ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
POLITICA E MAGISTRATURA: FERMATE L’ANDIRIVIENI
(Criticità di una contaminazione da superare)
Se il rispetto della politica per la magistratura può considerarsi un affidabile termometro della salute democratica di un Paese, il nostro non se la passa molto bene. Non si tratta soltanto della tendenza a considerare le inchieste giudiziarie “sacrosante” o “persecutorie” a seconda che riguardino, rispettivamente, gli avversari o i militanti del proprio schieramento. È una tentazione questa, cui pochi nostri rappresentanti hanno saputo resistere. Preoccupante è il manifesto proposito di delegittimare la magistratura: irridendone l’azione, disconoscendole l’autorità di pronunciarsi in nome di un popolo da cui non è stata eletta, dubitando della sua imparzialità per i trascorsi politici di alcuni suoi esponenti, concionando sul fatto che la realtà non può attendere i tempi della giustizia e che quindi è necessario prescinderne.
Andrei ultra crepidam se cercassi di inquadrare il fenomeno nelle sue coordinate storico-culturali, per stabilire in che misura ciò possa dipendere dal vento di un arrogante autoritarismo che sta soffiando gelido a diverse latitudini e longitudini del Pianeta. Posso al più tentare di analizzare se nel nostro Paese ci siano peculiari fattori ordinamentali predisponenti. Risulta assai difficile non rispondere affermativamente. Da un lato, la tutela della funzione politica è da noi degenerata al punto, nelle norme e nella prassi, da assicurare aree di sostanziale impunità o, almeno, di pretesa di impunità; dall’altro, ai magistrati è consentito un inaccettabile pendolarismo dall’ufficio giudiziario ad attività di natura politico-amministrativa, che non può non ripercuotersi sulla credibilità della funzione giurisdizionale svolta.
Sul primo versante. La nostra Costituzione prevedeva originariamente l’istituto dell’autorizzazione a procedere, che doveva servire al Parlamento per preservare la funzione della rappresentanza politica da indebite iniziative giudiziarie volte ad alterarne il fisiologico esercizio. L’indecoroso utilizzo di tale garanzia da parte del Parlamento, che ne ha fatto uno scudo per mettere i suoi componenti al riparo di ogni azione giudiziaria, ha poi indotto alla sua soppressione. Si è pensato di sostituirla con un sindacato della Camera di appartenenza dell’indagato sulla esperibilità di determinati atti investigativi: «senza autorizzazione della Camera alla quale appartiene nessun membro del Parlamento può essere sottoposto» a perquisizione personale o domiciliare, ad intercettazione di conversazioni o comunicazioni, a sequestro di corrispondenza (art. 68 Cost.). Si tratta all’evidenza di una facezia normativa, che sfregia la credibilità di una fonte così autorevole come la Costituzione. L’autorità giudiziaria, prima di procedere al compimento di atti investigativi che ripongono tutta la loro efficacia nel fattore sorpresa, dovrebbe avvertire –oltre all’indagato- più di trecento e talvolta più di seicento suoi colleghi affinché valutino se la richiesta obbedisca effettivamente a fini investigativi. Ad esempio, il pubblico ministero per intercettare le conversazioni di un parlamentare dovrebbe ottenere prima il disco verde alla Camera di appartenenza; dopodiché, verosimilmente, dovrebbe sperare che non gli venga concesso, ben sapendo quali risultati controproducenti potrebbe sortire una intercettazione con preavviso.
Ma anche là dove la guarentigia costituzionale è in sé ineccepibile, la prassi si è incaricata di trasfigurarla in insopportabile privilegio. La Costituzione giustamente pretende che l’autorità giudiziaria, per poter privare della libertà personale un parlamentare, debba ottenere il nulla osta con cui la Camera di appartenenza esclude l’esistenza di un intento persecutorio vòlto ad alterare il fisiologico atteggiarsi degli equilibri politici. Il Parlamento, invece di avvalersi di questa prerogativa negli eccezionalissimi casi in cui l’iniziativa giudiziaria avesse esondato dall’alveo legale, ha usato il potere di non autorizzare l’arresto come insuperabile riparo ordinario del parlamentare contro l’azione giudiziaria, strumentalmente adducendo – tranne rarissimi casi che si contano sulle dita di una mano rispetto a decine e decine di richieste – l’asserita presenza del fumus persecutionis. Insomma: tanto fumus, poco arresto.
Sul secondo versante. L’attuale sistema consente al magistrato, assolte le sue funzioni, di togliersi la toga e di andare ad indossare i panni di sindaco o di assessore in un comune viciniore rispetto alla circoscrizione nella quale amministra giustizia (o anche ad assumere cariche elettive in una regione diversa). È difficile accettare l’idea che la mera distanza chilometrica consenta al magistrato-sindaco di liberarsi sulla strada di ritorno delle convinzioni politiche che lo hanno indotto ad assumere determinate decisioni amministrative e, indossata nuovamente la toga, di esercitare imparzialmente le funzioni di magistrato. E’ ancor più improbabile che i soggetti da lui giudicati non dubitino della sua serenità di valutazione, specie se la loro attività o la res iudicanda abbia collegamenti più o meno diretti con la politica.
Tuttavia, non vi è soltanto un problema di sostanziale o anche soltanto di apparente perdita di imparzialità, come di solito si sottolinea. Politica e giurisdizione hanno statuti metodologici opposti. Secondo la nota distinzione luhmanniana, infatti, l’agire politico segue un programma di scopo, che si orienta a certi effetti desiderati e cerca i mezzi più idonei per conseguirli; mentre l’attività giurisdizionale deve obbedire ad un programma condizionale, che ha a che fare con dati legati al passato ed opera secondo lo schema «se è accaduto questo… allora…». Il giudice, proprio affinché la sua attività sia sottratta alla critica politica, deve rispondere esclusivamente della corretta applicazione della legge sostanziale e processuale al caso di specie, non essendogli non solo richiesto, ma neppure consentito di farsi carico delle conseguenze della propria decisione. Ebbene. il magistrato che “torna” ad esercitare la giurisdizione dopo essersi impegnato in un’attività politico-amministrativa non può non averne assorbito metodi e finalità: fatalmente avrà un approccio più attento al risultato che alla legalità del procedere e del decidere. Sarebbe quindi estremamente opportuno pretendere che per svolgere tali attività il magistrato debba essere posto fuori ruolo e che, terminato l’impegno politico, non possa tornare a svolgere funzioni giurisdizionali in senso stretto. E un tale divieto dovrebbe riguardare, a più forte ragione, anche il magistrato che abbia svolto un mandato parlamentare o assunto incarichi di natura politica (si pensi ai ruoli apicali nei ministeri).
In sintesi: la promiscuità di funzioni e di abiti mentali talvolta pregiudica metodo e imparzialità dell’azione giudiziaria; più spesso incrina la fiducia della collettività nella giustizia; sempre espone la funzione giudiziaria ad attacchi ed insinuazioni strumentali. Impedire tali contaminazioni tra magistratura e politica forse può frustrare qualche comprensibile aspirazione dei magistrati, ma fa bene all’autorevolezza della funzione svolta e questa, oggi più che mai, fa bene alla democrazia. Nel contesto attuale, infatti, in cui le ragioni si pesano in base ai voti, in cui siamo arrivati ad un tal punto di analfabetismo democratico che un ministro ritiene di poter contestare ad un magistrato l’autorità di giudicarlo perché non eletto, avere una giustizia autorevole e inattaccabile significa offrire alla società forse l’ultimo punto di riferimento condiviso, senza il quale si schiuderebbero orizzonti poco rassicuranti. Screditata ed esautorata la giurisdizione, i cittadini cercherebbero altrove un’autorità che sappia imporre il rispetto delle regole; si rivolgerebbero ad altri poteri (politici, economici, corporativi, se non, talvolta, criminali), ritenuti più forti e affidabili per la soddisfazione delle loro rivendicazioni e per la tutela dei loro interessi. Una china quanto mai democraticamente scivolosa per uno Stivale come il nostro, sempre pronto a calzare il piede dell’uomo della provvidenza.
(da “La lettura”, supplemento del “Corriere della Sera” del 16.12.2018)
Il caso Tobagi, le Brigate Rosse, il sequestro di Abu Omar, la 'ndrangheta al Nord: alcune delle inchieste più scottanti raccontate da un magistrato che le ha dirette in prima persona. È il momento di ripercorrere gli ultimi trent'anni di storia giudiziaria italiana e descrivere la tempesta che, tra ambiguità e silenzi, si sta abbattendo sulla nostra giustizia. «Come è potuto accadere che a due pubblici ministeri, sino a quel momento oggetto di denunce sporte solo da mafiosi e terroristi da loro inquisiti, siano state attribuite condotte costituenti gravi reati dal presidente di un governo di centro-sinistra il cui programma elettorale prevedeva la strenua difesa della legalità? E, soprattutto, come è potuto accadere che due governi di diverso orientamento politico abbiano uno dopo l'altro apposto il segreto di Stato su notizie già universalmente note perché da tempo circolanti sul web? I fatti possono essere finalmente raccontati, in modo rispettoso tanto dei limiti di questo anomalo segreto di Stato, quanto dei diritti degli imputati». Parliamo della vicenda Abu Omar che, grazie all'indipendenza della magistratura italiana e all'obbligatorietà dell'azione penale, volute dai Costituenti e oggi seriamente a rischio, ha portato sul banco degli imputati, caso unico al mondo, appartenenti ai servizi segreti americani e italiani. Armando Spataro, che è stato protagonista dell'inchiesta insieme a Ferdinando Pomarici, la racconta in dettaglio. Come le altre importanti indagini svolte lungo 34 anni di attività professionale, da quelle sui brigatisti rossi e Prima Linea a quelle sulla 'ndrangheta trapiantata in Lombardia, per finire con il terrorismo internazionale. Una storia popolata di ricordi dolorosi e di facce ambigue, ma anche di passione civile e di persone amate.
Vincitore del premio Capalbio 2010 per la sezione Politica e istituzioni
Vincitore del premio Cesare Pavese 2011 per la sezione Saggistica
L'emendamento "allunga processi" di Michele Cerminara
All’indomani della presentazione del famigerato emendamento al ddl anticorruzione sulla prescrizione si sono levate, bipartisan, da parte di tutti (o quasi tutti) gli operatori e tecnici del diritto o addetti ai lavori che dir si voglia -comunque sia da parte di tutti coloro che, per onestà intellettuale, indipendentemente dal ruolo, non accettano che temi di così alta incidenza sociale possano essere affrontati sull’onda della faciloneria animata da slogan propagandistici del momento-, moltissime critiche, per un tentativo di riforma generalizzata dell’istituto della prescrizione, che giunge ad appena quasi due anni dall’approvazione della c.d. riforma Orlando, che ha già introdotto la sospensione del decorso della prescrizione per complessivi tre anni successivamente alla pronuncia di primo grado.
Il rischio è quello di continuare a sacrificare diritti di rilevanza costituzionale[1], frutto di fondamentali conquiste della civiltà giuridica, per non affrontare concretamente le reali disfunzioni del sistema Giustizia e rimediare alle storture del sistema processuale.
Lo sbalordimento è enorme, il legislatore manifesta scarsa conoscenza delle aule dei Tribunale e degli apparti amministrativi e, ancora una volta, per scongiurare la piena, si ostina illogicamente a porre l’argine a valle ancorché a monte.
Il fatto che nessun valido cambio di rotta sia stato posto in essere per individuare e migliorare i meccanismi di funzionamento dell’apparato Giustizia e che a brevissima distanza si voglia intervenire nuovamente sull’istituto dimostra un completo disinteresse rispetto ai veri temi e alle problematiche del processo penale italiano.
Solo ponendo in essere interventi specifici e mai generalizzanti è pensabile pensare di poter ridurre i “tempi della Giustizia”. Una riforma della Giustizia non può infatti passare attraverso provvedimenti demagogici, ma deve muovere, a monte, da investimenti in strutture e interventi su base culturale, iniziando ad interrogarsi, in una prospettiva realistica e con gli approfondimenti indispensabili del caso, sull’opportunità di mantenere o meno l’obbligatorietà dell’azione penale.
Mentre non si riesce a cogliere il risultato positivo che con la riforma si vorrebbe raggiungere, prima facie, appaino invece chiare le conseguenze disastrose che una simile riforma potrebbe arrecare.
La riforma, acché ne dicano gli ideatori, non è certo un antidoto alla lunghezza dei processi, né può assolutamente servire quale presidio di salvaguardia alla certezza della pena.
Non è possibile avere piena contezza, in concreto, dell’impatto negativo che, a vari livelli, una riforma generalizzata dell’art. 157 c.p. è in grado di procurare, laddove non si tenga ben presente la duplice ratio sottesa a detta causa estintiva del reato, ovverosia: da un lato il progressivo affievolirsi nel tempo dell’allarme sociale destato dall’illecito; dall’altro, nella prospettiva del reo, il maturare in capo a costui di un diritto all’oblio per il fatto commesso.
Ove si tenga conto di queste essenziali fondamenta, dovendosi muovere necessariamente in una prospettiva costituzionalmente orientata, risulta palese la necessità di dover rifuggire da semplicistiche generalizzazioni. Bisogna andarci cauti! Solo limitatamente ad alcuni tipi o classi di reati, da vagliarsi con circospezione e dovizia, può infatti ipotizzarsi un allungamento dei termini di prescrizione e ciò solo laddove l’analisi venga condotta in ossequio all’ineludibile principio di “ragionevolezza” che la Carta costituzionale esige e che non può che rispondere a due insopprimibili parametri ordinatori: la sussistenza di un allarme sociale così intenso da determinare una “resistenza all’oblio” più che proporzionale all’energia della risposta sanzionatoria; la complessità delle attività probatorie necessarie, in sede di indagini preliminari o in giudizio, per accertare il reato nelle sue componenti oggettiva e soggettiva.
La riforma che si propone è, drammaticamente, ben altra cosa, non considera che la maggior parte delle prescrizioni matura già in fase di indagini preliminari, dove il PM è dominus indiscusso. Per come è ideata, essa è suscettibile di comportare solo un inevitabile allungamento dei tempi del processo, finendo così per rappresentare una contraddizione in termini, giacché viene meno alla stessa finalità che essa proclama di voler realizzare.
L’imputato, a rigore, potrebbe vedersi sottoposto a processo penale pressoché a vita.
Una volta messo al riparo il problema della prescrizione al momento della pronuncia di primo grado, tutte le parti in causa (ed anche le Cancellerie si potrebbe pensare!) non avrebbero più alcuno stimolo e/o necessità a dover accorciare i tempi di conclusione del procedimento, potendo infatti “utilizzare” tutto il tempo necessario a prescrivere (meno un giorno) prima di addivenire alla sentenza.
Si pensi al caso di un delitto “semplice” (in relazione al quale il legislatore non ha modificato in maniera specifica i termini di prescrizione), la cui pena massima è stabilita in dieci anni di reclusione. Il Giudice potrebbe impiegare, senza alcun rischio per la prescrizione, ben dodici anni e mezzo (viste le “classiche” interruzioni) per pronunciare sentenza. A sua volta la Corte di Appello, con la prescrizione ormai sospesa (nell’emendamento si parla di sospensione ma, considerati i termini, sarebbe più onesto parlare di interruzione definitiva), non avrebbe limiti di tempo per decidere.
L’imputato, in sostanza, potrebbe essere sottoposto a processo per tutta la sua vita e un processo senza fine sarebbe l’equivalente di un ergastolo a vita, in barba alla presunzione d’innocenza!
Lo dicono buon senso e logica. Il processo è già pena, specialmente ai nostri giorni, allorquando viene accompagnato da gogne mediatiche e facili movimenti di piazza.
Bloccare o sospendere la prescrizione è incostituzionale ed è contrario a principi internazionali, rappresentando una grave violazione dei più basilari diritti umani.
Al diavolo tutti i preziosi insegnamenti e i principi che i padri del pensiero giuridico, Cesare Beccaria e Pietro Verri per dirne alcuni, hanno donato al mondo intero e alla civiltà giuridica d’ogni dove!
La prescrizione dei delitti è argomento centrale e delicatissimo. Se è vero che per alcuni delitti essa non deve trovare applicazione e che deve necessariamente essere modulata in base alla gravità del reato, è al contempo, inequivocabilmente, principio irrinunciabile di civiltà giuridica cui non è possibile abdicare, figura indispensabile ai fini dell’amministrazione della Giustizia (diceva Beccaria: “Qual più crudele contrasto che l’indolenza di un Giudice e le angosce d’un reo? I comodi e i piaceri di un insensibile magistrato da una parte e dall’altra le lagrime, lo squallore d’un prigioniero?”[2]).
Un processo celere e la certezza della pena, anzitutto in termini di immediatezza della stessa dopo la commissione di un reato, sono i veri principi cui occorre senza indugio dare ossequio, solo attraverso essi, non certo annichilendo tout court un istituto che, a ben vedere, si pone quale ultimo baluardo di garanzia degli stessi contro la deriva nascente dalle storture del sistema, è possibile auspicare alla realizzazione del tanto sbandierato “giusto processo”.
Per non parlare poi di tutte quelle conseguenze negative che l’allungamento del processo comporterebbe per le persone offese dal reato costituitesi parte civile successivamente all’esercizio dell’azione risarcitoria in sede civile. In questi casi, la causa civile, a rigore di codice, verrebbe ad essere sospesa fino alla definitività della sentenza penale, con la conseguenza che la persona offesa potrebbe non ottenere un ristoro del danno per tempi lunghissimi[3].
Si pensi poi all’imputato assolto in primo grado. Questi, ove il PM interponesse impugnazione avverso la sentenza assolutoria emessa dal Giudice di prime cure, potrebbe rimanere comunque “imputato a vita”. E’ allora evidente come, quella di voler “sospendere” la prescrizione in maniera definitiva dopo la sentenza di primo grado, rappresenti una scelta che viene a porsi in acceso contrasto con il principio della ragionevole durata del processo a cui proprio i fautori dell’emendamento dicono ipocritamente di tendere.
Il problema delle lungaggini processuali non è una problematica risolvibile con un intervento teso ad elidere l’istituto della prescrizione; basterebbe modificare e, dove occorra, correttamente applicare alcune norme del codice di procedura penale già esistenti, soprattutto laddove si consideri che relativamente a molti reati risulta ad oggi già prevista una dilatazione del tempo necessario a prescrivere.
Le norme processualistiche che avrebbero dovuto, già prima della riforma Orlando, porsi a garanzia e scongiurare il problema del tempo “sul processo”, sono sempre state disapplicate, interpretate così tanto in favore della garanzia di difesa dell’indagato-imputato da risultare distorte, consentendo al difensore di poter mettere in atto una serie di mezzi per non far giudicare il proprio assistito.
L’omesso avviso 415 bis c.p.p. al secondo difensore nominato, l’omesso avviso al secondo difensore delle udienze, per dirne alcune, a voler essere seri, non comportano alcuna violazione effettiva del diritto di difesa.
Nessuno, sia l’indagato (poi imputato) che uno dei due difensori ha ricevuto un avviso; beh non si capisce la ratio della nullità sottesa a tali inutile formalismi: l’omesso avviso, qualunque esso sia, al secondo difensore, non pare affatto suscettibile di ledere il diritto di difesa.
Attendiamo ancora (le non più recentissime modifiche che hanno abolito l’istituto della contumacia hanno senz’altro comportato un grave peggioramento) una decisa modifica delle notificazioni, successive alla prima, all’imputato libero. Sul punto è logico e necessario responsabilizzare il difensore coinvolgendolo concretamente (puntando a realizzare il tentativo posto in essere dal legislatore del 2005, con l’introduzione del comma 8 bis all’art 157 c.p.p., scarsamente recepito finanche dalla Corte Suprema secondo cui, in caso di dichiarazione o elezione di domicilio dell’imputato, la notifica al difensore, invece che all’imputato, è da ritenersi nulla[4]. Si potrebbe, d’altro canto, sospendere la prescrizione per tutto il tempo del rinvio per concomitante impegno professionale del difensore, cosi da scongiurare inutili rinvii spesso strumentalizzati. Ancora, si potrebbero introdurre alcune delle proposte dell’A.N.M.[5], quale, ad esempio, la cristallizzazione dell’effetto interruttivo della prescrizione dell’art. 415 bis c.p.p., o ancora, prevedere la non rinnovazione degli atti a seguito del cambio del giudicante persona fisica, quantomeno relativamente alla c.d. “prova generica” assunta da altro Giudice, se non allorquando il nuovo Giudice lo ritenga, motivatamente, necessario. Ma di più, si dovrebbe “svecchiare” la fase dibattimentale del processo penale italiano allineandolo alle innovazioni tecnologiche, consentendo l’escussione dei testi a distanza. Se è consentita (in determinate condizioni e per gravi reati) la partecipazione a distanza dell’imputato, non è dato capire perché anche i testimoni non possano essere sentiti a distanza.
Si tratterebbe di porre in essere misure o interpretazioni di norme capaci, più efficacemente, di incidere sui tempi del processo rispetto ad una mera, sconsiderata, modifica dell’istituto della prescrizione. È necessario introdurre una cadenza processuale serrata, magari prendendo come spunto (coi dovuti accorgimenti) le cadenze dei termini di fase ex art. 303 c.p.p., ponendo in rapporto di stretta e diretta proporzionalità il tempo entro cui dovrà svolgersi il processo rispetto alla gravità ed al numero dei reati contestati.
Modifiche che, anche prima della riforma Orlando, avrebbero certo scongiurato il pericolo della prescrizione del reato e, nel contempo, avrebbero anche impedito alla politica di racimolare il consenso di non addetti ai lavori con patinati emendamenti propagandistici, disorganici, controproducenti e di estrema pericolosità[6].
[1] Stefano Ceccanti, Intervento sulla pregiudiziale relativa alla prescrizione, pubblicato in www.libertàeguale.it, “Prescrizione: non facciamo un buco nella rete del diritto”
[2] Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene – Prontezza della pena – Capitolo 19
[3] Mariarosaria Guglielmi e Riccardo De Vito, Quale futuro per il garantismo? Riflessioni su processo penale e prescrizione in www.questionegiustizia.it
[4] Il riferimento è a Cass. Pen. SS.UU n. 58120/2017
[5] Proposte di riforma dell’Associazione Nazionale Magistrati in materia di diritto e processo penale (approvate dal Comitato Direttivo Centrale nella riunione del 10 novembre 2018)
[6] Gaetano Insolera, LA RIFORMA GIALLO-VERDE DEL DIRITTO PENALE: ADESSO TOCCA ALLA PRESCRIZIONE, in www.penalecontemporaneo.it
Traendo spunto da una recente sentenza della Corte di giustizia sugli effetti del recesso dall’Unione Europea del Regno Unito, l’autore delinea le vicende più significative nella storia del mandato d’arresto europeo.
Sommario: 1. Premessa. - 2. Il Consiglio di Tampere e il potenziamento della cooperazione giudiziaria penale in ambito UE. - 3. L’euromandato in Italia: la complessa gestazione legislativa e la successiva opera di armonizzazione della Suprema Corte. - 4. Il mandato di arresto europeo nell’interpretazione della Corte di giustizia. - 5. Gli effetti della Brexit sul mandato d'arresto europeo.
1. Premessa.
Sono trascorsi più di sedici anni dalla approvazione della decisione quadro 2002/584/GAI sul mandato di arresto europeo e oltre dieci dalla sua trasposizione nell’ordinamento italiano, ad opera della l. 22 aprile 2005, n. 69 (ex plurimis, M. Bargis - E. Selvaggi, Il mandato d’arresto europeo. Dall’estradizione alle procedure di consegna, Giappichelli, 2005; A. Chelo, Il mandato di arresto europeo, Cedam, 2010; G. De Amicis - G. Iuzzolino, Guida al mandato d’arresto europeo, Giuffrè, 2008).
Un periodo di tempo che consente di tratteggiare una breve storia dell’istituto, per ricordare le sue origini e i più recenti sviluppi interpretativi.
In via di premessa, alla luce della giurisprudenza interna e sovranazionale, si può affermare che l’istituto ha ormai raggiunto nel panorama della cooperazione giudiziaria tra Stati membri dell’Unione Europea una posizione consolidata, che gli consente di svolgere un ruolo strategico nel contrasto alla criminalità transfrontaliera (una esaustiva panoramica sulla giurisprudenza è compendiata in G. Lattanzi - E. Lupo, Codice di procedura penale. Rassegna di giurisprudenza e di dottrina, vol. XIII, Giuffrè 2013, nonchè, in A. Marandola, Cooperazione giudiziaria penale, Giuffrè, 2018, p. 467 e ss.).
Il mandato di arresto europeo rappresenta, in altre parole, l'archetipo della cooperazione basata sul principio del mutuo riconoscimento delle decisioni giudiziarie, come testimonia la circostanza che lo schema utilizzato nella decisione quadro ha costituito il modello intorno al quale sono stati progettati gli altri istituti implementati negli anni successivi (ad esempio, i decreti legislativi del febbraio 2016, con i quali è stata data attuazione nell'ordinamento italiano ad alcune decisioni quadro e direttive in materia; sul tema, G. De Amicis, I decreti legislativi di attuazione della normativa europea sul reciproco riconoscimento delle decisioni penali, in Cass. pen, 2016, supplemento al n. 5).
Tuttavia, benchè appaiano oramai sopite le più violente “crisi di rigetto” che i singoli ordinamenti nazionali hanno manifestato nei primi periodi di vigenza dell’istituto, è anche vero che, con particolare frequenza, si presentano dinanzi alla Corte di giustizia casi alquanto complessi e delicati, che richiedono particolare attenzione.
Lo spunto per questa breve analisi proviene proprio da una recente decisione della Corte di giustizia, che si è pronunciata sugli effetti che la cosiddetta “Brexit” può riverberare sul meccanismo di consegna delle persone ricercate (Si tratta di C. giust. UE, 19 settembre 2018, C- 327/18).
Anche se, come si vedrà, tale decisione, per quanto inedita e significativa per i suoi contenuti, è coerente con altri precedenti della Corte e rappresenta, pertanto, niente altro che una tappa del percorso compiuto fino ad ora.
2. Il Consiglio di Tampere e il potenziamento della cooperazione giudiziaria penale in ambito UE.
La Convenzione Europea di Estradizione, dal 1957 e per quasi mezzo secolo, ha disciplinato la cooperazione giudiziaria tra Stati membri dell’Unione Europea. Nonostante le innovazioni, tale istituto presentava, comunque, i consueti limiti che derivano dalla impostazione dei rapporti di cooperazione secondo il tradizionale schema dell’estradizione.
Così, anche a seguito delle ulteriori semplificazioni apportate dai protocolli addizionali e la stipula tra Stati di convenzioni bilaterali volte a rendere ancora più snelli i rapporti, nell’Unione Europea si avvertiva sempre di più la necessità di un cambio di paradigma, che rivoluzionasse l’assetto della cooperazione.
Alla libera circolazione di merci, capitali, lavoratori e servizi dovevano affiancarsi strumenti idonei ad evitare che la progressiva eliminazione delle frontiere permettesse ai delinquenti di sfruttare tali opportunità per fini illeciti. In altre parole, era necessario realizzare anche una “libera circolazione degli imputati” (A. Di Martino, Principio di territorialità e protezione dei diritti fondamentali nello Spazio di Libertà, Sicurezza e Giustizia. Osservazioni alla luce della giurisprudenza costituzionale di alcuni Stati membri sul mandato d’arresto europeo, in AA.VV., Legalità costituzionale e mandato d’arresto europeo, Jovene, 2007, p. 79).
Il meccanismo estradizionale, pertanto, si rivelava inadeguato, e la sua obsolescenza discendeva soprattutto dalla persistenza di un vaglio di carattere politico sulle richieste, dalla eccessiva ampiezza del catalogo di clausole che consentivano agli Stati di rifiutare la consegna, dalla inesistenza di termini precisi entro i quali evadere le pratiche, dalla quale, spesso, derivava una eccessiva durata delle procedure.
Il primo passo verso un radicale cambiamento fu compiuto nel corso del Consiglio europeo straordinario di Tampere, tenutosi nei giorni del 15 e 16 ottobre 1999. In questa occasione, si parlò espressamente della necessità di abolire l’estradizione e di potenziare il sistema di cooperazione attraverso l’implementazione, anche per la gestione delle questioni criminali, del principio del mutuo riconoscimento delle decisioni giudiziarie (una sintesi dei lavori e le conclusioni del Consiglio sono pubblicate in Cass. pen., 2000, p. 302).
L'idea di fondo intorno alla quale si intendeva costruire questo nuovo meccanismo di consegna era la condivisione tra tutti gli Stati membri di un medesimo patrimonio di valori, che consentisse di dismettere talune cautele tipiche del regime estradizionale, nel quale, per contro, vengono a contatto Stati i cui ordinamenti giuridici possono essere ispirati a principi anche antitetici.
I lavori successivi – sicuramente accelerati dalle cruente manifestazioni del terrorismo internazionale – diedero alla luce la decisione quadro sul mandato d’arresto europeo.
I punti qualificanti del nuovo istituto sono, appunto, l’eliminazione del ruolo dell’autorità politica, sostituito da un dialogo diretto tra le autorità giudiziarie, l’attenuazione del principio di doppia incriminazione e, più in generale, la drastica riduzione dei motivi di rifiuto della consegna, che si accompagnano alla introduzione di serrate cadenze procedimentali, finalizzate a ridurre i tempi necessari per la decisione.
Era prevedibile che modifiche così incisive potessero suscitare perplessità nei singoli Stati membri. Del resto, la materia nella quale andava a innestarsi l’istituto – l'esercizio della potestà punitiva – è uno degli aspetti più delicati e al tempo stesso più gelosamente custoditi da ciascuno Stato. Queste tensioni, pertanto, hanno richiesto numerosi interventi della Corte di giustizia, finalizzati a individuare nozioni interpretative comuni per tutti gli Stati membri e, per quanto riguarda l'Italia, una opera costante della Suprema Corte.
3. L’euromandato in Italia: la complessa gestazione legislativa e la successiva opera di armonizzazione della Suprema Corte.
Sin dal principio, l'Italia ha assunto una posizione affatto peculiare, manifestando un atteggiamento di chiusura – per molti versi inspiegabile – nei confronti del nuovo corso della cooperazione giudiziaria europea.
Volgendo lo sguardo indietro, la ritrosia del legislatore italiano emerge, in maniera inequivocabile, dalla complessa gestazione che ha dato alla luce la l. 22 aprile 2005, n. 69.
L’euromandato, infatti, è stato recepito con notevole ritardo: se la “clausola ghigliottina” contenuta nell’art. 31 della decisione quadro indicava quale termine di entrata in vigore del nuovo strumento il 1 gennaio 2004, in Italia l’euromandato, ai sensi dell’art. 40, sostituiva l'estradizione soltanto nel maggio 2005.
Peraltro, la legge 22 aprile 2005, n. 69 si caratterizza sia per una disciplina transitoria tesa a posticipare ancora l’effettiva entrata in vigore dell’istituto, sia per la presenza di altre previsioni che limitano fortemente i profili di maggiore innovazione: a titolo esemplificativo, si possono ricordare gli artt. 7 e 8, in evidente contrasto con la eliminazione del principio di doppia incriminazione, e l’art. 18 che contempla numerosi motivi di rifiuto estranei alle previsioni della decisione quadro (su tali difformità, M. Bargis, Libertà personale e consegna, in R. E. Kostoris, Manuale di procedura penale europea, III ed., Giuffrè, 2017, p. 329 ss.).
In realtà, tale atteggiamento era maturato su un terreno reso fertile dalle opinioni, invero autorevoli, di una parte della dottrina, che aveva sollevato seri dubbi sulla coerenza dell’istituto con le previsioni costituzionali in materia penale (Caianiello – Vassalli, Parere sulla proposta di decisione-quadro sul mandato di arresto europeo, in Cass. pen., 2002, p. 462 ss.).
Era inevitabile, pertanto, che tale diffidenza si traducesse, dal punto di vista legislativo, in un testo difficile da gestire: in effetti, una interpretazione coerente con lo spirito della decisione quadro era ostacolata non soltanto da previsioni che con quella decisione si ponevano in deciso contrasto, ma anche da altre disposizioni normative che, a prescindere dalla loro conformità con l'atto sovranazionale, presentavano consistenti difetti strutturali.
L’impressione iniziale dell’interprete, pertanto, è stata quella di dover lavorare su un testo che, se fosse stato applicato alla lettera, avrebbe determinato un inadempimento delle prescrizioni sovranazionali e una notevole regressione nei rapporti tra Stati membri dell’Unione europea. Per certi versi, la cooperazione in forza di euromandato sarebbe risultata sovrapponibile a quella basata sull’estradizione extraconvenzionale, come sarebbe avvenuto – ad esempio – se fosse intesa letteralmente la previsione dell’art. 17, comma 4, che esige, per procedere alla consegna, la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza.
La legge sul mandato d’arresto europeo, quindi, ha richiesto ripetuti interventi della Suprema Corte, sicuramente più intensi nel primissimo periodo di vigenza del nuovo strumento, ma piuttosto frequenti anche successivamente (sul punto, G. Lattanzi, Prefazione, in G. De Amicis - G. Iuzzolino, Guida, cit., p. VIII ss.).
Una pietra miliare in questo cammino giurisprudenziale è la sentenza resa dalle Sezioni unite nel caso Ramoci (Cass., sez. un., 30 gennaio 2007, n. 4614, Ramoci, in Cass. pen., 2007, p. 1911). Chiamate a valutare il significato dell’art. 18 lett. e), che impone di rifiutare la consegna qualora l’ordinamento dello Stato richiedente non contempli termini massimi di durata delle misure cautelari, le Sezioni unite hanno fornito una lettura della previsione in parola che è in grado di salvaguardare tanto il principio costituzionale sancito dall’art. 13 Cost. che le esigenze della cooperazione giudiziaria. Tale decisione ha assunto particolare importanza perché ha dettato i criteri esegetici ai quali l’interprete deve attenersi per conciliare lo scarno dato normativo interno con i non semplici impegni derivanti dalla partecipazione allo Spazio di libertà, sicurezza e giustizia dell’Unione Europea.
4. Il mandato di arresto europeo nell’interpretazione della Corte di giustizia.
La situazione italiana presenta senz’altro connotati peculiari che, come si è visto, hanno richiesto un energico intervento da parte della Suprema Corte di cassazione.
Tuttavia, anche osservando la situazione dal punto di vista della Corte di giustizia - che consente di inquadrare la materia in una prospettiva più ampia - si percepiscono gli attriti prodotti dall’introduzione dell’euromandato nell’ordinamento sovranazionale (per una esaustiva e aggiornata panoramica sulla giurisprudenza della Corte di giustizia, M. Bargis, Libertà personale, cit., p. 350 ss.).
Si può muovere dalla storica sentenza sul principio di doppia incriminazione (C. giust. Ue, 3 maggio 2007, C-303/05, in Cass. pen., 2007, p. 3078), che costituisce una pronuncia fondamentale in quanto ha avallato la legittimità formale e sostanziale dell’istituto (Bargis, Libertà personale, cit., p. 350 e ss.), per arrivare alle sentenze sul rito contumaciale (C. giust. Ue, 21 ottobre 2010, C-306/09, in Cass. pen., 2011, p. 393 e C. giust. Ue, 26 febbraio 2013, C-399/11, Melloni, in Cass. pen., 2013, p. 2070, che hanno interessato direttamente l'ordinamento italiano), passando per altre decisioni cruciali, come quella sulla nozione di residente (C. Giust. UE, 17 luglio 2008, C-66/08, in Cass. pen., 2008, p. 4399, con osservazioni di E. Selvaggi; decisione che ha contribuito, nell’ordinamento italiano, alla declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 18, lett. r), della nostra legge sull’euromandato da parte di C. cost., 24 giugno 2010, n. 227, in Cass. pen., 2010, p. 4148).
Emerge dalla trama di questo lavoro giurisprudenziale l’impegno che la Corte di giustizia ha profuso nel bilanciamento tra gli interessi contrapposti e nell’elaborazione di una lettura della decisione quadro che, senza pregiudicare le esigenze degli Stati membri e la tutela dei singoli, ha comunque garantito il funzionamento del nuovo strumento di cooperazione giudiziaria.
Nel periodo più recente, poi, la Corte di giustizia ha dovuto confrontarsi con un tema di straordinaria rilevanza che ha posto l’istituto cooperativo in una relazione ancora più immediata e diretta con il problema della tutela dei diritti fondamentali delle persone.
Una prima manifestazione di questa esigenza si coglie nelle decisioni con le quali è stata affrontata la questione del rapporto tra l’esecuzione di un mandato di arresto europeo e il problema del sovraffollamento carcerario nello Stato membro di emissione (C. giust. UE, 5 aprile 2016, C-404/15 e C-659/15, Aranyosi e Caldararu, Dir. pen. e proc., 2016, con nota di Martufi, La Corte di Giustizia al crocevia tra effettività del mandato d'arresto e inviolabilità dei diritti fondamentali; C. giust. UE, 25 luglio 2018, C-220/18).
Qui, la Corte di giustizia è stata particolarmente cauta, ma ha mostrato chiaramente la sensibilità verso le esigenze di tutela del singolo: il dato fondamentale è la individuazione in via pretoria di un motivo di rifiuto, non contemplato dalla decisione quadro, in forza del quale, dinanzi al pericolo che la persona sia consegnata ad uno Stato presso il quale subirebbe un trattamento inumano e degradante, lo Stato di esecuzione deve sospendere la consegna, richiedendo rassicurazioni idonee a escludere tale rischio, e rifiutarla qualora la tutela garantita non appaia soddisfacente (a questo insegnamento, peraltro, si è uniformata anche la Corte di Cassazione: Cass., sez. VI, 1 giugno 2016, n. 23277, in Cass. pen., 2016, p. 3804, con nota di Abate, Il sovraffollamento delle carceri come motivo di non esecuzione del mandato del mandato di arresto europeo).
In questa prospettiva, sembra delinearsi, in seno alla giurisprudenza della Corte, un nuovo metodo interpretativo teso a stimolare il dialogo tra le autorità degli Stati membri: se la tutela dei diritti fondamentali permette di derogare alla tassatività dei motivi di rifiuto della consegna, un esito simile rappresenta comunque l'extrema ratio ed è ipotizzabile soltanto qualora la situazione potenzialmente lesiva non sia destinata a risolversi in altro modo. Anche se, nell’economia delle decisioni della Corte di giustizia, sembra assumere rilievo preminente, rispetto alla tutela dei diritti fondamentali, l'esigenza di assicurare il funzionamento dei meccanismi repressivi nazionali, che, con l'emissione di un mandato di arresto europeo, esplicano i loro effetti nel territorio di tutti gli Stati membri.
Successivamente, il medesimo ragionamento è stato replicato in un altro delicatissimo caso, relativo alla riforma dell’ordinamento giudiziario in Polonia e alle possibili conseguenze che il nuovo assetto avrebbe potuto produrre sulla garanzia di un processo equo. La riforma in parola, infatti, è stata censurata dalla proposta motivata del 20 dicembre 2017, adottata ai sensi dell’art. 7, TUE, con la quale la Commissione Europea ha articolato due distinti rilievi: in primo luogo, ha evidenziato l’assenza di un controllo di costituzionalità indipendente e legittimo; in secondo luogo, ha sottolineato i rischi di violazione dell’indipendenza dei giudici ordinari.
Anche qui, la Corte di giustizia ha escluso la possibilità di un rifiuto immediato della consegna – possibile soltanto qualora sia integrata l'ipotesi contemplata dal decimo considerando della decisione quadro – e ha ancora posto l’accento sulla necessità di avviare un dialogo preliminare tra gli Stati, ribadendo che la consegna può essere rifiutata soltanto qualora tale interlocuzione non escluda il rischio di una concreta violazione dei diritti fondamentali (C. giust. UE, 25 luglio 2018, C-216/18).
5. Gli effetti della Brexit sul mandato d'arresto europeo.
Le vicende applicative del mandato d'arresto europeo sembrano aver raggiunto finalmente un punto di quiete: superate le difficoltà iniziali, appare ormai acquisito un patrimonio interpretativo che permette di risolvere le questioni sollevate di volta in volta dai giudici nazionali. Così, anche qualora si presentino situazioni affatto inedite, gli strumenti esegetici collaudati nel corso di questi anni consentono di elaborare una soluzione coerente con tutte le esigenze del caso.
Non era mai accaduto, tuttavia, che la Corte di giustizia dovesse prendere posizione su un tema tanto delicato come quello degli effetti che il recesso di uno Stato membro dall'Unione Europea può produrre sui rapporti di cooperazione giudiziaria.
La vicenda della cosiddetta Brexit, quindi, rimane di stringente attualità anche da un punto di vista processualpenalistico almeno per due motivi.
In primo luogo, perchè ricorda come la cooperazione giudiziaria penale possa risentire delle evoluzioni di matrice prettamente politica all'interno dell'Unione Europea e subirne le conseguenze.
In secondo luogo - ed è questo il profilo di maggiore interesse - perchè quella vicenda impone di verificare quali effetti scaturiscano da un evento simile.
Sintetizzando estremamente, la preoccupazione del giudice del rinvio irlandese era che, con il recesso della Gran Bretagna dall'Unione Europea, potessero venir meno alcuni presidi fondamentali della cooperazione. Si dubitava, più precisamente, del fatto che la Brexit potesse far venir meno il diritto alla deduzione del periodo di custodia scontato nello Stato membro di esecuzione, il riparo offerto dal principio di specialità e la tutela che limita la consegna o l'estradizione successiva, nonché, in generale, il rispetto dei diritti fondamentali della persona consegnata conformemente alla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea.
Nel momento in cui si è pronunciata la Corte di giustizia, la concreta attuazione della Brexit non aveva – come del resto non ha ancora – assunto caratteri di certezza e definitività, quindi, sulla scorta di tale premessa si è escluso che un simile pericolo possa sussistere: finché rimane uno Stato membro, il Regno Unito è tenuto a rispettare tutti gli obblighi in questione.
La Corte, tuttavia, si è spinta oltre, per escludere che anche in futuro possano verificarsi gli effetti negativi paventati dal giudice del rinvio. In questa ottica, ha evidenziato che l'adesione alla Convenzione europea di estradizione – che diverrebbe il riferimento normativo per gestire i rapporti di cooperazione con il Regno Unito – e l'adesione alla Convenzione europea dei diritti dell'Uomo consentono di ritenere che, anche una volta al di fuori del sistema eurounitario, il Regno Unito continuerà a garantire un sufficiente livello di tutela dei diritti fondamentali.
Tale decisione, quindi, si pone in linea di continuità con gli arresti più recenti, nei quali la necessità di garantire efficacia al meccanismo di consegna è stata sempre coordinata con la tutela dei diritti fondamentali.
A margine di tale decisione, tuttavia, si intravede un altro argomento da tenere in considerazione: si tratta del ruolo di garanzia svolto nelle dinamiche cooperative dalla Convenzione europea dei diritti dell'Uomo, che diviene una sorta di valvola di sicurezza per garantire il rispetto dei diritti fondamentali anche in un contesto più ampio rispetto a quello dello Spazio di libertà, sicurezza e giustizia dell'Unione Europea.
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