ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Sull’emergenza (annunciata) del Servizio sanitario nazionale
di Alice Cauduro e Paolo Liberati
Sommario: 1.Quarant’anni di Servizio sanitario nazionale; 2.Federalismo sanitario e suo finanziamento; 3.Competenze dell’Unione europea e intervento pubblico nell’economia (sanitaria); 4.Dall’emergenza all’ordinaria amministrazione: come invertire la rotta.
1. Quarant’anni di Servizio sanitario nazionale.
Nel 1978 una delle leggi più innovative della storia repubblicana ha istituito il Servizio Sanitario Nazionale (SSN), affermando che la Repubblica tutela la salute “senza distinzioni di condizioni individuali o sociali e secondo le modalità che assicurino l’eguaglianza dei cittadini nei confronti del servizio” (art. 1 legge n. 833/1978); dunque secondo un modello universalistico che, nel tempo, è stato da più parti criticato e ridimensionato in ragione della sua presunta insostenibilità economica, e recentemente anestetizzato da un accentuato processo di regionalizzazione della sanità di cui oggi si discute fino alle più estreme conseguenze del regionalismo differenziato. Con il risultato che, di fronte all’attuale pandemia, si assiste a modalità di reazione non uniformi, tante quanti sono i sistemi sanitari regionali, condizionate da un percorso di forte riduzione delle risorse dedicate, con conseguente compressione della copertura universale e frammentazione dell’uniformità delle prestazioni sul territorio nazionale.
Un percorso che affonda le sue radici ideologiche negli anni Novanta, nella asserita necessità di privatizzare ed esternalizzare, di ridurre il ruolo dello Stato, di riorganizzare il settore sanitario sulla base del modello aziendalistico[1], ed è proseguito nei decenni successivi, prima con la riforma costituzionale del 2001, che ha modificato il riparto di competenze tra Stato e Regioni anche in materia di salute, poi con le regole economiche europee, in ultimo quelle sul vincolo degli Stati al pareggio di bilancio. Si tratta di passaggi che hanno determinato, a legislazione vigente, la perdita di effettività dei principi introdotti con la legge del 1978. L’enorme valore del SSN viene riscoperto in tempi emergenziali di fronte all’evidente difficoltà dell’amministrazione sanitaria. Non si nega che questa sia una situazione eccezionale; il mondo intero è coinvolto, non soltanto i Paesi poveri che vivono in uno stato di emergenza sanitaria permanente; ma in Italia ciò che sta accadendo è in parte il risultato di un discutibile adattamento nazionale alle trasformazioni economiche degli ultimi venti anni. Al riguardo, si è pensato, in linea generale, che un sistema di welfare su larga scala fosse incompatibile con le richieste di competitività e flessibilità determinate dalla globalizzazione del sistema economico. Ma anziché spingere verso approcci altrettanto globalizzati ai sistemi sociali, come per esempio la creazione di una struttura sociale europea, l’Italia (e in parte anche l’Europa) si è orientata verso una frantumazione regionale del sistema sanitario nazionale. Sostenendo dogmaticamente, e più o meno implicitamente, che una scala ridotta delle coperture sociali potesse essere la migliore risposta di fronte a sistemi economici che lavorano su scala globale.
Una tendenza che ha coinvolto, negli anni, anche altre forme di intervento pubblico, fino a raggiungere la configurazione estrema, in casi specifici, di spostamento verso il settore privato di alcune prestazioni sociali, come nel caso del welfare aziendale, o anche di forme di collaborazione pubblico-privato, quali il project financing o il partenariato istituzionale che indirettamente contribuiscono a sottrarre risorse e controllo gestionale pubblico. Tendenza fondata sull’idea (o sull’ideologia) che uno Stato centralizzato sia necessariamente in contrasto con un modello di sviluppo globalizzato che riduce la possibilità di proteggere il mercato interno, e che si nutre di una costante preoccupazione per il funzionamento dei mercati e per la garanzia della competitività territoriale, come se quest’ultima non dipendesse, in ultima istanza, dal grado di copertura sociale. Fattori che hanno certamente rivestito un ruolo rilevante nel comprimere le pretese redistributive dei governi nazionali, conseguenza diretta del condizionamento che gli stessi mercati spesso esercitano nei confronti della democrazia come strumento di decisione collettiva. L’opportunità che i governi centrali adottassero una modalità decisionale snella e in linea con le necessità di un sistema economico più aperto si è così confusa con la compressione dell’universalismo come criterio di fruizione dei servizi sociali, un obiettivo di cui il federalismo sanitario, in Italia, si è fatto interprete.
2. Federalismo sanitario e suo finanziamento.
L’accidentato percorso del federalismo italiano, tuttora incompleto, ha comunque prodotto un esito: la frammentazione regionale del SSN, stimolata dal rilevante ammontare di risorse pubbliche che la sanità richiede, circa 110 miliardi di euro. Ci si accorge però oggi, con ritardo, che un federalismo sanitario figlio di iniziali istanze di secessione, e non di propositi di coordinamento e solidarietà nazionale, può rappresentare un problema. Si tratta di un federalismo cha ha affondato le sue radici nella speranza che una parte del Paese potesse fare a meno dell’altra, una speranza implicitamente alimentata dalla riforma del titolo V della Costituzione del 2001, in cui i territori, e il gettito territoriale delle imposte, sono divenuti più importanti dei bisogni di una comunità nazionale. Infatti la Costituzione italiana stabilisce che gli enti territoriali “dispongono di compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibile al loro territorio” (art. 119, co. 3), individuando un assetto profondamente diverso da quello che precedeva la riforma del titolo V del 2001, in cui si disponeva che “alle Regioni sono attribuiti tributi propri e quote di tributi erariali, in relazione ai bisogni delle Regioni per le spese necessarie ad adempiere le loro funzioni normali” (già art. 119 co. 2). Risulta evidente che l’impulso federalista degli anni recenti, attraverso il riferimento esplicito ai territori, abbia sia rafforzato la pretesa delle Regioni di vedersi riconosciuta una titolarità sul gettito dei tributi erariali in ragione della provenienza territoriale, sia aperto la strada al finanziamento integrale delle funzioni pubbliche attribuite alle Regioni a prescindere da uno specifico riferimento al bisogno.
Un federalismo, per le regioni a statuto ordinario, analogo al modello delle regioni a statuto speciale, non a caso proprio per ciò che concerne l’adozione del criterio territoriale per l’assegnazione delle risorse tributarie. Una logica, quella della frammentazione del sistema tributario, che è coerente con la logica di frammentazione dei servizi sociali nazionali. Contrariamente all’esigenza che un assetto decentrato efficiente abbia bisogno di un governo centrale forte, in Italia il processo si è rovesciato, perché l’azione politica delle Regioni, negli anni recenti, è stata mirata a indebolire le competenze del governo centrale, a minarne l’autorità e l’efficienza, a sminuirne il potere decisionale, a risolvere nel contenzioso giurisdizionale i problemi di coordinamento che qualsiasi Stato decentrato deve affrontare. Anche se la Costituzione italiana assegna allo Stato la competenza esclusiva in materia di “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni che devono essere garantiti su tutto il territorio dello Stato” (art. 117 co. 2 lett. m Cost.), l’adozione di modelli organizzativi differenti su tutto il territorio nazionale ne impedisce (di fatto) l’uguaglianza di accesso secondo il principio ispiratore della legge n. 833/1978.
È in questa prospettiva che si debbono interpretare molti dei passaggi compiuti in questi anni per la costruzione del decentramento e del federalismo fiscale. Nel campo del fabbisogno necessario per i livelli essenziali di assistenza, ad esempio, il ricorso a criteri standard di determinazione – come rimedio alla spesa storica – ha costituito in molti casi l’argomento scientifico per legittimare tagli di spesa, e per mascherare il condizionamento di quegli stessi livelli alle disponibilità finanziarie. Producendo così da un lato sistemi sanitari regionali a 20 velocità, una replica fedele delle diseguaglianze economiche del Paese, e dall’altro una contrazione di spesa pubblica, soprattutto a seguito dell’introduzione dei piani di rientro per le Regioni con deficit sanitari. Un provvedimento, quello dei piani di rientro, che ha certamente sortito benefici effetti contabili, migliorando il bilancio delle strutture sanitarie, ma ha anche ampliato i divari regionali in termini di personale sanitario attraverso il blocco del turnover e ridotto al minimo gli investimenti di lungo termine, con conseguenze niente affatto trascurabili sulla qualità percepita, sulla mobilità sanitaria interregionale, e sul grado di adempimento nella fornitura dei livelli essenziali di assistenza.[2] Una contrazione della spesa pubblica che indebolisce quindi gli obiettivi universalistici del servizio sanitario nazionale. Al riguardo, la spiegazione utilizzata per giustificare la compressione della spesa sanitaria, a partire dal 2008, si fonda su una sua crescita eccessiva dal 2000 al 2007 (da circa 67 a 101 miliardi di euro). Si tratta, tuttavia, di numeri che celano l’impossibilità, per molte Regioni, di soddisfare l’erogazione di servizi sanitari con risorse correnti. In quel periodo, infatti, maturano – per l’insieme di Asl e ospedali – debiti verso fornitori (più o meno occulti) pari a circa 50 miliardi di euro, il cui pagamento viene rinviato nel tempo e costringe molte Regioni ad indebitarsi a costi elevati per compensare i generalizzati problemi di cassa, celando così la reale portata dei fabbisogni sanitari. Un elemento, quello del debito occulto, che inizia a palesarsi proprio dopo l’introduzione dei piani di rientro per le Regioni in deficit.
Dal lato del finanziamento dei livelli essenziali sanitari, inoltre, ci si confronta da venti anni con l’ambiguità di un sistema che impiega sia tributi propri delle Regioni (in particolare Irap e addizionale Irpef) sia compartecipazioni al gettito di tributi erariali (in particolare l’Iva), violando così una regola aurea dei sistemi di decentramento, cioè quella di finanziare con risorse centrali i servizi che incorporano la fornitura di livelli essenziali di rilevanza nazionale. In materia di finanziamento, peraltro, si condividono i dubbi di costituzionalità sollevati riguardo alla compartecipazione alla spesa sanitaria attraverso i ticket perché in contrasto col principio universalistico di accesso alle cure.[3]
Il maggior difetto di questo sistema, negli anni, è stato quello di coltivare una sorta di illusione sanitaria, l’illusione dell’universalismo contro la realtà della selezione all’accesso. Da un lato, infatti, la carenza di risorse a disposizione del sistema sanitario ha stimolato il ricorso a strutture private che sono in grado di fornire prestazioni sanitarie a costi pieni inferiori al ticket imposto sulle prestazioni pubbliche e, soprattutto, in tempi rapidi. Dall’altro, la carenza di risorse ha incentivato lo sviluppo di sistemi sanitari regionali che potremmo definire di “sanità leggera”, non strutturati per l’emergenza. Si tratta di strutture, dunque, intrinsecamente deboli. Con punte di eccellenza, ma anche con rilevanti segnali di inefficacia rispetto ai bisogni della popolazione, come la mobilità sanitaria interregionale (prevalentemente da Sud a Nord) certamente dimostra. D’altra parte, l’efficienza in emergenza richiederebbe “inefficienza” in tempi di pace, un assetto che il nostro sistema economico e politico non è stato più disposto a considerare, pur alimentando l’illusione che il sistema sanitario sia ancora universalistico.
3. Competenze dell’Unione europea e intervento pubblico nell’economia (sanitaria).
L’intervento pubblico in economia (anche sanitaria) ha trovato nel tempo un limite nelle norme dell’Unione europea a tutela del mercato interno e della concorrenza (artt. 106 ss. TFUE); si ritiene che la nostra costituzione economica (artt. 41 ss. Cost.) ne sia ormai condizionata al punto da far dimenticare che la tutela dei diritti apprestata dalle norme economiche dell’Unione non può che ricomprendere anche quella della persona. Il settore della tutela della salute rientra ancora oggi tra le competenze degli Stati membri, come anche le politiche fiscali e le scelte di finanza pubblica; tuttavia il Trattato sul funzionamento dell’Unione europea stabilisce che “nella definizione e nell’attuazione di tutte le politiche ed attività dell’Unione sia garantito un livello elevato di protezione della salute umana” (art. 168) e che, anche nel settore della tutela della salute, l’Unione possa svolgere azioni di sostegno, coordinamento e completamento delle azioni degli Stati membri (art. 6), che scelgono quale modello sanitario adottare (es. servizio sanitario nazionale in Italia, assicurazione sociale di malattia in Francia etc.), quante risorse investire nel settore sanitario e quali prestazioni siano da considerarsi essenziali. Al riguardo, alcuni dati possono servire a tradurre in termini quantitativi le riflessioni generali sopra avanzate. La sanità pubblica italiana rappresenta circa il 6,5% del prodotto interno lordo, contro il 9,6% delle Germania, il 9,5% della Francia, il 7,6% del Regno Unito. Un dato, il nostro, comparabile solo a quello spagnolo (6,3%), con il cui modello – si vedrà più avanti – si condividono anche alcune problematiche.[4] Il livello di spesa pubblica piuttosto ridotto ha avuto negli anni conseguenze sulla spesa privata sostenuta direttamente dalle famiglie (out-of-pocket) per compensare le carenze del SSN. È sufficiente osservare, al riguardo, che nel 2008 l’incidenza della spesa privata sulla spesa sanitaria totale era sostanzialmente simile in Francia, Germania e Italia (tra il 21 e il 23%); dieci anni dopo, mentre Francia e Germania hanno attivato politiche in grado di incrementare il grado di copertura pubblica della spesa totale, l’Italia si è diretta in senso contrario, con un’incidenza ora pari a circa il 26% della spesa sanitaria totale, circa 10 punti percentuali in più di Francia e Germania. In termini assoluti, ciò significa un esborso diretto delle famiglie pari a circa 36 miliardi, a cui si devono aggiungere circa 3 miliardi coperti dalle assicurazioni private. Si tratta di varie tipologie di prestazioni, ma con una particolare concentrazione sui settori in cui il servizio pubblico si manifesta sostanzialmente assente, soprattutto nelle regioni meridionali, come ad esempio l’assistenza alle cronicità e ai lungodegenti, e l’assistenza residenziale o domiciliare per la cura e riabilitazione post ospedaliera.
In Italia, negli ultimi dieci anni, si osserva una perdita di 70 mila posti letto, più di 300 reparti chiusi e un incremento della spesa sanitaria pubblica del 10 per cento, contro il 37 per cento della media Ocse. Significa 3,2 posti letto per mille abitanti, la Francia ne ha 6, la Germania ne ha 8. Significa 4.600 posti letto pubblici di terapia intensiva per degenza ordinaria su tutto il territorio nazionale, cioè 7,6 posti per 100 mila abitanti, o se si preferisce terapie intensive pubbliche per lo 0,0076% della popolazione, ai quali si aggiunge un limitato numero di posti nel privato convenzionato che innalza la disponibilità a 8,42 per 100 mila abitanti. In Germania, si arriva a circa 30 posti per 100 mila abitanti. I posti per la cura dei casi acuti, in Italia, sono 2,6 per 1000 abitanti, contro una media europea di 3,7; la Germania, per 1000 abitanti ne ha 6. Se si guarda al futuro del caso italiano, poi, si dovrà anche tenere conto che l’elevata età media dei medici attualmente in servizio (più della metà dei medici ha più di 55 anni, al ventesimo posto in Europa nella classifica per età) porrà un problema di pensionamenti e reintegri già nel breve periodo. Secondo i dati dell’ANAAO, tra il 2019 e il 2025, si prevedono pensionamenti per più di 37 mila medici, e reintegri di nuovi specializzati solo per poco più di 22 mila unità.[5] Una sanità regionale leggera, quella italiana, che coltiva il mito dell’universalismo, ma che sembra procedere nella direzione opposta.
4. Dall’emergenza all’ordinaria amministrazione: come invertire la rotta.
Quando il servizio sanitario ha bisogno di eroi, significa che qualcosa non funziona; le poche risorse aggiuntive attivate con i recenti decreti saranno l’ennesima rappresentazione che la politica sociale di questo Paese è ancora una volta emergenziale e di corte vedute. Al riguardo, il nostro caso presenta numerose similitudini con quello spagnolo, e – di conseguenza – alcuni rimedi possibili sono analoghi.[6] Ci sono due direzioni principali da percorrere che la pandemia dovrebbe aver reso palesi anche a chi in questi anni si è ostinato a non vedere. La prima riguarda i rapporti tra Stato centrale e Regioni in materia di sistema sanitario, da risolversi, a nostro avviso, con un ridimensionamento del federalismo sanitario e una rivisitazione complessiva dei modelli di federalismo asimmetrico. Ciò sarà possibile soltanto nella misura in cui le Regioni cesseranno di essere istituzioni estrattive e antagoniste del governo centrale; nel caso opposto, ci si dovrà rassegnare alla legittimazione definitiva del divario territoriale, questione che agita il nostro Paese dai tempi pre-unitari, ma che sta agitando – ad esempio – anche la Spagna in ragione della forte connotazione autonomistica di almeno due aree geografiche, la Catalogna e i Paesi Baschi, alle prese con i recenti trasferimenti di potere in capo al governo centrale in materia di sanità, trasporti e affari interni.
La seconda direzione è relativa alle modalità – da sperare non più rimandabili – con cui in Italia si farà fronte a decenni di riduzione degli investimenti in sanità. C’è da ritenere che sia questo il principale fattore che impedisce, al momento, di fronteggiare la pandemia. La capacità di resistenza di un sistema sanitario richiede medici professionisti su larga scala, piuttosto che la pratica del numero chiuso nel sistema universitario; una disponibilità di strutture avanzate e di emergenza in eccesso rispetto al numero ordinario di richieste; la produzione interna e l’immagazzinaggio di materiale protettivo, specialistico e diagnostico; la formazione e l’assunzione di personale paramedico, piuttosto che blocchi del turnover motivati da questioni contabili; il recupero delle strutture pubbliche a tempo pieno, piuttosto che la loro destinazione all’attività privata, da affiancarsi a retribuzioni adeguate che rendano merito al lavoro dei medici e del personale paramedico; un aumento dei fondi destinati alla ricerca scientifica, piuttosto che incentivi fiscali ai fondi sanitari integrativi; richiede infine una decisa perequazione infrastrutturale tra le diverse Regioni del paese. Anche coloro che sono affascinati dalla competizione territoriale, non possono non riconoscere che per competere è necessario che il campo di gioco sia lo stesso per tutti; un obiettivo che solo un governo centrale forte e delle Regioni ugualmente forti possono raggiungere. Al riguardo, occorrerebbe mettere in cima all’agenda politica un progetto di sanità europea, a partire da un intervento pubblico sovranazionale in grado di superare logiche di mercato e austerità, con un’allocazione delle risorse orientata secondo le priorità che le tradizioni costituzionali degli Stati membri indicano per la tutela dei diritti delle persone.[7]
[1] Per la legislazione degli anni Novanta in tale senso si ricordano, in specie, i d.lgs. n. 502/1992; n. 517/1993; n. 229/1999.
[2] Si veda al riguardo il saggio di Lagravinese R. e Resce G. (2020), La Sanità nel Mezzogiorno tra crisi economica e vincoli finanziari, in Coco G. De Vincenti C., Una questione nazionale: il Mezzogiorno da “problema” a “opportunità”, Il Mulino, Bologna.
[3] Sui dubbi di costituzionalità dei ticket in sanità “perché in contrasto con il carattere universale e perciò uguale e gratuito del diritto alla salute”, Ferrajoli L. (2019), Manifesto per l’uguaglianza, Laterza, Roma-Bari, p. 74; sul fondamento costituzionale del finanziamento del servizio universale nel principio di eguaglianza sostanziale e nell’obbligo di contribuzione tributaria (artt. 3, co. 2 e 53 Cost.) sia consentito rinviare a Cauduro A., Liberati P.(2019), Brevi note sul servizio universale, in Costituzionalismo.it, fasc. 1/2019, p. 131 ss.
[4] Per maggiori dettagli si rimanda a Gabriele S. (2019), Lo stato della sanità in Italia, Focus tematico n.6, Ufficio Parlamentare di Bilancio.
[5] I settori specialistici considerati sono Pediatria, Anestesia e Rianimazione, Medicina d’urgenza, Medicina interna, Chirurgia generale, Radiodiagnostica, Malattie dell’apparato cardiovascolare, Ginecologia ed ostetricia, Psichiatria, Ortopedia e Traumatologia. I dati sono di fonte ANAAO – Assomed come elaborati da Borrelli G., Quanto è grave la carenza di medici negli ospedali italiani?, Datajournalism, 23 gennaio 2019.
[6] Si veda Legido-Quigley H., Mateos-Garcia J.T., Regulez Campos V., Gea Sànchez M., Muntaner C., McKee M., (2020) “The resilience of the Spanish health system against the COVID-19 pandemic”, The Lancet, www.thelancet.com/public-health.
[7] Sul tema, in riferimento alla Costituzione italiana, per tutti, Carlassare L. (2013), Priorità costituzionali e controllo sulla destinazione delle risorse, in Costituzionalismo. it, fasc. 1/2013, p. 10.
Gli illeciti amministrativi, il nuovo reato di infrazione dell'obbligo di quarantena e il delitto di epidemia colposa.
Effetti del DL 19/20 su procedimenti e misure in corso.
di Ignazio Pardo
sommario: 1. Premessa - 2. Autorità competenti 3. Sanzioni amministrative ed ipotesi depenalizzate 4. Il nuovo reato di violazione dell'obbligo di quarantena. 5. Il delitto di epidemia colposa di cui all'art. 452 c.p.
1. Premessa
Significativamente intitolato “Misure urgenti per fronteggiare l'emergenza epidemiologica da COVID-19” il D.L. 25 marzo 2020 n. 19 ha previsto una nuova normativa sanzionatoria la cui entrata in vigore è stabilita per la data del 26 marzo 2020, giorno successivo la sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale, come espressamente previsto dall'art. 6.
E' del tutto evidente che lo scopo principale della normativa è riportare immediatamente ad unità la disciplina sanzionatoria applicabile in tutto il territorio nazionale, al fine di evitare il susseguirsi di disposizioni di contenuto precettivo, pure emanate da diverse regioni, con conseguente caos sia presso i cittadini destinatari dei precetti che delle stesse forze dell'ordine, chiamate in questi giorni ad applicare misure diverse da regione a regione ed anche sanzioni accessorie di contenuto ablativo di dubbia proporzionalità rispetto alle violazioni commesse ed alle ragioni degli spostamenti.
2. Autorità competenti
Senza volere indugiare sulle misure di contenimento, la cui analisi è rimessa ad altri approfondimenti pure pubblicati su questa rivista, va richiamato il contenuto degli artt. 2 e 3 che prevedono quali autorità dotate di potestà normativa sulle predette misure soltanto:
E' bene notare che è esclusa qualsiasi potestà normativa dei Sindaci in tali aspetti in contrasto con la normativa statale (art. 3 coma 2) a pena di inefficacia delle ordinanze.
3. Sanzioni amministrative ed ipotesi depenalizzate
La disciplina delle violazioni amministrative e delle disposizioni sanzionatorie è contenuta nel successivo art. 4 il quale, al primo comma, stabilisce espressamente che il mancato rispetto delle misure di contenimento di cui all'articolo 1, comma 2, individuate e applicate con i provvedimenti adottati ai sensi dell'articolo 2, comma 1, ovvero dell'articolo 3, e' punito con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 400 a euro 3.000.
Quindi, tutte le violazioni, siano esse di precetti stabiliti da decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri ovvero da provvedimenti di Presidenti delle Regioni, sono soggette soltanto alla sanzione amministrativa nella indicata misura. Tuttavia, se il mancato rispetto delle predette misure avviene mediante l'utilizzo di un veicolo le sanzioni sono aumentate fino a un terzo.
Con una specifica previsione, sempre contenuta nel primo comma dell'art. 4 citato, si stabilisce che non si applicano le sanzioni contravvenzionali previste dall'articolo 650 del codice penale o da ogni altra disposizione di legge attributiva di poteri per ragioni di sanita', di cui all'articolo 3, comma 3.
Si afferma, pertanto, la specialità della sanzione amministrativa rispetto alla generica norma penale di cui all'articolo 650 c.p. così richiamandosi l'operatività dell'art.9 della legge 689/1981 secondo cui, quando uno stesso fatto è punito da una disposizione penale e da una disposizione che prevede una sanzione amministrativa, ovvero da una pluralità di disposizioni che prevedono sanzioni amministrative, si applica la disposizione speciale che nel caso è costituita appunto dall'art. 4 comma 1 del decreto legge in commento.
Essendosi esplicitamente esclusa la rilevanza penale della violazione agli obblighi di isolamento domiciliare, nonché la rilevanza penalistica di altre previsioni stabilite in questi giorni per ragioni di sanità, deve ritenersi che la violazione amministrativa abbia efficacia specializzante anche rispetto al precetto stabilito dall'articolo 260 TU leggi sanitarie di cui al Regio Decreto n.1265 del 1934. Anche detta norma penale, pertanto, non può trovare applicazione essendo esclusa la sua operatività in presenza della sola violazione amministrativa; il suddetto articolo come si vedrà troverà applicazione nei casi di violazione dell'obbligo di quarantena che vengono ricostruiti quali fattispecie penali contravvenzionali. Pur non essendo stato abrogato, pertanto, il citato art. 260 Regio Decreto del 1934 non è destinato a trovare applicazione nelle condotte relative alla violazione delle norme dirette a prevenire il coronavirus.
Quanto all'autorità competente ad emettere le sanzioni, rispetto ai precetti stabiliti dai decreti della presidenza del Consiglio dei ministri ovvero dal ministero della salute, è sempre il Prefetto; sono competenti gli stessi organi dell'amministrazione regionale ove invece si tratti di disposizioni dettate ai sensi dell'art 3 da tali organi territoriali.
Lo stesso articolo 4, al comma ottavo, prevede poi che “le disposizioni del presente articolo che sostituiscono sanzioni penali con sanzioni amministrative si applicano anche alle violazioni commesse anteriormente alla data di entrata in vigore del presente decreto, ma in tali casi le sanzioni amministrative sono applicate nella misura minima ridotta alla meta'”. Viene pertanto stabilita l'efficacia retroattiva della normativa più favorevole che ha trasformato in semplice illecito amministrativo la condotta inizialmente ascritta al reato di cui all'articolo 650 del codice di diritto sostanziale; ugualmente deve ritenersi anche per le eventuali infrazioni contestate ai sensi del citato art. 260 TU leggi sanitarie che vengono trasformate esse stesse in violazioni amministrative.
Ne consegue, pertanto, che tutte le segnalazioni per notizie di reato effettuate in questi convulsi giorni per la constatata violazione delle norme sul contenimento del virus, devono trovare definizione con immediata archiviazione e trasmissione degli atti al prefetto competente. Peraltro, per tutte le sanzioni commesse nel periodo antecedente l'entrata in vigore del decreto legge n. 19/20, e quindi prima del 26 marzo, è prevista la sanzione amministrativa in misura ridotta della metà così che i limiti edittali sono compresi tra 200 e 1500 euro.
Espressa è anche la limitazione al potere di adottare misure ablative; difatti, prima della emissione del decreto legge, sulla base di alcune direttive emesse dalle procure della Repubblica al fine di arginare le violazioni agli obblighi di limitazione della circolazione, risultavano adottati provvedimenti di sequestro dei mezzi a bordo dei quali venivano sorpresi i soggetti ritenuti responsabili ex art. 650 c.p.. E ciò quali sequestri preventivi adottati sul mezzo utilizzato per la consumazione dell'illecito nonché per impedire la reiterazione delle condotte di reato. Orbene, deve ritenersi che a seguito dell'entrata in vigore del decreto legge n. 19/20 siffatti sequestri non siano più ammessi; difatti esclusa la rilevanza penale della condotta di infrazione all'obbligo di permanenza domiciliare, ora ricondotto all'illecito amministrativo in commento e di cui al citato articolo 4 del decreto, con la conseguente cessazione della possibilità di fare ricorso al sequestro preventivo penale, l'unica misura ablativa adottabile è la sanzione amministrativa accessoria della chiusura dell'esercizio o dell'attività da 5 a 30 giorni nei casi previsti all'articolo 1, comma 2, lettere i), m), p), u),v), z) e aa). Si tratta rispettivamente:
- della chiusura di chiusura di cinema, teatri, sale da concerto sale da ballo, discoteche, sale giochi, sale scommesse e sale bingo, centri culturali, centri sociali e centri ricreativi o altri analoghi luoghi di aggregazione;
- della chiusura temporanea di palestre, centri termali, sportivi, piscine, centri natatori e impianti sportivi;
- della sospensione dei servizi educativi per l'infanzia e delle attivita' didattiche delle scuole di ogni ordine e grado, nonche' delle istituzioni di formazione superiore, comprese le universita', corsi professionali, master, corsi per le professioni sanitarie etc...
- della limitazione o sospensione delle attivita' commerciali di vendita al dettaglio, a eccezione di quelle necessarie per assicurare la reperibilita' dei generi agricoli, alimentari e di prima necessita' da espletare con modalita' idonee ad evitare assembramenti di persone,
- della limitazione o sospensione delle attivita' di somministrazione al pubblico di bevande e alimenti, nonche' di consumo sul posto di alimenti e bevande, compresi bar e ristoranti;
- limitazione o sospensione di altre attivita' d'impresa o professionali, anche ove comportanti l'esercizio di pubbliche funzioni, nonche' di lavoro autonomo, con possibilita' di esclusione dei servizi di pubblica necessita'
- della limitazione allo svolgimento di fiere e mercati, a eccezione di quelli necessari per assicurare la reperibilita' dei generi agricoli, alimentari e di prima necessita'.
Solo nei confronti dei gestori di tali attività che violino i divieti può essere adottato il provvedimento di chiusura dell'attività, oltre naturalmente la sanzione amministrativa pecuniaria; ed in caso di reiterazione delle violazioni si prevede l'irrogazione della sanzione pecuniaria nella misura doppia e cioè nella misura compresa tra 800 ed 8.000 euro e la chiusura dell'esercizio per la durata massima di giorni 30.
Venuta meno la possibilità di disporre il sequestro delle autovetture quali mezzi utilizzati per la consumazione dei reati, a seguito della depenalizzazione e non essendo previsto un sequestro amministrativo accessorio alla violazione dell'art. 4 citato, tutti i mezzi eventualmente sequestrati devono essere restituiti al legittimo proprietario al più presto o comunque contestualmente al provvedimento di archiviazione perch il fatto non è previsto dalla legge come reato.
4. Il nuovo reato di violazione dell'obbligo di quarantena
Ai sensi del combinato disposto dell'art. 4 comma sesto DL 25 marzo 2020 n. 19 e dell'art. 1 comma 2 lett. e) stesso decreto, le persone sottoposte alla misura della quarantena, perchè risultate positive al virus, che violino il divieto assoluto di allontanarsi dalla propria abitazione o dimora, consumano il nuovo reato di violazione all'obbligo di quarantena punito con l'arresto da 3 mesi a 18 mesi e con l'ammenda da € 500 ad € 5.000.
Attraverso la combinazione della vecchia disciplina dettata dall'articolo 260 Regio Decreto n.1265 del 1934 con le nuove disposizioni dell'art. 4 DL 25 marzo 2020, viene costruita una nuova fattispecie contravvenzionale specificamente diretta a punire le condotte di violazione dell'obbligo di quarantena dettate in relazione all'accertamento del coronavirus. Trattasi di ipotesi contravvenzionale punita con pena congiunta, e per la quale, quindi, non è possibile procedere ad oblazione; il nuovo reato costituisce ipotesi differente dal previgente art. 260 citato essendo costruita attorno al presupposto fondamentale del precedente accertamento in capo all'agente dello specifico virus oggi diffuso sul territorio nazionale e per il quale sono dettate le misure di contenimento e di isolamento domiciliare. La punibilità è connessa alla sola violazione del divieto di allontanamento con anticipazione della soglia di punibilità tipica dei reati di pericolo astratto e delle contravvenzioni in tema di salute pubblica in particolare.
Si tratta, inoltre, di reato proprio perchè autore dello stesso è soltanto il portatore dell'agente patogeno che così viene definito con l'utilizzazione dei termini “persone risultate positive al virus”.
I predetti soggetti portatori di virus, cioè ancora positivi, sono soggetti ad un divieto assoluto di allontanamento dalla propria abitazione; viene così introdotta la differenza tra i divieti relativi, imposti a tutti i cittadini e derogabili nei casi previsti dallo stesso decreto legge 25 marzo 2020 ovvero dalla precedente decretazione di urgenza e divieti assoluti. I divieti relativi sono derogabili nei casi di assoluta necessità, motivi di salute, inderogabili esigenze lavorative che non valgono invece nel caso del soggetto positivo al coronavirus per il quale vige un'assoluta impossibilità ad allontanarsi dal proprio domicilio. Trattandosi di condizione sanitaria grave deve ritenersi condotta scriminata soltanto quella di allontanamento al fine di recarsi presso la più vicina struttura ospedaliera ove non si sia provveduto, come pure richiesto, ad allertare i mezzi di soccorso.
Certamente problematica appare l'identificazione dell'elemento soggettivo della nuova fattispecie; invero, trattandosi di fattispecie contravvenzionale già i primi commenti ne hanno ritenuto la punibilità indifferentemente a titolo di dolo o colpa. Sarebbe così punibile sia l'agente che consapevole della propria condizione di soggetto positivo al virus si allontani dal proprio domicilio sia colui che abbia ignorato per colpa la suddetta condizione; ad esempio, vengono in considerazione tra i possibili comportamenti colposi le condotte di colui il quale sia stato a contatto perchè convivente con altri soggetti positivi e che si sia allontanato dalla propria abitazione violando il divieto assoluto. Tale condotta, però, non rientra ad avviso dello scrivente nel fuoco normativo del nuovo reato di violazione all'obbligo di quarantena; difatti, attraverso l'espressa previsione contenuta nell'incipit della norma e secondo cui si risponde di detto reato “salvo che il fatto costituisca violazione dell'articolo 452...”, deve ritenersi che la nuova contravvenzione punisca soltanto condotte essenzialmente dolose mentre le fattispecie colpose sono riconducibili appunto al cennato articolo del codice penale che disciplina in termini generali i delitti colposi contro la salute pubblica.
Del resto, che la condotta punita dal nuovo reato di violazione dell'obbligo di quarantena di cui all'art. 4 comma sesto DL 19 /2020, presupponga la certezza della positività al virus in capo all'agente, si ricava anche dalla struttura della fattispecie costruita attorno alla condotta posta in essere da chi sia già “risultato positivo al virus” e cioè attorno ad un elemento che appare essenzialmente operare quale condizione obiettiva di punibilità e non quale elemento costitutivo della fattispecie destinato a cadere sotto il fuoco dell'elemento psicologico sia per dolo che per colpa. Ancora, soccorre in tal senso un'ulteriore considerazione basata sul raffronto tra le norme di recente introduzione; invero, la condotta di chi ignori per colpa di essere positivo al virus e si allontani dalla propria abitazione, è riconducibile alla violazione amministrativa già commentata di cui all'art. 4 primo comma del DL 19/2020 che è costituita proprio dalla infrazione alla normativa generale sull'obbligo di permanenza domiciliare. Ed il soggetto che ignori, pur per propria colpa, di essere affetto dalla patologia del coronavirus è altresì ignaro dell'obbligo di quarantena impostogli e pone in essere la condotta tipica prevista dalla violazione amministrativa così che non appare sussistere spazio per la configurabilità della contravvenzione di cui all'art. 4 comma sesto DL citato a titolo di colpa. Si tratta certamente di considerazioni tutte opinabili e finanche forse superabili ma, solo così ricostruita, l'ipotesi contravvenzionale risulta consumabile solo a condizione del precedente accertamento della positività al virus e del successivo allontanamento dalla propria abitazione da parte di tale soggetto in violazione del divieto assoluto.
Trattandosi di reato proprio, vengono in applicazione le norme specifiche in tema di concorso di persone in dette particolari fattispecie; e quindi, il soggetto che concorra moralmente o materialmente nella condotta di allontanamento del portatore del virus, nella consapevolezza di tale condizione sarà punibile ex art. 110 c.p. mentre a colui che l'abbia ignorata va applicata la disciplina dettata dall'articolo 117 c.p. secondo cui risponde del reato proprio colui che abbia ignorato la condizione soggettiva del colpevole che determina l'aggravamento della fattispecie ma la pena può essere diminuita. Al proposito va ricordato come secondo il recente orientamento della corte di cassazione in tema di concorso di persone, l'estensione al concorrente "extraneus" della responsabilità a titolo di reato proprio, ai sensi dell'art. 117 cod. pen., presuppone la conoscibilità della qualifica soggettiva del concorrente "intraneus" (Sez.6, n.25390 del 31/01/2019, Rv. 276804 ). Così che nel caso specifico in esame la responsabilità concorsuale per il reato di violazione dell'obbligo di quarantena in capo al terzo può essere ritenuta solo se per la sussistenza di particolari condizioni di conoscibilità della patologia ovvero per la preesistenza dei rapporti con l'agente, l'extraneus era in condizioni di conoscere lo stato patologico dell'intraneus.
Trattandosi di fattispecie contravvenzionale penale, potranno applicarsi le misure cautelari reali del sequestro preventivo ex art. 321 c.p.p. e ciò al fine di impedire la prosecuzione della condotta delittuosa nell'ipotesi di sorpresa del soggetto positivo al virus che circoli liberamente a bordo di autovetture od altri mezzi di locomozione.
Ancora, dalla natura di contravvenzione, oltre che dalla entità della pena edittale, deriva che:
- non è ipotizzabile il tentativo;
- non può essere contestata la recidiva;
- non possono essere applicate misure cautelari personali;
- non è consentito l'arresto in flagranza.
5. Il delitto di epidemia colposa di cui all'art. 452 c.p.
Nell'ambito dei delitti contro l'incolumità pubblica del titolo sesto del codice penale, viene incluso un capo secondo intitolato “ dei delitti di comune pericolo mediante frode”; in tale ambito, l'epidemia si distingue in fattispecie dolosa, prevista e punita, dall'articolo 438 c.p. ed ipotesi semplicemente colposa disciplinata dall'articolo 452 intitolato “delitti colposi contro la salute pubblica”.
Scongiurando il concorso di reati, il legislatore del DL 19/2020 ha previsto, come visto in precedenza, che la condotta di violazione dell'obbligo di quarantena è punibile autonomamente a condizione che non ricorra la fattispecie di cui al citato articolo 452 c.p.. Dalla lettura congiunta degli artt.438 e 452 cp risulta che la fattispecie in esame è commessa da chiunque cagiona per colpa un'epidemia mediante la diffusione di germi patogeni al quale si applica la pena da uno a cinque anni di reclusione.
Si tratta di delitto colposo di evento poiché, attraverso la diffusione dei germi patogeni, deve essere realizzata un'epidemia e cioè la diffusione rapida in una zona più o meno vasta di una malattia contagiosa. A tal proposito, la corte di cassazione, ha recentemente ritenuto che in tema di epidemia, l'evento tipico del reato consiste in una malattia contagiosa che, per la sua spiccata diffusività, si presenta in grado di infettare, nel medesimo tempo e nello stesso luogo, una moltitudine di destinatari, recando con sé, in ragione della capacità di ulteriore espansione e di agevole propagazione, il pericolo di contaminare una porzione ancor più vasta di popolazione; ne consegue che le forme di contagio per contatto fisico tra agente e vittima, sebbene di per sé non estranee alla nozione di «diffusione di agenti patogeni» di cui all'art. 438 cod. pen., non costituiscono, di regola, antecedenti causali di detto fenomeno (Sez.1, n. 40814 del 30/10/2019, Rv.277791). Ne consegue affermare che anche in tema di diffusione del coronavirus il soggetto portatore dell'infezione che la trasmetta ad altro individuo singolo non commette il delitto essendo richiesta una condotta diretta a propagare l'infezione nei confronti di una molteplicità di soggetti passivi. E del resto tale interpretazione si rileva necessaria altrimenti essendo punito anche chi affetto da virus e mantenendo l'obbligo assoluto di permanenza domiciliare entri in contatto con familiari o conviventi.
Sempre in riferimento alla suddetta fattispecie, la Suprema Corte ha ritenuto che in tema di delitto di epidemia colposa, non è configurabile la responsabilità a titolo di omissione in quanto l'art. 438 cod. pen., con la locuzione "mediante la diffusione di germi patogeni", richiede una condotta commissiva a forma vincolata, incompatibile con il disposto dell'art. 40, comma secondo, cod. pen., riferibile esclusivamente alle fattispecie a forma libera (Sez.4,n.9133 del 12/12/2017, Rv.272261).
Di particolare interesse è la distinzione delle diverse sfere operative del reato di violazione all'obbligo di quarantena e del delitto di epidemia colposa di cui all'art. 452 c.p.; la distinzione deve certamente ravvisarsi nell'individuazione dell'evento, necessaria nella seconda ipotesi rispetto alla prima. Invero, come già riferito, il reato contravvenzionale di violazione all'obbligo di quarantena è fattispecie di pericolo presunto per la cui consumazione è sufficiente la violazione dell'obbligo indipendentemente dalla diffusione del virus a terzi. Viceversa, il delitto colposo di epidemia è fattispecie di evento che per la sua configurazione richiede la diffusione della malattia in una zona più o meno ampia.
Trattandosi di reato colposo non è configurabile il tentativo; avuto riguardo all'entità della pena massima (cinque anni) è possibile l'applicazione di misure cautelari anche coercitive nonché l'arresto facoltativo in flagranza.
“Quando l’ epidemia finirà, non è da escludere che ci sia chi non vorrà tornare alla sua vita precedente. La presa di coscienza della fragilità e della caducità della vita spronerà uomini e donne a fissare nuove priorità.
A distinguere meglio tra ciò che è importante e ciò che è utile. A capire che il tempo -e non il denaro- è la risorsa piò preziosa.” (D.Grossman).
di Lilli Arbore
Una breve disamina della normativa emanata in materia di giustizia civile per contrastare l’ emergenza epidemiologica. Entrambi i d.l. sembrano non aver considerato la giustizia del lavoro, le sue peculiarità: dimenticanza, lacuna? E’possibile una diversa lettura ?
Sommario: 1.Premessa.2.il quadro normativo dei d.l.nn.11 e 18 /2020. 3. La disciplina per il settore civile;4. Le eccezioni e le modalità di funzionamento previste: elementi di criticità e proposte interpretative-applicative per la giustizia del lavoro.
1.Premessa
Il dramma pandemico che il nostro paese sta vivendo ha imposto il blocco, pressocchè totale, delle sue attività economico-sociali, in uno scenario di emergenza dove ci si interroga sul concetto di indifferibilità ed essenzialità, con profondi sconvolgimenti-anche dolorosissimi- della vita di ciascuno.
Tante le problematiche interessanti il settore giustizia-certamente servizio essenziale- ed il suo “funzionamento “ in questo momento, in relazione al quale, anche, sono intervenuti i recenti provvedimenti legislativi ( probabilmente destinati ad ulteriori ripensamenti).
Qualche breve riflessione, priva di aspirazioni sistematiche, vorrei farla in relazione alla giustizia del lavoro che sembra appunto la “sconosciuta “di questi interventi.
2.Il quadro normativo dei d.l.nn.11 e 18 /2020.
Con l’ultimo intervento, quello del d.l.n.18 , in coerenza e continuità con il d.l. 11 /20, anche qui abbiamo due fasi, disciplinate dall’ art.83 .
*La prima fase, fino al 15 aprile 2020 (inizialmente era il 22 marzo 2020), per la quale sono dettate disposizioni destinate a fare fronte alle esigenze di immediato intervento per contrastare la diffusione del contagio, consistenti nel differimento d’ufficio delle udienze dei procedimenti civili e penali pendenti e nella sospensione del decorso dei termini, salvi i procedimenti di cui al comma 3.
* La seconda fase dal (ora dal 15 aprile al 30 giugno), per la quale è rimessa ai dirigenti degli uffici l’adozione, secondo un iter procedimentalizzato, “di misure organizzative anche relative alla trattazione degli affari giudiziari, necessarie per consentire il rispetto delle indicazioni igienico sanitarie dettate dalle autorità al fine di evitare assembramenti all’interno dell’ufficio giudiziario e contatti ravvicinati tra le persone”;
Quindi il nuovo art. 83, come si evince dalla relazione illustrativa, risolve i molteplici dubbi originati dal precedente testo, in quanto “ricomprende in un unico articolo il contenuto degli articoli I e 2 del decreto-legge n. 11 del 2020, riproponendone le disposizioni con taluni adeguamenti nella formulazione al fine di chiarirne l'effettiva portata applicativa e le integrazioni necessarie per il completamento della disciplina emergenziale”.
3.La disciplina per il settore civile
Le previsioni delle eccezioni di cui al comma 3 dell’ art. 83 e le modalità di esercizio della giurisdizione.
LE ECCEZIONI:
“Le disposizioni di cui ai commi 1 e 2 non operano nei seguenti casi:
a) cause di competenza del tribunale per i minorenni relative alle dichiarazioni di adottabilità, ai minori stranieri non accompagnati, ai minori allontanati dalla famiglia ed alle situazioni di grave pregiudizio; cause relative ad alimenti o ad obbligazioni alimentari derivanti da rapporti di famiglia, di parentela, di matrimonio o di affinità; procedimenti cautelari aventi ad oggetto la tutela di diritti fondamentali della persona; procedimenti per l’adozione di provvedimenti in materia di tutela, di amministrazione di sostegno, di interdizione, di inabilitazione nei soli casi in cui viene dedotta una motivata situazione di indifferibilità incompatibile anche con l’adozione di provvedimenti provvisori e sempre che l’esame diretto della persona del beneficiario, dell’interdicendo e dell’inabilitando non risulti incompatibile con le sue condizioni di età e salute; procedimenti di cui all’articolo 35 della legge 23 dicembre 1978, n. 833; procedimenti di cui all’articolo 12 della legge 22 maggio 1978, n. 194; procedimenti per l’adozione di ordini di protezione contro gli abusi familiari; procedimenti di convalida dell’espulsione, allontanamento e trattenimento di cittadini di paesi terzi e dell’Unione europea; procedimenti di cui agli articoli 283, 351 e 373 del codice di procedura civile e, in genere, tutti i procedimenti la cui ritardata trattazione può produrre grave pregiudizio alle parti. In quest’ultimo caso, la dichiarazione di urgenza è fatta dal capo dell’ufficio giudiziario o dal suo delegato in calce alla citazione o al ricorso, con decreto non impugnabile e, per le cause già iniziate, con provvedimento del giudice istruttore o del presidente del collegio, egualmente non impugnabile;
b) procedimenti di convalida dell’arresto o del fermo, procedimenti nei quali nel periodo di sospensione scadono i termini di cui all’articolo 304 del codice di procedura penale, procedimenti in cui sono applicate misure di sicurezza detentive o è pendente la richiesta di applicazione di misure di sicurezza detentive e, quando i detenuti, gli imputati, i proposti o i loro difensori espressamente richiedono che si proceda, altresì i seguenti:
1) procedimenti a carico di persone detenute, salvo i casi di sospensione cautelativa delle misure alternative, ai sensi dell’articolo 51-ter della legge 26 luglio 1975, n. 354;
2) procedimenti in cui sono applicate misure cautelari o di sicurezza;
3) procedimenti per l’applicazione di misure di prevenzione o nei quali sono disposte misure di prevenzione.
c) procedimenti che presentano carattere di urgenza, per la necessità di assumere prove indifferibili, nei casi di cui all’articolo 392 del codice di procedura penale. La dichiarazione di urgenza è fatta dal giudice o dal presidente del collegio, su richiesta di parte, con provvedimento motivato e non impugnabile.
-LE MODALITÀ DI FUNZIONAMENTO.
“i capi degli uffici …adottano le misure organizzative…. per il periodo compreso tra il 16 aprile e il 30 giugno 2020 (ma ora il comma 5 dell’art.83 chiarisce come già nel periodo di sospensione decorrente dall '8 marzo e sino al 16 aprile, i capi degli uffici giudiziari possano adottare le misure organizzative e preventive successivamente indicate al comma 7, lettere da a) a f) e h).)…….”
Queste sono:
“e) la celebrazione a porte chiuse, ai sensi dell’articolo 472, comma 3, del codice di procedura penale, di tutte le udienze penali pubbliche o di singole udienze e, ai sensi dell’articolo 128 del codice di procedura civile, delle udienze civili pubbliche;
f) la previsione dello svolgimento delle udienze civili che non richiedono la presenza di soggetti diversi dai difensori e dalle parti mediante collegamenti da remoto individuati e regolati con provvedimento del Direttore generale dei sistemi informativi e automatizzati del Ministero della giustizia. Lo svolgimento dell’udienza deve in ogni caso avvenire con modalità idonee a salvaguardare il contraddittorio e l'effettiva partecipazione delle parti. Prima dell’udienza il giudice fa comunicare ai procuratori delle parti e al pubblico ministero, se è prevista la sua partecipazione, giorno, ora e modalità di collegamento. All’udienza il giudice dà atto a verbale delle modalità con cui si accerta dell’identità dei soggetti partecipanti e, ove trattasi di parti, della loro libera volontà. Di tutte le ulteriori operazioni è dato atto nel processo verbale;
g) la previsione del rinvio delle udienze a data successiva al 30 giugno 2020 nei procedimenti civili e penali, con le eccezioni indicate al comma 3;
h) lo svolgimento delle udienze civili che non richiedono la presenza di soggetti diversi dai difensori delle parti mediante lo scambio e il deposito in telematico di note scritte contenenti le sole istanze e conclusioni, e la successiva adozione fuori udienza del provvedimento del giudice”.
Il decreto prevede, altresì, all’art. 6 l’obbligo generalizzato del telematico, previsione –si auspica-certamente di forte impatto anche per il futuro:“ Dalla data di entrata in vigore del presente decreto e fino al 31 maggio 2020, negli uffici che hanno la disponibilita' del servizio di deposito telematico anche gli atti e documenti di cui all'articolo 16-bis, comma 1-bis, del decreto-legge 18 ottobre 2012, n. 179, convertito dalla legge 17 dicembre 2012, n. 221, sono depositati esclusivamente con le modalita' previste dal comma 1 del medesimo articolo. ..”.
Come si osserva da più parti, la normativa sia nel configurare le “eccezioni” al rinvio generalizzato dell’83 comma 1, sia nel disciplinare in concreto le modalità di udienza in entrambe le fasi, non sembra aver consapevolezza delle peculiarità della giustizia del lavoro, del suo rito, e dei diritti alla cui tutela è volta.
4. Le eccezioni e le modalità di funzionamento previste: elementi di criticità e proposte interpretative-applicative per la giustizia del lavoro.
Ebbene , cominciando dalle eccezioni, certamente nella locuzione “ procedimenti cautelari aventi ad oggetto la tutela dei diritti fondamentali della persona “ possono rientrare le azioni d’ urgenza volte alla conservazione del posto di lavoro, allo accertamento dell’ illegittimità di un trasferimento, alle lesioni di diritti di rango primario quale quello alla salute, all’ accertamento della sussistenza di condotte discriminatorie che abbiano effetti immediati sulla dignità della persona vittima delle stesse.
In sintesi, tutto quello che incide irrimediabilmente sulla dignità della persona.
Vi è poi la clausola finale, “di salvezza “, riguardante tutti i “procedimenti la cui ritardata trattazione può produrre grave pregiudizio alle parti”, con la previsione della apposizione di una espressa dichiarazione di urgenza”, che, peraltro , può essere anche sollecitata dalle parti.
Per tale via certamente non rientrano in questa previsione ( e né nella prima né nella seconda fase ) i procedimenti per atp ex art. 445 bis cpc in materia di invalidità, che peraltro prevedono il conferimento dell’ incarico peritale , e quindi il coinvolgimento di soggetti diversi dai difensori ( nella specie poi medici, operatori sanitari ) , e vede anche l’ attuale , evidente, impossibilità di espletamento delle visite peritali, che sono state infatti sospese come dai molteplici provvedimenti adottati, anche considerando la sovente delicata situazione di salute dei periziandi.
Si può discutere se in tale previsione rientrino anche i riti sommari Fornero ex l.92/2012, le impugnative di licenziamento attuate con questa procedura.
Si potrebbe osservare che dette procedure hanno solitamente delle necessità istruttorie complesse, e che raramente esitano in una statuizione di reintegra.
Appare evidente e indispensabile una valutazione nel concreto, caso per caso; sarà indispensabile un ‘ attenta ricognizione, il più possibile partecipata e condivisa, da parte degli uffici.
Certamente sarebbe stato auspicabile che il testo normativo contenesse una indicazione delle “ urgenze” della materia lavoristica, o, “a contrario”, deve ritenersi che il settore non soffra eccezioni ?
Questo è il primo snodo.
Venendo poi al secondo aspetto , certamente più problematico, in ordine alla “ gestione “ dell’ attività lavorativa in questo scenario, alcune brevi considerazioni.
Ad avviso di chi scrive nella c.d. prima fase ,dovrebbe operare un blocco generalizzato come appunto configurato dal d.l., salve le eccezioni appunto che però vanno individuare e disciplinate rigorosamente dalle sezioni lavoro e fatte oggetto di proposta ai Presidenti dei Tribunali: tanto in coerenza con tutte le altre disposizioni fin qui intervenute, obiettivamente a volte difficilmente coordinabili, ma tutte espressive di un chiaro segnale di ” stop” totale per cercare di arginare gli effetti di questo dramma.
Quanto poi alla concreta disciplina delle udienze, vanno esaminate le varie opzioni offerte dalla norma.
In primo luogo, appare evidente che la norma si sia appunto “dimenticata” delle udienze e del rito del lavoro, ricomprendendolo nell’ ampio genus delle udienze civili.
Questo si coglie immediatamente con riferimento alla modalità della lettera h ) ( la c.d. udienza telematica ) laddove si parla espressamente di adozione fuori udienza del provvedimento del giudice , cosa che non avviene nel rito del lavoro ove la decisione è assunta all’ esito dell’udienza di decisione, con la lettura del dispositivo .
In merito ulteriormente alla compatibilità con il nostro rito della lettera h in questione si è anche osservato che :” “L’udienza 420 cpc prevede la comparizione delle parti personalmente, quindi non si potrebbe fare con lett. h) ma solo con f). Se le parti tutte lo chiedono o consentono sarebbe però più pratico e si eviterebbe la nullità. O se il legislatore modificasse la norma ricomprendendo il rito lavoro o le medesime udienze previste dalla lett. f).”; oppure anche che: “assomiglia molto alla “adunanza camerale non partecipata” che si fa in cassazione. Art. 380 bis.1 c.p.c. In pratica il contraddittorio è solamente scritto e il tribunale decide e deposita poi la sentenza (o quello che è)”.
Lo stesso potrebbe dirsi per la modalità dell’udienza ai sensi della lettera f), la c.d. udienza da remoto ,anche se si deve dar atto che questa- allo stato- parrebbe la tendenza applicativa maggiormente condivisa, sollecitata anche dalle Linee Guida del CSM dell’ 11.3.2020,ribadite nella delibera del 26 marzo 2020, sulla quale si va soffermando l’ attenzione della magistratura del lavoro ,ma che presenta forse aspetti di problematicità dal punto di vista della sua operatività che , come si è giustamente osservato, verificare in questo momento appare anche ulteriormente difficoltoso ( nonostante la pronta attivazione di tutta una serie di strumenti informatici da parte del Ministero) e che in ogni caso non esime dall’ operatività del personale di cancelleria, che è oramai presente nei nostri uffici in modalità di “ presidio” , ovvero con la forma dello smart working.
Si potrebbe obiettare poi che l’udienza di lavoro è pubblica ai sensi dell’art. 420 cpc, che l’intero nostro rito è caratterizzato da oralità e pubblicità appunto.
Si potrebbe allora preferire l’opzione applicativa della lettera e), ossia quella dell’ udienza a porte chiuse, che però imporrebbe al Giudice un previa selezione della cause da fissare nella stessa, in coerenza con le previsioni e le connotazioni su richiamate, quindi limitandosi solo a quelle da decidere , sia per il lavoro sia per la previdenza – assistenza, che presentino o il carattere dell’ urgenza o quello appunto della compromissione dei diritti fondamentali ,ovviamente escludendosi quelle fissate per attività istruttoria , il tutto comunque da coordinarsi poi con il comma g), cioè la possibilità- comunque prevedibile in qualunque modello “gestionale “ si adotti –del rinvio a data successiva al 30 giugno 2020 dei procedimenti civili che non rivestano appunto le caratteristiche sin qui elencate o non siano comunque oggetto di una valutazione di urgenza, anche in ipotesi sollecitata dalle parti.
Tale opzione applicativa potrebbe certamente combinarsi con la previsione della lettera h), salvo i casi in cui comunque sia indispensabile la presenza della parte, ad esempio per rendere l’interrogatorio libero ex art.420 cpc, per una conciliazione.
Del resto, si potrebbe argomentare che l’espressa previsione nella lettera e) delle udienze a porte chiuse, anche per i procedimenti civili, mediante l’espresso richiamo alla previsione dell’art. 128 cpc, sia l’espressione di come questa normativa, avente certamente valenza eccezionale, regolamenti in tal senso anche le udienze di lavoro.
Sempre in quest’ ottica allora potrebbe spiegarsi la lacuna- apparente- della previsione della lettera h) , con riferimento al provvedimento reso fuori udienza,nel senso che questo non contrasterebbe con le previsioni processuali lavoristiche, evidentemente in questo momento destinate a “ sottostare” appunto alla normativa eccezionale che assume portata generale e quindi derogatoria, salva appunto l’ adozione di previsioni espresse per la materia in sede di conversione del decreto.
Quello che appare certamente imprenscindibile è un accordo con l’ Avvocatura, del resto coinvolta nell’iter procedimentale del comma 6),che ratifichi appunto l’ adozione della modalità in concreto individuata dagli Uffici, ma in modo fattivo, mediante l’ adozione di azioni condivise, dando rilievo ai comportamenti da tenere a seconda della scelta del modello da seguire,onde poter garantire il funzionamento minimo ed essenziale della giustizia del lavoro.
Gli avvocati, così come il personale amministrativo , sono parti essenziali del servizio giustizia, tanto più in questo momento di assoluta emergenza che per le libere professioni assume ulteriori connotati di sofferenza, assolutamente da rispettare.
Quel che in definitiva appare fondamentale è l’ auspicio dell’operatività delle misure organizzative da adottarsi ai sensi del comma 6 dell’ art. 83 , che va poi strettamente coordinato e verificato , appunto per la sua concreta effettività, con il comma 7) che ha riguardo alla salvaguardia delle preminenti finalità di tutela della salute , da attuarsi attraverso vari momenti ed aspetti, quali la limitazione dell’ accesso del pubblico agli uffici giudiziari, la regolamentazione dell’ apertura degli stessi e per quanto qui interessa soprattutto ” l’ adozione di linee guida vincolanti per la fissazione e la trattazione delle udienze “.
In conclusione, uno scenario complesso, che richiede la necessità di interventi il più possibili uniformi da parte dei Dirigenti degli Uffici Giudiziari , che nell’ attuare la procedura del numero 6 ) dovrebbero , tramite i Presidenti dei Tribunali , acquisire, con il coinvolgimento di tutte le componenti interessate, la consapevolezza delle specificità dei vari settori dell’ attività giurisdizionale, in modo da adottare misure il più possibili partecipate ed aderenti alla realtà , come del resto raccomanda lo stesso CSM nelle già citate Linee Guida.
In questo contesto appare poi determinante il contributo critico e propositivo dell’ANM.
La partita che si sta giocando è tale per cui forse non è tempo di bilanciamento di diritti, ma di affermazione in modo assoluto e preminente di quello alla salute, e la giustizia tutta deve fare la sua parte.
Gli Uffici di sorveglianza ai tempi del virus
Cronaca di un’emergenza doppia
di Chiara Semenza
Alcuni interrogativi di una giovane magistrato di sorveglianza, alla prima funzione giurisdizionale, dinanzi alle novelle emergenziali, alla loro (in)tempestività e alle finalità perseguite esplicitamente, ma anche e inevitabilmente implicitamente.
Genova, 8 marzo 2020: attraverso ogni mezzo di comunicazione si parla più insistentemente del nuovo virus che dall’Oriente si è spinto in Occidente; chi lo paragona ad una influenza, chi prospetta il rapido contagio, sebbene con conseguenze non esiziali e chi invece inizia ad intravedere i profili di quella che proprio da quel giorno, anche dai nostri governanti, viene qualificata pandemia.
Interviene l’esecutivo che, con un decreto, intraprende misure straordinarie per prevenire il dilagare del contagio e per apprestare soluzioni ai diversi profili della vita comune, comune come è la realtà del carcere che, silente, costituisce parte significativa della nostra società.
Vengono previsti, quanto alla sorveglianza, differimenti delle udienze con soggetti non detenuti, modalità di collegamento a distanza in luogo delle ordinarie traduzioni, celebrazione necessaria di procedimenti con soggetti detenuti o internati e, con riguardo al trattamento intramurario, la sola (facoltativa ovvero rimessa al Magistrato di Sorveglianza) “sospensione” dei permessi premio e della semilibertà; null’altro.
Rimango delusa, nel decreto legge nessun dettagliato intervento riguardante l’esecuzione penale e così anche quel giorno, in dichiarata emergenza, nel silenzio, la quotidianità intramuraria deve andare avanti, peraltro con soluzioni efficaci da adottarsi in brevissimo tempo.
Iniziano le telefonate con i Direttori delle carceri, si avvia il confronto fra i colleghi ed i capi degli Uffici Giudiziari, si sfoglia l’ordinamento penitenziario e si inizia il vaglio delle posizioni dei singoli ristretti.
Le Direzioni penitenziarie, operose ed affannate, lamentano la criticità dei continui (inevitabili) accessi e uscite dagli Istituti: chi esce quotidianamente in regime di semilibertà per poi rientrare alla sera, chi si allontana un paio di ore in regime di lavoro all’esterno, chi ha ottenuto un permesso premio orario e chi invece giornaliero, dovendo talvolta spostarsi di città e magari attraverso affollati mezzi pubblici.
Il trattamento (per essere realmente tale e non esaurirsi in un semplice intermezzo) deve proseguire, anche nella criticità, ma come è possibile mantenerne l’operatività dinanzi ad un’emergenza sanitaria imprevista, dai contorni indefiniti, senza che neppure le Istituzioni abbiano ipotizzato rimedi per salvaguardarne il contenuto nel nuovo contesto emergenziale?
È così che all’esito di uno scambio continuo con le Direzioni, con il Corpo di Polizia penitenziaria, con gli educatori, con i Capi degli Uffici giudiziari, con i colleghi, e con il contributo insostituibile delle cancellerie, in poche ore vengono effettuate coraggiose, e in alcuni casi sperimentali, applicazioni delle norme penitenziarie: si cerca di rileggerne il significato, pur senza snaturarlo, con l’intento di applicare la legge, sempre, anche in piena pandemia.
I giorni proseguono affannosi e frenetici; attendo una normativa specifica -riguardante i detenuti, ma anche i soggetti in esecuzione penale sul territorio- che ritengo non possa ancora tardare ad arrivare. Solo il 17 marzo viene approvato un nuovo decreto legge che dedica due (!) articoli (123 e 124) a quelli che appaiono come rimedi al sovraffollamento carcerario nell’emergenza sanitaria: una nuova espiazione della pena al domicilio (con ampissime deroghe alle ordinarie restrizioni di legittimità e di merito) ed una dilatazione numerica dei giorni di licenza di cui godere in semilibertà, entrambi operativi sino al 30.6.2020.
Rileggo più volte le norme, sono una giovane magistrato ed è bene non mi fermi ad un primo vaglio della legge, ma cerchi di comprenderne il contenuto in modo dettagliato, confrontando i testi legislativi, individuando l’intento del legislatore, capendo il contesto in cui è stata approvata la novella e cercando di fornire un’interpretazione che non disattenda gli interessi (tutela della salute-certezza della pena) coinvolti.
Nonostante i diversi tentativi, l’impressione che univocamente ne derivo è che lo Stato, ed in questo caso l’Esecutivo, si sia ricordato dell’emergenza del sovraffollamento solo in questa circostanza, così che si potrebbe arrivare a dedurre che un sovrannumero di ristretti in Istituto è giustificabile in contesti ordinari, mentre solo in presenza di pandemia non lo è più.
Non solo, dinanzi alle ampissime esplicite deroghe alla fruibilità dell’esecuzione presso il domicilio, mi domando quale sia, oltre allo smaltimento delle carcerazioni, l’intento perseguito dal Legislatore. Perché se è vero che la tutela della salute rientra fra il novero dei diritti fondamentali (sempre che la soluzione paventata sia qualificabile come rimedio preventivo per la salute dei detenuti), è altrettanto vero che anche l’amministrazione Giustizia (in senso ampio) vi ricade, tanto che nella codificazione costituzionale la norma dedicata alla pena ed alla sua esecuzione precede (ancorché di poco) l’articolo dedicato alla salute del singolo e della collettività.
Mi interrogo; davvero il decreto legge non sarebbe potuto intervenire con un contenuto maggiormente rispettoso del percorso rieducativo e risocializzante dei detenuti? Realmente, in questa situazione di criticità (dalla durata allo stato indefinibile), le Istituzioni sono in grado di fronteggiare la pena (che deve essere certa ed indefettibile) quasi prendendone le distanze?
È leale delegare il compito di decidere le sorti delle esecuzioni penali, in questo scenario imprevedibile, alla magistratura di sorveglianza?
È di certo più agevole e meno pubblicamente criticabile di una depenalizzazione o dell’approvazione di un indulto.
Senza tralasciare l’omissione legislativa di qualsivoglia menzione ai soggetti in esecuzione penale sul territorio e alle conseguenze che questa emergenza apporterà al contenuto delle misure alternative che stanno conducendo.
Da giovane magistrato di sorveglianza, alla prima funzione giurisdizionale, so di avere ancora molto da imparare e sono conscia del fatto che occorreranno anni di servizio per rispondere agli interrogativi che mi sono posta. Nonostante la frenesia e l’incedere serrato di questi giorni, malgrado le difficoltà quotidiane (tangibili) dell’esecuzione penale, a discapito della carenza di personale e di risorse, la funzione giurisdizionale che ho scelto e che ogni giorno imparo a svolgere mi spinge a migliorare e per questo mi piace, in questo contesto più che mai, tantissimo.
Emergenza COVID-19. Intervista alla presidente della Consulta Marta Cartabia
di Roberto Conti
Presidente Cartabia, nel suo ultimo decreto presidenziale dedicato alle misure organizzative adottate dalla Corte costituzionale per la gestione dell’emergenza epidemiologica lei ha premesso la “necessità di operare in spirito di leale collaborazione con le altre istituzioni repubblicane nell’impegno comune a fronte della situazione presente”. Perché questa sottolineatura?
L’emergenza COVID-19 rappresenta ad ogni effetto un momento di crisi, e il momento della crisi è il momento della cooperazione. Come a livello personale è il tempo della solidarietà, così a livello istituzionale è tempo di rafforzare la cooperazione. Non dimentichiamoci che tra i principi costituzionali c’è anche quello della “leale collaborazione”: fra corti, fra stato e regioni, fra ministri, fra governo e parlamento, fra corti e legislatore, etc. Tutte le istituzioni sono chiamate, nella distinzione dei ruoli e nella separazione dei poteri, a una leale e reciproca collaborazione, massimamente con il Presidente della Repubblica. Se c’è un tema su cui riflettere – e su cui sto personalmente riflettendo – è proprio quello della cooperazione istituzionale, a partire dalla rivisitazione di alcuni contributi classici, come quelli di Vittorio Bachelet su coordinamento, cooperazione, intese, accordi. Si tratta di aspetti essenziali di tutto il diritto pubblico, che mettono l’accento sui profili “relazionali” delle istituzioni, capaci di prevenire il conflitto e di incrementare l’efficacia dell’azione pubblica, nel pieno rispetto dell’autonomia di ciascuno.
Quali sono i nodi che la Corte costituzionale si trova a dovere affrontare nell’immediato dal punto di vista organizzativo e quali potrebbero essere oggetto di interventi da parte della stessa Corte in forma di autoregolamentazione normativa o ope juris prudentiae?
Siamo stati colti tutti di sorpresa, tanto i cittadini quanto le istituzioni pubbliche: tutti abbiamo dovuto rapidamente adattare il nostro modo di agire a una situazione davvero sconvolgente, inedita e imprevedibile. Anche la Corte lo sta facendo, cercando di assicurare, come sempre ripete nella sua giurisprudenza, un ragionevole e proporzionato bilanciamento tra tutte le esigenze in gioco. In questo caso le esigenze da contemperare sono la tutela della salute di ciascuno, come diritto individuale e come bene della collettività, nonché la garanzia della continuità delle funzioni essenziali dello Stato, tra cui non può non essere annoverata la garanzia costituzionale affidata alle competenze della Consulta.
Concretamente, come avete contemperato queste due esigenze?
La prima preoccupazione è stata quella di creare condizioni di operatività della Corte che evitassero di esporre le persone a rischi di contagio e limitassero al massimo gli spostamenti, senza pregiudicare la funzionalità dell’istituzione. La prima attenzione è stata rivolta alle persone: ai giudici, agli avvocati, agli assistenti, a tutto il personale che fa funzionare la macchina della giustizia costituzionale. Improvvisamente ci siamo trovati a dover riorganizzare tutta l’istituzione per tutelare tutti e ciascuno, senza però fermare i motori della Corte. Non è stata un’operazione facile, per le caratteristiche della istituzione, anche se – mi preme sottolinearlo - il clima di unità della Corte, oserei dire di affiatamento fra tutti, ha molto semplificato il compito di chi si trova pro tempore al timone.
Molti giudici costituzionali vengono da fuori Roma
Esatto, e questa è stata la prima difficoltà. I giudici della Corte provengono da tutta Italia: al momento il Collegio è composto da colleghi residenti in Lombardia, Veneto, Toscana, Trentino-Alto Adige, Emilia Romagna, Lazio. Lo stesso accade con gli assistenti di studio, supporto fondamentale per il lavoro della Corte. Ma la cerchia delle persone che sono coinvolte e che arrivano da tutto il territorio nazionale è ancora più ampia perché, per la natura dei giudizi costituzionali, gli stessi avvocati che difendono davanti alla Corte costituzionale si muovono da ogni dove. Perciò i primi provvedimenti – in particolare il decreto del 12 marzo 2020 – sono stati volti a introdurre forme “telematiche” di comunicazione degli atti processuali, in deroga alle regole in vigore che richiedono che gli atti siano depositati materialmente nella Cancelleria della Corte. Contemporaneamente ci siamo adoperati per organizzare forme di smart work, o come si dice “lavoro agile”, per tutto il personale che svolge mansioni idonee. Per gli altri, che necessariamente debbono lavorare in presenza, abbiamo ridotto gli orari e previsto turnazioni, per ridurre al minimo i contatti di persona, senza però chiudere il Palazzo.
Così abbiamo introdotto un piccolo primo seme di processo telematico, un po’ improvvisato e di supporto all’emergenza, nelle forme più semplici e immediate da implementare, via PEC, a valere in via assolutamente transitoria. Contemporaneamente abbiamo ripreso in mano un progetto più organico di smaterializzazione del processo costituzionale da approvare a regime.
Il mio auspicio è che, sulla spinta dell’emergenza, sia il processo telematico sia forme di lavoro a distanza possano essere oggetto di una riforma stabile, valevole anche per il futuro. Su questo siamo al lavoro.
Il messaggio è che la Corte costituzionale non si ferma ma continua a lavorare. Con quali modalità per quanto riguarda le udienze?
Riguardo alle udienze pubbliche, ci siamo mossi con gradualità, nel solco di quanto previsto anche da altre Corti costituzionali e sovranazionali europee.
Dapprima abbiamo sospeso le sessioni di marzo e abbiamo continuato solo i lavori in camera di consiglio, predisponendo un’apposita aula, nella più ampia Sala Conferenze, utilizzando i vecchi arredi del processo Lockheed, in modo da poter assumere tutte le precauzioni suggerite, garantire le distanze fra i presenti e attrezzare tecnologicamente la camera di consiglio.
Poi, con il secondo decreto discusso in collegio il 23 marzo, abbiamo deciso di proseguire i lavori di deliberazione in camera di consiglio e di lettura sentenze anche “da remoto”. Lo stesso vale per le altre attività interne della Corte. Un bel cambiamento per una istituzione che non era avvezza a queste modalità di interazione.
Diversa la scelta per le attività pubbliche della Corte. Infatti, per quanto riguarda le udienze pubbliche al momento abbiamo scelto di non percorrere la strada della videoconferenza. I giudizi da trattare in pubblica udienza saranno di volta in volta rinviati per tutto il tempo che sarà necessario, consentendo però alle parti di richiedere che la decisione della causa possa passare in camera di consiglio senza trattazione orale. Per questa opzione, occorre però che tutte le parti siano d’accordo.
Quale risposta vi aspettate dagli avvocati?
Ci aspettiamo che in più di un caso gli avvocati si avvalgano di questa possibilità, considerato che il processo costituzionale è un processo prevalentemente scritto e, per alcuni tipi di cause, tutti gli argomenti utili alla decisione possono emergere esaustivamente dagli atti processuali depositati. In questa scelta ci siamo ispirati a quanto previsto per il processo amministrativo dall’art. 84 del dl n. 18 del 2020, applicabile ai giudizi costituzionali con i dovuti adattamenti in virtù dell’art. 22 della legge n. 87 del 1953. Tuttavia, rispetto al modello prescelto per il processo amministrativo abbiamo inteso valorizzare di più la volontà delle parti: nei giudizi costituzionali la trattazione in udienza pubblica può essere molto importante, sia per non comprimere il contraddittorio, sia per non sacrificare la pubblicità della trattazione di quelle cause che abbiano particolare rilievo pubblico. A questo proposito può valer la pena sottolineare che il Presidente può decidere comunque il rinvio dei giudizi per consentirne la trattazione nelle forme ordinarie, essendo uno dei suoi compiti proprio quello di governare il calendario dei lavori.
In una situazione di grave emergenza come quella che stiamo vivendo, potrebbero anche nascere conflitti tra poteri. In tal caso, la Corte sarebbe pronta ad intervenire?
Certamente. Tutte le regole dettate per l’emergenza non varranno se si dovesse presentare la necessità della trattazione immediata di un giudizio di particolare gravità: non si deve dimenticare che la Corte è custode della Costituzione, sia nella parte in cui si tutelano i diritti delle persone sia nella parte in cui si garantisce la separazione e l’equilibrio fra i poteri. A questo compito nessuna democrazia può rinunciare nemmeno temporaneamente, nemmeno in un periodo di emergenza. In ogni caso la Costituzione non lo consente.
Quando sarà possibile “recuperare” le cause rinviate?
La Corte si è già predisposta a intensificare le sue adunanze subito dopo la fine dell’emergenza, all’occorrenza anche nel periodo estivo, per “recuperare” le sessioni pubbliche che non si sono potute svolgere. Abbiamo già immaginato un calendario più intenso nei mesi di giugno, luglio e settembre. Speriamo di poter incrementare il lavoro anche prima.
Ritiene che il processo al quale la Sua presidenza ha dato vigoroso impulso con le modifiche regolamentari del gennaio 2020, tese a rendere più efficace e partecipato il processo, subirà un rallentamento in ragione dell’emergenza epidemiologica?
Direi e spererei di no. Le modifiche che abbiamo introdotto sulla partecipazione degli amici curiae, degli esperti e dei terzi interessati sono scritte in norme a regime e sono state condivise dal Collegio. È una buona cosa che quella riforma sia stata perfezionata prima dell’emergenza: resterà a beneficio della Corte nel futuro. Del resto, abbiamo già in calendario l’audizione di alcuni esperti – avremmo dovuto sentirli questa settimana, ma anche questo appuntamento è stato rinviato -; d’altronde, la partecipazione degli amici curiae si sta già attivando spontaneamente. Presumibilmente ci sarà una piccola battuta d’arresto, come per ogni altra attività: oggi tutto è rallentato; ma sono fiduciosa che la celebrazione partecipata dei processi costituzionali riprenderà appena le condizioni lo consentiranno.
Negli ultimi anni la Corte si è mostrata molto attenta alla comunicazione con l’opinione pubblica. Cosa accadrà in questo periodo?
Le attività ordinarie di comunicazione continueranno, con i consueti comunicati stampa e l’aggiornamento costante del sito, sia in lingua italiana che in lingua inglese. Continua anche la comunicazione attraverso i social. Abbiamo però dovuto sospendere l’appuntamento annuale con la stampa, previsto per il 9 aprile: una tradizione consolidata che si è mantenuta quasi ininterrottamente sin dai primi anni di attività della Corte. Anche in questo caso però troveremo un modo per riproporre un incontro con i media, non appena le circostanze lo consentiranno.
Stiamo vivendo momenti estremamente delicati, nei quali l’attuale contesto ha messo a nudo fragilità di vario ordine e grado. Il pensiero corre, soprattutto, alla popolazione anziana ed a quella dei reclusi in strutture penitenziarie. Si sente di fare giungere una sua riflessione a chi vive quelle condizioni?
Chi svolge la funzione di garanzia dei diritti costituzionali non può non avvertire una spiccata sensibilità per le persone che si trovano in condizioni di particolare fragilità: anziani, disabili, malati, i tanti malati anche di patologie diverse dal coronavirus, e tante persone sole o famiglie che si trovano o si troveranno in condizioni economicamente precarie. Tra le persone in condizioni di particolare delicatezza naturalmente non mancano i detenuti e tutti coloro che lavorano nel mondo del carcere: la polizia penitenziaria, l’amministrazione, gli educatori, il personale sanitario, i volontari. In queste comunità chiuse c’è una maggior esposizione al rischio e una minore disponibilità di mezzi di prevenzione. Ho visto che in queste settimane si sta sviluppando un importante dibattito in proposito, anche a livello giuridico e istituzionale, e lo sto seguendo con molto interesse. La Corte costituzionale, che negli ultimi anni ha imparato a conoscere da vicino il mondo del carcere, segue con molta attenzione e molta trepidazione ogni notizia che proviene dagli istituti di pena.
Se la sentirebbe di ipotizzare qualche soluzione? O comunque di dire qualcosa a chi sta vivendo ore ancora più drammatiche?
Per le funzioni che svolge, non è compito della Corte ideare o proporre soluzioni, né tanto meno assumere iniziative. Però, quando richiesta, la Corte è sempre pronta a difendere i diritti costituzionali di tutti. Quale messaggio posso far pervenire alle tantissime persone che si trovano in condizioni così drammatiche? Posso solo ripetere le parole di chi mi ha preceduto, il presidente Lattanzi: la Costituzione è lo “scudo” di tutti. E per parte mia posso aggiungere che la Corte c’è. A difesa di quei diritti e dell’intera Costituzione la Corte c’è.
L’emergenza che sta vivendo l’Europa e il mondo coinvolge sicuramente anche le Corti costituzionali di altri Paesi. Cosa ci può dire in proposito? Pensa che il processo di cooperazione fra le Corti nazionali e la Corte europea dei diritti dell’uomo potrebbe subire un rallentamento in ragione dello stato attuale?
Negli ultimi decenni si è sviluppata una virtuosa cooperazione tra le Corti, a livello nazionale e a livello sovranazionale. È un patrimonio che non dobbiamo permettere che si disperda, perché dal confronto con altri giudici su problematiche comuni sono nati nuovi strumenti giuridici, sono state messe a punto più precise tecniche di giudizio, si è rafforzata la tutela dei diritti e dello stato di diritto.
Negli ultimi anni, la Corte costituzionale italiana si è molto spesa per la costruzione di rapporti di cooperazione internazionale e intende continuare a farlo. Certo, per i prossimi mesi, con non poca mestizia, abbiamo dovuto cancellare, uno dopo l’altro, tutti gli incontri internazionali che erano già previsti in questi e nei prossimi mesi. Anche la Corte costituzionale aveva una agenda fitta: Riga, Praga, Budapest, Roma con la Corte tedesca a fine aprile, e poi abbiamo in programma per fine giugno un incontro quadrilaterale con Francia, Spagna e Portogallo. E poi a settembre Israele. Può darsi che questi incontri siano temporaneamente rinviati, così come è stato posposto il raduno delle Corti costituzionali europee previsto per maggio.
Tuttavia, molte delle relazioni tra le Corti sono state “istituzionalizzate”, sia con apposite procedure, sia attraverso l’istituzione di network di giudici, come la Conferenza delle Corti costituzionali europee e la Conferenza mondiale delle Corti costituzionali istituite grazie all’azione propulsiva della Commissione di Venezia nell’ambito del Consiglio d’Europa, della quale ho l’onore di far parte per l’Italia. Queste strutture giuridiche, spesso formalizzate per iniziativa italiana, consentiranno di riprendere i rapporti al termine dell’emergenza: tutti abbiamo sperimentato quanto proficua è ogni forma di interscambio fra Corti. Dentro la Corte italiana ci sono persone che stanno spendendo molte energie per coltivare i rapporti internazionali e da qualche anno abbiamo costituito anche un comitato di giudici che si occupa specificamente di questi aspetti. Sono certa che la ricchezza di relazioni costruita nel tempo non sarà spazzata via.
Gli operatori del diritto stanno affrontando, come la Corte costituzionale, un nuovo modo di esercitare le loro professioni. Pensa che da questa tragedia possa sorgere una consapevolezza maggiore verso i temi che riguardano la persona e l’ambiente, in una prospettiva sganciata dalla nazionalità?
In poche settimane stiamo vivendo una svolta epocale. Ne usciremo tutti cambiati. Molti lo hanno sottolineato in questi giorni: le crisi possono essere il preludio di una catastrofe oppure possono essere guardate come un’opportunità, come un fattore di grande progresso e innovazione. Nulla procede meccanicamente. C’è una riflessione della Arendt sulla crisi a cui sono molto affezionata e che può essere utile rileggere in questa contingenza: «Una crisi ci costringe a tornare alle domande; esige da noi risposte nuove o vecchie, purché scaturite da un esame diretto; e si trasforma in una catastrofe solo quando noi cerchiamo di farvi fronte con giudizi preconcetti, ossia pregiudizi, aggravando così la crisi e per di più rinunciando a vivere quell’esperienza della realtà, a utilizzare quell’occasione per riflettere, che la crisi stessa costituisce» (H. Arendt, Tra passato e futuro, Garzanti, Milano 1991, 229). La crisi e le domande. Questo è il tempo delle domande e della riflessione che nasce da esse. Oggi è il tempo delle domande autentiche e fondamentali, affinché “dopo” possa essere il tempo di una vera rinascita.
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