ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Polvere di guerra: gli effetti invisibili dell’uranio impoverito (Nota a Cons. Stato, Sez. I, parere, 13 marzo 2024, n. 291)
di Roberto Leonardi
Sommario: 1. Premessa. – 2. Il fatto. – 3. Il parere del Consiglio di Stato. Brevi osservazioni conclusive.
1. Premessa.
Nelle guerre moderne, non sempre i danni si esauriscono con la fine delle ostilità. Alcuni effetti permangono nel tempo, silenziosi e difficili da misurare. Tra questi, l’uso dell’uranio impoverito[1] rappresenta una delle eredità più oscure e controverse[2], da cui è scaturito un intenso e controverso dibattito giuridico, soprattutto giurisprudenziale e in ordine a diversi profili della fattispecie - in mancanza di una normativa nazionale organica - che ancora non ha trovato la pace, nonostante le molteplici Commissioni d’inchiesta Parlamentari[3] in riferimento alla cd. Sindrome dei Balcani[4]. Utilizzato nei proiettili anticarro per la sua elevata densità e capacità perforante, l’uranio impoverito ha lasciato dietro di sé un’onda lunga di dubbi, malattie e richieste di giustizia. L’uranio impoverito (DU, dall’inglese depleted uranium) è un sottoprodotto del processo di arricchimento dell’uranio naturale, durante il quale l’isotopo fissile U-235 viene separato dall’uranio naturale, lasciando un materiale con una radioattività ridotta, ma comunque presente. Questo materiale, sebbene meno radioattivo, mantiene una tossicità chimica simile a quella dei metalli pesanti come il piombo o il mercurio, ed è altamente piroforico e, quindi, si incendia al momento dell’impatto.
A partire dalla Guerra del Golfo (1991), gli Stati Uniti e altri Membri della NATO hanno iniziato a utilizzare proiettili perforanti contenenti DU per la loro efficacia contro mezzi corazzati. La combustione dell’uranio durante l’impatto genera un aerosol tossico che può essere inalato o depositarsi sul suolo e sulle acque, con effetti potenzialmente duraturi sulla salute umana e sull’ambiente (Schröder, 2002). Numerose ricerche scientifiche hanno messo in relazione l’esposizione all’uranio impoverito con un aumento del rischio di cancro, danni al DNA e malformazioni congenite. In Iraq, dopo i bombardamenti della coalizione, si è registrato un aumento dei tumori infantili e delle leucemie in aree pesantemente colpite come Bassora. Anche nei Balcani, in particolare in Kosovo e Bosnia, sono stati segnalati livelli anomali di contaminazione e incidenze di malattie simili.
Tuttavia, la comunità scientifica è divisa. Rapporti militari e agenzie governative, come il Department of Defense degli Stati Uniti e l’Organizzazione Mondiale della Sanità, tendono a ridimensionare la pericolosità dell’uranio impoverito, sostenendo che i livelli di esposizione sul campo non raggiungono soglie dannose per la salute (WHO, 2001). Al contrario, alcuni studiosi denunciano la mancanza di studi indipendenti, la difficoltà di accedere ai siti contaminati e l’insufficienza dei sistemi di monitoraggio. In Italia, il caso ha assunto rilievo pubblico a partire dagli anni 2000, con decine di militari ammalatisi dopo missioni all’estero. Nel 2018, una sentenza della Corte d’Appello di Roma ha condannato il Ministero della Difesa a risarcire la famiglia di un militare deceduto, riconoscendo il nesso causale tra l’esposizione a uranio impoverito e l’insorgenza del tumore (Associazione Vittime Uranio Impoverito, 2020). Un’altra sentenza di rilievo è quella del Consiglio di Stato, Sez. IV, n. 3967/2011, che ha riconosciuto il diritto al risarcimento e all’equo indennizzo per un militare colpito da linfoma di Hodgkin dopo una missione in Kosovo, affermando che la prova del nesso causale può fondarsi su presunzioni gravi, precise e concordanti, non su certezze assolute.
L’uso dell’uranio impoverito non è solo un problema sanitario o scientifico, ma è una questione anche giuridica, morale e politica. Il principio di precauzione, che dovrebbe guidare l’impiego di tecnologie a rischio, è spesso subordinato a logiche di efficacia bellica e segretezza militare. Molti civili, in teatri di guerra già devastati, sono esposti inconsapevolmente a contaminazioni potenzialmente pericolose, senza assistenza né possibilità di tutela legale.
A livello internazionale, esistono risoluzioni non vincolanti delle Nazioni Unite che chiedono maggiore trasparenza e una valutazione più approfondita dei rischi, ma non esiste ancora un trattato internazionale che ne vieti l’uso, come avvenuto invece per le mine antiuomo o le armi chimiche (ICBUW, 2022). L’uranio impoverito rappresenta una delle “polveri di guerra” più insidiose: invisibile, persistente, e difficile da collocare tra le vittime dirette o indirette dei conflitti. Una guerra che uccide anche dopo la fine delle ostilità e che non lascia solo rovine materiali, ma anche una contaminazione silenziosa e duratura.
2. Il fatto.
Il parere in esame del Consiglio di Stato[5] ha ad oggetto il Ricorso straordinario al Presidente della Repubblica da parte di un Luogotenente dell’Esercito italiano, in servizio presso l’8° Reggimento Alpini, contro il Ministero della Difesa per l’annullamento del rigetto della richiesta del ricorrente di riconoscimento della dipendenza di infermità da causa di servizio della patologia “cardiopatia ischemica silente senza disfunzione ventricolare sinistra sottoposta a duplice PTCA” e di concessione dell’equo indennizzo[6]. Allo stesso tempo, il ricorrente chiede l’annullamento del parere espresso dal Comitato di verifica per le cause di servizio (CVCS), che ha escluso la sussistenza del nesso di causalità tra la patologia e il servizio prestato dal ricorrente “in quanto trattasi di patologia riconducibile a insufficiente irrorazione del miocardio per riduzione del flusso ematico coronarico, a sua volta derivante da restringimento o subocclusione del lume vasale per fatti ateromatosi dell’intima della parete arteriosa. Poiché l’ateromatosi vasale può derivare da fattori multipli costituzionali o acquisiti su base individuale, la forma in questione non può attribuirsi al servizio prestato, anche perché in esso non risultano sussistenti specifiche situazioni di effettivi disagi o surmenage psico – fisico tali da rivestire un ruolo di causa o concausale efficiente e determinante”. Il ricorrente sostiene la violazione delle seguenti norme: d.P.R. n. 37/2009 (“Regolamento per la disciplina dei termini e delle modalità di riconoscimento di particolari infermità da cause di servizio per il personale impiegato nelle missioni militari all'estero, nei conflitti e nelle basi militari nazionali, a norma dell’articolo 2, c. 78 e 79, della l. 24 dicembre 2007, n. 244”), abrogato dall’art. 2269, c. 1, n. 385), d.P.R. n. 90/2010 (“Testo unico delle disposizioni regolamentari in materia di ordinamento militare, a norma dell'articolo 14 della l. 28 novembre 2005, n. 246”), d.P.R. n. 40/2012 (“Regolamento recante modifiche ed integrazioni al decreto del Presidente della Repubblica 15 marzo 2010, n. 90, concernente il Testo unico delle disposizioni regolamentari in materia di ordinamento militare, a norma dell’art. 14 della l. 28 novembre 2005, n. 24”). Pur non esplicando, il ricorrente, le disposizioni che si ritengono violate, l’utilizzo nel ricorso delle locuzioni “rischio tipizzato” ed “elementi chimici tipizzati espressamente dal Legislatore” sostengono l’assunto secondo il quale l’Amministrazione non avrebbe valutato tutti i fattori di rischio cui sarebbe stato esposto il ricorrente, che avrebbero “contribuito all’insorgenza della predetta terribile patologia”, nonché le fattispecie cui ha riguardo la giurisprudenza richiamata nel gravame lasciano intendere che il ricorrente basi le proprie censure sulla disciplina dell’istituto della speciale elargizione di cui agli artt. 1078 ss. d.P.R. n. 90/2010.
3. Il parere del Consiglio di Stato.
Il Consiglio di Stato, con il parere in esame, ritiene di non dovere accogliere il gravame per due motivi: sul piano fattuale, in riferimento alla patologia del ricorrente, il parere reso dal Comitato di verifica per le cause di servizio si riferisce ad una patologia di natura cardiologica e non neoplastica. Sotto il profilo giuridico, invece, l’istituto applicabile alla controversia non è riconducibile alla speciale elargizione di cui all’art. 1079, d.P.R. n. 90/2010 e non è nemmeno riconducibile alla disciplina delle vittime del dovere, non rientrando nelle fattispecie di cui all’art. 1, c. 563-565, l. n. 266/2006. Infatti, in entrambi questi due ultime casi, devono ricorrere delle specifiche circostanze. Ai fini della disciplina delle vittime del dovere, tali circostanze sono integrate, ai sensi dell’art. 6 del d.P.R. n. 243/2006, dalle “particolari condizioni ambientali od operative”, di “carattere straordinario”, ove “per circostanze straordinarie devono essere intese, secondo il significato indicato dalla legge, condizioni ambientali ed operative ‘particolari’ che si collocano al di fuori del modo di svolgimento dell'attività ‘generale’, per le quali è quindi sufficiente che non siano contemplate in caso di normale esecuzione di una determinata funzione”[7]. La giurisprudenza amministrativa ha sottolineato l’eccezionalità di tali circostanze[8] e la specialità dell’istituto rispetto alla causa di servizio, poiché esso richiede che “il rischio affrontato vada oltre quello ordinario connesso all’attività di istituto[9]. In merito all’asserita “tipizzazione del rischio”, ai fini della speciale elargizione, il legislatore non ha stabilito alcuna presunzione. Infatti, se il militare non è tenuto a dimostrare l’esistenza di un nesso eziologico fra esposizione all’uranio impoverito (o ad altri metalli pesanti) e neoplasia, egli deve però dimostrare di aver affrontato “particolari condizioni ambientali od operative”[10], connotate da un carattere “straordinario”[11]rispetto alle forme di ordinaria prestazione del servizio, che siano “la verosimile causa di un’infermità”[12]. Da qui, segue l’infondatezza di tutte le pretese del ricorrente in riferimento ad un eccesso di potere, da riferirsi all’operato del CVCS e del Ministero della difesa, avendo fondato, il ricorrente, la propria richiesta del riconoscimento della causa di servizio della patologia neoplastica sofferta su generici fattori di rischio.
Di rilievo, poi, un altro tema affrontato dal parere in esame: l’esposizione del militare all’uranio impoverito e il riconoscimento del rapporto causale ai fini dell'accertamento della dipendenza della patologia oncologica da causa di servizio[13]. Infatti, l’operatività dei militari in contesti caratterizzati dalla presenza di uranio impoverito può essere ritenuta causa dell’insorgenza di specifiche patologie tumorali. Per tali ragioni, la connessione tra esposizione ad uranio impoverito e l’insorgenza di gravi patologie ha indotto l’ONU a vietare armi con uranio.
La probabile connessione tra l’esposizione all’uranio impoverito e l’insorgenza di gravi patologie, anche di natura oncologica, ha indotto l’ONU, come si diceva, a vietare l’utilizzo di armi contenenti tale elemento (risoluzione n. 1996/16) e diversi Paesi hanno assunto misure di protezione e di precauzione a favore dei militari impiegati nelle operazioni NATO. Va, quindi, riconosciuta la responsabilità del Ministero della Difesa, secondo la fattispecie astratta dell'art. 2087 c.c., nel caso di contrazione da parte del militare impegnato in missioni ad alto rischio della patologia ematoncologica classificata come Linfoma di Hodgkin, a causa dell’assenza di dispositivi di protezione personale ed informazioni sull’utilizzo di armamenti e proiettili a uranio impoverito[14].
Per giurisprudenza amministrativa consolidata sulla cd. sindrome dei Balcani, la mancanza di una legge scientifica universalmente valida che stabilisca un nesso diretto fra l’operatività nei contesti caratterizzati dalla presenza di uranio impoverito e l’insorgenza di specifiche patologie tumorali non impedisce il riconoscimento del rapporto causale, posto che la correlazione eziologica, ai fini amministrativi e giudiziari, può basarsi anche su una dimostrazione in termini probabilistico-statistici[15]. Si è, quindi, affermato che, una volta dedotto e comprovato dal militare lo svolgimento di missioni di pace nei teatri bellici esteri caratterizzati dall’uso dell’uranio impoverito e, al rientro da queste, l’insorgenza di determinate patologie, l’onere della prova della riconducibilità della patologia stessa al servizio da lui svolto nella predetta missione, sotto il profilo causale o almeno concausale, si ritiene assolto mediante l’allegazione di essersi trovato ad operare in un territorio indubbiamente caratterizzato dalla presenza di « inquinanti » legati all’utilizzo, nelle operazioni di guerra, di proiettili contenenti uranio impoverito[16]. Il militare interessato non deve dimostrare la sicura esistenza di un nesso eziologico fra l’esposizione all’uranio impoverito e la malattia, ma soltanto di avere affrontato condizioni ambientali e operative particolari, le quali possano essere la verosimile causa di un’infermità[17], mentre spetta all’amministrazione dimostrare che l’insorgenza della patologia è stata determinata da fattori esogeni[18]. Di conseguenza andrà annullato il provvedimento di rigetto della domanda di riconoscimento della dipendenza da causa di servizio dell’infermità contratta dal militare e dunque di concessione dell’equo indennizzo, nel caso in cui il CVCS non appaia aver dato adeguata motivazione riguardo agli altri specifici fattori di rischio e situazioni di disagio evidenziati (permanenza, anche se per breve periodo, in territori fortemente e notoriamente contaminati, anche da uranio impoverito, dichiarata circostanza di utilizzo continuativo di solventi e oli per armi), non assolvendo a quell’onere della prova invertito richiesto dalla giurisprudenza sul tema[19].
Si deve, inoltre, evidenziare, la differenza tra risarcimento del danno e speciale elargizione prevista dall’art. 1079, c. 1, d.P.R. n. 90 del 2010 per i militari che hanno contratto infermità per le condizioni operative[20]. Il militare interessato a percepire la speciale elargizione di cui al richiamato art. 1079, d.P.R. n. 90 del 2010 non è tenuto a dimostrare l’esistenza di un nesso eziologico fra esposizione all’uranio impoverito (o ad altri metalli pesanti) e neoplasia; siffatto accertamento è necessario ove l’interessato proponga una domanda risarcitoria, ossia assuma la commissione, da parte dell’Amministrazione, di un illecito civile consistente nella colpevole esposizione del dipendente ad una comprovata fonte di rischio in assenza di adeguate forme di protezione, con conseguente contrazione di infermità. In tale ipotesi, invero, grava sull’assunto danneggiato dimostrare, inter alia, l’effettiva ricorrenza del nesso eziologico (ossia la valenza patogenetica di siffatta esposizione), sia pure in base al criterio del più probabile che non[21]. Laddove, invece, l’istanza tenda alla percezione della speciale elargizione, si verte in un ben diverso ambito indennitario. I presupposti del risarcimento del danno e della speciale elargizione sono del tutto diversi: nel primo caso l’integrazione di tutti gli elementi propri di un’ipotesi di responsabilità civile, tra cui pure la prova del nesso eziologico e dell’elemento soggettivo in capo al danneggiante; nel secondo caso la mera dimostrazione di aver affrontato — senza che ciò integri « colpa »dell’Amministrazione — « particolari condizioni ambientali od operative », connotate da un carattere « straordinario »rispetto alle forme di ordinaria prestazione del servizio, che siano la verosimile causa di un’infermità. Inoltre, il risarcimento del danno compete a chiunque e dipende nel quantum dall’effettivo danno riportato, mentre la speciale elargizione spetta solo ai soggetti individuati dalla legge ed è quantificata a monte in misura predeterminata. Il fatto che, allo stato delle conoscenze scientifiche, non sia acclarata l’effettiva valenza patogenetica dell’esposizione all’uranio impoverito non osta, dunque, al diritto alla percezione dell’indennità, che comunque spetta allorché l’istante abbia contratto un’infermità verosimilmente a causa di « particolari condizioni ambientali ed operative », di cui « l’esposizione e l’utilizzo di proiettili all’uranio impoverito e la dispersione nell’ambiente di nanoparticelle di minerali pesanti prodotte da esplosione di materiale bellico » costituiscono solo un possibile aspetto. La disposizione, in sostanza, non si incentra esclusivamente (né, a ben vedere, primariamente) sul profilo dell’esposizione ad uranio impoverito o ad altre nano particelle di metalli pesanti, ma intende concedere ad una platea ben delimitata di soggetti un beneficio monetario predeterminato in ragione della sottoposizione a gravose «condizioni ambientali ed operative” e della conseguente contrazione di infermità[22].
Alla luce di questi elementi giurisprudenziali consolidati, il parere in esame sottolinea che nel gravame non si ravvisa alcuna congrua deduzione in merito al notevole intervallo di tempo intercorso tra l’ultima missione all’estero e la data del 6 settembre 2019 nella quale il ricorrente riferisce di aver avuto contezza
della patologia cardiologica, tale da fornire almeno un ragionevole indizio della sussistenza di un rapporto di causalità tra le condizioni di svolgimento del servizio in dette missioni, o in altre circostanze, e la patologia cardiaca, nonostante il medesimo intervallo di tempo. Occorre anche sottolineare che risulta del tutto insussistente il secondo dei due termini della relazione di causa - effetto tra servizio prestato e patologia nella tesi del ricorrente secondo la quale “la relazione tra l’insorgenza della patologia neoplastica sofferta dal ricorrente ed il servizio prestato emerge dal suo stato di servizio dal quale si rileva che il militare è stato impiegato in svariate missioni all’estero, in territorio balcanico (oltre ad una missione in Mozambico) alloggiando nelle zone più massicciamente bombardate della Bosnia, presso la caserma ‘Tito Barrack’ di Sarajevo, caserma che ha registrato il più alto numero di militari ammalati e deceduti tra coloro che ivi erano alloggiati”. Tale tesi, infatti, è riferita a patologia completamente diversa da quella per la quale lo stesso ricorrente aveva chiesto il riconoscimento della dipendenza da causa di servizio.
Un ultimo profilo affrontato dal Consiglio di Stato nel parere in esame riguarda il valore della perizia di parte, secondo la quale la presenza nel sangue del ricorrente di metalli pesanti “assenti nella popolazione italiana di riferimento” confermerebbe che egli “non ha potuto contrarre la patologia per cui è causa sul suolo nazionale”, ma solo in un contesto internazionale. Al di là della carenza dei profili motivazionali, il Consiglio di Stato, in merito a detta perizia, richiama il consolidato indirizzo giurisprudenziale secondo il quale conclusioni diverse da quelle del CVCS “risultanti da perizie, relazioni e/o certificazioni mediche di parte non sono idonee, di norma, a confutare l’attendibilità del giudizio tecnico del Comitato, atteso che le valutazioni mediche formulate da organi sanitari diversi da quelli dell’Amministrazione non hanno rilevanza per quest’ultima quando risultino in contrasto con i referti emessi dagli organi tecnici della stessa Amministrazione[23]. Dunque, per porre in discussione il parere del CVCS di esclusione della causalità di servizio da parte occorre una riconducibilità effettiva e comprovata dell’infermità, almeno in termini di concausalità, al servizio svolto, poiché l’art. 11 del d.P.R. n. 461/2001 - che prevede che il CVCS “accerta la riconducibilità ad attività lavorativa delle cause produttive di infermità o lesione, in relazione a fatti di servizio ed al rapporto causale tra i fatti e l'infermità o lesione” (primo comma) - “non ritiene sufficiente, a tale fine, la mera ‘possibile’ valenza patogenetica del servizio prestato, ma, di contro, impone la puntuale verifica, connotata da certezza o da alto grado di credibilità logica e razionale, della valenza del servizio prestato quale fattore eziologicamente assorbente o, quanto meno, preponderante nella genesi della patologia[24]. Infatti, “ai fini del riconoscimento della causa di servizio, è necessario che l’attività lavorativa possa con certezza ritenersi concausa efficiente e determinante della patologia lamentata, non potendo farsi ricorso a presunzioni di sorta e non trovando applicazione, diversamente dalla materia degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali, la regola contenuta nell’art. 41 c.p., per cui il rapporto causale tra evento e danno è governato dal principio dell’equivalenza delle condizioni. Il principio della causalità adeguata richiede sempre la riconoscibilità dell’esistenza di fattori riconducibili al servizio che rivestano un ruolo di adeguata efficiente incidenza nell’insorgenza e nello sviluppo del processo morboso, mentre devono ritenersi totalmente escluse tutte le altre condizioni che un tale grado di concausale ingerenza non presentino, le quali - benché parimenti verificatesi in servizio - restano tuttavia riguardabili unicamente quali ‘mere occasioni rivelatrici’ di una infermità non avente alcun nesso di causalità o concausalità con le condizioni di servizio[25].
In conclusione, emergono, da quanto detto fin qui, alcuni dei profili critici del tema oggetto del parere del Consiglio di Stato in esame e che il giudice d’appello ha ben evidenziato. L’assenza di una normativa nazionale organica sul riconoscimento delle patologie legate all’uranio impoverito ha trasferito il problema alla giurisprudenza. I giudici, in mancanza di leggi specifiche, hanno dovuto decidere caso per caso, con risultati spesso difformi, a partire dal principio del nesso causale presunto. Una parte della giurisprudenza ha aperto alla possibilità di riconoscere il nesso causale non in base a prove certe, ma sulla base di presunzioni e di un ragionamento probabilistico, specie in presenza di contesti operativi contaminati (Kosovo, Iraq, Bosnia), di una esposizione non protetta o documentata, e di una coerenza tra patologia e tipo di rischio ambientale. Questa impostazione valorizza il principio di precauzione e i diritti costituzionali alla salute e alla tutela del lavoratore pubblico[26]. L’orientamento restrittivo di un’altra parte della giurisprudenza, invece, richiede prove dirette e scientificamente inoppugnabili del nesso tra esposizione a DU e patologia[27], anche in relazione all’intervallo di tempo trascorso tra il contesto nel quale si presume la latenza dell’uranio impoverito e l’insorgenza della patologia lamentata[28]. In assenza di queste, si è negato l’equo indennizzo e il riconoscimento di causa di servizio. Questo orientamento evidenzia il peso dell’incertezza scientifica, il timore di una giurisprudenza troppo espansiva e l’assenza di criteri ufficiali, ad esempio in relazione alle liste di patologie correlate. Questa incertezza crea una vera e propria giustizia diseguale, con decisioni che variano sensibilmente da caso a caso, una possibile disparità di trattamento tra il personale delle forze armate e di polizia, con una profonda incertezza nelle procedure e una mancanza di equità e trasparenza nel riconoscimento delle cause di servizio, in mancanza di criteri più chiari e uniformi. Per questo, una riforma della materia parrebbe urgente, ancor più in un quadro geopolitico complesso e in presenza di sempre più conflitti internazionali, colmando il vuoto legislativo con una legge-quadro nazionale che disciplini l’indennizzo per esposizione a contaminanti in missione, un elenco aggiornato di patologie correlate, un fondo specifico e una procedura semplificata di riconoscimento e una valutazione scientifica e indipendente dei rischi.
[1] Sul tema, v. R. Fusco, Il diritto al risarcimento del militare per danni subiti a causa dell’esposizione all’uranio impoverito, (nota a Consiglio di Stato, Sez. IV, 30 novembre 2020, n. 7560), in Dir. e proc. amm., 5 gennaio 2021; C. Felicetti, Ammissibilità in appello dei mezzi di prova “sopravvenuti”. Il principio dispositivo con metodo acquisitivo e il divieto di nova in appello (nota a Cons. di Stato, Sez. II, 26 gennaio 2024, n. 845), ivi, 3 aprile 2024.
Cfr. l. 24 dicembre 2007 n. 244, artt. 78 e 79, in relazione « al riconoscimento della causa di servizio e di adeguati indennizzi al personale italiano impiegato nelle missioni militari all’estero, nei poligoni di tiro e nei siti in cui vengono stoccati munizionamenti, nonché al personale civile italiano nei teatri di conflitto e nelle zone adiacenti le basi militari sul territorio nazionale, che abbiano contratto infermità o patologie tumorali connesse all'esposizione e all'utilizzo di proiettili all'uranio impoverito e alla dispersione nell'ambiente di nanoparticelle di minerali pesanti prodotte dalle esplosioni di materiale bellico, ovvero al coniuge, al convivente, ai figli superstiti nonché ai fratelli conviventi e a carico qualora siano gli unici superstiti in caso di decesso a seguito di tali patologie (...) ». Cfr. poi d.p.r. 7 luglio 2006 n. 243 recante regolamento concernente termini e modalità di corresponsione delle provvidenze alle vittime del dovere ed ai soggetti equiparati, ai fini della progressiva estensione dei benefici già previsti in favore delle vittime della criminalità e del terrorismo, a norma dell'articolo 1, comma 565, della legge 23 dicembre 2005, n. 266, ed ivi in particolare la disciplina relativa ai soggetti c.d. equiparati (art. 6).
Cfr., sulla sua acclarata pericolosità, in particolare il rapporto stilato fra il 1978 e il 1979 dall’Air Force Armament Laboratory della base di Eglin in Florida, nonché i seguenti documenti ad esso successivi: la comunicazione del Defence Support della N.A.T.O. del 20 dicembre 1984; le linee guida USA Peace time limits on the intake of depleted uranium, pubblicate nella appendixB top art. 20, 1001 thru 2401, p. 23409, Federal Register del 21 maggio 1991; la comunicazione dell'Headquarters Department of the Army-Office of the Surgeon General, con riferimento all’impiego delle forze armate statunitensi in Somalia del 14 ottobre 1993; il rapporto del General Accounting Office-National Security and International Affairs Division del 1993; la direttiva N.A.T.O. sulle basse radiazioni del 1996. Per un riferimento ai contributi scientifici recenti da cui si evince un nesso di causalità fra esposizione all'UI e patologie tumorali, neurologiche e dell’apparato riproduttivo, cfr. D. Fahey, The Emergence and Decline of the Debate over Depleted Uranium Munitions1991-2004, 20 June 2004, 3 e 9, consultabile sul sito www.wise-uranium.org, ove vengono richiamate le seguenti ricerche: D.E. McClain, et al., Biological effects of embedded depleted uranium (DU): summary ofArmed Forces Radiobiology Research Institute research, in The Science of the Total Environment (2001) 274: 117; F.F. Hahn-R.A. Guilmette-M.D. Hoover, Implanted Depleted Uranium Fragments Cause Soft Tissue Sarcomas in the Muscles of Rats, in Environmental Health Perspectives (2002) 110: 51; D.E. McClain, Project Briefing: Health Effects of Depleted Uranium, U.S. Armed Forces Radiobiology Research Institute (Bethesda, MD, 1999).
[2] Il tema è stato ampiamente trattato dalla dottrina internazionale, civilistica e giuslavoristica. Per un approfondimento, si rinvia a R. Pucella, Un nesso, due nessi, l’irrisolto groviglio della causalità, in Resp. civ. e prev., 2023, 6, 1797; S. Ferrara, Responsabilità del Ministero della difesa per morte del militare esposto a particelle di uranio impoverito e motivazione per relationem, in Resp. civ., 2018, 17, 1245; S. Rodriguez, Missioni all’estero e uranio impoverito: la responsabilità del Ministero della Difesa nei confronti dei propri dipendenti, Resp. civ. e prev., 2012, 2, 619; A. Mantelero, Uranio impoverito: i danni da esposizione e le responsabilità, in Danno e responsabilità, 5/2012, 543; M. Losana, La legislazione in materia di benefici erogati in favore delle vittime del dovere, del servizio, di talune fattispecie di reato e di particolari eventi storici: tra principio di uguaglianza formale e discrezionalità politica, in Giur. cost., 2011, 3, 2631; A. Viscomi, La causa di servizio oggi: spunti per una riflessione, in Il lavoro nelle p.a., 2009, 2, 241; A. Mantelero, La svolta nelle controversie sull’uranio impoverito, in Resp. civ. e prev., 2009, 12, 2492.
[3] Il riferimento è alle indagini svolte dalle seguenti commissioni: Commissione di indagine istituita dal Ministro della Difesa sull’incidenza di neoplasie maligne tra i militari impiegati in Bosnia e Kosovo, insediata con decreto ministeriale della Difesa del 22 dicembre 2000; Commissione Parlamentare d’inchiesta sui casi di morte e gravi malattie che hanno colpito il personale militare italiano impiegato nelle missioni internazionali di pace, sulle condizioni della conservazione e sull'eventuale utilizzo di uranio impoverito nelle esercitazioni militari sul territorio nazionale, istituita con delibera del Senato del 17 novembre 2004; Commissione Parlamentare d’inchiesta sui casi di morte e gravi malattie che hanno colpito il personale italiano impiegato nelle missioni militari all’estero, nei poligoni di tiro e nei siti in cui vengono stoccati munizionamenti, nonché le popolazioni civili nei teatri di conflitto e nelle zone adiacenti le basi militari sul territorio nazionale, con particolare attenzione agli effetti dell’utilizzo di proiettili all’uranio impoverito e della dispersione nell'ambiente di nanoparticelle di minerali pesanti prodotte dalle esplosioni di materiale bellico, istituita con deliberazione del Senato dell’11 ottobre 2006.
[4] Tale sindrome consiste in una pluralità di possibili patologie di natura prevalentemente neoplastica, conseguenti all’esposizione dei militari ad agenti patogeni − in specie uranio impoverito − presenti nelle aree teatro di scontri armati durante la recente guerra dei Balcani, ove i soldati italiani hanno operato a conflitto terminato in occasione delle diverse missioni di pace svoltesi in Bosnia-Erzegovina, Macedonia e Kosovo. Analoghe patologie sono state anche riscontrate in relazione ad altre attività realizzate all'estero dalle Forze Armate italiane nel corso della prima guerra del Golfo, in Somalia e in Albania.
[5] Precedenti conformi: sulla necessità che il militare dimostri di aver affrontato “particolari condizioni ambientali ed operative”, connotate dal carattere “straordinario” rispetto alle forme di ordinaria prestazione del servizio: ex multis, Cons. St., Sez. IV, 24 maggio 2019, n. 3418, in www.giustizia-amministrativa.it. Sulla inidoneità delle conclusioni diverse risultanti da perizie, relazioni e/o certificazioni mediche di parte confutare l’attendibilità del giudizio tecnico del comitato: tra le tante, Cons. St., Sez. I, parere 13 luglio 2023, n. 1030, che richiama Cons. St., Sez. IV, n. 142/2020; Cons. St., Sez. I, n. 993/2020. Sulle condizioni per porre in discussione il parere del comitato di verifica di esclusione della causalità di servizio: tra le tante, Cons. St., Sez. II, 8 maggio 2019, n. 2975, che richiama Cons. St., Sez. IV, 4 ottobre 2017 n. 4619 e Cons. St., Sez. III, 7 marzo 2017, n. 1076. Sul nesso causale in materia di causa di servizio, v. Cons. St., Sez. II, 28 febbraio 2023, n. 2101 e, con specifico riferimento all’uranio impoverito, Cons. St., Sez. I, 10 luglio 2023, n. 1013, che richiama Cons. St., Sez. II, n. 6456/2022, tutte in www.giustizia-amministrativa.it.
[6] A. Crismani, Le indennità nel diritto amministrativo, Torino, 2012, 45, osserva che l’art. 603, c. 1 e 2, d.lgs. n. 66/2010 riconosce «al personale italiano entro e fuori i confini nazionali in occasione o a seguito di missioni di qualunque natura, nonché al personale impiegato nei poligoni di tiro e nei siti dove vengono stoccati munizionamenti, e al personale civile italiano nei teatri operativi all’estero e nelle zone adiacenti alle basi militari sul territorio nazionale, adeguati indennizzi in caso di infermità o patologie tumorali per le particolari condizioni ambientali od operative»
[7] Cass. civ., Sez. Lav., 8 giugno 2018, n. 15027, in Giust. civ. Mass., 2018.
[8] Cfr. Cons. St., Sez. III, 11 agosto 2015, n. 3915, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. Stato, Sez. III, 1° febbraio 2019, n. 816, ivi.
[9] Cons. St., Sez. IV, 13 aprile 2015, n. 1855; Cons. St., Sez. IV, 18 gennaio 2018, n. 306; Cons. St., Sez. III, 1° febbraio 2019, n. 816; Cons. St., Sez. III, 7 maggio 2019 n. 2927, tutte in www.giustizia-amministrativa.it.
[10] Tribunale di Bari, Sez. Lav., 6 ottobre 2023, n. 2623, in Red. Giuffrè 2023, il quale osserva che “affinché possa ritenersi che una vittima del dovere abbia contratto un'infermità in qualunque tipo di servizio non è sufficiente la semplice dipendenza da causa di servizio, occorrendo che quest'ultima sia legata a “particolari condizioni ambientali o operative” implicanti l’esistenza, od anche il sopravvenire, di circostanze straordinarie e fatti di servizio che hanno esposto il dipendente a maggiori rischi o fatiche, in rapporto alle ordinarie condizioni di svolgimento dei compiti di istituto, sicché è necessario identificare, caso per caso, nelle circostanze concrete alla base di quanto accaduto all'invalido per servizio, un elemento che comporti l'esistenza o il sopravvenire di un fattore di rischio maggiore rispetto alla normalità di quel particolare compito”. Tribunale Napoli, Sez. Lav., 7 febbraio 2023, n. 849, Red. Giuffrè, 2023.
[11] Cfr. Cass. civ., Sez. Lav., 8 marzo 2023, n. 6881, in Diritto & Giustizia, 9 marzo 2023, nota A. Ievolella. In tema di vittime del dovere, ricorre la fattispecie del comma 563, lett. a), l. n. 266/2005 quando l’evento dannoso si sia verificato nel contrasto ad ogni tipo di criminalità, senza che sia richiesto un rischio specifico ulteriore a quello insito nelle ordinarie attività istituzionali, necessario, invece, per le ipotesi previste dal successivo c. 564, ove è necessaria l’esistenza o il sopravvenire di circostanze o eventi straordinari.
Cfr. Cons. St., Sez. IV,30 novembre 2020, n. 7560, in www.giustizia-amministrativa.it in cui si afferma che “nell’ipotesi di missioni all’estero (cosiddette “missioni di pace”) l’Amministrazione della difesa versa in una condizione di responsabilità di posizione, cui fa eccezione il solo rischio oggettivamente imprevedibile - giuridicamente qualificabile alla stessa stregua del caso fortuito - ma in cui, viceversa, rientra il rischio da esposizione ad elementi (nella specie, uranio impoverito) che, benché non ancora scientificamente acclarati come sicuro fattore eziopatogenetico, ciononostante lo possano essere, secondo un giudizio di non implausibilità logico-razionale; la diligenza cui è tenuta l’Amministrazione si situa dunque, in tali casi, ad un livello massimo e la prova liberatoria non può consistere semplicemente nell’invocare il fattore causale ignoto, ma deve spingersi sino a provare convincentemente il fattore causale fortuito, ossia quello specifico agente, non prevedibile e, comunque, non prevenibile, che ha provocato l’evento di danno”.
[12] Cfr. Cass. civ., Sez. Lav., 24 dicembre 2024, n. 34299, in Diritto & Giustizia, 2024, n.30, in cui si afferma che “ai fini del riconoscimento dello status di vittima del dovere, ai sensi dell’art. 1, c. 563, della l. n. 266 del 2005, non è sufficiente che le lesioni patite dal pubblico dipendente siano state riportate in conseguenza di eventi verificatisi in occasione di una delle attività tipizzate dalle lett. a), b), c), d), e) ed f), del citato art. 1, essendo piuttosto necessario che l’evento da cui è scaturita la lesione costituisca, a sua volta, una concretizzazione della speciale pericolosità e/o del rischio che è tipicamente proprio di quelle determinate attività”; Cons. St., Sez. IV, 24 maggio 2019, n. 3418. Allo stesso modo. Cass. civ., Sez. Lav., 4 gennaio 2024, n. 287, in Giust. Civ. Mass., 2024, in cui si afferma che “affinché possa ritenersi che una vittima del dovere abbia contratto un’infermità in qualunque tipo di servizio non è sufficiente la semplice dipendenza da causa di servizio, occorrendo che quest’ultima sia legata a “particolari condizioni ambientali o operative” implicanti l’esistenza, od anche il sopravvenire, di circostanze straordinarie e fatti di servizio che hanno esposto il dipendente a maggiori rischi o fatiche, in rapporto alle ordinarie condizioni di svolgimento dei compiti di istituto, sicché è necessario identificare, caso per caso, nelle circostanze concrete alla base di quanto accaduto all'invalido per servizio, un elemento che comporti l’esistenza o il sopravvenire di un fattore di rischio maggiore rispetto alla normalità di quel particolare compito”.
[13] T.A.R. Emilia-Romagna, Bologna, Sez. I, 16 ottobre 2024, n. 716, in www.giustizia-amministrativa.it. “Nel caso di invio di militari all'estero, data l’impossibilità di stabilire - sulla base delle attuali conoscenze scientifiche - un nesso diretto e univoco di causa-effetto collegato ai contesti fortemente degradati e inquinati ove questi abbiano operato, non è pretendibile la dimostrazione dell’esistenza del nesso causale con un grado di certezza assoluta; pertanto, una volta accertata l’esposizione del militare all'uranio impoverito e ai metalli pesanti, è l’Amministrazione che deve dimostrare che tale agente patogeno non abbia determinato l’insorgere della malattia oncologica e che essa dipenda invece da altri fattori (esogeni), dotati di autonoma ed esclusiva portata eziologica”.
[14] T.A.R. Valle d’Aosta, Sez. I, 20 settembre 2017, n. 56, in Foro amm., 2017, 9, 1873; T.A.R. Toscana, Sez. I, 18 aprile 2017, n. 564, in www.giustizia-amministrativa.it.
[15] T.A.R. Trentino-Alto Adige, Bolzano, Sez. I, 5 luglio 2024, n. 178, in cui si osserva che “in tema di cd. sindrome dei Balcani, la mancanza di una legge scientifica universalmente valida che stabilisca un nesso diretto fra l’operatività nei contesti caratterizzati dalla presenza di uranio impoverito e l'insorgenza di specifiche patologie tumorali non impedisce il riconoscimento del rapporto causale, posto che la correlazione eziologica, ai fini amministrativi e giudiziari, può basarsi anche su una dimostrazione in termini probabilistico-statistici. Una volta accertata l’esposizione del militare agli inquinanti, è l’amministrazione che deve dimostrare che tale agente patogeno non abbia determinato l’insorgere della riscontrata infermità e che essa dipenda invece da altri fattori (esogeni), dotati di autonoma ed esclusiva portata eziologica e determinanti per l’insorgere dell’infermità”.
Cfr., in tal senso, esplicitamente, Cass. civ, Sez. Un., 11 gennaio 2008, n. 576, cit.; Id., 11 gennaio 2008, n. 581, in Foro it., 2018.
V, a riguardo, in dottrina, D. Poletti, Le regole di (de)limitazione del danno risarcibile, in Lipari-Rescigno, diretto da, Diritto Civile, IV, Attuazione e tutela dei diritti, Milano, 2009, 306 ss., la quale sottolinea come, specie nell’attuale c.d. società del rischio, “il nesso eziologico è ormai trascorso da una valutazione richiesta in termini di certezza degli effetti della condotta ad un giudizio di tipo probabilistico”.
[16] T.A.R. Lazio, Roma, Sez. I, 16 settembre 2024, n. 16391; Cons. St., Sez. I consultiva, parere n. 210 del 16 febbraio 2021; Cons. St., Sez. IV, 26 febbraio 2021, n. 1661; T.A.R. Toscana, Sez. I, 28 febbraio 2021 n. 156; Cons. St., Sez. II, 7 marzo 2022, n. 1638.T.A.R. Lazio, Roma, Sez. I, 1° giugno 2024, n. 11238, tutte in www.giustizia-amministrativa.it. L’insorgere di una patologia, l’onere della prova della riconducibilità della patologia stessa al servizio svolto nella predetta missione, sotto il profilo causale o almeno concausale, si ritiene assolto mediante l’allegazione, da parte del militare, di essersi trovato ad operare in un territorio in cui erano indubbi la presenza di “inquinanti” metallici e, soprattutto, l’utilizzo, nelle operazioni di guerra, di proiettili contenenti uranio impoverito.
[17] Corte conti, Lazio, Sez. reg. giurisd., 2 novembre 2017, n. 318, Red. Giuffrè, 2018, in cui si afferma che “l’impossibilità di stabilire un nesso immediato di causa-effetto, congiuntamente valutata con il concorso di altri fattori collegati a contesti fortemente inquinati e degradati dei teatri operativi, hanno indotto il legislatore a non richiedere, in caso di malattia dipendente da esposizione all’uranio impoverito per missione militare, la dimostrazione del nesso causale con un grado di certezza assoluta, essendone sufficiente la dimostrazione in termini probabilistico-statistici. Quanto all’accertamento della dipendenza da causa di servizio, l’art. 64 del DPR n. 1092/73 valorizza sia i fatti che siano stati la causa diretta dell'insorgere della patologia, sia quelli che abbiano svolto un ruolo “concausale” o indiretto nel decorso evolutivo, sino all'eventuale esito (concausa efficiente e determinante)”.
L'impossibilità di stabilire un nesso immediato di causa-effetto, congiuntamente valutata con il concorso di altri fattori collegati a contesti fortemente inquinati e degradati dei teatri operativi, hanno indotto il legislatore a non richiedere, in caso di malattia dipendente da esposizione all’uranio impoverito per missione militare, la dimostrazione del nesso causale con un grado di certezza assoluta, essendone sufficiente la dimostrazione in termini probabilistico-statistici.
[18] T.A.R. Toscana, Firenze, Sez. I, 15 novembre 2023, n. 1043; T.A.R. Lazio, Roma, Sez. I, 15 dicembre 2022, n. 16931, tutte in www.giustizia-amministrativa.it. Incombe sull’Amministrazione l’onere di provare che l’esposizione del militare all’inquinante (uranio impoverito) non abbia determinato l’insorgere della patologia e che essa dipende invece da altri fattori (esogeni) dotati di autonoma ed esclusiva portata eziologica, e determinanti per l’insorgere dell’infermità. Del resto, una volta accertata l'esposizione del militare all’inquinante, che non necessita di un accertamento in termini di certezza, è la P.A. che deve dimostrare che detta esposizione non abbia determinato l’insorgere della patologia e che essa dipende invece da altri fattori (esogeni) dotati di autonoma ed esclusiva portata eziologica.
Cfr., inoltre, Cons. St., Sez. I, 17 marzo 2021 n. 435; Cons. St., Sez. IV, 26 febbraio 2021 n. 1661; Id., 30 novembre 2020, n. 7560 e 7562; Id., Sez. II, 22 aprile 2022, n. 3112, tutte in www.giustizia-amministrativa.it; T.A.R. Lombardia, Brescia, 1° luglio 2022, n. 655, in Foro amm., 2022, 7-08, II, 973.
La natura della responsabilità dell’amministrazione della difesa per i danni subiti dai militari nelle missioni all’estero è stata spesso dibattuta in giurisprudenza. Secondo un primo orientamento tale responsabilità deve essere ascritta alla genus della responsabilità extra-contrattuale di cui all’art. 2043 c.c. (in tal senso vedasi in primis la nota sentenza Trib. Roma, Sez. XXII, 1° dicembre 2009, n. 10431, in Foro it., 2010, 2, I, p. 676 ss., seguita da diverse altre pronunce tra cui si cita ex multis Cass. civ., Sez. III, 15 luglio 2009, n. 16456, in Foro it., Mass. 2009). Un diverso orientamento, col tempo divenuto maggioritario, inquadra detta responsabilità nell’alveo dell’art. 2087 c.c. e, quindi, nella categoria della responsabilità contrattuale del datore di lavoro (in tal senso si vedano ex multis: Trib. Roma, Sez. XIII, 15 luglio 2009, n. 16320, in www.dejure.it, T.A.R. Campania, Napoli, Sez. VII, 5 agosto 2010, n. 17232, T.A.R. Valle d’Aosta, Aosta, Sez. I, 20 settembre 2017, n. 56 e T.A.R. Toscana, Firenze, Sez. I, 18 aprile 2017, n. 564, tutte consultabili in www.giustizia-amministrativa.it).
[19] T.A.R. Lazio, Roma, Sez. I, 12 dicembre 2023, n. 18756, in www.giustizia-amministrativa.it.
T.A.R. Lazio, Latina, Sez. I, 24 aprile 2019, n. 331, in www.giustizia-amministratuva.it, in cui si afferma che “è viziato da difetto di istruttoria e di motivazione il decreto con cui il direttore della direzione di amministrazione - sezione equo indennizzo del comando generale dell'arma dei carabinieri ha stabilito che le infermità non dipendono da causa di servizio, nonché ha rigettato la domanda di equo indennizzo senza considerare i possibili legami causali tra la patologia tumorale, seppure benigna, che ha colpito il ricorrente e l’esposizione ai fattori nocivi presenti sul territorio della missione internazionale denominata Kfor in Kosovo, il cui territorio veniva colpito da bombardamenti con munizionamenti contenenti uranio impoverito con conseguente inquinamento atmosferico e ambientale; invero, in caso di infermità contratte da militari a causa dell'esposizione a polveri sottili derivanti dall'uranio impoverito, il verificarsi dell'evento costituisce un dato ex se sufficiente a ingenerare il diritto per le vittime delle patologie e per i loro familiari al risarcimento a meno che la pubblica amministrazione non riesca a dimostrare che essa non aveva determinato l'insorgenza della patologia la quale dipenda, invece, da fattori esogeni, dotati di autonoma ed esclusiva portata eziologica e determinanti per l’insorgere dell’infermità”.
Negli stessi termini, T.A.R. Piemonte, Sez. I, 6 marzo 2015 n. 429, in Foro amm., 2015, 3, 867; Id., Sez. I, 6 giugno 2018, n. 710 T.A.R. Friuli Venezia-Giulia, Trieste, Sez. I, 12 marzo 2018, n. 63, in www.giustizia-amministrativa.it.
[20] Secondo la Corte di Cassazione (ex multis: Cass. civ., Sez. III, 30 novembre 2018, n. 31007, in www.dejure.it) dal risarcimento del danno spettante al militare che abbia contratto una patologia tumorale a seguito dell’esposizione all’uranio impoverito durante una missione internazionale va detratto, in applicazione del principio della “compensatio lucri cum damno”, l’indennizzo a questi erogato ex art. 2, c. 78 e 79, l. n. 244/2007 (ratione temporis applicabile), essendo una elargizione avente finalità compensativa posta a carico del medesimo soggetto (pubblica amministrazione) obbligato al risarcimento del danno.
[21] Il criterio del “più probabile che non” è stato posto alla base della responsabilità dell’amministrazione della difesa in diverse altre sentenze. A titolo esemplificativo si può citare T.A.R. Calabria, Catanzaro, Sez. II, 2 ottobre 2014, n. 1568, in www.giustizia-amministrativa.it, secondo la quale «a causa dell’impossibilità di stabilire, sulla base delle attuali conoscenze scientifiche, un nesso diretto di causa-effetto, e per il riconoscimento del concorso di altri fattori collegati ai contesti fortemente degradati ed inquinati dei Teatri Operativi, non debba essere richiesta la dimostrazione dell’esistenza del nesso causale con un grado di certezza assoluta, essendo sufficiente la dimostrazione, in termini probabilistico-statistici…». In termini analoghi vedasi anche T.A.R. Liguria, Genova, Sez. I, 29 settembre 2016, n. 956, in www.giustizia-amministrativa.it, secondo la quale «il verificarsi dell’evento costituisce ex se un dato sufficiente, secondo il cosiddetto “criterio di probabilità”, a far sì che le vittime delle patologie abbiano diritto ai benefici previsti dalla legislazione vigente ogni qual volta, accertata l’esposizione del militare all’inquinante in parola, l’amministrazione non riesca a dimostrare che essa non abbia determinato l’insorgenza della patologia e che questa dipenda, invece, da fattori esogeni dotati di autonoma ed esclusiva portata eziologica».
In senso conforme vedasi anche Cons. St., Sez. IV, 29 febbraio 2016, n. 837, in www.giustizia-amministrativa.it.
[22] Cons. St., Sez. II, 20 aprile 2022, n. 2991, in Foro amm., 2022, 4, II, 496; Cons. St., Sez. II, 12 aprile 2022, n. 2742, in www.giustizia-amministrativa.it, in cui si afferma che “il militare che sostiene la commissione di illecito civile da parte della P.A. deve provare la connessione fra neoplasia e esposizione all’uranio. Il militare interessato a percepire la speciale elargizione di cui all'art. 5, comma 1, della l. n. 206 del 2004 non deve dimostrare l’esistenza di un nesso eziologico fra esposizione all’uranio impoverito e neoplasia, essendo, invece, necessario un tale accertamento qualora lo stesso proponga una domanda risarcitoria, ossia assuma la commissione di un illecito civile da parte dell’Amministrazione.
[23] Ex multis, Cons. St., Sez. I, parere, 13 luglio 2023, n. 1030, in www.giustizia-amministrativa.it.
[24] Cfr. Cons. St., Sez. IV, 4 ottobre 2017 n. 4619; Id., Sez. III, 7 marzo 2017, n. 1076; Cons. St., Sez. II, 8 maggio 2019, n. 297, tutte in www.giustizia-amministrativa.it.
[25] Cfr. Cons. St., Sez. IV, 16 marzo 2012, n. 1510; Cons. St., Sez. III, 7 marzo 2017, n. 1076, tutte in www.giustizia-amministrativa.it.
[26] Cfr., Cass. civ., Sez. Lav., Sez. III, 17 febbraio 2019, n. 1052, in Giust. civ. Mass., 2019; Cons. St., Sez. IV, 4 luglio 2011, n. 3967, in Foro amm.-CdS, 2011, 7-8, 2482.
[27] Cfr., Cons. St., Sez. IV, 29 gennaio 2015, n. 430; T.A.R. Lazio, Roma, Sez. II, 28 settembre 2020, n. 9807, tutte in www.giustizia-amministrativa.it.
[28] Ex. multis, cfr. Cons. St., Sez. I, 10 luglio 2023, n. 1013, in www.giustizia-amministrativa.it.
Sommario: 1. La sentenza della Corte costituzionale 21 marzo 2025, n. 33: una storia collettiva da scrivere e raccontare - 2. Cosa vuol dire adottare? - 3. È tempo di una vera cultura delle adozioni - 4. Dedicato alle bambine e ai bambini più grandi: parliamo di vacanze preadottive - 5. Cosa accade dopo C. cost. n. 33 del 2025 - 6. Non scoraggiarsi mai, pensando a chi aspetta.
Il 21 marzo 2025 è stato un inizio di primavera destinato a essere ricordato a lungo: la Corte costituzionale, con una storica sentenza (n. 33 del 2025), ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 29 bis legge n. 184 del 1983 nella parte in cui non consente alle persone singole residenti in Italia di presentare dichiarazione di disponibilità ad adottare un minore straniero residente all’estero e chiedere al tribunale per i minorenni del distretto di residenza di essere dichiarate idonee all’adozione internazionale. Grazie a tale sentenza, il 12 maggio 2025 è stato emesso il primo decreto di idoneità all’adozione internazionale nei confronti di una persona non coniugata.
The 21st of March, 2025 was the beginning of spring that will be remembered for a long time: the Italian Constitutional Court, with a historic ruling (no. 33 of 2025), declared the art. 29 bis of law no. 184 of 1983 unconstitutional in the part in which it does not allow single persons resident in Italy to present a declaration of willingness to adopt a foreign minor resident abroad and to ask the juvenile court of the district of residence to be declared suitable for international adoption. Thanks to this ruling, on May 12, 2025, the first decree of suitability for international adoption was issued for an unmarried person.
1. La sentenza della Corte costituzionale 21 marzo 2025, n. 33: una storia collettiva da scrivere e raccontare
La Corte costituzionale, con la sentenza 21 marzo 2025, n. 33, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 29-bis, comma 1, della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia), nella parte in cui, facendo rinvio all’art. 6, non include le persone singole residenti in Italia fra coloro che possono presentare dichiarazione di disponibilità a adottare un minore straniero residente all’estero e chiedere al tribunale per i minorenni del distretto in cui hanno la residenza che lo stesso dichiari la loro idoneità all’adozione[1].
Tale pronuncia – emessa a seguito dell’ordinanza di rimessione del Tribunale per i minorenni di Firenze del 20 maggio 2024[2] - consente alle persone singole la possibilità di presentare domanda davanti al tribunale per i minorenni territorialmente competente per essere dichiarate idonee all’adozione internazionale[3].
La sentenza (la cui motivazione ripercorre l’evoluzione storica dell’istituto, facendo comprendere come si è arrivati all’assetto normativo esistente al momento della pronuncia)[4] si fonda, da un punto di vista tecnico-giuridico, su una complessa triangolazione sistematica tra la norma tacciata di incostituzionalità (l’art. 29 bis, cit., che, richiamando l’art. 6 legge n. 184 del 1983, ha reso possibile - fino al 26 marzo 2025 - solo alle coppie unite in matrimonio da tre anni la presentazione della domanda di idoneità all’adozione internazionale), le norme costituzionali (gli artt. 2 e 117 Cost.) e il parametro interposto (l’art. 8 CEDU), imponendo all’interprete di cimentarsi su più fonti, anche sovranazionali, con un’importante opera di ricucitura sistematica[5].
La sentenza della Corte costituzionale n. 33 del 2025 richiederebbe, in verità, una riflessione non limitata ai soli aspetti di tipo tecnico-giuridico, ma estesa anche ai profili di tipo storico e sociologico. Sarebbe, infatti, opportuno chiedersi perché si sia arrivati alla dichiarazione di incostituzionalità di una norma - a suo tempo, approvata con una votazione plebiscitaria di entrambi i rami del Parlamento – solo dopo un quarto di secolo dal momento in cui (con la riformulazione dell’art. 117 Cost. ad opera della legge cost. 18/10/2001, n. 3) se ne sono palesati i profili di incostituzionalità, in relazione al parametro interposto dell’art. 8 CEDU, cioè della disposizione che, nel sancire il diritto alla vita privata e familiare, scolpisce, al par. 2, i limiti di ingerenza della pubblica autorità (che devono corrispondere a misure necessarie in una società democratica).
La stessa Corte costituzionale nel cd. caso Di Lazzaro[6] (in un diverso contesto normativo, anteriore alla ratifica della Convenzione dell’Aja del 1993, avvenuta con la legge 31/12/1998, n. 476 e alla modifica dell’art. 117 Cost. ad opera della legge cost. n. 3 del 2001) aveva, del resto, gettato un seme, germogliato appieno solo dopo oltre trent’anni, con la pronuncia dello scorso 21 marzo 2025[7].
Tanto più che l’impianto della legge sulle adozioni aveva finito per connotarsi per la presenza di una regola generale (che consentiva l’accesso all’istituto solamente alle persone unite in matrimonio da tre anni) accompagnata da così tante eccezioni da svuotarne in larga parte il contenuto. A tal fine basti citare gli artt. 25, commi 4 (adozione da parte di uno solo coniuge in caso di morte o incapacità dell’altro coniuge durante il periodo di affidamento preadottivo) e 5 (adozione del coniuge, in caso di separazione intervenuta nel corso dell’affidamento preadottivo), 44 (adozioni in casi particolari, tra i quali quella del minore diversamente abile), 40 (adozione internazionale del minorenne cittadino italiano da parte di un cittadino straniero, cui non è richiesto il requisito del coniugio) della legge n. 184 del 1983.
Lo scossone definitivo a un impianto normativo che si trascinava più per inerzia che per la propria coerenza sistematica è stato, infine, dato non solo dalla riforma del 2012[8] (che aveva unificato lo stato di figlio), ma anche dalla sentenza della Corte costituzionale 28/03/2022, n. 79[9], che aveva dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 55 legge n. 184 del 1983 nella parte in cui (rinviando all’art. 300, comma 2, c.c.) prevedeva che le adozioni in casi particolari non inducessero alcun rapporto civile tra l’adottato e i parenti dell’adottante.
Erano, quindi, maturi i tempi perché la Corte costituzionale (che sul tema delle adozioni internazionali da parte delle persone singole non aveva mai evocato la discrezionalità del Parlamento[10]) giungesse ad affermare che (anche) la famiglia monoparentale trova riconoscimento nella Costituzione[11].
Per ragioni facilmente intuibili, non entrerò nell’esame dei contenuti di C. cost. n. 33 del 2025, rinviando alla lettura dei primi commenti, peraltro, assai positivi sulla decisione[12], preferendo dedicare alcune brevi riflessioni all’adozione, al suo significato e ai suoi protagonisti e a quello che accadrà in esito alla storica sentenza della Corte costituzionale di inizio primavera.
2. Cosa vuol dire adottare?
Di adozione internazionale (così come più in generale di adozione) si è parlato assai poco in questi anni. Il tema dell’adozione è balzato agli onori delle cronache solamente quando si è parlato di singoli casi che coinvolgevano persone più o meno famose o nei rari casi in cui si è disquisito sui limiti di accesso all’adozione per coloro che non possedevano i requisiti previsti nell’art. 6 legge n. 184 del 1983[13].
Lo scarso interesse per l’istituto nel dibattito pubblico[14] si è accompagnato a una decrescita impietosa dei numeri delle adozioni internazionali. La stessa Corte costituzionale (C. cost. n. 33 del 2025) ha ritenuto opportuno richiamare tali dati che evidenziavano che sia il Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità, sezione statistica, sia la Presidenza del Consiglio dei ministri, Commissione per le adozioni internazionali, Autorità centrale per la Convenzione de L’Aja del 29 maggio 1993, documentano il passaggio, nel caso dell’adozione internazionale, da quasi settemila domande nel 2007 a una stima di circa cinquecento domande per il 2024.
Non credo che l’imponente riduzione dei numeri delle adozioni internazionali sia riconducibile solamente alla lunghezza delle procedure, alle verifiche approfondite sull’idoneità degli aspiranti genitori adottivi e ai costi[15], ma che ci siano anche ragioni di carattere culturale: l’adozione resta, tuttora, un terreno sconosciuto ai più, troppo spesso occupato da pregiudizi e false credenze.
È invece necessario fare un po’ di ordine su un tema fondamentale, come quello dell’adozione.
La scelta[16] di diventare genitori manifestando la disponibilità ad adottare un minore straniero in stato di abbandono – cui fa riferimento anche C. cost. n. 33 del 2025 – introduce le prime due parole chiave che vengono in rilievo nell’adozione: disponibilità (quella degli aspiranti genitori adottivi) e diritto ad avere una famiglia (da parte del minore in stato di abbandono). Sotto quest’ultimo profilo è particolarmente centrata la definizione di un indimenticato giurista, secondo il quale: «il minore ha diritto di essere adottato perché ha diritto di essere amato»[17]. Tale prospettiva è recepita anche nel Preambolo della Convenzione dell’Aja del 1993, dove si afferma che il minore deve crescere in un ambiente familiare, in un clima di felicità, d'amore e di comprensione.
Adottare significa intraprendere un viaggio destinato a durare tutta la vita.
Un viaggio che parte dentro se stessi e chiede a ciascun genitore di ripercorrere a ritroso la propria vita per arrivare al momento esatto in cui si varca la soglia di un tribunale per i minorenni per presentare la domanda ex art. 29 bis (o anche ex art. 6 nel caso delle coppie unite in matrimonio da tre anni) legge n. 184 del 1983, per capire le motivazioni che lo hanno portato a manifestare la disponibilità ad adottare un minore.
È un viaggio in cui – prima dell’incontro più importante, cioè quello con i propri figli – i genitori trovano, sulla loro strada, più figure professionali: assistenti sociali, psicologi e giudici minorili.
Sono incontri anche faticosi, perché finalizzati a valutare l’idoneità degli aspiranti genitori adottivi. Non è facile per nessuno sottoporsi al giudizio altrui, quando è in gioco un aspetto così intimo ed essenziale della propria vita personale. Eppure, gli aspetti di tipo valutativo (propri di un procedimento che deve, infine, concludersi con una dichiarazione di idoneità o inidoneità) si innestano su un percorso di rielaborazione e di confronto, che ci porta a capire cosa sia veramente l’adozione.
La valutazione delle persone che manifestano la propria disponibilità all’adozione internazionale non è, infatti, statica, ma dinamica e prospettica, incentrandosi non solo sul loro vissuto e sul suo percorso esistenziale, ma anche sulla loro adattabilità ad affrontare (e fronteggiare) le molteplici situazioni che possono presentarsi in futuro, una volta perfezionato il percorso adottivo.
Come spesso viene ripetuto nei corsi di preparazione per l’adozione organizzati presso i servizi sociali di ciascun comune - da cui prende necessariamente avvio il viaggio degli aspiranti genitori - l’amore non basta: è necessario essere consapevoli che ciò che è accaduto nella vita del minore prima dell’incontro con il genitore o i genitori adottivi potrebbe presentarsi in modo inaspettato (soprattutto nella fase adolescenziale), anche quando il percorso di adattamento e di inserimento in un paese diverso da quello di origine sembra compiuto.
Capire tutto questo serve a riconciliare l’idea di adozione che si ha prima di varcare la soglia del centro per le adozioni in occasione del primo incontro informativo e quello che sapremo sulle adozioni una volta che figure professionali (come assistenti sociali, psicologi o giudici minorili) ci faranno capire cosa è davvero l’adozione e ci porranno davanti al primo bivio: andare avanti o no?
3. È tempo di una vera cultura delle adozioni
Sarebbe tempo che si creasse una vera cultura dell’adozione, in grado di sfatare tanti falsi miti, a partire da quello secondo cui i genitori (o aspiranti genitori) adottivi sono dei benefattori dell’umanità e che adottare significa fare un’opera buona o fare una cosa bella.
Nell’immaginario comune l’adozione è assai spesso considerata come una genitorialità di serie B … quindi, sì, bisogna essere per forza più buoni o più altruisti degli altri per prendere e diventare madre o padre di un figlio o una figlia che non hai messo al mondo.
L’adozione non è, tuttavia, un atto di beneficenza.
Nessuno si sognerebbe di pensarlo per il caso della genitorialità biologica e lo stesso vale anche per l’adozione, perché il legame affettivo che si instaura è lo stesso e non dipende dal fatto che il colore della pelle di tua figlia o di tuo figlio sia come il tuo, che abbia i tuoi occhi, la tua voce, i tuoi talenti o i tuoi difetti. Proprio per questo motivo i genitori adottivi non sono persone più buone dei genitori biologici, ma solo genitori come tutti gli altri, i quali seguono un diverso percorso di maternità o paternità, che implica la disponibilità a dare una famiglia a un minore che ne è privo.
E proprio qui sta il punto centrale: adottare significa diventare genitori di un bambino o una bambina che già esiste e che ha un passato prima di noi, una storia senza di noi, che accogliamo insieme a quel figlio o quella figlia che viene da lontano.
Significa essere consapevoli che nella testa dei nostri figli convivranno per sempre – a livello più o meno inconscio - le figure dei genitori biologici e quelle dei genitori adottivi.
Significa essere consapevoli – e accettare come una cosa naturale - che i nostri figli, prima o poi (magari senza dircelo), si porranno la domanda su come sarebbe stata la loro vita se, invece dei genitori che li hanno adottati, avessero avuto accanto quei genitori che non hanno potuto o non hanno voluto crescerli.
Significa essere consapevoli che i nostri figli un giorno potrebbero avere il desiderio di fare - forse senza di noi - il viaggio alla ricerca delle loro origini, per riconciliare il prima di noi con il dopo con noi.
Significa comprendere che amare davvero qualcuno vuol dire accoglierlo con il suo passato e accettare che quel passato diventi parte di noi.
Significa essere pronti ad aiutare i propri figli a rielaborare quel passato, che può lasciare delle cicatrici che possono riaprirsi in qualsiasi momento, ma che si può provare, almeno, a far smettere di sanguinare.
Significa essere consapevoli che quel vissuto doloroso potrebbe determinare una quotidianità più faticosa di quella che ci possiamo immaginare nel processo di crescita dei nostri figli.
Significa avere consapevolezza che tutto questo potrebbe accadere e accettare di andare avanti, perché rispetto a qualsiasi difficoltà che ci viene prospettata o che ci possiamo immaginare in modo realistico prevale la consapevolezza che siamo risorse per qualcuno che non ha una famiglia e che nel momento in cui accettiamo di proseguire non è più la bambina o il bambino da adottare, ma sono ormai diventati nostra figlia o nostro figlio, anche se non li abbiamo mai visti e dovremo aspettare ancora un po’ prima di incontrarli.
Significa sapere che i nostri figli, da qualche parte, ci stanno aspettando e che noi dobbiamo andare da loro.
Significa intraprendere un viaggio, con una sola possibile destinazione, che si chiama futuro.
4. Dedicato alle bambine e ai bambini più grandi: parliamo di vacanze preadottive
Le statistiche riscontrabili sul sito della Commissione per le adozioni internazionali[18] consegnano un quadro connotato da un progressivo innalzamento dell’età dei bambini adottati, che hanno, quindi, vissuto più tempo in una situazione di abbandono o istituzionalizzata. È tuttavia fallace la vulgata che l’adozione di bambini più grandi comporti necessariamente maggiori difficoltà rispetto ai bambini in più tenera età. In realtà, è la capacità di resilienza di questi piccoli rispetto a un vissuto doloroso e abbandonico a segnare la differenza, esattamente come accade nella vita di ciascuno di noi. È una cosa che si scopre solo durante la crescita dei nostri figli. Proprio per questo sono importanti i saperi e le esperienze delle figure professionali che si incontrano nella fase anteriore e successiva al completamento del percorso adottivo e i contatti con i gruppi delle famiglie adottive, in un reciproco e mutuo scambio di esperienze.
Tuttavia, soprattutto in presenza di minori in fase pre-adolescenziale non può essere tutto sempre e solo rimesso alla buona volontà degli aspiranti genitori adottivi (singoli o in coppia), lasciati troppo spesso a cavarsela da soli.
Per favorire i percorsi adottivi di ragazzi e ragazzi in fase preadolescenziale o adolescenziale sono fondamentali le vacanze preadottive, caratterizzate da viaggi in Italia di minori (individuati dall’autorità centrale del paese di provenienza), presso possibili famiglie adottive (solitamente munite del decreto di idoneità all’adozione internazionale), durante i mesi estivi.
Si tratta di esperienze che consentono non solo la reciproca conoscenza tra i minori e i possibili genitori adottivi, ma soprattutto di vincere le reciproche paure. Tra queste ultime viene in rilievo, in via preliminare, proprio quella di andare a vivere in un paese diverso da quello in cui si è nati da parte di minori che non sono più in tenera età. Le vacanze preadottive sono, quindi, esperienze fondamentali che consentono di costruire ponti di umanità tra ragazze e ragazzi più grandi (che vedono però approssimarsi il momento in cui, con il conseguimento della maggiore età, la fuoriuscita dal circuito protettivo pubblicistico) e i possibili genitori adottivi.
Le vacanze preadottive sono, tuttavia, attualmente ferme, sebbene si tratti, forse, dell’unico strumento in grado di favorire effettivamente l’adozione dei minori più grandi. Eppure, il mondo delle adozioni internazionali ci consegna un quadro confortante in termini di professionalità e di serietà di gran parte degli enti autorizzati ex art. 39 ter legge n. 184 del 1983, così come di alcune figure di spicco (e di consolidate esperienze in ambito minorile) che operano in ambito istituzionale. Sarebbero, tuttavia, necessari protocolli operativi che coinvolgano tutte le istituzioni interessate (con la collaborazione degli enti autorizzati) e progetti concreti che dovrebbero auspicabilmente essere messi in cantiere nei prossimi anni, a decorrere dal 2026. La posta in gioco (il destino di tante ragazze e ragazzi senza una famiglia) è troppo alta, perché gli ostacoli burocratici possano bloccare progetti così importanti.
Certamente, le politiche di promozione dell’adozione internazionale non si nutrono solamente di progetti di vacanze preadottive, ma anche di incentivi che rendano effettivamente paritaria l’accessibilità all’adozione internazionale per tutti coloro (coppie o singoli) che siano dichiarati idonei ad adottare un minore straniero in stato di abbandono, a partire dalle condizioni economiche degli aspiranti genitori adottivi. Mi limito a farne un cenno in questa sede, ripromettendomi di affrontare il tema in modo più ampio in altra occasione.
Ci sono poi semplificazioni di tipo procedurale che potrebbero interessare anche le formalità successive all’emissione del decreto di idoneità all’adozione internazionale, rendendo più agile ai (futuri) genitori adottivi la preparazione della documentazione da inviare all’estero. Sul punto si registrano prassi diversificate nei diversi uffici. Basterebbero, tuttavia, anche poche modifiche regolamentari, come quella di considerare urgenti – a fronte della presentazione del decreto di idoneità all’adozione internazionale – tutti gli atti da compiere presso i Comuni (es. certificati di nascita, stato, residenza e cittadinanza, autentiche), così come l’apposizione della cd. apostille (sia nelle Prefetture che nelle Procure della Repubblica territorialmente competenti).
5. Cosa accade dopo C. cost. n. 33 del 2025
Successivamente alla pronuncia della Corte costituzionale n. 33 del 2025 si è posto il problema sul come dare attuazione a questa sentenza, che segna un punto di non ritorno in materia di adozioni internazionali.
La pubblicazione della sentenza della Corte costituzionale n. 33 del 2025 nella Gazzetta Ufficiale, consente alle persone singole di presentare domanda di idoneità all’adozione internazionale, senza alcuna dilazione. Alcuni tribunali per i minorenni (es. Milano, Venezia e Genova) hanno già provveduto ad aggiornare anche le informazioni nel loro siti web, in modo conforme alla sentenza della Corte costituzionale n. 33 del 2025.
Peraltro, le numerose ipotesi in cui la legislazione interna consentiva anche alle persone non coniugate l’adozione portano a ritenere che non ci si muova su un terreno totalmente sconosciuto agli operatori, che in precedenza si trovavano non di rado ad affrontare casi in cui una persona singola aveva instaurato un rapporto con il minore da adottare. L’aspetto innovativo – e le questioni che si pongono sul piano pratico e operativo – riguarda il fatto che l’intervento additivo della Corte costituzionale sull’art. 29 bis legge n. 184 del 1983 imporrà di valutare l’idoneità a svolgere compiti di natura genitoriale prima che sia instaurato un rapporto con il minore. Si tratterà, quindi, di costruire prassi operative che conducano alla valutazione delle persone singole e della idoneità della famiglia monoparentale (anche in ragione del contesto relazionale in cui è inserito l’aspirante genitore adottivo) ad assicurare un ambiente stabile e armonioso con il minore.
Alcuni articoli pubblicati sulla stampa o su internet, così come gli stessi resoconti degli enti autorizzati che hanno organizzato i primi corsi sulle adozioni (anche) da parte di persone singole, riportano, tuttavia, un quadro connotato da prassi ancora diversificate, da ricondurre, in parte, anche al carico gravoso della domanda di giustizia che caratterizza i tribunali per i minorenni, che devono essere dotati delle risorse necessarie a far fronte all’aumento di istanze ex art. 29 bis legge n. 184 del 1983, nell’ambito di una realtà operativa fisiologicamente caratterizzata da numerose istanze e procedimenti di carattere urgente. È pertanto necessario che i tribunali per i minorenni siano corredati delle risorse necessarie (anche in termini di personale) per far fronte (anche) alle domande di idoneità all’adozione internazionale da parte di una platea di persone sin qui esclusa.
Recentemente la Commissione per le adozioni internazionali e l’Istituto degli Innocenti di Firenze hanno dato impulso a un tavolo interdisciplinare per delineare le traiettorie del percorso di preparazione per l’adozione internazionale[19].
Un ruolo importante può – e deve - essere giocato anche dal Consiglio Superiore della Magistratura (nella ricostruzione delle prassi e nel favorire il confronto tra i ventisei tribunali per i minorenni interessati) e dalla Scuola Superiore della Magistratura nell’ambito della formazione dei magistrati.
6. Non scoraggiarsi mai, pensando a chi aspetta
Vorrei, infine, dire a tutti coloro che si accingono a presentare domanda di idoneità all’adozione internazionale di non lasciarsi scoraggiare dal riassestamento imposto ai tribunali per i minorenni dalla pronuncia della Corte costituzionale n. 33 del 2025 e dalle difficoltà che si incontrano nel percorso adottivo.
Non credo che ci sia un procedimento per la dichiarazione di idoneità all’adozione internazionale di una persona singola che potrà essere travagliato come quello che ha portato alla pronuncia di C. cost. n. 33 del 2025 (iniziato nel 2019 e concluso nel 2025), caratterizzato da ben due incidenti di incostituzionalità. Certo è che se, a seguito della prima pronuncia della Corte costituzionale che dichiarò inammissibile la prima questione di illegittimità costituzionale dell’art. 29 bis legge n. 184 del 1983 sollevata dal Tribunale per i minorenni di Firenze (C. cost. 23/12/2021, n. 252), la parte e il suo legale[20] avessero deciso di lasciar perdere e non avessero riassunto il procedimento, quando tutte le stelle sembravano avverse, la storia non sarebbe cambiata e oggi non staremmo a disquisire di prassi e di come le persone singole debbano presentare la domanda di idoneità all’adozione internazionale.
Il punto centrale, però, non è la determinazione di chi ha chiesto di essere dichiarata idonea all’adozione internazionale, ma la persona il cui destino – e, prima di tutto, il diritto a essere figlia - si è giocato all’interno di questo procedimento, pur non essendone formalmente parte. Lei ha meritato tutto questo, ha meritato ogni giorno di questi sei anni e merita tutto ciò che di bello la Vita potrà offrirle.
E allora, a tutti coloro che, grazie alla sentenza della Corte costituzionale n. 33 del 2025, si accingono ad affrontare il procedimento per la dichiarazione di idoneità all’adozione internazionale (e anche a coloro che potevano già presentarla da prima) mi resta da dire un’ultima cosa: non dimenticate mai i vostri figli, perché loro, da qualche parte, vi stanno aspettando.
Solo quando arriverete da loro e li accoglierete come figli per loro sarà, davvero, primavera.
[1] Sul sito della Corte costituzionale (www.cortecostituzionale.it) è possibile vedere - nella sezione Giurisprudenza e lavori – video e verbali di udienze - la riproduzione audiovisiva dell’udienza del 29 gennaio 2025, dove è stata discussa la causa che ha condotto alla sentenza n. 33 del 2025. Si tratta della causa n. 2, ord. n. 139/2024, rel. Emanuela Navarretta. La parte ricorrente è stata assistita e rappresentata dall’avv. prof. Romano Vaccarella.
[2] Pubblicata in G.U. – Serie Speciale – Corte costituzionale, n. 28 del 10/07/2024.
[3] La Corte costituzionale non si è occupata delle adozioni nazionali. Occorre evidenziare come il procedimento in cui è stata posta la questione di illegittimità costituzionale degli artt.29 bis e 30 legge n. 184 del 1983 aveva per oggetto la dichiarazione di idoneità all’adozione internazionale e non si occupava, affatto, di adozione nazionale.
[4] Sul tema v. V. Giorgianni, L’adozione internazionale, Trattato di diritto di famiglia (diretto da G. Bonilini), Vol. III, Milano, 2022, 673 ss.
[5] Questa triangolazione tra norma sospetta di incostituzionalità, norma costituzionale (art. 117 Cost.) e parametro interposto (norma della Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo), ormai consolidata nella giurisprudenza costituzionale, trova il proprio archetipo in due importanti pronunce della Corte costituzionale n. 348 e 349 del 2007, in tema di indennità di esproprio (in Giur. it., 2008, 565 ss., con note di B. Conforti, La Corte costituzionale e gli obblighi internazionali dello Stato in tema di espropriazione. e R. Calvano, La Corte costituzionale e la CEDU nella sentenza n. 348/2007: Orgoglio e pregiudizio?
[6] C. cost. 16/05/1994, n. 183.
[7] Non a caso C. cost. n. 33 del 2025 richiama proprio C. cost. n. 183 del 1994, v. considerato 9.4., dove si legge che: «Se, dunque, deve ritenersi che la persona singola è idonea a garantire al minore un ambiente stabile e armonioso, d’altro canto, l’esigenza, sottesa alla scelta del legislatore, di assicurare all’adottato «la presenza, sotto il profilo affettivo ed educativo, di entrambe le figure dei genitori» (sentenza n. 198 del 1986) non viene perseguita con un mezzo idoneo e proporzionato. Come si è già in passato rilevato (sentenza n. 183 del 1994), si tratta di una istanza che può giustificare «una indicazione di preferenza per l’adozione da parte di una coppia di coniugi», ma che non supporta la scelta di convertire tale modello di famiglia in una aprioristica esclusione delle persone singole dalla platea degli adottanti.» La Corte costituzionale non declina, quindi, il criterio di preferenza della coppia rispetto alla persona singola come valore fondato, in positivo, sui principi costituzionali, ma lo riconduce piuttosto ai limiti posti, in negativo, alla discrezionalità del legislatore nella selezione dei possibili genitori adottivi, secondo i principi di ragionevolezza e proporzionalità. Tale aspetto è rilevante in relazione alla disciplina sulle adozioni nazionali, rimasta fuori dal perimetro di C. cost. n. 33 del 2025. Difatti, l’eventuale intervento del Giudice delle Leggi sull’art. 6 legge n. 184 del 1983 (in assenza di un intervento, medio tempore, del legislatore) sarebbe a rime obbligate – in termini di esclusione o inclusione delle persone singole dall’adozione nazionale.
[8] Sul tema, v. G.F. Basini, Lo stato di figlio, in Trattato di diritto di famiglia (diretto da G. Bonilini), Vol. III, Milano, 2022, p. 3 ss.; M. Bianca, L’unicità dello stato di figlio, in La riforma della filiazione (a cura di C.M. Bianca), Milano, 2015, p. 3 ss.; R. Amagliani, L’unicità dello stato di figlio giuridico, in Riv. dir. civ., 2015, 554.
[9] In Famiglia e diritto, 2022, 897, con nota di M. Sessa, Stato giuridico di filiazione dell’adottato nei casi particolari e moltiplicazione dei vincoli parentali.
[10] C. cost. 85 del 2003; C. cost. n. 347 del 2005; C. cost. 252 del 2021. Sul punto v. anche supra, la nota 7.
[11] Secondo il rapporto annuale 2025 ISTAT – pubblicato il 21/05/2025 - nel 2023-2024 si contano poco meno di 16,4 milioni di nuclei familiari (formati da persone legate da una relazione di coppia o di tipo genitore-figlio celibe/nubile): poco meno della metà sono coppie con figli (47,9 per cento), mentre le coppie senza figli costituiscono il 33,7 per cento e i nuclei costituiti da genitori soli il 18,4 per cento. Le famiglie monogenitoriali sono poco più di tre milioni, costituite per l’80,2% da madri single.
[12] M. Bianca, La Corte costituzionale e l’apertura dell’adozione alle persone singole. Un modello unico di famiglia monoparentale fondato sulla triade valoriale: autodeterminazione, solidarietà e interesse del minore, in questa Rivista, 06/05/2025; M. Acierno, L'autodeterminazione non egoista secondo la Corte costituzionale, in Questione Giustizia; C. Trapuzzano, Adozione internazionale: legittima l’adozione dei single, in Quotidiano Giuridico, 26/03/2025; A. Figone, Anche i single posso accedere all’adozione internazionale di minori d’età: lo dice la Corte costituzionale, in IUS Famiglie, 25/03/2025.
[13] Anche le iniziative parlamentari per la modifica dell’art. 6 legge n. 184 del 1983 non sono riuscite – nonostante lo sforzo delle proponenti, quasi sempre donne – a creare un vero e proprio dibattito. Per una rassegna sulle iniziative legislative che si sono succedute v. E. Pesce, La lunga marcia verso l’adozione piena da parte del single: una decisione originale, in Famiglia e diritto, 2018, 157 ss.
[14] Tra le poche persone che recentemente (prima della storica pronuncia della Corte costituzionale) hanno affrontato il tema della decrescita delle adozioni - anche con puntuali riferimenti a dati statistici – si possono citare Ferruccio de Bortoli (Il crollo delle adozioni, le voci (angosciate) delle famiglie, in www.corriere.it, 16/01/2025), Marta Camilla Foglia (Adozioni in Italia: tutti gli ostacoli che le scoraggiano, in www.corriere.it), Milena Gabanelli (Dataroom sulle adozioni, in www.corriere.it), Stefania Vadrucci (Crollo delle adozioni internazionali, deve cambiare il sistema, in Alley Oop, Sole24ore, 09/05/2024).
[15] Sotto tale profilo può essere fatta una comparazione limitatamente alle coppie sposate da almeno tre anni - le uniche che possono accedere sia all’adozione, nazionale e internazionale che a tecniche di procreazione medicalmente assistita (quest’ultima aperta anche alle coppie di fatto che non possono, invece, presentare domanda di adozione, v. art. 6 legge n. 184 del 1983 e art. 5 legge n. 40 del 2004) - per evidenziare come i costi di accesso alle tecniche di PMA – con un ticket di poche centinaia di euro – non siano affatto comparabili con i costi di un’adozione internazionale. Ciò rende evidente come, in realtà, il fattore economico possa condizionare (non poco) la scelta di chi, attualmente, ha la possibilità di accedere a tecniche di PMA e di presentare domanda di idoneità all’adozione internazionale o la propria disponibilità per l’adozione nazionale.
I dati dell’Istituto superiore di sanità evidenziano, nel 2022, 109.755 cicli di PMA (https://www.epicentro.iss.it/pma/aggiornamenti#:~:text=In%20Italia%2C%20nel%202021%2C%20sono,tramite%20iniezione%20di%20spermatozoo%20in). Non è questa la sede per un confronto incrociato sui dati delle adozioni internazionali e quelli delle PMA, nel periodo 2004-2022 (prendendo come anno di partenza quello dell’entrata in vigore della legge n. 40 del 2004). Tanto più che i requisiti di accesso alle tecniche di PMA – attualmente limitata solamente alle coppie – non coincidono con quelli previsti nell’art. 6 legge n. 184 del 1983. A decorrere da C. cost. n. 33 del 2025 per quanto riguarda le adozioni internazionali dovranno essere considerate anche le persone singole (che non possono, invece, accedere alla PMA, v. C. cost. 22/05/2025, n. 69). In assenza di dati statistici che possono far comprendere i diversi percorsi di genitorialità, l’unica considerazione che è possibile fare è che la scelta di ricorrere all’adozione piuttosto che alle tecniche di PMA non dovrebbe essere condizionata da fattori economici.
[16] È interessante l’etimologia del termine adozione che deriva dal latino adoptare, formato dal prefisso ad e dal verbo optare, che significa scegliere.
[17] C.M. Bianca, Audizione alla Commissione Giustizia della Camera dei deputati in data 23 maggio 2016. Si legge nel resoconto: «Ripeto ciò che è stato peraltro già rilevato altre volte anche in questa sede: il discorso sulla revisione dell’adozione non deve essere impostato, come da qualche parte si afferma, sull’ipotetico diritto alla filiazione o specificamente sul diritto ad adottare. La prospettiva deve essere rovesciata, perché ciò che va tutelato in via primaria è il diritto del minore a essere adottato. Questo non vuol dire che non ci sia e non sia giuridicamente rilevante l’interesse ad adottare. Certamente questo è un interesse giuridicamente rilevante e tanto più importante se, come è stato detto– scusatemi, ma devo citare Mirzia Bianca– la matrice dell’adozione è una matrice solidaristica.»
[18] La Commissione per le adozioni internazionali, dopo C. cost. n. 33 del 2025, ha svolto un imponente lavoro di aggiornamento del sito www.commissioneadozioni.it, per aggiornarlo con le informazioni relative ai paesi in cui sono consentite le adozioni da parte di persone singole.
[19] Sul punto v. https://www.commissioneadozioni.it/notizie/al-via-un-nuovo-percorso-formativo-per-gli-aspiranti-genitori-adottivi-per-le-adozioni-internazionali/. L’obiettivo è quello di «costruire modalità condivise, coerenti e aggiornate per la formazione degli aspiranti genitori adottivi, attraverso una metodologia partecipativa e interdisciplinare, che prevede il confronto multidisciplinare tra operatori socio-sanitari, magistrati, enti autorizzati ed esperti del settore, tenendo conto anche delle recenti evoluzioni normative e giurisprudenziali, tra cui la sentenza n. 33/2025 della Corte costituzionale.»
[20] Si tratta dell’Avv. Prof. Romano Vaccarella.
Immagine: Karl Wilhelm Friedrich Bauerle, Padre e figlio, 1880, olio su tela, cm 54×65, Southwark Heritage Centre, Londra.
Appena venuta alla luce, la pronunzia della Consulta concernente la sorte delle persone trattenute nei CPR ha subito animato un fitto dibattito tanto tra gli studiosi quanto in seno agli operatori (in ispecie ai giudici) che – è facile previsione – si espanderà rapidamente a macchia d’olio coinvolgendo una cerchia sempre più larga di commentatori.
La pronunzia appartiene di sicuro al genus delle decisioni d’incostituzionalità accertata ma non dichiarata; presenta, però, un tratto caratterizzante che la distingue da altre a questa pure, per taluni aspetti, simili in passato adottate. Più volte infatti – come si è ampiamente rilevato in dottrina[1] – si è fatto ricorso al “tipo” di decisione in parola all’esito di un’operazione di “bilanciamento” tra costi e benefici discendenti dall’eventuale caducazione della norma portata alla cognizione del giudice delle leggi; e, assumendo quest’ultimo, che i primi superino, talora di gran lunga, i secondi, si preferisce far luogo ad un verdetto che non aggravi ulteriormente il vulnus recato alla Carta costituzionale, quale invece si avrebbe per effetto della caducazione stessa[2]. Non si trascuri, perciò, che talora il vuoto di disciplina può essere ancora più incostituzionale del mantenimento della stessa o può portare alla “reviviscenza” di discipline risalenti esse pure, per ragioni varie, di problematica compatibilità con il dettato costituzionale o, come che sia, inidonee a dare appagamento a bisogni elementari della persona umana, a partire da quello – indisponibile – della salvaguardia della propria dignità.
Insomma, per dura che possa essere da digerire, la “logica” è quella del male minore.
È chiaro che la Corte perviene a quest’esito nell’assunto, da cui la stessa muove, che non le sia consentito mettere in atto una manipolazione del testo di legge, avendosene altrimenti una invasione del campo materiale riservato al legislatore e, dunque, una incisione dell’apprezzamento discrezionale di quest’ultimo, cui la Corte reputa di non poter appunto nella circostanza sovrapporre il proprio.
Ora, sul limite della discrezionalità del legislatore si è – come si sa – molto discusso e si potrebbe discutere ancora a lungo. Non è un caso, d’altronde, che in relazione a talune vicende in cui erano in gioco diritti fondamentali della persona, rimasti inappagati a causa del grave e perdurante letargo del legislatore, la Corte, magari dopo un iniziale rigetto della medesima questione accompagnato da un monito severo indirizzato al legislatore stesso, abbia rotto ogni indugio e fatto quindi luogo ad una sostanziale riscrittura di un testo normativo mal fatto, la cui incompatibilità rispetto alla legge fondamentale della Repubblica era già stata appunto acclarata ma non dichiarata.
Il caso odierno appare, tuttavia, essere parzialmente diverso. La disciplina legislativa c’era già da tempo. Solo che, muovendo dall’assunto che nella vicenda de qua si sia in presenza di una limitazione della libertà personale, i “casi” al ricorrere dei quali la limitazione stessa può aversi risultano sufficientemente normati, mentre fa difetto la determinazione dei “modi” con i quali la libertà in parola può essere compressa. La disciplina positiva, insomma, si articola in due parti, l’una giudicata congrua, l’altra priva di riscontro alcuno in fonti normative di rango primario.
Non si è, dunque, in presenza di alcun “bilanciamento”, nel senso sopra precisato, che investa l’intera disciplina sub iudice. C’è l’accertamento di una invalida omissione legislativa, parziale e però – a dire della Corte – non rimediabile a mezzo degli strumenti processuali che la Corte stessa si è forgiata e che ha con il tempo progressivamente arricchito ed affinato.
La disciplina, in realtà, si ha ma – come si dirà a momenti – non risponde alle indicazioni dell’art. 13 Cost.; e, in quanto proveniente da una fonte priva di valore di legge, non avrebbe potuto (e, così com’è, non potrebbe) essere caducata in sede di giudizio sulle leggi ed atti a queste equiparati.
Si ha qui un meccanismo, dal legislatore molte volte allestito nei campi più varî di esperienza ed in relazione alle parimenti più varie esigenze di regolazione, che somiglia alle classiche scatole cinesi, ovverosia – ove si preferisca ricorrere ad altra immagine – si ha una “catena” di atti, normativi prima e di amministrazione poi, strutturalmente e funzionalmente connessi e conducenti alla produzione di un unico, finale effetto. Per dir meglio, è chiaro che ogni atto ha un proprio effetto, non concependosi alcun atto che ne sia privo così come, circolarmente, nessun effetto che non consenta di risalire alla fonte che lo produca. Ciò che, però, maggiormente conta è l’effetto globale, unitario appunto, della “catena”.
Occorre, dunque, vedere come gli atti evocati in campo dal caso qui specificamente interessante si compongano in unità significante.
Giusta la premessa secondo cui il “trattenimento dello straniero presso centri di permanenza e assistenza comporta una situazione di ‘assoggettamento fisico all’altrui potere’” (Corte cost. n. 96 del 2025, p. 9 del cons. in dir., ed ivi richiami di giurisprudenza anteriore), risulta di conseguenza avvalorato il carattere restrittivo[3] della libertà personale e, con esso, la natura assoluta della riserva di legge cui l’art. 13 rinvia in ordine alla disciplina dei “casi” e dei “modi” di limitazione della libertà stessa.
Qui, per vero, la pronunzia della Corte parrebbe non essere esente di qualche oscillazione, dal momento che, per un verso, parrebbe accontentarsi di una regolamentazione con legge dei “modi” stessi “nel loro nucleo essenziale” (p. 10.1 del cons. in dir.), mentre per un altro verso sollecita la legge a dare una “disciplina compiuta” (si direbbe, perciò, ben oltre il “nucleo”…), comunque idonea ad assicurare “un’adeguata base legale” ad alcune istanze dalla stessa Corte in via esemplificativa indicate, in relazione “alle caratteristiche degli edifici e dei locali di soggiorno e pernottamento, alla cura dell’igiene personale, all’alimentazione, alla permanenza all’aperto, all’erogazione del servizio sanitario, alle possibilità di colloquio con difensore e parenti, alle attività di socializzazione” (p. 11 del cons. in dir.).
Ebbene, tutto ciò non si ha in forza di quanto disposto dall’art. 14, II c., d.lgs. n. 286 del 1998, che rimanda all’art. 21, VIII c., d.P.R. n. 394 del 1999, il quale a sua volta rimanda per la determinazione dei servizi da assicurare alle persone trattenute nei CPR a misure adottate dal prefetto, sentito il questore, e in esecuzione di direttive impartite dal Ministro dell’interno.
La “catena”, dunque, si compone di un atto avente forza di legge solo per il suo “anello” iniziale, di una fonte di secondo grado per l’“anello” centrale e, quindi, di “anelli” risultanti da provvedimenti amministrativi: è, insomma, una “catena” mista, risultante da atti di normazione, aventi grado diverso, e da atti di amministrazione.
Stando così le cose, lo scostamento dal disegno costituzionale appare evidente ed avrebbe pertanto meritato una conclusione ben diversa da quella cui è pervenuta la Corte.
Se la riserva di legge posta nell’art. 13 è di tipo assoluto (e non si ha motivo di dubitare che sia così), nessuna manipolazione del dettato legislativo è qui possibile, dal momento che sarebbe comunque fuori bersaglio. Il marcio è, infatti, nella disciplina sublegislativa, specificamente nella parte in cui individua nel prefetto, e non già nel giudice, l’organo competente a porre in essere le misure che riguardano le persone trattenute nei CPR. Solo che, risultando la disciplina stessa da fonte di secondo grado, nessuna pronunzia manipolativa (nella specie, sostitutiva) può riguardarla, risultando pertanto immune dall’opera sanatoria della Corte.
L’opposta soluzione potrebbe essere accolta unicamente a ragionare nel senso che la fonte di primo grado abbia fatto luogo ad un rinvio ricettizio della fonte secondaria. Viene, però, assai arduo immaginare che, specie in una materia quale questa in cui si fa questione di limitazioni alla libertà personale, la legge o atto equipollente ci abbia consegnato una pagina bianca da riempire a piacimento da parte di un futuro atto di secondo grado. Cosa diversa sarebbe stata se il rinvio ricettizio fosse stato fatto nei riguardi di una disciplina già conosciuta dal legislatore e da questi giudicata appunto idonea ad assicurare il rispetto delle condizioni poste dalla Carta costituzionale.
Il difetto di una normazione concernente profili della disciplina legislativa dalla Carta stessa considerati essenziali, allo stesso tempo in cui rende viepiù evidente l’obbligo del legislatore di attivarsi con la massima sollecitudine per colmare la lacuna legislativa acclarata dalla Corte, non consente, per l’intanto, soluzione alcuna diversa da quella della impossibilità di mettere in atto qualsivoglia misura limitativa della libertà personale.
Di cristallina chiarezza ai miei occhi appare, dunque, la conclusione del giudice della sezione specializzata della Corte d’appello di Cagliari, Sez. distaccata di Sassari (N.R.G. 290/2025 del 4 luglio 2025): “in assenza di quella determinazione dei ‘modi’ della detenzione, non ‘ancora’ disciplinati dal legislatore con fonte primaria, non può che riespandersi il diritto alla libertà personale, il cui vulnus è chiaramente espresso dalla Consulta, perché qualunque ‘modo’ non disciplinato da norma primaria non riveste il crisma della legalità costituzionale ed è legalmente inidoneo a comprimerla”.
[1] Riferimenti possono, volendo, aversi da A. Ruggeri - A. Spadaro, Lineamenti di giustizia costituzionale7, Giappichelli, Torino 2022, spec. 227.
[2] Insomma, è come nei casi di accertamento implicito di colpevolezza contenuto nell’involucro di una pronuncia formalmente proscioglitiva, cosa che può avvenire per varie ragioni (estinzione del reato, mancanza di una condizione obiettiva di punibilità, ecc.).
[3] … e, persino, privativo, stando ai criteri elaborati dalla Corte EDU sin dal caso Asinara.
Sommario: 1. Una svolta epocale: affidarsi al fato o sfidare la sorte? - 2. L’addetto all’Ufficio per il Processo: da figura ibrida a “responsabile paragiurisdizionale del procedimento” – 3. Conclusioni.
1. Una svolta epocale: affidarsi al fato o sfidare la sorte?
Il Fato, termine di origine latina, derivante dal verbo fari, che significa "dire", "parlare", al participio passato neutro si declina in fatum, che vuol dire "ciò che è stato detto" o "la parola detta”, intendendosi dalla divinità, insomma un susseguirsi degli eventi a cui ci si deve adeguare ed è inutile tentare di sottrarsi.
E infatti, in età più matura, lo stesso termine fu usato per designare il Destino, in quanto necessità suprema e ineluttabile o potere misterioso e incontrastato[1], figlio del Caos e della Notte, al quale nessuno, nemmeno gli dei, potevano sottrarsi e di cui persino Giove non ne è che un esecutore.
Facendo un passo indietro, nei poemi omerici il destino è indicato da Moira, che letteralmente indica "parte" di vita, di felicità o di sfortuna, che è assegnata all'uomo.
Dietro il termine "destino" si nascondeva il timore che l'uomo provava dinanzi all'ignoto. Il fato è irrevocabile, mentre il destino può essere cambiato. L'uomo si è sempre interrogato sulla sua condizione di essere mortale; un esempio attuale è quello del Covid19 (coronavirus), che ci ha dimostrato che non si può nulla contro un evento imprevisto e preparato dal caso, come un'epidemia.
Anche nell’epoca latina ancora influenzata dal pensiero greco, tuttavia, non mancarono scettici razionalisti come Appio Claudio Cieco, secondo cui homo faber fortunae suae, espressione propria di un periodo di forte espansione del potere di Roma.
Ora, com’è ormai noto e diffuso nella letteratura scientifica, l’Ufficio per il Processo, nato invero da norme risalenti nel tempo[2], e il cui destino, nonostante iniziative pregevoli portate avanti a macchia di leopardo su e giù per l’Italia[3], era quello di un complessivo affievolimento, ha conosciuto, invece, a seguito del periodo pandemico, un rilancio attraverso il PNRR e nello specifico tramite la legge 26 novembre 2021, n. 206 e la legge 27 settembre 2021, n. 134, ciò oltre alle norme per il reclutamento straordinario di risorse utili all’attuazione dello stesso piano nazionale previste nel decreto - legge 9 giugno 2021, n. 80 - Misure urgenti per il rafforzamento della capacità amministrativa delle pubbliche amministrazioni funzionale all'attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) e per l'efficienza della giustizia - convertito con modificazioni dalla L. 6 agosto 2021, n. 113 e in ultimo grazie al D. Lgs. 151/2022.
Il Piano si è proposto l’ambizioso obiettivo di concorrere al “rafforzamento della capacità amministrativa del sistema, che valorizzi le risorse umane, integri il personale delle cancellerie, e sopperisca alla carenza di professionalità tecniche, diverse da quelle di natura giuridica, essenziali per attuare e monitorare i risultati dell’innovazione organizzativa; il potenziamento delle infrastrutture digitali con la revisione e diffusione dei sistemi telematici di gestione delle attività processuali e di trasmissione di atti e provvedimenti”[4].
Appare allora il caso di soffermarsi solo sulle novità introdotte dall’ultimo intervento normativo che, anche correggendo il tiro delle precedenti indicazioni, hanno in qualche maniera cristallizzato e strutturato l’Ufficio per il Processo.
L’art. 1, comma 18 della legge delega 26 novembre 2021, n. 206 sulla riforma della giustizia civile ha previsto l’istituzione in via stabile, presso tutti gli uffici giudiziari, sia civili che penali, dell’Ufficio per il processo. La scelta è indicativa della volontà di assegnare all’organizzazione una funzione centrale e trasversale nella giustizia ordinaria e amministrativa[5].
L’istituto raggiunge “finalmente” una stabilità sistematica, collocandosi fermamente fra le risorse che concorrono allo svolgimento della funzione giudiziaria, in particolare con gli artt. 16, 17, 18 e 19 delle disposizioni finali e transitorie del d. lgs n. 151/2022.
Nell’ottica di sistematicità il più importante appare l’art. 18 che introduce nel codice di procedura civile (capo II del titolo I del libro I) l’art. 58 - bis che riconosce all’ufficio per il processo la dignità di struttura stabile e indispensabile per l’esercizio della giurisdizione, allontanando le preoccupazioni di un eventuale abbandono o indebolimento dell’istituto (con dispersione delle ingenti risorse per esso investite), dopo il raggiungimento degli obiettivi di accelerazione e abbattimento dell’arretrato imposti per la dead line del 2026 [6].
Le disposizioni generali, contenute nel capo I, meritano un’attenta analisi perché puntualizzano alcuni aspetti dai quali traspare l’importanza assegnata alla struttura organizzativa, per un salto non solo quantitativo ma anche qualitativo della giurisdizione.
Infatti, nelle disposizioni generali (art. 2), tra le finalità dell’UPP si prevede la realizzazione del principio costituzionale della ragionevole durata del processo[7] (art. 111 Cost.) attraverso l’innovazione dei modelli organizzativi e un più efficiente impiego delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, con ciò prospettando come risorsa indispensabile la digitalizzazione[8].
La direzione e il coordinamento degli uffici per il processo e dell’ufficio spoglio, analisi e documentazione sono affidati ai capi degli uffici, ai quali viene attribuito il compito di predisporre il progetto organizzativo, definire le priorità di intervento, gli obiettivi da perseguire e le azioni per realizzarli, nonché di individuare, di concerto con il dirigente amministrativo, il personale da assegnare agli UPP (art. 3).
Il successivo art. 4 elenca le figure professionali che andranno a costituire gli uffici per il processo e gli uffici spoglio, analisi e documentazione, e precisa che ciascun componente svolge i compiti attribuiti secondo quanto previsto dalla normativa, anche regolamentare, e dalla contrattazione collettiva relativa alla figura professionale di appartenenza.
Il capo II del decreto in esame tratteggia i compiti dei componenti dell’ufficio per il processo e dell’ufficio spoglio, analisi e documentazione, distinguendo a seconda della tipologia di ufficio giudiziario. Nella descrizione, il legislatore delegato (art. 5, comma 1) ha utilizzato la formulazione «sono attribuiti uno o più fra i seguenti compiti»: tale espressione induce a ritenere che l’elencazione delle attività sia tassativa e non meramente esemplificativa.
Al riguardo, si osserva che la previsione del successivo art. 11 – che prevede che gli UPP e gli uffici spoglio debbano svolgere «anche le ulteriori attività di supporto all’esercizio della funzione giudiziaria e di raccordo con le cancellerie e i servizi amministrativi degli uffici giudiziari, previste dai relativi documenti organizzativi» – impone un coordinamento fra le due norme, in quanto i progetti organizzativi costituiscono un riferimento centrale per la valorizzazione delle attività degli UPP che potranno, però, svolgersi solo all’interno della elencazione prevista dall’art. 5.
Insomma, viste le norme che precedono, potremmo iniziare a pensare che in questo caso, dopo anni di ritardi, accumulo di processi di vecchia data a scapito anche della qualità dei provvedimenti giurisdizionali, l’Italia abbia battuto un colpo e abbia deciso di non abbandonarsi al fato ma di incidere sul proprio destino.
Questa spinta si è concretizzata innanzitutto in un ingente afflusso di risorse umane, circa dodicimila assunzioni[9] ma anche in una riorganizzazione dell’attività giurisdizionale.
Il singolo magistrato non è più un’isola ma è la punta di diamante di un team che si organizza e gestisce in funzione della migliore risposta da dare alla richiesta di giustizia.
Ma in questa nuova organizzazione una nuovissima figura si è affacciata, l’addetto all’Ufficio per il Processo, cui è stato anche dato il maggior peso numerico nelle fasi assunzionali, oltre novemila nuove unità: basterà il solo apporto numerico a migliorare le performances degli uffici giudiziari?
2. L’addetto all’Ufficio per il Processo: da figura ibrida a “responsabile paragiurisdizionale del procedimento”
Già nel settembre 2022, a pochi mesi dall’entrata in funzione del “nuovo” Ufficio per il Processo, prima che giungesse un aggiornamento normativo, l’articolo a firma del Presidente di Cassazione Raffaele Frasca[10], con straordinaria e lucida lungimiranza, poneva il problema, e ne forniva una dirimente interpretazione, della figura e della gestione c.d. “ibrida”[11] dell’Addetto all’Ufficio per il Processo.
Invero, prima che le norme rassegnate nel paragrafo precedente vedessero la luce, l’autore si era trovato ad affrontare l’esigenza che l’Addetto fosse, anche per dar seguito al raggiungimento degli obiettivi PNRR, impiegato appieno nell’attività di supporto alla funzione giurisdizionale attraverso i seguenti sintetici compiti: “l’addetto partecipa, sotto la supervisione del presidente di sezione o di altro magistrato, allo spoglio delle nuove iscrizioni, allo studio del fascicolo, alla predisposizione di schemi e di bozze di provvedimenti semplici, alla preparazione dell’udienza e al controllo delle notifiche, alla analisi dei ruoli per verificare serialità di procedimenti, scadenze imminenti e così via”.
Si sosteneva, inoltre, mi perdonerà l’autore la sintesi del testo, che, da una parte la funzione di “raccordo con le cancellerie” attribuita prima facie mediante circolari ministeriali[12] e, dall’altra, il gruppo di mansioni prettamente di assistenza all’azione giudiziaria, collidessero tra loro e che dovesse darsi prevalenza alla seconda funzione, giacché più chiara espressione delle intenzioni del legislatore e dell’intento di sostegno al piano emergenziale. Si sosteneva, infine, che vi fosse un angolo riservato al controllo del lavoro degli AUPP appannaggio del dirigente amministrativo ma limitato agli aspetti prettamente organizzativi del personale quali, ad esempio, gestione delle presenze, articolazione dell’orario di lavoro, concessione di benefici previsti dalle norme di contrattazione collettiva, permessi e ferie, attribuzione dei buoni pasto ecc.
Il D. Lgs. 151/2022, all’art. 11, pone questa norma di chiusura che, per quanto dal carattere ampio e residuale, “…le ulteriori attività di supporto all’esercizio della funzione giudiziaria…”, è precisa nell’escludere che il funzionario AUPP possa in qualche misura essere precipuamente adibito a funzioni proprie di cancelleria ma, si precisa, che lo stesso possa svolgere solo una funzione di raccordo con le cancellerie e i servizi amministrativi.
Inoltre, come evidenziato nel precedente paragrafo, il testo di legge ha riaffermato la funzione di raccordo ma ha posto delle norme che appaiono in contrasto tra loro lasciando non chiaro l’orizzonte di impiego di tali risorse, soprattutto in termini di ponderazione del lavoro tra le due sponde dell’organizzazione giudiziaria (amministrativa/giudiziaria).
La pratica ci ha insegnato che quanto poc’anzi teorizzato spesso non è avvenuto: sono molteplici le esperienze, nelle varie sedi giudiziarie, che hanno visto impiegato il personale AUPP per svolgere funzioni prettamente di cancelleria. In tal senso è emblematico che addirittura esista in dottrina l’enucleazione di un modello organizzativo dell’Ufficio per il Processo denominato “Supporto alla Cancelleria”[13] applicato in quelle sedi giurisdizionali dove l’AUPP svolge per lo più compiti di supporto alla cancelleria (laddove vi sia carenza di personale di cancelleria) distogliendolo dal supporto all’attività giurisdizionale dei magistrati[14].
Con una sintesi che potrà apparire poco romantica possiamo affermare: di essere di fronte a un lavoratore inquadrato in area terza - contratto personale amministrativo del Comparto Funzioni Centrali, la cui figura professionale è definita per legge ma non ancora contrattualmente recepita e declinata; questo lavoratore, in teoria dipende per tutti gli aspetti amministrativi dalla dirigenza amministrativa ma la gestione, intesa come collocazione della risorsa all'interno dell'unità organizzativa finalizzata a un risultato, intesa come assegnazione specifica dei compiti e delle mansioni quotidiane, dell’attività lavorativa e delle specifiche sue declinazione, è prevalentemente assegnata a magistrati, come si deduce, senza mezzi termini dall'art. 3, comma 2 del D. Lgs. 151/2022: “Il capo dell’ufficio…dirige e coordina l’attività degli uffici per il processo…”[15].
La soluzione a una tale dicotomia è quella opportunamente suggerita dalla Dirigente della Corte di Appello di Brescia, Antonella Cioffi[16], la quale richiede di porre la questione sotto l’ottica della “dirigenza integrata” in quanto è demandato al capo dell’ufficio il governo della giurisdizione, la sua organizzazione e la definizione dei suoi obiettivi, restando in capo alla dirigenza amministrativa governare e organizzare le risorse necessarie all’esercizio della giurisdizione.
Dunque, chiarito che l’Addetto all’Ufficio per il Processo debba rivolgere il grosso della propria attività lavorativa al servizio dell’azione giurisdizionale, resta da indagare come possa fornire il proprio apporto e allora quale possa essere la natura di questo apporto.
Da parte di alcuni[17]occorre procedere rivolgendo specifiche politiche pubbliche, in questo caso appunto quella sviluppata in capo all’Ufficio per il processo, con un focus ancor più attento sul risanamento organizzativo e innovativo degli uffici giudiziari. Tale riforma ha previsto, e ne va sfruttata l’opportunità, un supporto diretto all’attività giurisdizionale ponendosi in quella zona “grigia” tra azione amministrativa e azione giudiziaria, coprendo un vuoto che era avvertito e cercando quindi di operare un raccordo funzionale tra le rispettive attività. È pur vero, a riguardo, come già accennato sopra, che spesso si è insistito sul rafforzamento della capacità amministrativa, mentre è evidente che l’azione deve essere diretta, nella sua potenza innovativa, alla trasversalità organizzativa, integrando la collaborazione tra le diverse posizioni, tutte dirette a migliorare efficacia, efficienza ed economicità nell’erogazione dei servizi di giustizia[18].
Potremmo, forse, allora affermare che l’efficienza della giustizia debba passare per il “nuovo” Ufficio per il processo solo se questo sarà in grado di coniugare organizzazione, attività e professionalità diventando così il baricentro dell’azione giudiziaria globalmente intesa (parte giurisdizionale e amministrativa insieme), divenendo così una sorta di “responsabile del procedimento giudiziario”, mutuando il notorio istituto giuridico del responsabile del procedimento amministrativo che negli anni novanta stravolse positivamente il mondo della pubblica amministrazione italiana.
È apparso allora a molti autori e addetti ai lavori[19] che la soluzione non si trovi nella regola del processo[20] ma piuttosto che sia stata opportuna la scelta del legislatore di intervenire sui distinti livelli della revisione della struttura giudiziaria e amministrativa attraverso la valorizzazione del ruolo delle persone, delle infrastrutture digitali, con evidente impatto sull’agire informato e la velocizzazione della trasmissione delle informazioni, e perfino dell’edilizia giudiziaria.
In questo rinnovato quadro l’Ufficio per il Processo è il modulo organizzativo e il fenomeno pratico in grado di avverare il cambiamento e il funzionario addetto all’ufficio è l’anello di congiunzione delle diverse funzioni e competenze che permette concretamente di realizzarlo. Nello svolgimento delle sue funzioni, infatti, l’addetto all’ufficio dovrebbe preparare il materiale utile al giudice per una più celere organizzazione delle sue attività; coadiuvarlo nella programmazione dell’agenda anche in considerazione delle diverse tipologie di udienza; verificare il prospetto dinamico delle cause pendenti nel ruolo del giudice, attraverso adeguate tecnologie; tenere un monitoraggio delle cause pendenti a seconda della natura della controversia, dell’oggetto della domanda e della fase processuale; creare una tassonomia dei provvedimenti giudiziari al fine di utilizzare celermente i relativi modelli; elaborare un cronoprogramma delle attività sempre aggiornato per rendere rapida, funzionale, ordinata la raccolta dei materiali, lo studio del caso, la predisposizione dei modelli e la redazione delle bozze di provvedimento.
Ferma restando la consapevolezza della, costituzionale, completa autonomia e indipendenza della magistratura e, dunque, della funzione giudicante, non si può escludere che l’attività di case management, ovvero di preparazione del processo, per tradizione svolta più o meno consapevolmente solo dal giudice, possa essere condivisa e oggetto di collaborazione[21].
In quest’ottica, ci suggerisce la Prof.ssa Paola Lucarelli, nel suo saggio Giustizia Sostenibile[22], risulta indispensabile la formazione di una nuova professionalità, quella del funzionario addetto all’ufficio per il processo che fin dagli studi universitari[23] possa acquisire le conoscenze relative agli uffici giudiziari, apprendere le basi della statistica, dell’informatica, dell’organizzazione aziendale, anche nel percorso di studio del diritto, appropriarsi, dunque, della cultura della giustizia sostenibile, efficiente e di qualità[24].
In quest’ottica di apertura e di innovazione vi è anche chi ha suggerito una delega ai funzionari di compiti “paragiurisdizionali”[25] per l'attuazione e lo sviluppo del Processo Civile Telematico, nella triplice direzione della comunicazione tra i soggetti del processo, della conduzione dell'udienza "informatizzata" e della dotazione a giudici e cancellerie di strumenti di analisi dei ruoli per la più consapevole ed efficace gestione del contenzioso. La valorizzazione delle risorse telematiche, liberando energie oggi malamente o impropriamente utilizzate costituisce anche la premessa di un generale processo di riqualificazione professionale che, come si diceva poc’anzi, potrebbe anche portare alla delega, ai funzionari UPP, di eventuali e limitati compiti di natura paragiurisdizionale, alla stregua di quanto già accade in ambito europeo,[26] verosimilmente laddove si tratti di produrre provvedimenti prettamente schematici, caratterizzati da ripetitività e automatismo (si pensi ad esempio ai decreti di liquidazione degli onorari e a tutti quei provvedimenti che si sviluppano su presupposti prettamente aritmetici).
3. Conclusioni
Questi primi tre anni passati dall’avvio del rilancio dell’Ufficio per il Processo ci permettono un’analisi più ampia e sistematica, passando dal crudo dato normativo previsionale, formale e freddo, al dato vivo dell’esperienza sul campo.
I dati del monitoraggio pubblicati nel 2025 ci rivelano che l’obiettivo intermedio è stato invero raggiunto, per lo smaltimento delle pendenze civili più risalenti, previsto per la fine del 2024. Nelle Corti d’appello l’arretrato del 2019 è praticamente eliminato. Tuttavia, il trend positivo che aveva caratterizzato i primi due anni ha subito un leggero rallentamento, quantomeno nell’ambito civile. Il massiccio apporto di risorse operato in questi anni da solo non basta.
Bene le competenze e la preparazione tecnica dei nuovi assunti ma occorre andare oltre e con l’ausilio di validi insegnanti è necessario formare lavoratori e professionisti che svolgono ruoli aperti e si identificano in professioni a larga banda: ciò è necessario, ma non sufficiente. La formazione deve essere continua e deve formare persone vere, capaci di vivere bene e non solo di lavorare bene, persone integrali, che forniscano alla propria missione un valore aggiunto, che si sentano parte di un gruppo e che avvertano il proprio lavoro come parte di un progetto finalizzato a un obiettivo grande e ambizioso.
La direzione è quella che va verso la creazione di persone che non siano un’incarnazione dell’animal laborans, ma espressione dell’homo faber[27], di cui all’incipit iniziale, ossia persone che non siano esaurite nell’oggetto prodotto o nel servizio fornito ma l’insieme di un progetto che sappia creare valore aggiungendo a un’attività basica la capacità di migliorare l’ambito in cui si sta operando[28].
E migliorare il proprio ambito, nell’ambiente giustizia, significa andare oltre le difficoltà e i limiti di un sistema che deve innovarsi per migliorare e soprattutto non ricadere più negli errori del passato, affinché il Piano Nazionale non sia solo una soluzione temporanea ai problemi della giustizia ma incida strutturalmente nel cambiamento dell’organizzazione della giustizia e ne istituisca il definitivo superamento delle più grosse criticità. Il Piano nazionale deve essere l’occasione per creare un nuovo modello di gestione della giustizia. La strada è stata intrapresa, il legislatore ne ha posto le fondamenta arricchendo i codici procedurali di questa nuova modalità di organizzazione dell’ufficio giudiziario e da qui, non si può più tornare indietro.
Il futuro dell’Ufficio per il Processo è oltre il PNRR, occorre spostare l’attenzione dalla sterile analisi dei – pur fondamentali – flussi dei dati, a quella della organizzazione e della qualità della giurisdizione[29].
Se, come detto, i nuovi funzionari UPP possono e devono radicare la propria presenza per un apporto baricentrico all’interno dell’insieme delle procedure amministrativo/giudiziarie che interessano il processo (lato sensu inteso) dall’altro lato tale apporto si compie solo con la fattiva collaborazione e il cambio di paradigma che interessa il lavoro del giudice. E su questa via a dire il vero la magistratura si è mostrata non solo propulsiva ma anche entusiasta, esprimendosi positivamente oltre che sul campo anche in tutte le occasioni pubbliche in cui ha apprezzato che, dopo tanti anni, una nuova, forte riforma potesse essere attuata e non dovesse passare solamente dal cambiamento delle regole del gioco (ergo le norme procedurali).
È allora certamente questo il momento, questa la sliding doors, a un anno dalla fine dell’apporto del PNRR, per non abbandonarsi al fato ma incidere e costruire il proprio destino, operando definitivamente il cambiamento in atto e avendo il coraggio di innovare andando anche oltre le attuali previsioni normative.
L’attuale percorso risulta tortuoso, l’ibridazione di cui si è detto lascia dubbi e incertezze interpretative, l’apporto del funzionario UPP appare incompleto se, per ogni adempimento che questi si appresta a portare avanti, sia sempre necessaria la supervisione e la definitività del lavoro del magistrato. Così facendo, pur avendo “liberato” in buona parte la risorsa giudicante/requirente per dedicarla al cuore della propria attività, risulta comunque ancora onerata da incombenze burocratiche.
Certo, immaginare competenze “paragiurisdizionali” in capo a un personale prettamente amministrativo pone non pochi interrogativi di tenuta costituzionale del nostro ordinamento, ma è pur vero che già esiste la figura del giudice onorario e che sperimentazioni in vari campi e ambiti si sono tenuti nel passato.
La discussione, in subiecta materia, sembra aperta e il dialogo interdisciplinare (tra magistratura, forze politiche, amministrazione, dottrina) siamo sicuri darà ancora risposte positive e costruttive al bisogno di una giustizia definitivamente giusta[30].
[1] V. voce FATO, in DEVOTO-OLI Vocabolario della lingua italiana, Le Monnier, 2024, p. 586.
[2] Articolo 16-octies del decreto-legge 18 ottobre 2012, n. 179, convertito con modificazioni dalla legge 17 dicembre 2012, n. 221, così come modificato dall’articolo 50 del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90, convertito con modificazioni dalla legge 11 agosto 2014, n. 114; decreto del Ministro della giustizia 1 ottobre 2015; decreto legislativo 13 luglio 2017, n. 116; articoli 10 e 10-bis della Circolare sulla formazione delle tabelle di organizzazione degli uffici giudicanti per il triennio 2017-2019; risoluzione su “[l]’ufficio per il processo oggi: esito del monitoraggio del CSM sulla istituzione e sul funzionamento dell’Ufficio per il processo negli uffici giudiziari: ruolo della magistratura onoraria e diritto transitorio”, approvata dal plenum del Consiglio superiore della magistratura nella seduta del 18 giugno 2018; linee guida del Consiglio superiore della magistratura in data 15 giugno 2019.
[3] Il Progetto unitario, sulla diffusione dell’Ufficio del Processo e l’implementazione di modelli operativi innovativi negli Uffici giudiziari per lo smaltimento dell’arretrato, è stato sviluppato a cura della Direzione generale per il coordinamento delle politiche di coesione del Ministero della Giustizia in collaborazione con 56 Atenei e 26 Distretti di Corte d'Appello.
La finalità del progetto era quella di potenziare le attività di modernizzazione del Sistema giustizia così come previsto dall’obiettivo 1.4 del PON Governance e Capacità Istituzionale 2014-2020 “migliorare e consolidare l’efficienza e la qualità del sistema giudiziario”.
[4] Si veda PNRR, pp. 58-59, https://www.governo.it/sites/governo.it/files/PNRR.pdf. Inoltre, si veda, prima del PNRR: ORLANDO, Ufficio per il processo: resta il nodo risorse, in Guida al diritto, 2014, 29 e 85.
[5] Sul tema si rinvia al contributo di Antonella Di Florio, già consigliera di Cassazione, in Questione Giustizia, https://www.questionegiustizia.it/articolo/dlgs-upp-2022.
[6] Così Antonella Di Florio, ibidem, Questione Giustizia.
[7] Per un approfondimento cfr., PAOLO BONINI E DONATO GRECO, Principi generali, in FERRUCCIO AULETTA E SILVIA RUSCIANO (a cura di), Ufficio per il processo, Commentario del Codice di Procedura Civile, Bologna, 2023, p. 14 riguardo al principio di ragionevole durata del processo che “impone alla Stato e ai suoi organi giudiziari di rispondere alle istanze di giustizia, in sede civile, penale e amministrativa, entro un arco temporale corrispondente a criteri di efficienza, lungi da una concezione puramente quantitativa, non si limita a richiedere che l'attività giurisdizionale sia esercitata in tempi rapidi, laddove un aspetto qualificante si insinua nell'elemento della ragionevolezza. Infatti, il principio rientra nel più ampio concetto di giusto processo e in esso trova anche un contrappunto, dovendo bilanciarsi con le esigenze di garanzia che informano il diritto processuale”.
[8] I primi obblighi di deposito telematico in ambito civile si sono avuti nel 2014 con la L. 24 dicembre 2012, n. 228; ancora oggi, invece, il processo penale telematico fatica a decollare.
[9] 9.560 addetti all’Ufficio per il processo laureati in scienze giuridiche ed economiche. Il dato è stato incrementato a seguito della revisione del PNRR rispetto agli originali 8.250 addetti previsti. 2.100 unità di personale amministrativo e tecnico laureati con profili IT senior, tecnico di contabilità senior, tecnico di edilizia senior, tecnico di amministrazione, tecnico statistico, analista di organizzazione. 145 unità di personale amministrativo e tecnico diplomati specializzati con profili IT junior, tecnico di contabilità junior, tecnico di edilizia junior. 2.500 unità di personale amministrativo e tecnico diplomati non specializzati con profilo di operatore di data entry. Al 30 giugno 2024 erano in servizio 11.999 unità di personale, di cui 8.980 Addetti all'Ufficio per il processo e 3.019 unità di personale amministrativo e tecnico. Fonte sito internet Ministero della Giustizia: https://www.giustizia.it/giustizia/page/it/pnrr_capitale_umano.
[10] RAFFAELE FRASCA, Presidente Titolare della Terza Sezione Civile della Corte di Cassazione, Dirigenza giurisdizionale e dirigenza amministrativa riguardo agli addetti all’U.P.P. presso la Corte di Cassazione, in GIUSTIZIA INSIEME, Pisa, 8 settembre 2022: https://www.giustiziainsieme.it/en/news/74-main/28-organizzazione-giustizia/2437-dirigenza-giurisdizionale-e-dirigenza-amministrativa-riguardo-agli-addetti-all-u-p-p-presso-la-corte-di-cassazione.
[11] Sul punto si v. ANTONELLA CIOFFI, Il ruolo del dirigente amministrativo nell’ufficio per il processo, in CLAUDIO CASTELLI (a cura di), L’Ufficio per il processo, Pisa, 2024, pp. 79 e ss.
[12] La prima, 3 novembre 2021, intitolata «Piano Nazionale di ripresa e resilienza – Avvio progetto Ufficio per il processo – Informazione e linee guida di primo indirizzo sulle attività organizzative necessarie per l’attuazione», e quella del 21 dicembre 2021, intitolata «Reclutamento, mansioni, formazione e modalità di lavoro dei primi 8.250 addetti all’ufficio per il processo assunti ai sensi del decreto-legge n. 80 del 2021».
[13] Sul punto si v. GIANCARLO VECCHI, L’ufficio per il processo: i modelli organizzativi, in C. CASTELLI (a cura di) L’Ufficio per il processo, cit., p. 58.
[14] Si v. il Documento del Ministero della Giustizia – Dipartimento dell’organizzazione giudiziaria, del personale e dei servizi 2024.
[15] ANTONELLA CIOFFI, Il ruolo del dirigente amministrativo nell’ufficio per il processo, in C. CASTELLI (a cura di) L’Ufficio per il processo, cit., p. 83.
[16] ANTONELLA CIOFFI, ibidem, pag. 91.
[17] Ad esempio, si veda VALENTINA CAPUOZZO, Capacità amministrativa ed efficienza dell’azione giurisdizionale: il nuovo ufficio per il processo, in La Rivista “Gruppo di Pisa”, Fascicolo n. 3/2024, pp. 1-14.
[18] Sul punto si v. ex multis E. BORGONOVI, G. FATTORE, F. LONGO, Management delle istituzioni pubbliche, MILANO, 2015, pp. 199 e ss.; M. CUCCINIELLO, G. FATTORE, F. LONGO, E. RICCIUTI, A. TURRINI, Management pubblico, MILANO, 2018, PAG. 305 e ss.
[19] Tra gli altri, CLAUDIO CASTELLI, La crisi della governance del sistema giustizia, in Questione Giustizia, 2023
[20] Per un’analisi delle ragioni per le quali pure nei decenni precedenti l’inizio del secolo, nonostante i numerosi ma sempre frammentari interventi di riforma del processo civile, i numeri del contenzioso non diminuivano, anzi crescevano di anno in anno, si ricorda che è stata individuata «un’incidenza sugli obiettivi di effettività e celerità della tutela giudiziaria della ripartizione tra il giudice e le parti dei poteri nel governo del processo», ma non sembra che gli interventi sulla distribuzione di tali poteri siano stati influenti e sufficienti ai fini del raggiungimento degli obiettivi: vedi GIORGIANTONIO CRISTINA, in Questione Giustizia n. 1, 2010, p. 109, https://www.researchgate.net/publication/235930281_Le_riforme_del_processo_civile_italiano_tra_adversarial_system_e_case_management.
[21] Ficcarelli, Beatrice. 2011. Fase preparatoria del processo civile e case management giudiziale. Napoli-Roma: Esi.
[22] PAOLA LUCARELLI, Giustizia sostenibile, cit., p. 29.
[23] VINCENZO ANSANELLI, Uno sguardo comparato, in C. CASTELLI (a cura di) L’Ufficio per il processo, cit., pp. 179 e ss., dove si evidenzia che in molti ordinamenti stranieri sono già presenti sviluppi di una figura professionale del tutto simile al nostro AUPP: Law Clercks (in Corte Suprema sono i Pool Clercks) in America con funzione che vanno dal pre-udienza, all’assunzione di prove ora e fino alla reazione del provvedimento finale; nel Regno Unito accanto agli storici Clercks si sono sviluppati anche i Judicial Assistant con compiti molto simili ai nostri AUPP; nella Oficina Judicial troviamo il c.d. Secretario Juidicial; l’ordinamento tedesco conosce il Rechtspfleger, che in talune materie e procedure assume addirittura tutte le funzioni proprie dell’organo giudicante; è invece preclusa qualsiasi attività giudiziaria diretta ai francesi Juriste Assistants che comunque similmente ai nostri AUPP contribuiscono nella gestione dei casi.
[24] È stato opportunamente suggerito dal CUN con Parere Generale n. 22 del 7 maggio 2018, l’aggiornamento in tal senso degli obiettivi culturali delle classi all’evoluzione dei saperi, della società e delle professioni e gli sbocchi professionali delle classi all’evoluzione del mondo del lavoro.
[25] MARIA GIULIANA CIVININI, La storia: dai tirocini formativi all’ufficio per il processo, in C. CASTELLI (a cura di) L’Ufficio per il processo, cit., pp. 7-8.
[26] Si rimanda a nota 23.
[27] R. Sennet, The Craftsman, New Haven-London, Yale University Press, 2008 (trad. it. L’uomo artigiano, Milano, Feltrinelli, 2008).
[28] Sul punto F. BUTERA, Disegnare l’Italia, Milano, 2023, p. 130.
[29] BARBARA FABBRINI, PNRR e Ufficio per il Processo: le ragioni di una scelta, in C. CASTELLI (a cura di) L’Ufficio per il processo, cit., pp. 43 e ss.
[30] Sul punto si veda ROBERTO MARTINO, Un chiarimento preliminare: il possibile conflitto tra le istanze di efficienza del sistema giudiziario e il diritto dei singoli ad una tutela giurisdizionale effettiva, in L’ufficio per il processo ai tempi del PNRR: una panacèa per la giustizia civile? Pisa, 2025, https://www.rivistailprocesso.it/2025/06/13/lufficio-per-il-processo-ai-tempi-del-pnrr-una-panacea-per-la-giustizia-civile/.
“Art. 0. (…) Scriviamo con le mani sporche, con le schiene curve di attesa, con gli occhi pieni di futuro.
Art. 1. Basta mura opache! La prigione sia una città dell’anima, uno spazio vivibile, un’architettura che cura, non che annulla. Muri porosi, sezioni luminose, aria che respira.
(…)
Art. 3 Scuola! Scuola! Scuola! Alfabeti come chiavi, lezioni come <<evasione buona>>. Scuola dentro il carcere uguale futuro innescato. Ogni banco è una finestra, ogni libro una crescita.
Art. 4. Il trattamento è cammino”! Ogni pena è un progetto, ogni detenuto è biografia, non numero. Il trattamento è un sentiero di ritorno migliorati, non un corridoio chiuso.
(…)”
dal Manifesto per un carcere futurista della Compagnia SineNOmine
“Senza Titolo” è andato in scena il 2 ed il 3 luglio nella Casa Reclusione di Spoleto, parte ormai tradizionale del programma del Festival dei Due Mondi. Centinaia gli spettatori che, anche quest’anno, hanno varcato le porte del carcere per assistere allo spettacolo realizzato dalla Compagnia Sine Nomine di attori detenuti e liberi. Un impegno grande per l’istituzione, ma insieme un orizzonte di senso che coinvolge tutta la comunità penitenziaria in una attività di preparazione che riempie l’intero anno. Non intrattenimento, ma vero impegno risocializzante.
Quest’anno il testo è un omaggio dichiarato al futurismo, che ad ogni frammento sostituisce i contenuti storici del movimento, con quelli di una ricerca attiva di speranza e di prospettiva, qui e ora, proprio nel carcere del sovraffollamento e della conseguente spersonalizzazione. Senza titolo è allora titolo, e insieme provocazione che, nel lessico penitenziario, richiama una detenzione priva della stessa ragione legale che la giustifichi.
Nella rivista “Lacerba” si leggeva che “nella carne dell’uomo dormono le ali” e questo scrivono gli attori detenuti, su grandi muri bianchi, mentre il pubblico si accomoda nello spazio dell’intercinta, accolto da una scenografia che già parla della genialità di Giorgio Flamini, come sempre deus ex machina della serata.
A sinistra il bianco quasi splendente di tre celle, con insensate aperture geometriche, e insensate chiusure. A destra cinque sedie, nere ed enormi, ognuna un patibolo, ognuna una cattedra, per altrettanti attori. In mezzo un orologio enorme, che ovviamente gira al contrario.
Urlano onomatopee, gli attori, tra il pubblico, ma tra i suoni della velocità, tipici del futurismo, tra le sillabe insensate e bambine, anche tante parole. Insensate, ma non per il luogo in cui siamo: Cellante, Aria, 9999, Appuntà…
Dove siamo? È un carcere, e quindi le regole di senso: “aperti, poi chiusi, poi cancellati…” hanno logiche tutte loro. Se ci facciamo accompagnare capiamo tutto. Cosa ci offrono gli attori detenuti? “Piatti di libertà immaginata”, intelletti “affamati di futuro”, “ottimismo a luci spente”.
Si incontrano i dialoghi, dolorosi e umanissimi, di uomini che sognano l’esterno e non si abbandonano ad essere uomini in scatola, anche se qui le loro membra sono letteralmente inscatolate in scena, e gli scambi arguti, e artisticamente difficilissimi, dei cinque attori sul ring o in cattedra, che restituiscono in una dimensione di sogno tutto il non sense in cui è immersa la nostra realtà.
A fine spettacolo sapremo che è un autore detenuto, Rinnegato, che molti applausi giustamente raccoglie, ad aver immaginato la parte dei testi per il Ring, come sempre poi rielaborati in un lavoro di gruppo della Compagnia SIne NOmine. Nel resto si alternano frammenti che riprendono Giardina e Marinetti, e poi ricordano Sergio Lenci, l’architetto che fu vittima del terrorismo, per aver immaginato un carcere, proprio a Spoleto, che dialogasse con il mondo. Un carcere che ancora oggi, con le parole di “Senza Titolo”, deve “disimparare a chiudere”.
I regali però non sono terminati. A inizio spettacolo ci è consegnata la tessera di un domino. È stata dipinta a mano, e non ce n’è una uguale all’altra, ma il gioco si potrebbe fare solo mettendole tutte insieme. Non c’è bisogno di dire di più su individualizzazione dei percorsi e benefici per la collettività.
Lo slancio futurista tocca il culmine con un vero e proprio manifesto, manco a dirlo lanciato sul pubblico, e poi distribuito. Vi si parla di un carcere mirabile, che fa della persona e della dignità il suo centro. Utopia? Le parole scritte dalla Compagnia sono splendide, cariche di una poesia visionaria, ma i contenuti sono in definitiva solo Costituzione.
“Voglio vivere così, col sole in fronte…” cantano tutti, sulla registrazione storica di Carlo Buti, e anche il meraviglioso coro diretto dal Maestro Francesco Corrias, che ha accompagnato il cammino del pubblico, si unisce festosamente. “Voglio vivere così, col sole in fronte…” Può esserci paradosso più grande che cantare così in un carcere?
Nel tempo dello schianto del cuore e del pensiero, di fronte ai suicidi, alle carenze di risorse, che affliggono ogni luogo, è questo il gesto rivoluzionario che ci è offerto, non per coprire il dramma, ma per metterlo a nudo.
Si tratta di continuare a immaginare un futuro e a immaginarci nel futuro.
È corale un ringraziamento agli attori detenuti, a Giorgio Flamini, a Pina Segoni e Sara Ragni, impegnate con lui nella ideazione, nella regia e nell’adattamento dei testi, al Festival dei Due Mondi che di nuovo entra in carcere e mette nel suo programma lo spettacolo, a fianco di quelli della migliore produzione internazionale, alla Casa Reclusione che non spegne i riflettori sull’arte. Andando via, nell’intercinta, mentre le luci delle camere detentive sono tutte spente, e il caldo della notte (figurarsi il giorno!) è soffocante, è ancora illuminata una grande installazione in cui la parola “ARTE” campeggia.
L’auspicio è che resti sempre accesa. perché “la legge deve tendere alla bellezza” (art. 17 del manifesto) e il teatro in carcere è detonatore (art. 18) di energie di cambiamento, gesto politico e umano fondamentale.
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