità, proprio perché “species” del più ampio “genus” delle nullità tradizionali, accomunate tutte da obiettivi di tutela trascendenti gli interessi meramente privati, per guardare le prime, quelle di protezione, a valori fondamentali come il corretto funzionamento del mercato (art. 41 Cost.) e l’uguaglianza quanto meno formale tra contraenti forti e deboli (art. 3 Cost.), riconoscendo che lo squilibrio contrattuale tra le parti altera non soltanto i presupposti dell’autonomia negoziale, ma anche le dinamiche concorrenziali tra imprese.
Un percorso che trova ulteriore maturazione con la più recente sentenza delle Sezioni Unite in tema di “nullità selettive”, la n. 28314 del 2019, nella quale – in quella stessa prospettiva di tutela valoriale - si ribadisce l’esistenza di uno statuto proprio della nullità di protezione, un regime giuridico unitario, a partire dalla legittimazione riservata al consumatore (o, meglio, al cliente in ambito finanziario e bancario) e dalla rilevabilità d’ufficio da parte del giudice, ma a precipuo vantaggio della parte debole del negozio, così da evidenziare una “vocazione funzionale” dell’istituto alla correzione parziale del contratto, ossia limitatamente alle parti che pregiudicano il contraente che in via esclusiva può far valere il vizio.
Una “vocazione funzionale” che le Sezioni Unite, con la sentenza n. 898 del 2018, avevano già ravvisato, del resto, nella forma del contratto quadro di investimento, ritenuto quindi valido anche se “monofirma”.
E’ un profilo, quello dello statuto unitario prefigurato dalle Sezioni Unite del 2014 e predicato esplicitamente dalle Sezioni Unite del 2019 (e ribadito poi anche dalla successiva ordinanza della Sesta-I n. 13217 del 17 maggio 2021), di particolare problematicità, oggetto di un serrato dibattito e di critica da una parte della dottrina. Ed è un profilo su cui non mancherà qualche breve riflessione più avanti.
2. La giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea
È certo, però, che il percorso così intrapreso si è avvalso dell’apporto, decisivo, del materiale giuridico sovranazionale e, specialmente, dei principi enucleati dalla giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, di cui, pertanto, è necessario dare conto, seppure in estrema sintesi, al fine di saggiare di come il dialogo con la Corte di cassazione si sia tradotto, in ambito nazionale, nella materia contrattuale.
Principi, quelli della Corte di Lussemburgo, che si sono evoluti diacronicamente secondo una direttrice guidata dal consueto pragmatismo che connota gli interventi di quel giudice, spesso a geometria variabile, anche perché l’azione comunitaria nella materia contrattuale si sviluppa eminentemente in base ad esigenze, concrete, di politica economica piuttosto che farsi tentare da una compiuta e ineccepibile architettura di sistema.
È, come noto, una politica orientata anche da dettami ordoliberisti, che mirano all’efficienza del mercato pure attraverso l’eliminazione di quelle situazioni di debolezza che ne minano il corretto funzionamento.
Sicché, la Corte di giustizia è giunta solo in un secondo momento a tradurre in potere-dovere (a partire dalla sentenza Mostaza Claro dell’ottobre 2006) la mera facoltà del giudice di rilevare d’ufficio la nullità di protezione (come enunciato con la sentenza Oceano del giugno 2000), affermando poi a chiare lettere (con la sentenza Asturcom dell’ottobre 2009 e più di recente con la sentenza OPR Finance del marzo 2020) che l’art. 6 della direttive 93/13 declina “un canone di ordine pubblico di protezione”, per l’appunto, fondativo, attraverso lo strumento negoziale, di “una politica dirigistica di ricerca dell’equilibrio giuridico nei rapporti negoziali non conclusi fra imprenditori”.
Di qui, poi (con la sentenza Pannon del giugno 2009) la correlazione del principio di obbligatorietà del rilievo giudiziale officioso della clausola abusiva con il dovere, del medesimo giudice, di interpellare il consumatore sugli esiti di quel rilievo, ossia se costui intenda opporsi alla declaratoria di nullità della clausola vessatoria.
Sebbene, poi, il Giudice europeo (con la sentenza Banif Plus del febbraio 2013) abbia precisato che, una volta che il consumatore sia stato informato dei propri diritti (il c.d. diritto all’interpello), il giudice nazionale non è tenuto ad attendere che lo stesso esprima in modo esplicito la propria di volontà di ottenere la caducazione della clausola abusiva, ma può comunque procedere a trarre le conseguenze derivanti da tale accertamento.
E, in tema di conseguenze dell’accertamento della vessatorietà, appare particolarmente significativo l’arresto della sentenza Gutiérrez Naranjo (del dicembre 2016) che – nell’ottica di effettività piena della protezione del consumatore, la quale postula che il rimedio invalidante della clausola abusiva presenti un carattere di deterrenza seria e, quindi, assegni particolare forza al profilo di “non vincolatività” della clausola stessa - ha ritenuto che soltanto il giudicato pregresso, e non altre ragioni giustificative, avrebbe potuto inibire la ripetibilità delle somme indebitamente versate in base alla clausola di cd. tasso minimo degli interessi su mutuo ipotecario e così intaccare l’altro valore preminente, ossia quello dell’effettività della tutela.
Trova, quindi, specifico rilievo il principio della intangibilità della decisione di un giudice a presidio del valore preminente della certezza del diritto; principio ribadito con la sentenza Banco Primus del gennaio 2017 nella sua declinazione di intangibilità del giudicato esplicito sulla validità delle clausole contrattuali.
In quest’ambito sono maturate, altresì, le conclusioni dell’Avvocato Generale Tanchev (in data 15 luglio 2021) sulle questioni pregiudiziali rimesse alla Corte di giustizia dal Tribunale di Milano circa il divieto per il giudice dell’esecuzione di rimettere in discussione il giudicato implicito sulla vessatorietà di clausole contrattuali formatosi per la mancata opposizione di un decreto ingiuntivo.
L’Avvocato Generale ha ritenuto che un siffatto divieto contrasti con l’art. 6 della direttiva 93/13, assumendo, dunque, che soltanto una valutazione esplicita e sufficientemente motivata della vessatorietà di una clausola contrattuale possa fondare il principio di intangibilità del giudicato nell’ambito della tutela consumeristica.
Se la decisione della Corte fosse nel senso auspicato dalle anzidette conclusioni, lo statuto della nullità protettiva potrebbe arricchirsi di un’ulteriore colorazione.
E ancora, rivestono indubbia importanza, soprattutto per la perimetrazione dei poteri officiosi del giudice, gli interventi della Corte di giustizia in materia di abusività delle clausole che definiscono il meccanismo di fissazione del tasso d’interesse variabile in un contratto di prestito concluso da un consumatore.
Con la sentenza Banco di Santader dell’agosto 2018, il Giudice di Lussemburgo ha ritenuto conforme alla direttiva 93/13 sia la qualificazione, ad opera del giudice nazionale, della natura abusiva di una clausola che impone al consumatore in mora il pagamento di interessi al tasso superiore di oltre due punti percentuali rispetto a quello degli interessi corrispettivi previsto dal contratto di mutuo, da ritenersi come tale “indennizzo di importo sproporzionatamente elevato”; sia l’intervento soppressivo, sempre da parte di quel giudice, di una siffatta clausola abusiva, pur mantenendo in vita la maturazione degli interessi corrispettivi previsti dal medesimo contratto.
E questa sentenza ha trovato particolare enfasi nella decisione assunta dalle Sezioni Unite in tema di interessi usurari nel contratto di mutuo (sentenza n. 19597 del 18 settembre 2020), che ha ritenuto applicabile anche agli interessi moratori la disciplina antiusura, con possibilità di trarre il tasso soglia anche dai decreti ministeriali di cui alla legge n. 108 del 1996.
La sentenza n. 19597 del 2020 ha, quindi, affermato che, accertata l’usura, troverà applicazione il comma secondo dell’art. 1815 c.c., con la conseguenza che gli interessi moratori non sono dovuti nella misura (usuraria) pattuita, bensì in quella dei corrispettivi lecitamente convenuti, in applicazione dell'art. 1224, comma primo, c.c.: e in ciò, per l’appunto, è dato riconoscere l’adesione al secondo corno della anzidetta decisione di Lussemburgo.
La decisione delle Sezioni Unite ha, poi, precisato che nei contratti conclusi con i consumatori l’interessato può scegliere tra questo rimedio e la nullità, e quindi l’eliminazione, della clausola abusiva in base agli artt. 33 e 36 del codice del consumo: e a tal fine è richiamato l’insegnamento che si desume, in particolare, dalla sentenza Unicaja Banco del gennaio 2015.
Il tema dei poteri del giudice ritorna in modo significativo in due orientamenti che sembrano assumere posizioni non certo collimanti sulla portata dei poteri di integrazione contrattuale ad opera del giudice, alimentando un dibattito – che è attuale anche nel nostro ambito nazionale – sulla discrezionalità giudiziale interferente con l’autonomia privata.
Con la sentenza Dziubak dell’ottobre 2019, la Corte di giustizia, per un verso, ha ritenuto che la modifica dell’oggetto principale del contratto non consenta un’operazione di eliminazione della sola clausola illecita, ma comporti l’invalidazione dell’intero contratto, sempre tenuto conto dell’interesse del contraente debole, come dal medesimo rappresentato.
Per altro verso, la stessa decisione (ma in ciò ribadendo un indirizzo già maturato) ha delimitato il potere del giudice reputando attingibile il contenuto integrativo del contratto – in luogo della clausola abusiva - dalle sole disposizioni di diritto interno di natura suppletiva o applicabile in caso di accordo tra le parti, ossia da quelle regole standard poste dal legislatore nazionale in forza delle quali si presume che venga ristabilito l’equilibrio tra l’insieme dei diritti e degli obblighi delle parti contrattuali. Operazione che, invece, si è ritenuta non ammissibile in presenza di disposizioni nazionali di carattere generale di cui non è dato predicare quella presunzione di non abusività, come può accadere con l’integrazione che sia effettuata in applicazione del principio di equità o in base agli usi.
L’orientamento espresso dalla sentenza Dziubak suggerisce una fulminea digressione ancora sulla sentenza n. 19597 del 2020 in tema di interessi usurari: l’aver assunto le Sezioni Unite a paradigma del calcolo del tasso soglia i decreti ministeriali – integrativi della disposizione di legge – è soluzione che si mostra coerente proprio con il principio della sostituzione della clausola vessatoria con norma suppletiva, ossia con un parametro che dia contezza di una ponderazione di non abusività e non che rimetta al giudice una conformazione secondo equità del contratto.
Un diverso approccio, invece, sembra delinearsi nella sentenza Banca B. SA. del 25 novembre 2020, nella quale il Giudice di Lussemburgo, in controtendenza con i propri precedenti, giunge a dilatare sensibilmente la discrezionalità del giudice quanto ai poteri di intervento sul contenuto contrattuale. Questo perché, in quel caso, la Corte di giustizia ha affermato che, ove il contratto non possa sussistere dopo la soppressione della clausola abusiva gravemente lesiva per il consumatore, in quanto non emendabile mediante norme suppletive, il giudice nazionale deve adottare, tenendo conto del complesso del suo diritto interno, tutte le misure necessarie per tutelare il consumatore, incluso l’invito alle parti a rinegoziare il metodo di calcolo del tasso d’interesse.
Più di una voce, in dottrina, ha avanzato dubbi sulla coerenza di tale approdo con il consolidato orientamento pregresso della stessa Corte di giustizia, esibendo una certa preoccupazione per una operazione di ortopedia giudiziale in contrasto con l’autonomia privata e ritenuta eccedente la stessa policy giurisprudenziale di interventi a geometria variabile, che abbiamo visto essere un topos del giudice sovranazionale.
3. La giurisprudenza della Corte di cassazione: in particolare, le nullità c.d. selettive (e il criterio della buona fede)
Al di là degli esiti di un tale dibattito, questi ultimi rilievi consentono di affrontare in medias res l’indagine sul più recente posizionamento della giurisprudenza di legittimità, di come essa abbia dato concretezza al precipitato cardine del principio di effettività della tutela in ambito negoziale, ossia all’equilibrio sostanziale tra i contraenti, e quali istituti siano stati messi in campo nel modulare un tale equilibrio, che investe il contratto nel suo complesso, sia come atto, che come rapporto.
In questo contesto, un luogo tematico privilegiato è certamente quello delle nullità selettive, che ha impegnato le Sezioni Unite con la sentenza n. 28314 del 2019, innanzi menzionata.
L’approdo cui giungono le Sezioni Unite esibisce un armamentario rimediale che mira ad un equilibrio contrattuale reale e, soprattutto, complessivo, tale da saggiare sino in fondo la consistenza della posizione del contraente debole per antonomasia (il consumatore/cliente), sino a disvelarne possibili abusi, anch’essi ritenuti suscettibili, dunque, di attivare interventi di riequilibrio tra i contraenti.
I tratti fisiologici della vicenda, che, come detto, si lega ad una nullità per difetto di forma scritta del contratto-quadro di investimento, sanzionata dall'art. 23 del TUF, portano anzitutto ad affermare – in coerenza con la giurisprudenza sovranazionale – la legittimazione riservata dell'investitore, per cui gli effetti non solo processuali, ma anche sostanziali dell'accertamento della nullità opereranno soltanto a suo vantaggio.
Il che sta a significare anche che non varranno le regole sulle reciproche restituzioni, né quelle sull’indebito oggettivo in favore dell’intermediario.
Si è fatto cenno in precedenza alle critiche dottrinali che investono, in definitiva, la stessa predicabilità del regime giuridico unitario delle nullità di protezione, che la decisione delle Sezioni Unite in esame ha inteso dedurre segnatamente dal paradigma dell’art. 36 del codice del consumo.
L’estensione della legittimazione riservata dell’investitore anche agli effetti sostanziali dell’accertamento della nullità chiama in causa la categoria, innanzi evocata, della inefficacia ab origine relativa, che, come detto, è per una parte della dottrina corollario della rilevabilità officiosa, ma il cui legame con la previsione di “non vincolatività” della clausola abusiva – come si esprime l’art. 6 della direttiva 93/13 e che serve ai fautori proprio per accreditare l’istituto - non è reputato sufficiente da chi ritiene, invece, che gli effetti sostanziali dell’invalidità non siano una componente indefettibile di uno statuto generale della nullità protettiva e, a tal fine, debba, invece, aversi riguardo a quanto, di volta in volta, statuisce il diritto positivo.
A tal fine, si richiamano sostegno le previsioni testuali dell’art. 127 del TUB e dell’art. 167 del codice delle assicurazioni, là dove quest’ultima norma (che consente all'assicurato di trattenere gli indennizzi e le somme eventualmente corrisposte o dovute dall'impresa non autorizzata) è stata letta come una nullità “a vantaggio” però eccedente, ossia che va oltre la mera tutela della parte debole, per innescare un meccanismo sanzionatorio dell’impresa che non avrebbe dovuto operare sul mercato.
È evidente che un tale dibattito disvela ancora una volta quella tensione che si genera nel voler istituire – in settori (o meglio, mercati) differenti e, dunque, con discipline proprie, il cui tratto comune è l’esigenza, certamente valoriale, di tutelare la parte debole del rapporto contrattuale – una sorta di cinghia di trasmissione tra regola generale e regola speciale, là dove poi la regola di sintesi – in questo caso sulla riscrittura degli effetti dell’azione di nullità -, è confezionata proprio dalla giurisprudenza, secondo un ruolo nomopoietico che la stessa dottrina fa fatica ad assegnargli.
Il tema, lo sappiamo, è complesso e meriterebbe un diverso approfondimento e molti distinguo; ciò che, per ovvie ragioni, non è consentito in questa sede.
Tuttavia, una sintetica e non certo esauriente considerazione sembra possibile proprio alla luce degli orientamenti sopra sintetizzati della Corte di giustizia in materia e cioè che la “vocazione funzionale” delle nullità protettive, valorizzata dalle Sezioni Unite, possa operare in coerente rispondenza con il meta-principio dell’effettività della tutela se davvero, in applicazione del principio di settore – quello somministrato dall’art. 6 della direttive 93/13 –, l’equilibrio reale del contratto contenente le clausole abusive, che rifugge, in linea di principio, da un suo annullamento integrale, viene a realizzarsi secondo una prospettiva “a vantaggio” del consumatore, in ciò soltanto ristabilendosi la effettiva uguaglianza tra le parti ab origine insussistente.
Se è proprio questa la prospettiva che ha condotto le Sezioni Unite a prefigurare uno statuto delle nullità protettive giungendo – in sintonia con l’atteggiarsi del principio di effettività della tutela - ad una correlazione forte tra posizioni sostanziali e posizioni processuali delle parti contraenti, accreditando per l’una (l’investitore) e, al contempo, negando per l’altra (l’intermediario) determinati poteri all’interno del processo, su un diverso piano, sebbene interferente con quello appena richiamato, sembrano collocarsi le conseguenze del modus operandi processuale dell’investitore, là dove quest’ultimo, in ragione di quella legittimazione riservata e “a vantaggio”, abbia richiesto l’invalidazione soltanto di alcuni ordini di acquisto.
È questo il caso, dunque, che consente alla Cassazione di saggiare l’equilibrio sostanziale delle posizioni negoziali andando oltre la disciplina speciale, perché in campo entrano anche i referenti più generali che governano lo svolgimento dell’autonomia negoziale.
Infatti, malgrado il diritto positivo di settore abbia già individuato il soggetto tutelabile (ossia l’investitore, perché essenzialmente in una posizione di deficit informativo) e il rimedio tipico (e cioè la nullità di protezione), realizzando uno statuto non derogabile dall’autonomia privata, è il principio di buona fede e correttezza contrattuale, alimentato dai principi solidaristici di matrice costituzionale, che si ritiene possa operare trasversalmente e in modo tale da poter essere utilizzato per rimuovere un pregiudizio ingiustificato arrecato all’altra parte.
Trova, quindi, configurazione, nella costruzione delle Sezioni Unite, anche un obbligo di lealtà dell'investitore in funzione di garanzia per l'intermediario che abbia assolto i propri obblighi informativi, sicché quest’ultimo può opporre l'eccezione di buona fede se (e soltanto se) la selezione della nullità determini un ingiustificato sacrificio economico a suo danno, alla luce della complessiva esecuzione degli ordini conseguiti alla conclusione del contratto quadro.
In questo caso, il parametro della buona fede va oltre la caratterizzazione soggettiva dell’exceptio doli e necessita di modularsi sulla complessiva vicenda negoziale, venendo altrimenti a contrastare con il regime giuridico delle nullità di protezione la mera equivalenza tra la violazione di detto canone e l’uso selettivo delle nullità.
La valorizzazione di una siffatta prospettiva la si rinviene pure in ambiti diversi da quelli tradizionali della disciplina consumeristica, come ad esempio nella tutela del promissario acquirente di immobile da costruire assicurata dalla garanzia accessoria di cui all’art. 2 del d.lgs. n. 122 del 1995 imposta al costruttore promittente venditore.
La nullità del contratto preliminare di vendita dell’immobile da costruire in assenza della prestazione da parte del costruttore di una fideiussione all’atto della stipula opera, secondo la sentenza n. 30555 del 22 novembre 2019, in base allo statuto proprio della nullità di protezione a vantaggio del solo promissario acquirente (principio più generale ribadito con la sentenza n. 19510 del 18 settembre 2020). Ma anche in questo caso si ritiene trattarsi di nullità a “vocazione funzionale”, volta a preservare – in una situazione di asimmetria economica - l’interesse della parte debole del rapporto (oltre all’interesse più generale della certezza dello scambio e della circolazione della ricchezza), il cui pieno soddisfacimento (ossia venuto a compimento il trasferimento del bene costruito) comporta, però, che non possa più utilmente azionarsi la nullità del contratto, perché ciò determinerebbe un palese sviamento delle finalità della legge e, dunque, un abuso del diritto.
Figura che viene letta, alla luce dei valori costituzionali, come in stretta correlazione con l’obbligo di buona fede e correttezza, reputandosi i due principi in vicendevole integrazione.
4. Conclusioni
L’impostazione adottata dalla giurisprudenza di legittimità innanzi richiamata ha innescato, come detto, un vivo dibattito che non è possibile ripercorrere per intero, né risolvere in poche battute.
Nell’essenza, ciò che viene messo criticamente in rilievo – nell’ottica di un ormai risalente addebito che viene fatto all’esercizio dei poteri rimediali da parte del giudice nel campo riservato all’autonomia privata – è il c.d. spostamento dei criteri della decisione giudiziaria dalla fattispecie legale ai principi generali, suscettibili, questi ultimi, di essere governati con tasso di discrezionalità che si reputa sovente esercitato oltre l’ambito dell’enunciato posto dal legislatore.
In particolare, la struttura della nullità di protezione, anche (e forse soprattutto) nel suo predicato statuto unitario, non tollererebbe incursioni ab externo, in base ad un paradigma assiologico – come la buona fede – che viene fatto operare a contenimento di facoltà processuali legate proprio al contenuto sostanziale del diritto.
Invero, altra parte della dottrina, ci ricorda come il contratto non sia solo fattispecie, ma anche regolamento o, meglio, regola tra le parti negoziali, per cui è ben possibile che la regola subisca l’incidenza delle clausole generali, orientata dai principi costituzionali, in primis quello di solidarietà sociale.
Il che trova, però, altra obiezione nel rilievo che le vicende oggetto delle pronunce sopra richiamate muovono proprio da una patologia della fattispecie, ossia da una nullità di forma, seppure a vocazione funzionale.
Il dibattito in sede dottrinale non sembra sopirsi, ma – allo stato – il “diritto vivente”, come evidenziato dalle sopra richiamate pronunce, anche successive alle Sezioni Unite del 2019, appare sostanzialmente coeso nel mantenere fermo il principio di diritto enunciato dal massimo organo di nomofilachia della Cassazione.
Il che – senza strozzature della discussione in corso o velleitarie aspirazioni di autoreferenzialità giurisprudenziale - costituisce comunque un punto di vista che occorre ben tenere presente.
*Consigliere e direttore del C.E.D. della Corte di Cassazione
[1] Testo della relazione tenuta al Convegno di studi organizzato dalla Scuola Superiore della Magistratura – Struttura della formazione decentrata della Corte di cassazione il 17-18 novembre 2021 su “Tutela individuale e tutela collettiva e art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea”.
Bibliografia essenziale di riferimento: M. Girolami, Nullità di protezione, in Enc. Dir., I tematici, I-Contratto a cura di G. D’Amico, 2021; R. Rordorf, Buona fede e nullità selettiva nei contratti d’investimento finanziario, in Questione Giustizia, 2020; Claudio Scognamiglio, Le Sezioni Unite e le nullità selettive: un nuovo spazio di operatività per la clausola generale di buona fede, in Corriere Giur., 2020; G. D’Amico, Sul carattere c.d. “selettivo” della nullità di protezione, Nuovo diritto civile, 2020; G. Guizzi, Le Sezioni Unite e “le nullità selettive” nell’ambito della prestazione di servizi di investimento. Qualche notazione problematica, in www.dirittobancario.it, 4 dicembre 2019; I. Pagni, Effettività della tutela giurisdizionale, in Enc. Dir., Annali, X, 2017.
To install this Web App in your iPhone/iPad press icon.
And then Add to Home Screen.