ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
I GIURISTI E LE RECENTI RIFORME DEL PROCESSO PENALE
Spunti di riflessione su un comune sentire anche in vista del prossimo futuro di Giuseppe Santalucia
La Legislatura precedente ha varato molte riforme nella materia della giustizia penale. Ciò nonostante, l’atteggiamento dei giuristi è stato di generale diffidenza, sempre in attesa di una revisione sistematica di ampio respiro che le condizioni politiche del Paese, da tempo non breve, non consentono neanche di ipotizzare.
Questo spirito di sostanziale conservazione, illuminato da ideali e nemmeno abbozzate costruzioni sistematiche, segna una lontananza dall’opera, non facile, del legislatore e non agevola il necessario ammodernamento delle strutture processuali.
Il lavoro di riforma, incapace di svolgersi in un unitario lasso temporale, deve necessariamente snodarsi nel tempo: sarebbe stato necessario non perdere il filo di alcuni progetti, per proseguire, condividendone l’obiettivo finale, su quella strada.
Non sta accadendo questo per una perdita di memoria che, forse, andava evitata.
Sommario: 1. Una premessa.- 2. La diffidenza dei giuristi. 3. L’aspettativa della grande riforma e la frustrazione che essa genera.- 4. L’assenza di una riforma di sistema: è questo il problema? - 5. Il processo che non c’è in mezzo ai troppi processi.- 6. Non è mancata una visione strategica. - 7. Per il futuro.
1. Una premessa. La XVII legislatura è stata, per la giustizia, una intensa stagione di riforme.
Per il settore penale sono stati tanti gli interventi normativi, che hanno riguardato soprattutto il processo.
L’ampiezza d’azione non ha avuto pari negli ultimi anni, trovando un termine di possibile comparazione soltanto nella XIII Legislatura, in cui operarono i Governi Prodi I, D’Alema, I e II, e Amato II, con i ministri della Giustizia prof. Flick, prof. Diliberto e on. Fassino.
Una spinta imponente è provenuta, in buona parte, dall’Unione europea.
Il debito normativo, se così può dirsi, era di grandi dimensioni: molte decisioni quadro e direttive attendevano da anni di essere recepite, e altre sono state prodotte proprio in quest’ultimo scorcio di tempo.
Dall’istituzione delle squadre investigative comuni, la cui decisione quadro risaliva al 2003, all’ordine di indagine europeo previsto da una direttiva di molti anni dopo, precisamente del 2016, il lavoro di recepimento dei nuovi strumenti di cooperazione e di reciproco riconoscimento ha proceduto a ritmi incalzanti.
Ma molto si è anche fatto all’interno di una cornice esclusivamente delineata sull’ordinamento nazionale.
Vanno ricordate, allora, la sospensione del processo con messa alla prova, l’archiviazione per particolare tenuità del fatto, la riforma delle impugnazioni, sia dell’appello che del ricorso per cassazione, la riforma delle intercettazioni ed altri episodici interventi di novella, questi ultimi tutti contenuti nella legge n. 103 del 2017 qualificata anche da un’ampia delega per la riforma del sistema penitenziario.
Riforme, queste, che hanno cercato di deflazionare il carico di processi e di impugnazioni, nella convinzione che una macchina giudiziaria ingolfata rende un cattivo servizio non solo per le risposte che non riesce a dare ma anche per quelle che, tra mille difficoltà, in maniera affaticata consegna.
Di fronte a questa produzione, l’atteggiamento dei giuristi, teorici e pratici, è stato, quando non di decisa avversione, di timida approvazione e solo raramente di condivisione: comune denominatore delle varie posizioni è stato comunque l’uso di uno stesso modulo di lettura del novum, rivelatore di un comune sentire in pezzi importanti del ceto forense e giudiziario, oltre che accademico.
2. La diffidenza dei giuristi. Se si volesse indagare il merito delle valutazioni non si potrebbe prescindere dall’esame dei contenuti; ma l’interesse ora è di interrogarsi sul generale atteggiamento tenuto dal ceto dei giuristi.
Si rende così tangibile la frattura che corre tra il piano della produzione delle norme e quello della loro sistemazione e applicazione, che a sua volta riflette la lontananza tra il mondo della politica e quello dei tecnici.
Ed infatti, gli studiosi teorici raramente intervengono in senso propositivo nel dibattito riformatore, quasi in pregiudiziale diffidenza verso ciò che non viene incubato in lavori di ampio respiro e di lungo periodo di commissioni tecniche; e i giuristi pratici, dal canto loro, pur non mancando l’interlocuzione in corso d’opera, hanno lo stesso atteggiamento, privilegiando la sottolineatura di quel che poteva essere fatto e non è stato, con il richiamo costante all’importanza di ben altri fronti di intervento immancabilmente ignorati o solo superficialmente toccati.
3. L’aspettativa della grande riforma e la frustrazione che essa genera. La critica ricorrente, sostanzialmente corale, è che si è agito con modifiche particolari, se non di dettaglio, spesso attingendo a soluzioni già messe a punto dalla giurisprudenza di legittimità, al di fuori di un quadro ampio e sistematicamente coerente.
Molti, o meglio, tutti gli studiosi che fino ad ora hanno fatto sentire la loro voce non vedono il disegno unificante in interventi eterogenei, frammentari, ripetitivi di approdi delle Sezioni unite della Corte suprema, ancora impregnati di un tasso di inquisitorietà che inquina e scompagina vieppiù un sistema, messo a punto con la riforma epocale del 1988, stremato e stressato da una incessante catena di novelle, il più delle volte varate in nome di istanze securitarie e anticognitive.
La scena è segnata da tre poli: la categoria dei giuristi pratici, al suo interno divisa in due frange, tra l’Avvocatura, attenta ai diritti di libertà e di difesa dell’individuo dall’autorità prevaricante, e la Magistratura, sempre più attratta dalle istanze efficientiste e ossessionata dai carichi e dai numeri; e la categoria dei giuristi teorici, custodi di un sistema perennemente insidiato e maltrattato da un Legislatore che non ha vocazione e statura sistematica e che si mostra attento in misura spropositata ai bisogni di efficienza, che oggettivizza garanzie individuali, quali la ragionevole durata del processo, dimenticando che le garanzie della difesa e la pienezza dell’accertamento sono l’in sé del processo.
In questo modo si traccia la parabola di un declino, dai tempi della grande rivoluzione accusatoria del codice del 1988, che visse poco nella genuinità della prima forma e che nell’incontro e scontro con le esigenze dell’esperienza applicativa dovette cedere a scelte novellistiche compromissorie e di complicazione.
A questo quadro a tinte fosche non vengono opposte rappresentazioni diverse e la diversità di opinioni conquista spazi soltanto quando l’analisi si concentra sul merito delle riforme.
La cornice segnata da una decisa critica è comune in tutti i commenti, siano essi accademici, forensi o giudiziari, probabilmente perché la discussione è, come è ovvio che sia, fortemente orientata e influenzata dalla più robusta riflessione accademica.
La coralità della rappresentazione erige un muro talmente alto da rendere pressoché impossibile che si affacci un diverso approccio.
Se, però, si prova ad assumere un altro punto di osservazione, si può tentare una riflessione volta a cogliere le cause più profonde della situazione, evitando di individuarle soltanto nella superficialità di approccio del legislatore del nostro tempo.
Questo sforzo potrà rivelarsi utile, perché il dibattito sulle riforme non può certo concludersi qui ed è bene che prosegua, se possibile, con qualche consapevolezza in più.
4. L’assenza di una riforma di sistema: è questo il problema? Una prima considerazione riguarda la denunciata assenza di respiro sistematico ed è, se si vuole, anche banale nella sua evidenza.
Un intervento di sistema implica un legislatore capace di una visione unitaria e coerente, portatore di una forte omogeneità culturale e irrobustito da una stessa sensibilità di approccio.
Non è dubbio che questo tipo di legislatore manca da un bel po’ di tempo dalla scena e che certo non ha caratterizzato la XVII legislatura, nata e vissuta da un accordo politico tra forze contrapposte, che si erano fronteggiate durante la competizione elettorale e che, ciò nonostante, sono riuscite, pur tra non poche difficoltà, a condurre a termine il quinquennio con una imprevedibile fecondità riformatrice.
Se si fosse seguita l’aspirazione dichiarata dei giuristi, in costante attesa di una riforma di sistema, con ogni probabilità la legislatura si sarebbe conclusa con una sostanziale infertilità normativa.
Sarebbe stato un bene? Quel poco (molto) che è stato prodotto ha risposto a reali bisogni, ha migliorato la situazione pregressa, o è stato soltanto un buco (l’ennesimo) nell’acqua?
C’è una terza via tra l’intervento sistematico ampio e l’immobilismo riformatore?
Oppure, visto che il quadro politico di questi anni fa rimpiangere epoche di maggiore coesione (ma a quali anni bisogna risalire con la memoria per trovare consolazione?), occorre rassegnarsi e attendere che il mondo migliori?
Queste domande hanno già, in gran parte, una risposta nei fatti.
Pur in assenza della palingenesi sistematica, le riforme varate sono state capaci di produrre qualche buon frutto, tra difficoltà innegabili e sbavature che potevano essere evitate.
Il lavoro di riassetto sistematico di ciò che è stato prodotto, a volte ma non sempre con qualche eccesso di frammentazione, è però affidato ai giuristi non per una distorta supplenza in favore di un legislatore indebolito, quanto per loro vocazione, verrebbe da dire di tipo istituzionale.
Non è il legislatore che deve curarsi della compatibilità sistematica nel momento in cui dà vita ad un nuovo prodotto, perché, seguendo questo ragionamento, si finirebbe con l’introdurre una forma di condizionamento di “quel che è già” su “quel che dovrà essere”.
Occorre certo che anche il legislatore tenga conto della realtà, ma essa non può trasformarsi in una palla al piede capace di frenare, di attutire le modifiche, che ben possono essere ardite o eccentriche se il decisore politico così le matura, ovviamente nel rispetto dei vincoli di compatibilità costituzionale e sovranazionale.
Il sistema, a ben vedere, è più compito e cura dei giuristi che preoccupazione del legislatore, che può intervenire anche in modo episodico e su settori di materia tra essi slegati, perché spetta a costoro, tradizionalmente, la cetegorizzazione sistematica.
Certo, sarebbe auspicabile una maggiore attenzione alla coerenza della norma di nuova fattura con il tessuto che la riceve, ma la cura di tipo dogmatico non è una precondizione dell’opera del legislatore se non in una visione scarsamente democratica che finisce col condizionare l’opera dei parlamenti alle costruzioni dei tecnici.
L’impegno dogmatico, inteso come attività chiarificatrice di implicazioni e connessioni delle norme che vengono incasellate nel precedente assetto, è al servizio e non alla guida del legislatore democratico; segue e non precede il lavoro normativo.
Il vero è, sembra di poter dire, che la legislazione, quella processuale, deve essere giudicata per la sua utilità, per la capacità di avviare a soluzione nodi di inefficienza e di insufficiente tutela di situazioni soggettive, e non per una sua originaria attitudine sistematica.
Se si accoglie questa chiave di lettura, il rapporto tra legislatore e giuristi si rafforza nei termini di una maggiore fattiva cooperazione, sostituendo alle critiche di posizione il raccordo operativo, nella consapevolezza, volta al bene collettivo, che la sistemazione e l’interpretazione portano naturalmente a completamento il percorso di produzione delle leggi e non ne sono soltanto il banco di prova di una intrinseca pretesa bontà.
Può anche essere accaduto che una legge non abbia tracciato con chiarezza la linea da seguire, magari perché nel confronto parlamentare la spinta riformista ha ceduto forza e potenza dinnanzi alle esigenze di definizione compromissorie sul risultato finale, in ossequio alle regole della maggioranza. Qui però entrano in gioco le competenze dei giuristi che, di fronte a leggi di non buona fattura ma dal nucleo costituzionalmente compatibile, non si limitano a coglierne e fotografarne i difetti ma ne lavorano interpretativamente i contenuti alla luce delle disposizioni costituzionali, cercando di portare a termine quel che, fors’anche per necessità delle logiche del confronto democratico in un dato contesto politico, è rimasto in ombra.
5. Il processo che non c’è in mezzo ai troppi processi. Se si fa attenzione al discorso dei giuristi, specie a quello che si articola sul tema delle garanzie, è assai raro cogliere un riferimento che non sia al processo inteso e osservato in una sorta di aulica unicità.
Non si ha modo di percepire in quel ricco argomentare che il processo, in tal modo definito, nella realtà non esiste e che la realtà, più miseramente, si caratterizza per una molteplicità di processi.
La conseguenza è che, mentre il giurista guarda e studia il processo, il legislatore, che della realtà non può fare a meno, si misura con i molti, moltissimi, troppi processi; questa semplice osservazione rende ragione della distanza, che diventa incomprensione, tra giuristi, specie teorici, e legislatore.
Gli uni analizzano e approfondiscono una costruzione concettuale che sublima, nell’ambiente rarefatto di una biblioteca, un fenomeno colto in una dimensione atemporale, e riescono a offrire contributi di riflessione utilissimi sia nel momento applicativo che, all’opposto, in quello poietico, godendo del privilegio di poter trascurare che il processo è invero calato in una realtà segnata da tanti faldoni e poche strutture.
L’altro deve far tesoro dei suggerimenti e delle critiche ma, al contempo, deve fare molta attenzione a non perdere di vista ciò che accade nelle aule e nei palazzi di giustizia, perché altrimenti, incamminandosi lungo i sentieri battuti dai giuristi teorici con la pretesa di allontanare, al pari loro, lo sguardo dal fenomeno per incentrarsi sul concetto, rischia di apparire di una disarmante ingenuità.
Il pensiero corre ad una disposizione del codice del 1988, sopravvissuta negli anni, il cui nitore concettuale è pari alla sua ineffettività pratica.
Essa è contenuta nell’articolo 477 c.p.p., sulla durata e prosecuzione del dibattimento, e prescrive che “quando non è assolutamente possibile esaurire il dibattimento in una sola udienza, il presidente dispone che esso venga proseguito nel giorno seguente non festivo”.
Se ci si volge al sistema e alle sue definizioni teoriche, la norma è lodevole, perché immagina e persegue la concentrazione temporale del dibattimento, valore di un processo realmente accusatorio; ma occorre chiudere gli occhi alla realtà per evitare di stigmatizzarne duramente la sostanziale pressoché totale ineffettività.
Il rinvio al giorno successivo non festivo suona come una ingenuità che fa sorridere e non come una prescrizione da osservare o, quanto meno, una direttiva da utilizzare come criterio orientativo.
Quale è allora la misura d’equilibrio tra considerazione della realtà e traduzione normativa della volontà di trasformazione?
Il compito del legislatore è certamente arduo.
Deve fare i conti con la realtà ma non divenirne schiavo; deve guardare ad essa per modificarla ma non esserne prigioniero; deve essere capace, coniugando realismo e visione riformatrice, di non restare schiacciato, e sostanzialmente inerme, tra elaborazioni teoriche, da un lato, e prassi che prendono luogo delle norme profittando della loro scarsa capacità di attecchimento nel reale, dall’altro.
6. Non è mancata una visione strategica. Con la consapevolezza della complessità dell’impegno riformatore, si può convenire che, seppure non costruendo un nuovo sistema, il legislatore ha comunque mostrato di avere una visione strategica, diretta, tra l’altro e soprattutto, a rendere flessibile la domanda di processo nella riaffermazione dell’intangibilità del principio di obbligatorietà dell’azione, gravido di attuali significati di garanzia ma, al contempo, fattore potenziale di inefficienza compulsiva se vissuto senza il necessario grado di flessibilità.
Ecco che istituti come la messa alla prova o l’archiviazione per particolare tenuità, spesso criticati per il pericolo di svilimento del processo e dell’accertamento che ne è il nucleo vitale – dato che lo si evita pur quando si applica una (cripto) pena (messa alla prova) o si riscontra l’esistenza di un fatto tipico penalmente rilevante (particolare tenuità) –, possono essere rivisitati come strumenti di contenimento intelligente del carico giudiziario.
In quella strategia, che alla visione di sistema ha preferito l’attenzione all’effettività del sistema esistente, i menzionati istituti hanno rappresentato le risorse ultime che il consenso in funzione derogatrice del contraddittorio e la discrezionalità controllata del pubblico ministero possono offrire al tentativo di scongiurare gli effetti della lenta ma inesorabile forza deformatrice della quantità dei processi sull’architettura costituzionale del processo.
Il passaggio al tema delle garanzie è immediatamente conseguente.
Come l’obbligatorietà dell’azione può essere salvaguardata nei tempi attuali soltanto dotando il sistema di meccanismi capaci di indebolirne, nella contaminazione con la realtà giudiziaria, le rigidità esasperate, così le garanzie processuali possono essere assicurate soltanto all’interno di una politica del processo capace di recuperare a maggiore efficienza i molti processi, facendo a meno di quelli che, per le ragioni che partitamente dovrebbero essere esaminate, si rivelino inutili o troppo dispendiosi.
La riduzione calibrata dei processi non è allora un atteggiamento antigarantista, come non lo è la più rigorosa selezione delle impugnazioni, specie di merito, o la restrizione dell’area della ricorribilità per cassazione anche attraverso l’eliminazione, in alcuni casi, del controllo sui difetti di motivazione.
L’obiettivo dell’efficienza è, infatti, esso stesso un aspetto dell’attenzione strategica per i diritti delle parti, illuminata dalla convinzione che l’eccessivo carico non solo causa ritardi irragionevoli nella risposta ma rischia di abbassare la qualità della giurisdizione svilendo, a volte, il senso stesso delle garanzie, in una progressiva burocratizzazione affaticata del lavoro processuale.
È utile, ancora una volta, far ricorso ad un esempio tratto proprio dalle recenti riforme.
L’aggravamento degli oneri di specificità nella proposizione degli appelli, che è criticato proprio da quanti intendono scorgere in questo un abbassamento delle garanzie, risponde al bisogno di intercettare sin da subito, per eliminarli alla radice con la dichiarazione di inammissibilità, quelli meramente pretestuosi, che non rivelano una reale domanda di giustizia e che danneggiano così non soltanto l’organizzazione giudiziaria quanto gli imputati, e le parti in generale, degli altri processi, che subiscono danno quantomeno in termini di vistosi rallentamenti.
Una severità, dunque, che non è fine a se stessa, che non mortifica gli imputati e le loro prerogative di giustizia, ma che tiene conto dell’ovvio, a cui prima si è fatto cenno, ossia che una riforma del processo deve sempre muoversi nella consapevolezza che occorre incidere su realtà fatte da una moltitudine di processi.
Del resto, se la cifra fosse stata quella del rigore antigarantista, non si sarebbe riservato l’appello incidentale soltanto all’imputato, questo sì indice importante dell’assenza di un’involuzione del sistema: l’appello incidentale del pubblico ministero era stato infatti introdotto e mantenuto sostanzialmente come minaccia di eliminazione del divieto della reformatio in peius per l’imputato tentennante tra l’acquiescenza e l’impugnazione, e pertanto, una volta che il filtro delle impugnazioni pretestuose è stato affidato a meccanismi diversi e preferibili, se ne è potuto fare a meno, proprio in una prospettiva di contemperamento equilibrato di efficienza e garanzie, non come termini contrapposti ma come aspetti di un unico fenomeno.
7. Per il futuro. E però, l’incapacità di realizzare una grande riforma non è immune da costi. Infatti, i vantaggi di una visione sincronica vengono persi e possono essere recuperati soltanto attraverso una sostenuta attenzione, di tipo diacronico, sulle indicazioni strategiche che gli interventi settoriali hanno potuto soltanto abbozzare ma non attuare.
Occorre allora che la memoria giochi un ruolo importante e, a tal fine, acquista ancora una volta centralità l’impegno dei giuristi.
A condizione che, ovviamente, i giuristi non soffrano di quei mali che, in forme simili, impediscono di varare grandi riforme, ossia l’eccessiva frammentazione dei punti di vista degli attori, la mancanza di una comune e condivisa elaborazione di progetti, la contrapposizione sclerotizzata, e soprattutto la preoccupazione per le ricadute corporative delle riforme con le conseguenze di un diffuso timore per il nuovo.
L’ultimo esempio per dare consistenza a queste considerazioni sparse può essere riservato al giudizio di cassazione.
Da anni si parla del sovraccarico di ricorsi, tanto che un convegno dell’associazione degli studiosi del processo penale fu anni fa intitolato proprio alla Corte assediata.
Sono note le implicazioni che il carico ha sulla effettività delle funzioni di una Corte suprema, che non regge il confronto con le Corti supreme di altri ordinamenti sia per i carichi di lavoro che per l’organico dei giudici.
La passata legislatura ha tratteggiato un disegno riformatore, prima sommariamente richiamato, che potrebbe essere sviluppato se non completato.
Al numero crescente di ricorsi si è pensato di intervenire selezionando, per oggetto e per prospettazione di vizi, le impugnazioni che meritano l’accesso al controllo di legittimità.
La direttrice di marcia non può dirsi esaurita con quelle leggi, perché potrebbe ancora fruttare in termini di sfoltimento del carico in settori ove la Corte non riesce ad offrire complessivamente un penetrante controllo di garanzia.
Il riferimento è, ancora una volta esemplificativamente, al vizio di motivazione nel giudizio cautelare personale.
Quella finestra aperta sul fatto, attraverso la deduzione di un difetto della motivazione, costringe la Corte ad affacciarsi su una materia in divenire, consapevole che la sua veduta è parziale e inevitabilmente collegata ad una situazione che, nei termini fotografati, con ogni probabilità non è più al momento in cui essa interviene.
Da qui la prudenza (a volte eccessiva) con cui si accosta all’apprezzamento del vizio che, quando rilevato, conduce ad annullamenti (quasi) sempre con rinvio, e quindi con assai scarsa capacità di incidenza sul diritto soggettivo coinvolto, la libertà personale.
Non è ora la sede per approfondire il tema: valga solo come indicazione di uno dei possibili territori ove si potrebbe sperimentare la riduzione ai vizi della violazione di legge, dopo aver attentamente vagliato il rapporto tra i costi che ne deriverebbero in termini di garanzia per i singoli (pochi, molto pochi, sembra di poter dire) e i vantaggi che si avrebbero sul piano del recupero di efficienza nelle funzioni di Corte suprema (tanti, anche qui secondo una prognosi non eccessivamente ottimistica), che si tradurrebbe in una opportuna resistenza alla tentazione, altrimenti scarsamente evitabile, di enfatizzare il ruolo delle Sezioni unite, quasi da farne il vero organo supremo in luogo della Corte nella sua interezza.
Ma pare che ci si è già avviati in altra direzione.
La legge di bilancio per il 2019 ha aumentato l’organico della magistratura di legittimità di ben settanta unità, preferendo affrontare il problema in modo opposto alle scelte del legislatore precedente: si insegue la domanda di giustizia di legittimità e non la si governa, senza pensare che una Corte di cassazione ancora più numerosa dell’attuale, già scarsamente comparabile con le vere e proprie Corti supreme di altri Paesi, vedrà crescere i rischi di frammentazioni interpretative al suo interno, con inevitabile rafforzamento della primazia delle Sezioni unite. Si produrrà qualche decisione in più, aumentando una produttività già considerevole, ma si diminuirà l’apporto in termini di prevedibilità delle decisioni, fattore più importante dell’organico dei magistrati nel fronteggiare il numero di ricorsi e, in generale, di domande di giustizia.
Sarebbe assai utile sentire (anche) su questo tema la voce dei giuristi.
Giuseppe Santalucia
Se lo dice il Papa!
di Roberto Giovanni Conti
Sovrapposizione, conflitto tra leggi diverse, antiche e recenti, nazionali e sovranazionali e vuoti legislativi richiedono al magistrato un’assunzione di responsabilità che va oltre le sue normali mansioni. La giustizia è tale se realmente ed autenticamente indipendente.
Quella resa alla presenza dell’Associazione Nazionale Magistrati è, forse, la riflessione più articolata di Papa Francesco sul tema della giustizia italiana.
Essa sembra il frutto di una meditata presa di posizione, propiziata da una sorta di risonanza magnetica alla quale è stato sottoposto il nostro ‘sistema giustizia’ per offrire alla Giunta esecutiva dell’ANM – e, si vedrà, non solo ad essa - indicazioni, auspici e moniti che, per la chiarezza con la quale sono stati esposti e pur nella mirabile sinteticità del messaggio, meritano massima considerazione.
Una premessa, credo, debba essere fatta ed è che la trama delle riflessioni del Pontefice è intrisa di una forte laicità, non ravvisandosi punti di caduta capaci di orientare (e ridurre) la riflessione verso il mondo cattolico.
Il Papa ha inteso parlare al mondo giudiziario italiano nel suo complesso e ad esso si è rivolto, offrendo il suo pensiero sul ruolo della giustizia nella società.
Tre i destinatari del messaggio l’ANM, quale organo rappresentativo di circa il 90 per cento dei magistrati, i giudici e la società.
Il Pontefice riconosce il ruolo proattivo svolto dall’ANM nel corso degli anni, lodandone il Codice etico e la capacità di vigilare sull’indipendenza dei magistrati, ma anche di fare memoria dei magistrati morti per mano criminale nell’esercizio delle funzioni.
Ma il messaggio va diritto verso i giudici, tutti i giudici, offrendo la visione della giustizia secondo la visuale di Papa Francesco.
Una giustizia che è, al contempo, garanzia indispensabile per il corretto funzionamento della vita pubblica e sociale, ma anche della serena convivenza dei singoli e, prima ancora, presidio ineludibile per conseguire e mantenere la pace.
Una dimensione tutta dinamica, in divenire, nella quale il corpo magistratuale al quale è affidata tale virtù cardinale ‘in modo del tutto speciale’ non può limitarsi a realizzarla nel caso singolo, ma deve aspirare ad ‘un traguardo verso il quale tendere ogni giorno’, mancando il quale ‘tutta la vita sociale rimane inceppata, come una porta che non può più aprirsi, o finisce per stridere e cigolare, in un movimento farraginoso’.
Al centro della giustizia sta l’uomo e la sua dignità o, meglio, la carne viva delle persone, soprattutto di quelle più indigenti. L’invito che Papa Francesco rivolge ai giudici, ricordando le parole contenute nell’art.9 dello Statuto dell’ANM, è dunque quello di essere capaci di garantire sempre, a qualunque persona, senza discriminazioni e pregiudizi di sesso, di cultura, di ideologia, di razza, di religione, la sua dignità non dimenticando che la peculiare condizione di chi versa in situazioni di estrema debolezza e di indigenza impone, a volte, di adottare dei correttivi al canone del suum cuique tribuere, in modo da offrire e garantire una giustizia ‘con uno sguardo di bontà’, ‘sempre più inclusiva, attenta agli ultimi e alla loro integrazione’.
Compito per niente agevole, anzi spinoso e complesso, anche perché ‘ostacolato nella sue efficacia dalla carenza di risorse per il mantenimento delle strutture e per l’assunzione del personale’ oltre che ‘per la crescente complessità delle situazioni giuridiche’.
Il discorso si fa, a questo punto, apparentemente tecnico senza perdersi tuttavia in tecnicismi o parabole. La magmatica proliferazione delle leggi può causare ‘una sovrapposizione o un conflitto tra leggi diverse, antiche e recenti, nazionali e sovranazionali’ al quale si contrappone, spesso, l’esistenza di ‘vuoti legislativi in alcune importanti questioni, tra le quali quelle relative all’inizio e alla fine della vita, al diritto familiare e alla complessa realtà degli immigrati’.
Che fare dunque? Ritirarsi dal conflitto, assecondare la complessità senza offrire risposte appaganti, attendere che il legislatore provveda a chiarire i dubbi o colmi le lacune?
La risposta è di tutt’altra fattura, netta ed univoca: Queste criticità richiedono al magistrato un’assunzione di responsabilità che va oltre le sue normali mansioni, ed esige che egli constati gli eventi e si pronunci su di essi con un’accuratezza ancora maggiore.
Questa, dunque, la mission che Papa Francesco affida ai giudici, caricandoli di un ‘continuo sforzo di aggiornamento’, capace non solo di favorire il ‘dialogo con i diversi saperi extra-giuridici, per comprendere meglio i cambiamenti in atto nella società e nella vita delle persone’, ma anche di ristabilire la realtà e verità dei fatti, in un’epoca assai proclive a valorizzare finte verità sulla base di ‘informazioni fugaci’.
Ma il messaggio, innervato da un principium cooperationis fra chi, dentro e fuori dalla giurisdizione, intende condividere quest’idea di giustizia non si ferma affatto a queste già straordinarie riflessioni, invitandosi i giudici ‘ad essere in grado di attuare con sapienza, ove necessario, un’interpretazione evolutiva delle leggi, sulla base dei principi fondamentali sanciti dalla Costituzione’. Sapienza alla quale viene poco prima accostata la necessità di perseguire la giustizia con ‘prudenza, che aiuta ad applicare i principi generali di giustizia alle situazioni concrete’ – corsivi aggiunti –.
Magistrati che, proprio in ragione della delicatezza delle funzioni attribuite e della centralità della persona, sono ‘ben più che funzionari, ma modelli di fronte a tutte la cittadinanza e in particolare nei confronti dei più giovani’.
Quale giudice può perseguire in maniera credibile gli ideali di giustizia che Papa Francesco tratteggia? Ancora una volta, viene scelta la via dei testi scritti e, in particolare, dello Statuto dell’ANM, più volte richiamato nei suoi articoli 1 e 2, per sottolineare che una giustizia credibile è tale se realmente ed autenticamente indipendente. Papa Francesco esorta a che ‘l’indipendenza esterna…tenga lontana da voi i favoritismi e le correnti, che inquinano scelte, relazioni e nomine’. Un giudice che può essere dunque percepito come giusto dalla società soltanto se non ricada nella ricerca di vantaggi personali e sia capace di respingere le pressioni destinate ad influire sui modi di amministrare la giustizia.
Ma qual è la società nella quale opera il giudice? Quanto essa persegue la virtù della giustizia? Anche su questo punto Papa Francesco è molto diretto, non nascondendo che le tensioni e lacerazioni dell’attuale contesto favoriscono un ‘ripiegamento nel privato che spesso genera disinteresse e diventa terreno di coltura dell’illegalità’ A questo si affianca un sentimento che istintivamente è rivolto a pretendere e rivendicare ‘una molteplicità di diritti, fino a quelli di terza e quarta generazione connessi alle nuove tecnologie’ senza alcuna percezione dei propri doveri. Dunque una proliferazione di diritti associata spesso ‘a una diffusa insensibilità per i diritti primari di molti, persino di moltitudini di persone’. Queste, dunque, le tragiche contraddizioni dell’oggi, rispetto alle quali il valore primario della giustizia può e deve costituire un argine invalicabile.
Fin qui il discorso del Pontefice.
Più che provare a commentare il messaggio ed i suoi contenuti sembra utile evidenziarne alcuni punti qualificanti.
Vi è, sopra tutto, la necessità di mettere al centro dell’azione giudiziaria la persona umana, soprattutto quando si trova in condizioni di fragilità e vulnerabilità. Il ruolo ed il fine ultimo del giudiziario non può che realizzarsi offrendo protezione e garanzia di tutela agli ultimi, ai più indigenti e per ciò stesso ai più indifesi e dimenticati.
Il canone dell’eguaglianza sostanziale permea il messaggio papale, superando l’idea di giustizia equa in quanto capace di garantire sempre e solo ‘ad ognuno ciò che è suo’. Una giustizia giusta deve quindi farsi parte attiva e militante per salvaguardare la dignità dei più deboli e per promuovere l’attuazione dei principi costituzionali in funzione evolutiva del sistema, in vista del perseguimento della massima tutela possibile dei diritti fondamentali dell’uomo.
Una giustizia che, dunque, si alimenta attraverso – e persegue – la convergenza fra le libertà individuali ed i diritti con il dovere di solidarietà, cogliendone in modo mirabile il suo fine costituzionale.
Per altro verso, l’accento dedicato alla dignità delle persone ed alla carnalità delle vicende umane che scorrono in vivo davanti ai giudici (soprattutto di merito), oltre ad evocare le riflessioni di Paolo Grossi sulla dimensione fattuale del diritto è, ancora una volta, testimonianza autorevole di una ‘fame di dignità’ che, come già abbiamo provato a rappresentare in altra sede (v. Bioetica e biodiritto. Nuove), si delinea soprattutto rispetto ai temi eticamente sensibili come autentico baricentro sul quale fare convergere le migliori energie del sistema giudiziario.
Accanto a questo, un messaggio che rende indissolubile la centralità ed indispensabilità della giurisdizione – capace di muoversi sui fronti plurimi nei quali essa è chiamata ad operare, a contatto con variegate e multiformi fonti scritte e viventi – e con essa la moralità ed eticità del suo essere ed apparire linda, trasparente, apolitica, non opaca, non parziale, non orientata a logiche ‘di parte’ o ‘di corrente’.
Non basta – recte, non serve –, dunque, amministrare la giustizia in modo accurato ed approfondito se non si sa essere giusti nel proporsi all’esterno come istituzione innervata da quegli stessi valori che il giudiziario promuove.
Resta solo da chiedersi se la chiarezza e semplicità del discorso papale potrà fare da volano ad una rinnovata attenzione e riflessione su temi spesso sminuiti e sottovalutati o, peggio, trattati con sufficienza, erodendo occasioni preziose di crescita culturale e professionale per quelle nuove generazioni dei magistrati, ai quali occorre spiegare quanti essi dovranno essere sempre meno funzionari e sempre più giudici.
DA ‘SUD FONDI’ A ‘GIEM’, PASSANDO PER ‘VARVARA’: CONTINUA L’ODISSEA DELLA CONFISCA URBANISTICA
La sentenza ‘Giem’ contro Italia, del 28 giugno 2018, della Corte europea dei diritti dell’uomo ha riconosciuto la compatibilità con i principi della convenzione europea della confisca urbanistica disposta con sentenza di proscioglimento per prescrizione del reato. Essa solo apparentemente pone fine ad un tormentato decennio nei rapporti tra Cedu e Giudice interno, in quanto le indicazioni fornite dalla Corte con riferimento alla tutela del terzo e ai presupposti di ‘proporzionalità’ e ‘strumentalità’ della confisca, evidenziano il rischio di possibili disarmonie nell’ambito del contesto normativo nazionale.
Sommario: 1. Premessa - 2. Compatibilità della lottizzazione abusiva con l’art. 1 Prot. Add. CEDU - 3. La differente tutela del terzo in confisca ed ordine di demolizione
1.Premessa
Nel firmamento giuridico esiste la confisca da lottizzazione abusiva che può essere disposta anche con sentenze diverse da quelle di condanna (art. 44 D.P.R. n. 380/01, secondo comma, già art. 19 L. 47/85) ma è una stella che ha avuto una vita travagliatissima e che, da oltre trent’anni, vaga alla ricerca di una stabile collocazione.
In origine e per lungo tempo, la confisca ha gravitato nell’orbita della sanzione amministrativa ‘reale’ - applicabile nei confronti di tutti i proprietari dei terreni lottizzati e delle opere ivi esistenti, ancorché imputati prosciolti o terzi in buona fede - e le posizioni più garantiste che ne mettevano in discussione persino i natali, ritenendo che la norma fosse la conseguenza di un malinteso avvenuto nelle fasi della promulgazione[1], si sono infrante contro le sentenze della Corte di Cassazione che avevano escluso ogni incompatibilità con i principi della Costituzione[2].
Poi, nel 2008, la sentenza della Corte europea ‘Sud Fondi contro Italia’, che ha riscontrato nella confisca i tratti tipici della sanzione penale, ha dato la stura ad un dibattito che si è riversato a cascata in plurime direzioni. La Corte ha censurato la rigorosa impostazione tradizionale della Cassazione, per contrasto con l’art. 7 della CEDU e con l’art. 1 del Protocollo 1 della CEDU, ponendola, di fatto, in rotta di collisione con l’art. 117, 1° comma, della Costituzione che prevede il rispetto delle norme internazionali pattizie ed ha indotto il Giudice interno a riposizionare le tessere del mosaico dirottando la confisca verso la categoria della sanzione amministrativa tuot court, con il fine di recuperarne la dimensione personalistica, senza, tuttavia, spostarla nel terreno della sanzione penale del cui perimetro rimaneva e rimane geloso custode[3].
La mossa non ha convinto la Corte europea che, nel 2013, con la sentenza ‘Varvara contro Italia’, sembrava avere escluso ogni possibilità di mediazione con il Giudice interno, in quanto, richiamando gli stessi articoli della convenzione, aveva escluso la possibilità che la confisca fosse abbinata ad una sentenza diversa da quella di condanna.
A giugno del 2018, a dieci anni dalla sentenza ‘Sud Fondi’, con l’attesa sentenza ‘Giem’ contro Italia, la Grande Camera ha definitivamente certificato la compatibilità con i principi della convenzione, della misura ablatoria disposta con sentenza di proscioglimento, limitando l’apertura della forbice alle ipotesi di prescrizione, e solo all’esito di un giudizio di merito che avesse accertato i profili di responsabilità dell’imputato.
Il “dialogo tra le Corti”, costituito dalla reciproca cessione di spazi nella interpretazione dei diritti fondamentali, ha così consentito di comporre il contrasto, tuttavia l’odissea della confisca - che continua ad essere collocata nell’ambito della sanzione penale dalla Corte europea ed in quello della sanzione amministrativa dal Giudice interno - sembra destinata a proseguire e gli aspetti problematici che ‘Giem’ lascia in eredità, chiamano la Suprema Corte, nel prossimo futuro, a prendere posizioni impegnative.
2.Compatibilità della lottizzazione abusiva con l’art. 1 Prot. Add. CEDU
Le criticità maggiori derivano dalla trasposizione delle garanzie che presidiano il diritto di proprietà, previste dall’art.1 del Protocollo Addizionale della CEDU, nel nostro ordinamento, saldamente ancorato al principio della funzione sociale della proprietà.
Secondo la ‘Giem’ la confisca è una sanzione particolarmente afflittiva che non rispetta il rapporto di proporzionalità tra il pregiudizio arrecato al titolare dalla privazione del diritto di proprietà e le finalità pubbliche perseguite, in quanto non può essere graduata in ragione della intensità dell’elemento psicologico o delle modalità della condotta e, soprattutto, non differenzia le aree edificate da quelle non edificate.
La Corte europea aveva rimarcato con forza questo aspetto di criticità già in ‘Sud Fondi’, rilevando che, nel caso sottoposto al suo esame (la nota vicenda della lottizzazione ‘Punta Perotti’ a Bari, di cui la vertenza ‘Giem’ è una costola), il carattere punitivo della misura ablativa non era giustificato da un reale danno al paesaggio, essendo rimasto inedificato l’85% dei terreni e che rimedio più ‘proporzionato’ doveva ritenersi la demolizione dei manufatti abusivi.
Questi parametri di valutazione, però, non appaiono compatibili con la fattispecie lottizzatoria che può riguardare anche terreni rimasti inedificati e che non va confusa con l’edificazione del manufatto abusivo.
La lottizzazione abusiva è un istituto di lunga e, talvolta, controversa elaborazione giurisprudenziale che costituisce una sorta di microcosmo dal quale la confisca non può essere stralciata, pena l’impossibilità di apprezzarne i tratti che la caratterizzano rispetto a tutte le altre (molteplici) misure ablatorie presenti nel nostro ordinamento. Il requisito della ‘proporzionalità’ della confisca rispetto agli interessi perseguiti, pertanto, deve essere filtrato attraverso i principi che scolpiscono la fattispecie criminosa della lottizzazione abusiva, di cui la confisca costituisce una propaggine.
Occorre premettere che, nella materia urbanistica, il terreno rileva sotto il profilo della sua naturale vocazione a costituire un’area ‘urbana’ poichè la destinazione ad un certo tipo di fruizione (agricola, residenziale ecc.) lo connota, detta il suo statuto e ne condiziona la oggettiva liceità; ne consegue che solo se non sono intraprese opere di trasformazione, è possibile isolare concettualmente il terreno, nella sua ‘materialità’, dal tipo di destinazione che potrebbe acquisire, in quanto il terreno rimane una res indifferente dal punto di vista della sua liceità, allo stesso modo di una materia prima, dalla quale potrà ricavarsi un oggetto lecito o illecito. Ma se una porzione di territorio è oggetto di trasformazione effettiva, la specifica destinazione assunta in concreto dal terreno sarà da ritenersi lecita o illecita a seconda della sua rispondenza alle previsioni della pianificazione urbanistica. In tal caso, nell’ambito di quella porzione di territorio, anche i terreni rimasti inedificati saranno funzionali alla lottizzazione in termini di indice volumetrico, di strade, di spazi che segnano le distanze tra gli edifici, di servizi, di altre opere di urbanizzazione, ecc..
L’equilibrio urbanistico è paragonabile ad un mosaico in cui ogni tessera deve essere collocata al suo posto, sicchè se un terreno è destinato ai servizi per le residenze limitrofe (scuole, chiese, spazi verdi ecc.), la lottizzazione che gravasse con altre residenze quel terreno, avrà privato dei servizi le residenze limitrofe ed avrà realizzato altre abitazioni che, a loro volta, avranno necessità di altre aree destinate a servizi, così determinando uno sconvolgimento difficile da ricomporre. Al netto della percentuale di ‘terreni costruiti’, la lottizzazione avrà impresso una destinazione, alla tessera, tale, da compromettere la realizzazione dell’intero mosaico, così arrecando un danno all’ambiente che trascende l’ atteinte rèelle au paysage inteso, evidentemente, dalla Corte europea, quale edificazione del manufatto abusivo. In questo quadro la confisca costituisce rimedio consono e ‘proporzionato’, poiché solo il passaggio in mano pubblica dell’intera porzione del territorio lottizzato abusivamente, permette di garantirne la destinazione secondo le previsioni di piano. La casistica giudiziaria consente di apprezzare la peculiarità dell’illecito lottizzatorio che, evidentemente, non può rimanere ingabbiato nel binomio manufatto abusivo/demolizione. Si pensi al caso delle residenze turistico alberghiere (R.T.A.), in cui il diverso assetto urbanistico è impresso all’area non con la realizzazione di nuovi complessi di edifici, ma con la modifica della destinazione d’uso di un complesso immobiliare già edificato, da turistico alberghiera a residenziale per uso abitativo privato. In tal caso appare evidente l’inadeguatezza della sanzione della demolizione del manufatto abusivo in quanto l’unico modo per ripristinare la destinazione lecita dei manufatti è quello di sottrarli a chi li utilizza indebitamente per fini di lucro. D’altra parte, la stessa Corte europea, dopo avere salvaguardato il principio personalistico, escludendo la possibilità di applicare la misura ablatoria senza un accertamento di responsabilità di chi la subisce, non ha potuto disconoscere la dimensione ripristinatoria della confisca che solo giustifica il suo abbinamento ad una sentenza di proscioglimento.
Altro discorso è, evidentemente, quello che riguarda i limiti culturali che storicamente caratterizzano la gestione della cosa pubblica da parte di molti Comuni italiani e che inducono la Corte europea ad avanzare dubbi sulla ‘strumentalità’ della confisca rispetto all’interesse perseguito. Nella parte della sentenza ‘Giem’ che ha riguardato le società Hotel Promotion s.r.l. e R.I.T.A. Sarda s.r.l., la Corte si chiede, infatti, “in che misura la confisca della proprietà dei beni abbia effettivamente contribuito alla tutela dell’ambiente”, avendo il Comune deciso di utilizzare gli alloggi abusivi piuttosto che demolirli. E’ noto che spesso le grandi speculazioni edilizie beneficiano del contributo determinante delle Pubbliche amministrazioni che rilasciano i titoli abilitativi, senza i quali difficilmente gli imprenditori investirebbero cospicue somme di danaro per edificare imponenti complessi edilizi. In questi casi l’acquisizione in mano pubblica dei suoli e delle opere abusive, in forza di una decisione giudiziaria, spesso dà luogo ad inerzie imbarazzanti da parte dell’Autorità pubblica o a soluzioni discutibili come quelle che sono entrate nel mirino della Corte europea. Questo cortocircuito istituzionale è determinato da una gestione del territorio finalizzata a calamitare consenso elettorale piuttosto che a perseguire l’interesse pubblico ed implementare la qualità della vita della comunità e, in questo senso, la Corte offre uno spunto di riflessione che merita senz’altro di essere coltivato. La confisca, infatti, presuppone che i Comuni siano attrezzati sotto il profilo culturale, prima ancora che operativo, nella difficile gestione di situazioni che impongono decisioni impopolari come quelle di demolire o convertire manufatti, destinati a civile abitazione, talvolta imponenti e persino esteticamente apprezzabili.
In ogni caso, l’incapacità di utilizzare la confisca secondo lo spirito della norma, non può avere ricadute sull’impianto normativo, nel senso di depotenziare uno strumento concepito dal legislatore come un’arma indispensabile per dare scacco alle forme più gravi di abusivismo che pregiudicano il corretto sviluppo del territorio.
3.La differente tutela del terzo in confisca ed ordine di demolizione
Quanto alla tutela dei terzi, la Corte europea ha evidentemente escluso la possibilità di disporre la confisca a loro carico, diversamente configurandosi, in aperta violazione dell’art. 7 della Convenzione, una sanzione irrogata per responsabilità altrui e senza avere dato la possibilità di prendere parte al processo.
La posizione del terzo, però, induce ad un confronto con l’ordine di demolizione.
La Corte di Cassazione ha, sino ad oggi, respinto le numerose istanze di estendere i principi del sistema sanzionatorio penale alla demolizione del manufatto abusivo rappresentandone la natura di sanzione amministrativa ‘reale’ applicabile, in seguito a sentenza di condanna, anche a carico di persona diversa dall’autore dell’illecito. La funzione meramente ripristinatoria della demolizione esclude che possa configurarsi una ‘pena’ ai sensi dell’art. 7 della Convenzione europea e che, sotto questo profilo, possa ipotizzarsi un percorso analogo a quello della confisca.
Tale differenziazione, però, evidenzia una possibile disarmonia sul versante del bene giuridico compromesso dai reati che costituiscono il presupposto delle due misure poste a confronto. Gli interessi urbanistici compromessi dal reato cui consegue l’ordine di demolizione (esecuzione dei lavori in totale difformità o assenza del permesso di costruire di cui alla lett. b, art. 44 DPR 380/01), infatti, sono meno pregnanti rispetto a quelli coinvolti dal reato di lottizzazione abusiva che attiene ad una forma di intervento ben più incisiva, in quanto idonea a compromettere la programmazione edificatoria del territorio. La diversa gravità delle due fattispecie spiega, secondo la stessa Corte Costituzionale (ordinanze n. 148 del 21/4/94 e n. 107 del 16/3/89), la disciplina normativa delle cause di estinzione del reato, previste solo per il reato meno grave, di cui alla lett. b art. 44 DPR 380/01, come effetto del rilascio in sanatoria del permesso di costruire, in senso stretto (art. 36 DPR 380/01) o mediante oblazione (condoni edilizi di cui agli artt. 31 L.47/85, 39 L.n.724/94 e 32 D.L.269/03). Soprattutto spiega perché il legislatore aggancia alla sentenza di condanna solo l’ordine di demolizione e non la confisca che, invece, è prevista per la mera sussistenza del fatto. Nel primo caso, infatti, quando l’imputato è prosciolto pur sussistendo il fatto, l’abuso edilizio, potrà, comunque, essere ‘assorbito’ nell’ambito della programmazione edificatoria della P.A. che non ne rimane irrimediabilmente pregiudicata; nel secondo, invece, il fatto consiste proprio nel pregiudizio della pianificazione del territorio e, pertanto, la sua gravità non consente di limitare la misura ripristinatoria alle pronunce di condanna.
In tale contesto risulta, allora, distonica la tutela del terzo in buona fede che risulta garantita nell’ipotesi criminosa con un elevato indice di offensività (la lottizzazione abusiva accertata, indifferentemente, con sentenza di condanna o di proscioglimento) ed a costo della definitiva rinuncia alla corretta programmazione edificatoria del territorio, e non per il reato che consegue alla realizzazione di un singolo manufatto abusivo (accertato con sentenza di condanna), inidoneo a pregiudicare, allo stesso modo, la pianificazione del territorio.
[1] La tesi è riportata nella ordinanza del 9/4/2008 con cui la Corte di Appello di Bari ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 44 dor 380/01, in Cass Pen 2008, n. 11 p. 4326.
[2] Cass. pen., Sez. III, 27/01/2005, n.10037, Vitone, .; Cass. pen., Sez. III, 15/02/07, n. 6396, Cieri, Cass. N. 236076; Cass., sez. III, 29 maggio 2007, n. 21125, Licciardello, Cass. pen., Sez. III, 2/10/2008, n. 37472, Belloi,.
[3] L’inversione di rotta è avvenuta ad opera di Cass Sez. III n. 42741/08, Silvioli, in Cass pen 2009 n. 6 p. 2553
IL cinema: un ausilio intelligente alla formazione dei magistrati (storia di un esperimento riuscito a Scandicci)
di Andrea Apollonio
Spesso, troppo spesso e forse ingiustamente, si imputa alla classe magistratuale tutta di essere autoreferenziale, priva di capacità autocritica, e per ciò ermeticamente chiusa alle istanze e alle effettive esigenze della società. Nell'immaginario comune questo stato di cose lo si deriva, per lo più, dallo stesso percorso formativo del magistrato, che prevede una puntigliosa conoscenza delle norme e delle leggi, del sistema giuridico nel suo complesso, senza tuttavia interessarsi ad attività di più ampio respiro, di carattere culturale o intellettuale. Lo stesso concorso, d'altro canto, presenta un elevato coefficiente di complessità proprio perché comporta l'avere - solo e soltanto - un bagaglio di conoscenze teorico-giuridiche vasto se non sconfinato, su cui applicare le proprie tecniche di ragionamento inferenziale.
Per il vero, la gran parte dei magistrati ha un sostrato intellettuale spesso almeno quanto quello, tecnico-giuridico, adoperato quotidianamente. Eppure queste critiche colgono il segno tutte le volte in cui non si registrano, nei programmi di formazione, attività che vadano oltre la conoscenza e l'interpretazione del dato di legge, e tocchino magari più generali problemi della società, oppure approfondiscano con altri linguaggi il proprio ruolo.
Di tutto questo i giovani magistrati requirenti nominati con D.M. del 7 febbraio 2018 (la cui attività di formazione iniziale, a Scandicci, si è appena conclusa) erano consapevoli, quando hanno proposto al comitato direttivo della Scuola Superiore della Magistratura di inserire tra le attività didattiche a loro rivolte anche la proiezione di un film, che spingesse gli studenti ad interrogarsi sulla natura della propria funzione, spesso esposta al rischio del pre-giudizio di chi la esercita. Una proposta infine accolta, ed in maniera molto favorevole, dal Direttivo: così, per la prima volta nella recente storia della formazione di quelli che un tempo erano gli "uditori" giudiziari - ed oggi m.o.t., terribile acronimo di magistrato ordinario in tirocinio -, a Scandicci, dopo l'orario delle lezioni frontali "tradizionali", è stato proiettato l'immortale film di Dino Risi, "In nome del popolo italiano", al quale è seguito un intenso e partecipato dibattito coordinato proprio da un membro del Direttivo, il prof. Riccardo Ferrante.
Uno dei film migliori e più intelligenti mai prodotti sulla magistratura, un film in questo senso necessario, che già nel 1971 si interrogava sull'uso distorto della funzione giudiziaria (celebre la scena in cui l'indagato Vittorio Gassman urla a Ugo Tognazzi: "Lei mi odia a livello ideologico, lei è prevenuto contro di me, lei non è un buon giudice!"; e purtroppo, la storia raccontata nel film gli darà ragione). Un'opera che gli stessi studenti, magistrati in procinto di prendere le funzioni nelle rispettive sedi, hanno voluto dibattire, approfondendo - in un momento di formazione intellettuale "collettiva" - i rischi che un approccio eccessivamente ideologizzato alla giurisdizione, in qualsiasi senso esso sia rivolto, produce nei casi concreti.
L'auspicio, quindi, è che un'attività didattica di questa natura possa essere organicamente inserita nei programmi di formazione, almeno della formazione iniziale dei m.o.t., che tornerà presto ad essere di ben diciotto mesi; giacché vedersi rivolgere domande cruciali sulla propria funzione, per mezzo di espressioni artistiche, quale quella cinematografica, che lasciano sempre un solco profondo nella coscienza di ciascuno, vuol dire incarnare il ruolo giudiziario con maggiore consapevolezza; meglio "attrezzati". La premessa (l'attenzione alla tematica da parte della Scuola Superiore) è nei fatti: l'auspicio è che l'esperimento ben riuscito a Scandicci qualche settimana fa non sia un esempio virtuoso ma isolato, bensì il punto d'avvio di un nuovo modo di concepire la formazione, che faccia leva anche sui linguaggi diversi da quello giuridico per preparare meglio - e a tutto tondo - il magistrato di domani alle sfide della modernità; che già oggi appaiono ciclopiche.
L’EQUIVOCO TRA GIURISTA E MEDICO LEGALE IN TEMA DI PARAMETRAZIONE DEL DANNO BIOLOGICO di Enrico Pedoja
L’evoluzione dottrinaria medico legale sui presupposti accertativi tecnici del danno alla persona, ora unitariamente confluiti nel danno non patrimoniale, ha fatto emergere, in seno alla Società italiana di Medicina legale e delle Assicurazioni, alcune criticità circa la valenza probatoria del concetto di danno biologico rispetto alle effettive esigenze di parametrazione liquidativa della componente base del danno non patrimoniale. In tal senso vi è stato un arresto della Medicina Legale in contrapposizione alle attuali modulazioni risarcitorie della componente base del danno non patrimoniale , non potendo sussistere – sotto il profilo strettamente “tecnico”- alcuna corrispondenza automatica tra il parametro di disfunzionalità biologica (inabilità temporanea e invalidità permanente biologica) ed il grado di sofferenza ad esse correlato. Ne deriva la necessità di una nuova rivisitazione medico giuridica della materia che consenta una migliore specificazione tecnica dei parametri di accertamento medico legale, onde pervenire ad una più equilibrata e perequativa definizione monetaria di quelli posti a base per la liquidazione delle componenti biologiche del danno non patrimoniale.
(documento SIMLA maggio 2018 -v. Sito SIMLA –org-, il danno biologico nel danno non patrimoniale. Indagine casistica Società Medicolegale Triveneta 2015 Articolo pubblicato su RI.DA.RE.- vedi sito www.smlt.it-.
Sommario: 1.Premessa - 2. La parametrazione tecnica medicolegale - 3. Il sofismo tecnico medico legale 4. Cosa emerge nella pratica applicativa – I conseguenti paralogismi giuridici e liquidativi - 5. Conclusioni e proposte
1. Premessa
La lettura della Sentenza n. 901/2001 ed in particolare quella n. 7513 del 27.3.2018 della Cassazione Civile pone attualmente serie criticità interpretative medico legali e medico giuridiche sulla intrinseca nozione e contenuto del concetto di danno biologico, quale emerge dagli art. 138 e 139 del Codice delle Assicurazioni, in relazione all'acquisizione di una definizione tecnica medico legale di “danno biologico”, definita dalla Società Italiana di Medicina Legale nel lontano 2001, divenuta ora di difficile inquadramento nel contesto della più estensiva nozione di danno non patrimoniale.
2. La parametrazione tecnica medicolegale
E’ nozione comune per qualsiasi specialista medico legale che la parametrazione dell’invalidità permanente biologica segue l’integrazione di parametri di riferimento tecnici contenuti nei cosiddetti Barèmes ove il presupposto valutativo è costituito esclusivamente e sostanzialmente da riferimenti di esclusiva disfunzionalità anatomica e/o psichica che integrano l’incidenza della menomazione accertata rispetto alle attività quotidiane comuni a tutti, con le uniche variabili connesse necessariamente all’età e sesso del danneggiato. Parametri tecnici che, in vero, non hanno subito alcuna modifica sostanziale allorché la valutazione della disfunzionalità anatomica e/o psichica passò – con l’avvento del danno biologico – dal concetto di danno alla capacità lavorativa generica a quello di invalidità permanente biologica, nonostante fosse mutato il presupposto valutativo dell’incidenza della menomazione : dalla ricaduta negativa sul “non fare reddituale” rispetto alla stima sul “ non fare areddittuale”.
3. Il sofismo tecnico medico legale
A prescindere da tale “iniziale peccato veniale”, quali specialisti medico legali, accertatori della componente base del danno, dobbiamo necessariamente prendere atto che l’errore “concettuale” espresso nel c.d. “decalogo SIMLA” del 2001 fu quello di inserire in una parametrazione di natura disfunzionale, ovvero la ricaduta negativa sul fare quotidiano del danneggiato, anche una proporzionale ed automatica ricaduta negativa sul sentire del soggetto, portatore di una determinata percentuale di invalidità permanente (i c.d. aspetti dinamico relazionali), senza che la Ns. valutazione consentisse di differenziare, rispetto alla invalidità quantificata, quali fossero effettivamente le conseguenze medie della menomazione sul comune “sentire” di ogni danneggiato che non sempre possono coincidere con la “ realtà del danno non patrimoniale” quale appare dalla sola invalidità permanente biologica.
In altri termini il ricomprendere i comuni “aspetti dinamico relazionali” nel concetto di inabilità ed invalidità permanente biologica è un sostanziale “errore interpretativo tecnico” , non avendo tali parametri alcuna valenza probatoria automatica sul sentire di qualsiasi soggetto che ha patito una documentata lesione e che nella sua quotidianità convive con un’accertata e specifica condizione menomativa.
Ricomprendere gli “aspetti dinamico relazionali” nella componente di inabilità temporanea ed invalidità permanente biologica (parametri che incidono esclusivamente sul “non fare” del danneggiato) ha un significato solo nel senso di valutare quantitativamente gli “impedimenti” o difficoltà del danneggiato nel partecipare al contesto sociale, famigliare o relazionale (quindi un “ generico non fare dinamico relazionale), ma non può in sé ricomprendere la sofferenza del soggetto per il “non poter fare come prima” in conseguenza del mutamento peggiorativo della propria integrità psicofisica né tantomeno la sofferenza del danneggiato nel sentirsi “svalutato” né tantomeno la percezione intrinseca della componente di dolore nocicettivo (ove questo sussista).
In sostanza il parametro “ quantitativo “ del danno biologico “ ( cioè la IT e la IP ) non ha alcun rapporto con i generici aspetti “ qualitativi “ della lesione e della menomazione
La sofferenza intima connessa al vissuto della lesione ed alla convivenza con la menomazione è una componente sempre presente nel danno alla persona accertabile dallo specialista medico legale: componente distinta da quella connessa ad altre peculiari condizioni “esistenziali” o conseguente ad altri diritti violati , non direttamente riconducibili all’evento lesivo psicofisico
Ad ogni disfunzionalità umana, conseguente a lesione psichica o fisica, corrisponde sempre un grado di sofferenza ad essa correlabile e definibile con differenti parametri “qualitativi”, accertabili anch’essi – in via convenzionale / presuntiva – dallo specialista medico legale (dolore, disagio e degrado *) : unico soggetto idoneo a qualificare l’effettiva corrispondenza quali-quantitativa del danno: parametri che – si ribadisce- non son tecnicamente rapportabili in via “automatica” al grado di generica disfunzionalità accertata (inabilità temporanea biologica ed invalidità permanente biologica)**
In tale ottica - onde chiarire equivoci interpretativi tecnici- è bene ricordare che l’apprezzamento del “ dolore nocicettivo” non fa parte in se’ della stima dell’invalidità permanente biologica , ma – ove presente e oggettivamente valutabile – serve a motivare una maggior disfunzionalità , in genere di tipo articolare e quindi una maggiore quota di invalidità permanente biologica , ma non riguarda l’apprezzamento qualitativo della “ sofferenza “ da parte di quello specifico danneggiato ( in termini di “ sentire “ , oltre al relativo “ disagio nel non poter fare quotidiano” , e alla ammissibile “ percezione del mutamento peggiorativo della propria integrità fisica ) rispetto ad altro soggetto che ha analoga percentuale di invalidità , senza manifestazioni di dolore nocicettivo.
4. Cosa emerge nella pratica applicativa – I conseguenti paralogismi giuridici e liquidativi
Per fare un semplice esempio ( vedasi il caso citato nella Sentenza n. 901/2001 della Cassazione e sostanzialmente ripreso nella Sentenza n 7513/2018), è sufficiente considerare che il riconoscimento di un 8% di invalidità permanente biologica per riduzione della capacità genitoriale, è totalmente differente da un 8% riconosciuto per gli esiti medi disfunzionale di una qualsiasi lesione fratturativa di un arto inferiore, ovvero da un 8% conseguente ad una perdita della funzione olfattiva ovvero – come spesso avviene nella comune pratica professionale - da un 8% derivante dalla somma di plurime microlesioni. Trattasi chiaramente di condizioni menomative quantitativamente analoghe, sotto il profilo di una parametrazione derivante dall’applicazione dei comuni Barèmes medico legali , ma totalmente differenti ,per quanto riguarda le ricadute della menomazione ,in sé distintamente considerata sotto il profilo qualitativo, relativamente alle ripercussioni sugli aspetti “dinamico relazionali” e quindi alla condizione di “sofferenza intrinsecamente correlabile a quella determinata e qualificata menomazione”.
Il problema interpretativo tecnico medicolegale – e di conseguenza risarcitorio- assume particolare rilevanza , con evidente possibilità di sperequazione risarcitoria , in relazione alla sussistenza del limite normativo ( il 9% di IP ) posto che , stante l’attuale Baréme di legge , alcune menomazioni , pur definite “ quantitativamente “ al di sotto del 9% presentano aspetti “ qualitativi “oggettivamente significati in rapporto alle ricadute personali e dinamico relazionali di qualsiasi soggetto ( vedasi ad esempio la perdita del testicolo o dell’ovaio , esisti disestetici di moderata entità in donne di giovane età, perdita della funzione olfattiva, disturbi da adattamento post traumatico di moderata entità ecc) col risultato che le stesse trovano minor riscontro risarcitorio rispetto ad invalidità biologiche ,stimate con danni pur di poco superiore al limite di legge , ma costituiti da plurime condizioni menomative che – valutate singolarmente – hanno minor o quasi assente ricaduta su comuni aspetti dinamico relazionali e quindi sulla “ sofferenza “ del danneggiato
Per fare un altro esempio si può arrivare a stimare un danno biologico superiore al 9% a seguito del complessivo apprezzamento tecnico conseguente alla perdita della milza, senza residue complicanze sulla crasi ematica ( invalidità che viene stimata nella misura dell‘8’ % con ricaduta dinamico relazionale pressoché nulla ), assieme a coesistenti esiti di un trauma minore del collo ed esiti dolorosi di singola frattura costale : complesso menomativo biologico che troverebbe paradossalmente maggior presupposto risarcitorio ( con applicazione delle Tabelle di Milano ) rispetto – ad esempio - alla già considerata perdita dell’ovaio in età’ fertile o del testicolo in età post-puberale o per un danno estetico di moderata entità in soggetto femminile o di altre condizioni menomative individuate nel Baréme di legge come “ lesioni di lieve entità’”, ma , al contrario, fonti di rilevante “ sofferenza correlata” per qualsiasi danneggiato/a.
Ciò senza voler entrare nel merito della proporzionale “disparità di liquidazione delle relative componenti di Inabilità temporanea biologica e della conseguente disparità liquidativa allorché sussistano ulteriori ricadute della menomazione su peculiari o particolari aspetti dinamico relazionali dello specifico danneggiato.
5. Conclusioni e proposte
In conclusione – dovendosi inquadrare il danno biologico nel contesto del danno non patrimoniale – emerge l’evidente necessità di una parametrazione aggiuntiva alla Inabilità ed invalidità biologica, di natura “ qualitativa” che non rappresenta “duplicazione di danno”, bensì specificazione degli aspetti di sofferenza connessi alla lesione ed alla menomazione accertata: condizione definibile in via presuntiva dallo specialista medico legale, che è l’unico soggetto in grado di apprezzare l’elemento di prova fondamentale ai fini del danno, cioè la realtà clinica della lesione e della menomazione.
Il problema, se mai, è solo di quello di un adeguamento della parametrazione risarcitoria del “ danno base” individuato nelle Tabelle di Milano , ovvero in quella proposte dal Tribunale di Roma , tramite l’applicazione di suppletive “percentuali “ integrative IP correlate secondo graduazione valutativa espressa in forma “ qualitativa o numerica” da parte dello Specialista Medicolegale , come tale suscettibile anch’essa di Contraddittorio tra le Parti in sede tecnica ( anche in fase extragiudiziaria -) Modulazione che potrebbe prendere a riferimento – in via analogica – il limite massimo del 67% del danno biologico quale previsto ad esempio dell’art. 6 della Legge 3.8.2004 n. 206 in tema di liquidazione della cosiddetta “ invalidità complessiva” (anch’essa costituita dal danno biologico e danno morale correlato)
Ciò ferma restando l’autonoma possibilità risarcitoria aggiuntiva al danno biologico “ base” per ulteriori allegazioni , suffragate da adeguato riscontro probatorio , conseguenti ad eventuali interferenze della lesione o della menomazione su peculiari aspetti dinamico relazionali dello specifico danneggiato, la cui definizione quantitativa , ovviamente , non compete allo specialista medicolegale (cui spetta, semmai, il parere di compatibilità con la menomazione accertata), così come non compete allo stesso la valutazione di possibili differenti componenti “ non biologiche “ di danno non patrimoniale conseguenti a violazione di altri Interessi Costituzionalmente tutelati
Peraltro, si deve considerare che aspetti quali “la disistima, la vergogna , la percezione del peggioramento della propria integrità” – ove autonoma conseguenza di lesione o menomazione, rappresentano comunque sempre aspetti “ qualitativi” di un determinato danno biologico e come tali suscettibili di “ equilibrato e motivato “ apprezzamento medicolegale nel contesto del proprio “ accertamento tecnico “ .
*Documento SIMLA maggio 2018 ( vedi Sito SIMLA –org)
** il danno biologico nel danno non patrimoniale. Indagine casistica Società Medicolegale Triveneta 2015 Articolo pubblicato su RI.DA.RE.- ( vedi sito www.smlt.it)
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