ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
di Valeria Giannoni e Alfonso Giannoni
Sommario: 1. La tutela della sicurezza alimentare nella legislazione comunitaria. - 2. La tutela della sicurezza alimentare nella legislazione comunitaria. - 3. L’innesto della normativa europea nel sistema penale italiano. - 4. Commercio di sostanze alimentari nocive quale reato di pericolo concreto. - 5. Conclusioni
1. La tutela della sicurezza alimentare nella legislazione comunitaria
La tutela della sicurezza alimentare è un tema di notevole interesse per il legislatore comunitario. La libera circolazione di alimenti sicuri e sani è, infatti, un aspetto fondamentale del mercato interno e contribuisce in maniera significativa alla salute e al benessere dei cittadini. La normativa comunitaria in materia di sicurezza degli alimenti e dei mangimi dovrebbe, pertanto, contribuire al conseguimento di un livello elevato di tutela della salute nella Comunità. La definizione di standard, cui obbligatoriamente devono attenersi tutti i produttori di alimenti, rappresenta, dunque, un presupposto imprescindibile per la libera circolazione degli alimenti stessi all’interno del mercato unico.
Il corpus giuridico comunitario in materia di sicurezza alimentare è contenuto, prevalentemente, nei Regolamenti comunitari del cosiddetto “pacchetto igiene” quali il Reg. CE 178/2002, il Reg. CE 852/2004, il Reg. CE 853/2004, il Reg. CE 854/2004, il Reg. CE 882/2004 cui si è aggiunto il recente Reg. UE 625/2017. Attraverso questi interventi normativi si è provveduto ad abrogare i pregressi atti di natura “verticale” che, cioè, normavano, ognuno, una singola tipologia di prodotti e a sostituirli con atti normativi di natura “orizzontale” applicabili, invece, con le dovute eccezioni, alla totalità dei prodotti alimentari, così da creare un testo legislativo unitario.
2. La tutela della sicurezza alimentare nella legislazione nazionale
Quanto all’impatto della legislazione comunitaria sugli ordinamenti giuridici dei Paesi membri, la maggior parte di essi non ha avuto difficoltà nella ricezione della norme europee in considerazione del sostanziale vuoto normativo nazionale in materia di sicurezza alimentare. In Italia, al contrario, l’adeguamento è stato, ed è tuttora, più complesso; ciò è dovuto al fatto che il nostro Paese, diversamente dagli altri, vantava già un corpus normativo dedicato alla tutela della salute mediante la disciplina dei requisiti sanitari degli alimenti.
La prima legge in materia di sicurezza alimentare risale al periodo post-unitario allorché venne emanata la L. 22/12/1888 n. 5849 “Tutela dell’Igiene e della Sanità pubblica” con la quale veniva istituito, presso ogni provincia, il Servizio Pubblico Veterinario con il compito di eseguire ispezioni nei macelli e negli spacci di carne dei Comuni particolarmente ricchi di bestiame. A tale legge seguirono, per citarne le più importanti, il Regio Decreto n. 7045/1890 “Regolamento speciale per la vigilanza igienica sugli alimenti, sulle bevande e sugli oggetti di uso domestico”, il Regio Decreto n. 45/1901 “Regolamento generale sanitario”, il Regio Decreto n. 1265/1934 “Testo Unico Leggi Sanitarie”, il Regio Decreto n. 3298/1928 “Vigilanza Sanitaria delle carni”, la Legge 30/4/62, n. 283 “Disciplina igienica della produzione e della vendita delle sostanze alimentari e delle bevande” e il suo regolamento di esecuzione approvato con DPR 26/3/80, n. 327.
Tali atti normativi hanno posto indubbiamente l’Italia all’avanguardia sul piano della tutela della sicurezza alimentare ma hanno reso, al contempo, più difficoltosa l’attività di adattamento della legislazione interna a quella comunitaria sopravvenuta rendendo, così, più difficoltosa l’azione delle Autorità Competenti all’effettuazione di controlli sugli alimenti (ASL, Carabinieri NAS, etc.) sia quella dell’Autorità Giudiziaria chiamata ad irrogare sanzioni nei casi in cui siano riscontrati illeciti penalmente rilevanti.
3. L’innesto della normativa europea nel sistema penale italiano
L’attività di adattamento delle norme interne a quelle comunitarie risulta particolarmente complessa in ambito penale. C’è da premettere che nessuna istituzione dell’Unione Europea gode del potere di legiferare in materia penale stante l’inderogabilità assoluta del principio di riserva di legge statale contenuto nell’art. 25 Cost.. Tuttavia, l’accelerazione del processo di integrazione europea ed il progressivo espandersi delle competenze unionali a settori sempre più vasti consente di affermare che l’attività legislativa dell’Unione Europea abbia, quantomeno, un’efficacia riflessa sulla legislazione penale interna determinando il modo in cui il giudice è tenuto ad interpretare una norma penale che intercetti una materia di interesse dell’Unione Europea. Occorre, pertanto, verificare l’influenza che la normativa comunitaria abbia avuto su quella interna dettata in materia di sicurezza alimentare.
La materia trova la sua fonte principale, a livello comunitario, nel regolamento CE n. 178/2002 il quale stabilisce i principi e i requisiti generali della legislazione alimentare, istituisce l’Autorità europea per la sicurezza alimentare e fissa procedure nel campo della sicurezza alimentare. In particolare, l’art. 14 di tale Regolamento afferma che “gli alimenti a rischio non possono essere immessi sul mercato”.
Il legislatore interno, invece, ha dedicato alla tutela della sicurezza alimentare diverse norme penali tra cui sovviene, principalmente, l’art. 444 c.p. il quale dispone che “chiunque detiene per il commercio, pone in commercio ovvero distribuisce per il consumo sostanze destinate all'alimentazione, non contraffatte né adulterate, ma pericolose alla salute pubblica, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa non inferiore a cinquantuno euro”.
Occorre, pertanto, verificare in che modo possano conciliarsi la normativa interna e quella comunitaria. Deve essere subito sottolineata la differenza semantica tra i due impianti normativi: quello europeo, più attuale e adeguato all’impronta scientifica, utilizza appropriatamente la parola “rischio” come la funzione della probabilità e gravità di un “pericolo”. Il pericolo viene distinto in chimico, microbiologico o fisico e per esso va intesa la sostanza, il microorganismo o il fattore fisico (ad esempio le radiazioni) che può causare un danno alla salute del consumatore. La normativa nazionale, ovviamente più datata ma non per questo meno efficace, utilizza, invece, l’espressione “alimenti pericolosi per la salute pubblica”.
Ferma restando la differente locuzione utilizzata dalle due norme è indubbio che l’interprete, nel valutare la sussistenza del pericolo richiesto quale elemento costitutivo della fattispecie di cui all’art. 444 c.p., farà utilizzo proprio delle coordinate enunciate nell’art. 14 Reg. 17/2002. Quest’ultima norma, infatti, afferma che gli alimenti sono da considerarsi a rischio nei casi seguenti:
a) se sono dannosi per la salute;
b) se sono inadatti al consumo umano.
La stessa norma aggiunge, poi, che per determinare se un alimento sia a rischio occorre prendere in considerazione quanto segue:
a) le condizioni d'uso normali dell'alimento da parte del consumatore in ciascuna fase della produzione, della trasformazione e della distribuzione;
b) le informazioni messe a disposizione del consumatore, comprese le informazioni riportate sull'etichetta o altre informazioni generalmente accessibili al consumatore sul modo di evitare specifici effetti nocivi per la salute provocati da un alimento o categoria di alimenti.
Tali direttive, impartite dal legislatore europeo, certamente verranno prese in considerazione dal giudice ai fini della valutazione della sussistenza del pericolo richiesto dall’art. 444 c.p.
4. Commercio di sostanze alimentari nocive quale reato di pericolo concreto
Giova ricordare che l’art. 444 c.p. rientra nel novero dei reati c.d. “di pericolo”; essi si distinguono dai reati di danno in quanto l'offesa consiste nella mera messa in pericolo del bene giuridico a prescindere dalla verificazione di una effettiva lesione dello stesso con anticipazione, dunque, della soglia di tutela penale. All'interno di questa categoria di reati si distingue tra reati di pericolo presunto (o astratto) e reati di pericolo concreto, sulla base della differente posizione che il pericolo assume nell'ambito della norma. Nei reati di pericolo concreto, il pericolo figura quale elemento costitutivo della norma e andrà accertato dal giudice caso per caso in modo che se il bene giuridico non sia stato esposto effettivamente a pericolo il reato non sussiste. Nei reati di pericolo astratto (o presunto) è il legislatore che formula in via preventiva il giudizio di pericolosità in relazione ai comportamenti antigiuridici. Il pericolo costituisce il motivo dell'incriminazione e non un elemento costitutivo del reato e, per tale motivo, il giudice accerta la ricorrenza del comportamento antigiuridico, a prescindere dal fatto che la condotta, nel caso concreto oggetto del giudizio, abbia causato un pericolo effettivo o meno.
L’art.444 c.p., richiamando all’interno del precetto il pericolo per la salute pubblica, certamente si configura quale reato di pericolo concreto. Spetterà, dunque, al giudice verificare quando le condotte descritte dalla fattispecie presentino una effettiva carica potenzialmente lesiva per il bene giuridico tutelato dalla norma.
Ad esempio sarà considerata pericolosa e, quindi, sanzionata penalmente la commercializzazione di alimenti nei quali, mediante analisi, si è accertato il superamento dei limiti di uno o più dei batteri patogeni elencati nell’allegato 1 del Reg. CE 2073/2005. Tale Regolamento definisce i cd. “criteri di sicurezza alimentare” approntati al fine di definire l’accettabilità di un prodotto o di una partita di prodotti alimentari sotto il profilo microbiologico; nel caso de quo il pericolo microbiologico è presente, il rischio è alto, e la fattispecie può essere sussunta nell’art. 444 C.P che vieta la commercializzazione di sostanze pericolose per la salute pubblica, ferma restando l’indifferenza per il legislatore, ai fini della punibilità, della effettiva verificazione di un danno.
5. Conclusioni
Appare evidente, in conclusione, che la tutela della sicurezza alimentare abbia suscitato grande interesse per il legislatore comunitario intento a garantire un elevato livello di benessere per tutti i cittadini. Tale materia, dunque, non poteva che essere foriera di notevoli interventi legislativi tesi a fissare standard qualitativi degli alimenti e a vietare pratiche scorrette.
È innegabile che tale corpus normativo, ferma restando l’assenza di un potere legislativo in materia penale dell’Unione, abbia contribuito notevolmente a definire i margini dell’area del penalmente rilevante imponendo al giudice di interpretare la normativa penale interna alla luce delle prerogative e degli standard imposti dall’Unione stessa. L’interprete, pertanto, nell’attività di accertamento dell’illecito penale, non farà più esclusivo uso di criteri interni, tratti dalla legislazione nazionale, ma finirà per fare riferimento a quelli di matrice comunitaria.
di Piero Gaeta
Sommario: 1. Premessa. - 2. La scala di Wittgenstein: dialogo e preminenza della Corte costituzionale.- 3. Prima icona. La scala ritirata con la Corte di Lussemburgo: dialogo e controlimiti. 4. Seconda icona. La scala ritirata con la Corte di Strasburgo: dialogo e giurisprudenza ‘consolidata’. 5. Terza icona. La fine delle “rime obbligate”: la scala ritirata al legislatore (ma anche ai giudici nazionali).
1. Premessa.
Considerato che il brevissimo tempo a disposizione per questo intervento consente di enunciare e di argomentare, al più, un’unica idea, desidero – oltre che ringraziare vivamente chi me ne ha fornito l’opportunità – immediatamente enunciarla. Proverò a dimostrare che, nello stato attuale del ‘dialogo’ tra le Corti (guardato, ovviamente nelle sue linee generali e nella prospettiva del giudice comune), la Corte costituzionale ha assunto un ruolo di assoluta primauté. Un ruolo espansivo e centrale, rispetto sia alle altre Corti sovranazionali che al giudice comune, secondo un percorso che ha inizio, a mio avviso, nell’ultimo lustro e che ha portato in qualche modo il Giudice delle leggi a ‘governare’ molto più che in passato presupposti, metodi e scopi di tale dialogo.
E’ una prospettiva ‘critica’, perché il quadro di sintesi che ne viene fuori probabilmente non appare in completa sintonia con l’atmosfera di contentezza ed entusiasmo che respiriamo in questo incontro. Quest’ultimo ha indubbiamente il valore di una giusta celebrazione: rinnoviamo la promessa del dialogo tra le Corti, anche alla luce di un nuovo ed importante strumento di esso, il Protocollo 16, di cui festeggiamo l’abbrivio, colmi di ulteriori speranze.
Non voglio di sicuro essere importuno in questa occasione e, dunque, rovinare il clima di festa; credo tuttavia che questa occasione sia da sfruttare per enucleare qualche punto fermo nella vorticosa evoluzione del dialogo fra le Corti e dei suoi riverberi sul giudice comune. Sono trascorsi alcuni anni cruciali da quando questo dialogo ha preso l’abbrivio e più di due lustri dalle sentenze ‘gemelle’: importa capire non soltanto se esse, secondo la metafora di Marco Bignami ([1]), siano “cresciute in salute”, ma anche – aggiungerei provocatoriamente – eventualmente a scapito di chi. Insomma: se le molte novità di interlocuzione sopravvenute hanno modificato l’originaria “grammatica conversazionale” – per dirla con Paul Grice ([2]) ‒ tra Consulta, Corte di Strasburgo e Corte di Lussemburgo e quali ne siano stati i riflessi di assetto e di partecipazione sulla figura meno centrale, che è quella tuttavia a cui maggiormente tengo, vale a dire il giudice comune.
2. La scala di Wittgenstein: dialogo e preminenza della Corte costituzionale.
Dico subito allora ‒ con grandi pennellate di estrema sinteticità – che, a mio avviso, il dialogo tra le Corti ha bensì assunto oggi una diversa stabilità rispetto a quell’originario “sentimento dell’urgenza” ([3]) che ne aveva caratterizzato gli albori e la prima fase, essendone oggi i contorni molto più definiti e, con essi, gli scopi e, soprattutto, le modalità. Ma ritengo anche che, in questa evoluzione, sia stata la Corte costituzionale ad assumere un ruolo preminente ‒ di personaggio chiave e personaggio principale assieme, si direbbe nel linguaggio della sceneggiatura cinematografica ‒ ed in progressiva espansione: guadagnando una centralità assoluta e divenendo il best player del dialogo. Il ruolo insomma di chi - con grande acume istituzionale, talvolta con astuzia ordinamentale - alla fine ha stabilito, quasi sempre in autonomia, le regole su come dialogare e soprattutto su quali esiti potesse/dovesse avere tale dialogo: ribadendo, con forza, che la testata d’angolo era e rimane il meccanismo del sindacato accentrato di costituzionalità e persino privilegiando l’“anima politica” rispetto a quella “giurisdizionale”. A tale ruolo, gli altri ‘dialoganti’ ‒ Corti di Strasburgo e Lussemburgo; giudici comuni - si sono dovuti, di volta in volta, in qualche modo adattare ed adeguare: in qualche occasione, perfino rassegnare.
Non intendo ovviamente esprimere giudizi, rispetto ai quali non avrei alcun tipo di competenza o legittimazione: cerco solo di registrare fatti. I quali mi pare dicano, tuttavia, della presenza di un dialogante ‘forte’: una Corte costituzionale che ha mostrato, come raramente accaduto nel corso della sua storia, un fermo predominio istituzionale.
Per sintetizzare il senso di questa impressione – ed, anzi, per esprimerla appieno – ricorro ad una metafora, assai immaginifica ma altrettanto luminosa, che prendo a prestito dalla profondità di Ludwig Wittgenstein ([4]). Nella penultima proposizione del suo Tractatus, il filosofo austriaco quasi congeda il lettore con l’allegoria della scala: afferma - spiegando l’intero senso della sua opera - che le sue proposizioni sono come una scala da usare per salire più in alto, per poi essere gettata via. Chi legge le mie proposizioni - afferma – sale per mezzo di esse, su esse, oltre esse: egli, tuttavia, deve superare queste proposizioni e deve, per così dire, gettare la scala dopo esservi salito. Allora vedrà rettamente il mondo.([5]) Come dire: la scala (nel caso di Wittgenstein, il linguaggio) ci è servita per portarci in cima, “consentendoci di aprire lo sguardo a un nuovo ed emozionante panorama”, ma poi va distrutta, perché non serve più, non consente di andare oltre (nel caso di Wittgenstein, al linguaggio subentra la mistica).
Ho l’impressione che il dialogo con le altre Corti e con i giudici comuni sia stato usato dalla Corte costituzionale un po’ come la scala di Wittgenstein. Un mezzo da utilizzare sì per arrivare ad un punto (ermeneutico, istituzionale, ordinamentale) che sovrasta il passato, ma poi (e nonostante le apparenze) destinato ad essere gettato via dalla stessa Consulta: perché strumento che non serve più, una volta che il perimetro è stato tracciato (dalla stessa Corte), le condizioni del dialogo affermate ed i limiti, invalicabili, fissati. Ragion per cui è difficile (impossibile?) oltre-passare, utilizzando quello stesso strumento.
Sembra – mi rendo conto - una conclusione assai severa per la Corte costituzionale: in realtà, essa è, alla fine, il riconoscimento di una sua lucida abilità strategica e della sua assoluta centralità in questo segmento storico. Una Corte assai più ‘forte’ (ammesso che in questo àmbito si possano prospettare e misurare ‘rapporti di forza’) di Strasburgo e di Lussemburgo, ma anche della giurisdizione ordinaria e con bagliori muscolari mostrati anche al legislatore nazionale.
Cerco ora di argomentare questa idea attraverso tre brevi icone: quadri di un’esposizione che meriterebbe, naturalmente, ben altro indugio ed approfondimento.
3. Prima icona. La scala ritirata con la Corte di Lussemburgo: dialogo e controlimiti.
La ‘storia’ delle relazioni con la Corte di Lussemburgo – per cominciare da questa – presenta aspetti umbratili.
All’apparenza, nel suo versante di luce, pare (ed è auspicato come) un dialogo vero, attuale e collaborativo, come farebbe pensare, anche di recente, l’ordinanza n. 117 del 2019 (Viganò est.), di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia sul problema della sanzionabilità del silenzio processuale nel procedimento dinnanzi alla Consob. In realtà, la storia recente di questa interlocuzione con Lussemburgo presenta anche versanti forse non di eguale luce (versanti di ombra?), nei quali pare evidenziarsi come la Corte costituzionale abbia, in realtà, già stabilito regole di ingaggio, punti di non ritorno, confini massimi. Mi riferisco, per un verso, al problema della c.d. “doppia pregiudizialità (sentenze n. 269 del 2017, § 5.2., est. Cartabia, e seguiti: sentenza n. 20 del 2019, §§ da 2.1. a 2.3., est. Zanon; sentenza n.63 del 2019, est. Viganò; e, per altro verso, soprattutto alla vicenda Taricco.
Comincio da quest’ultima, sempre per rapidissimi cenni. A conclusione del ‘ciclo’ Taricco (epico per la giustizia costituzionale), la sensazione che si riporta è che la Corte costituzionale - pervenuta ad uno snodo decisorio fondamentale per avere, in sostanza, azionato i “controlimiti” del sistema costituzionale italiano − abbia stabilito una sorta di confine mobile del futuro dialogo, che potrà, di volta in volta, da essa stessa essere ri-collocato. Insomma, non si tratta solo dei controlimiti - ovvio apparendo che fosse implicato ab origine tale confine; quanto del fatto che la Corte abbia chiarito, alla prima vera occasione, che la metodologia del ‘dialogo’ (l’an, il quando ed il quomodo) sono variabili preconizzate in funzione di un esito finale che, di volta in volta, spetterà ad essa e ad essa soltanto stabilire e che relega nella (quasi) insignificanza le altre variabili: di materia, di fonte, di finalità comuni in precedenza accettate, di rispondenza alle ‘tradizioni costituzionali comuni’, di implicazione sugli interessi (finanziari o meno) fondamentali dell’Unione.
E’ questo – in liofilizzato - quanto può essere tratto dal triangolo di provvedimenti rappresentati dall’ ordinanza n. 24 del 2017 (rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia per l’interpretazione relativa al corretto significato da attribuire all’art. 325 TFUE e alla prima sentenza Taricco, Grande sezione della Corte di giustizia 8 settembre 2015, in causa C-105/14, Taricco); dalla successiva sentenza della Corte di Giustizia, c.d. Taricco bis (Grande sezione della Corte di giustizia, sentenza 5 dicembre 2017, in causa C-42/17, M.A. S. e M. B.) e dalla sentenza della Corte costituzionale n. 115 del 2018.
Impossibile, anche in pochi minuti, riassumere una delle vicende più significative della giustizia costituzionale degli ultimi decenni, per di più su di un tema sensibile quale la prescrizione; ma – persino al di là delle migliaia di pagine dei commenti ad essa - la piana scrittura della pronuncia consente alcune estrapolazioni, senza che ne sia troppo tradito il senso.
Va premesso che, in seguito al rinvio pregiudiziale, la Grande Camera, nella sentenza c.d. Taricco bis aveva fornito, come richiestole dalla Corte costituzionale, un’ermeneutica ‘autentica’ tanto dell’art. 325, par. 1 e 2 del Trattato (TFUE), che della c.d. ‘regola Taricco’, ribadendo la sussistenza dell’obbligo di disapplicazione della normativa interna della prescrizione tutte le volte in cui l’applicazione di detta normativa fosse ostativa all’inflizione di sanzioni penali effettive e dissuasive (in un numero considerevole di casi di frode grave lesive degli interessi finanziari dell’Unione europea) o si risolvesse in un termine di prescrizione più breve rispetto a quello previsto dallo stesso diritto nazionale. Obbligo di disapplicazione che trovava limite – secondo la Corte di Lussemburgo – solo allorquando essa comportasse «una violazione del principio di legalità dei reati e delle pene a causa dell’insufficiente determinatezza della legge applicabile, o dell’applicazione retroattiva di una normativa che impone un regime di punibilità più severo di quello vigente al momento della commissione del reato» (§ 62). Accertamento, questo, che secondo la Corte di Giustizia, spettava al «giudice nazionale»: se questi dovesse quindi ritenere «che l’obbligo di disapplicare le disposizioni del codice penale in questione contrasti con il principio di legalità dei reati e delle pene, non sarebbe tenuto a conformarsi a tale obbligo, e ciò neppure qualora il rispetto del medesimo consentisse di rimediare a una situazione nazionale incompatibile con il diritto dell’Unione» (§ 61).
L’interlocutore di Lussemburgo è dunque il giudice nazionale italiano, né potrebbe essere diversamente: è a lui che si rimette la valutazione dell’effetto della disapplicazione che gli è imposta, ai fini della compatibilità con il principio di legalità/determinatezza.
La Corte costituzionale - allorquando dopo il rinvio pregiudiziale torna a riesaminare la questione (sentenza n. 115 del 2018) – dice cose diverse: ed, anche in tal caso, non potrebbe essere altrimenti.
Ribadito che la prescrizione deve essere considerata un istituto sostanziale e rientra quindi nell’alveo del principio di legalità penale sostanziale enunciato dall’art. 25, secondo comma, Cost. – così recando con sé i corollari della tipicità, determinatezza e prevedibilità – la Corte pone in evidenza evidente il deficit di determinatezza che caratterizza sia l’art. 325, par. 1 e 2, TFUE (per la parte da cui si evince la “regola Taricco”), sia la “regola Taricco” in sé.
Ne seguono i corollari, che costituiscono, alla fine, lo specimen decisorio, ma che si prospettano, pro futuro ed in chiave generale, come un ordine competenziale dettato dal Giudice delle leggi.
In primo luogo, «se è vero che compete alla sola Corte di giustizia interpretare con uniformità il diritto dell’Unione e specificare se esso abbia effetto diretto è anche indiscutibile che (…) un esito interpretativo non conforme al principio di determinatezza in campo penale non possa avere cittadinanza nel nostro ordinamento»;
In conseguenza – seconda affermazione tranchant- «il giudice comune non può applicare la “regola Taricco”, perché essa è in contrasto con il principio di determinatezza in materia penale, consacrato dall’art. 25, secondo comma, Cost.» e costituente «principio supremo dell’ordine costituzionale italiano».
In terzo luogo, «l’autorità competente a svolgere il controllo sollecitato dalla Corte di giustizia è la Corte costituzionale, cui spetta in via esclusiva il compito di accertare se il diritto dell’Unione è in contrasto con i principi supremi dell’ordine costituzionale e in particolare con i diritti inalienabili della persona». A tale scopo il ruolo essenziale che riveste il giudice comune consiste «nel porre il dubbio sulla legittimità costituzionale della normativa nazionale che dà ingresso alla norma europea generatrice del preteso contrasto».
Considero inevitabile, sotto un profilo istituzionale e politico, questa soluzione: detto altrimenti, risultava difficile ed improbabile una diversa.
Nondimeno, essa fornisce conferma, sotto il profilo funzionale, di alcune ipotesi già affacciate ed intravedibili nel rinvio pregiudiziale.
Innanzitutto che – come è stato rilevato – sul piano dei rapporti coi giudici comuni, quando anche costoro abbiano la piena certezza (e non il semplice sospetto) che il diritto sovranazionale abbia superato i “controlimiti” costituzionale (sia andato, cioè, in rotta di collisione con un «principio supremo dell’ordine costituzionale italiano») «non possono far altro che investire la Consulta della relativa questione» ([6]). Detto altrimenti, il giudice comune non è il giudice chiamato a dispensarsi ex se dall’obbligo di disapplicazione della norma interna a beneficio di quella eurounitaria e, anche quando abbia certezza della frizione, non potrà operare una doppia disapplicazione (della norma interna per il ritenuto contrasto con la normativa sovranazionale; della norma sovranazionale, per il ritenuto contrasto con uno o più principi supremi dell’ordine costituzionale italiano). Insomma, si dovrà solo fermare e sollevare la questione: non è compito suo accertare se il diritto dell’Unione è in contrasto con i principi supremi dell’ordine costituzionale, anche quando tale contrasto sia palese.
Sotto altro profilo, la Corte non solo stabilisce (com’è ovvio) quali sono i «principi supremi dell’ordine costituzionale italiano», ma soprattutto cosa della giurisprudenza di Lussemburgo è riconducibile, di volta in volta, ad essi.
Emblematica la vicenda Taricco sul punto. La Corte di Giustizia si sforza e si affanna nel dire, nel corpo della motivazione della Taricco bis, che il principio di legalità dei reati e delle pene appartiene alle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri; che esso, quale sancito all’articolo 49 della Carta, si impone agli Stati membri quando attuano il diritto dell’Unione; che, dalle spiegazioni relative alla Carta dei diritti fondamentali (GU 2007, C 303, pag. 17) emerge che, conformemente all’articolo 52, paragrafo 3, della Carta, il diritto garantito all’articolo 49 della medesima ha significato e portata identici al diritto garantito dalla CEDU; che, insomma, il diritto sovranazionale riconosce la legalità penale in maniera altrettanto fondamentale (quanto ad architettura teorica, intensità della tutela, fonte, ecc.) quanto l’ordinamento costituzionale italiano e che dunque il diritto dell’Unione ‘tiene’ ad esso almeno quanto il diritto costituzionale italiano. Ebbene, tutto ciò pare superfluo alla Corte costituzionale: perché, a prescindere da tutto ciò (oltre tutto ciò, ricordando la metafora della scala) vale l’identità costituzionale nazionale, che sembra avere efficacia preclusiva ed assorbente su ogni altro argomento. Come dire che, alla fine, è quest’ultima la “variabile indipendente” ed in nucleo forte destinato comunque a prevalere nel dialogo.
Vi è poi la vicenda della c.d. “doppia pregiudizialità”, vale a dire, la sentenza n. 269 del 2017 e delle novità di principio che essa reca, attraverso una “precisazione” (contenuta nel par. 5.2. della sentenza estesa da Marta Cartabia) che conta molto di più di una decisione: qualcuno ha scritto che è una tappa della giustizia costituzionale importante almeno quanto la sentenza Granital (n. 170 del 1984).
Per comprendere la novità, occorre, in un baleno, rammentare alcune cose fin troppo note: che, cioè, l’antinomia tra norma di diritto interno e norma di diritto dell’UE dotato di effetto diretto comporta la «non applicabilità» accertata e dichiarata esclusivamente dal giudice comune (disapplicazione), eventualmente previo rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia ex art. 267 UE; che la norma interna così disapplicata naturalmente «non viene in rilievo» più per la disciplina della fattispecie e, pertanto, non può essere oggetto di un sindacato di costituzionalità; che tale sindacato ha spazio residuale nelle tre eccezioni ‘classiche’ a questo meccanismo di disapplicazione, vale a dire: in ipotesi di antinomia tra norma di diritto interno e norma UE priva di ‘effetti diretti’; quando dalla sua applicazione «derivi una responsabilità penale» (sent. n. 28 del 2010); infine, quando l’applicazione della norma UE intacchi un “principio fondamentale dell’ordine costituzionale”, un ‘controlimite’, appunto, come avvenuto nella vicenda Taricco. Al di fuori di questi casi, nel rapporto tra norma interna e norma UE self executing, l’incidente di costituzionalità non est in mundo: ne mancherebbe l’oggetto.
Tali pacifici adagi – che riposavano su di una giurisprudenza costituzionale granitica (onomatopeica alla sentenza Granital che l’aveva inaugurata nel 1984) - vengono alquanto stravolti dalla sentenza n. 269 del 2017. Si badi: essa formalmente rispetta, in punto di decisione, questa tradizione decisoria (dichiara cioè inammissibile l’incidente di costituzionalità che una Commissione Tributaria aveva sollevato sulla norma interna, anziché di disapplicarla per il contrasto con la norma UE avente efficacia diretta), ma va oltre con una ‘precisazione’ (par. 5.2.) che, pur non rientrando nella ratio decidendi, pone una statuizione di straordinario rilievo. Si afferma infatti che, tutte le volte in cui il giudice comune scrutina una norma interna «oggetto di dubbi di illegittimità tanto in riferimento ai diritti protetti dalla Costituzione italiana, quanto in relazione a quelli garantiti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea in ambito di rilevanza comunitaria, [doppia pregiudizialità, appunto, n.d.r.]. [deve] essere sollevata la questione di legittimità costituzionale, fatto salvo il ricorso al rinvio pregiudiziale per le questioni di interpretazione o in validità del diritto dell’Unione ai sensi dell’art. 267 del TFUE»
Qualche interrogativo preliminare: il dictum del par. 5.2. della sentenza 269/2017 ha innanzitutto valore precettivo? Il giudice comune, di fronte ad una possibile ‘doppia pregiudizialità’ ha l’obbligo di proporre prima l’incidente di costituzionalità?
A mio avviso certamente sì, fatta salva naturalmente l’assenza di qualsivoglia sanzione processuale o disciplinare: ma non di solo pane sanzionatorio vivono le regole ed i principi procedurali.
Perché è una statuizione prescrittiva quella della sentenza n. 269/2017?
Per molte ragioni, tutte già sapientemente scandagliate dalla dottrina che ha commentato la decisione. Perché se è pur vero che, tradizionalmente, è prescrittivo ciò che rientra nella ratio decidendi di una sentenza e non già quello che, fuori da essa, è un obiter, questo confine è assai incerto allorquando le sentenze della Corte costituzionale ‘parlano’ ai giudici comuni. La giurisprudenza costituzionale si sedimenta per regole, ma anche per principi (volendo scomodare la distinzione di Dworkin) e, spesso – com’è giusto che sia per un’Alta Corte – i principi sono più importanti delle regole. Poi perché se è vero che l’architettura del nostro meraviglioso sistema giurisdizionale si fonda sulla testata d’angolo della soggezione del giudice solo alla legge (art. 101 Cost.) nella legge sono certamente da ricomprendersi le sentenze della Corte costituzionale, che sono il formante giudiziale delle leggi, almeno quanto noi giudici siamo il formante ermeneutico delle leggi. E poi ancora perché la stessa regola che disciplina l’antinomia tra norma interna e norma comunitaria ed attribuisce ai giudici comuni il potere di disapplicazione della prima «è stata essa stessa enunciata dalla Corte costituzionale» (sentenza Granital n. 170 del 1984), all’esito del dialogo con la Corte di giustizia (sentenze Costa vs Enel del 1964; Van Gend & Loos del 1963; Francovich del 1990, ecc.) e poi recepita dai giudici comuni, al pari di quanto avvenuto, molti anni dopo, con le gemelle, per il rapporto ordinamento interno/CEDU. Sarebbe ben strano che l’organo che ha elaborato la regola principale (disapplicazione) non avesse oggi l’autorità per affermarne i limiti.
Dunque, la 269/17 enuncia un principio che pone al giudice, in qualche modo, un vincolo procedurale.
Perché la Corte ha dettato questo programma indubbiamente vincolante per il giudice comune, ancorché contenuto in una precisazione/obiter? Perché ha inteso ribadire la preminenza del giudizio costituzionale accentrato, depotenziando – con quest’ordine di priorità – il meccanismo della disapplicazione da parte del giudice comune e, dunque, la stessa funzione della diffusività applicativa del diritto dell’Unione? Perché la Corte si è riconosciuto il “diritto di prima parola” (come testualmente scrive Niccolò Zanon nella sentenza n. 20 del 2019) in questi casi?
Essenzialmente per due ragioni: una funzionale ed una politica.
Quella funzionale era nel fatto che, sempre più spesso, il riferimento alla Carta europea da parte dei giudici comuni era avvenuto – con un effetto di spill-over (traboccamento) della stessa - senza il suo essenziale presupposto: vale a dire era stata invocata a parametro anche se la fattispecie oggetto di legislazione interne non era «disciplinata dal diritto europeo – in quanto inerente ad atti dell’Unione, ad atti e comportamenti nazionali che danno attuazione al diritto dell’Unione», ma «da norme nazionali prive di ogni legame con tale diritto» (sentenze n. 80 del 2011 e n. 63 del 2016). Detto altrimenti, i giudici comuni – secondo la valutazione della Corte costituzionale – finivano per utilizzare quale parametro ‘costituzionale’ le norme della Carta europea anche a prescindere da ogni inerenza tra la fattispecie normativa interna ed il diritto europeo. E ciò risultava poco tollerabile (oltre che errato) per motivi talmente intuibili che è superfluo esplicitare.
La ragione ‘politica’ appare più evidente: nell’intreccio inestricabile, per molte materie, tra principi e regole enunciati nella Carta europea ed omologhi diritti garantiti in Costituzione, la Corte ha ritenuto opportuno ribadire una tempestività (temporale, ma anche sostanziale) di intervento, con indubbi vantaggi. Innanzitutto, quello di poter fissare precisi ‘paletti’ ermeneutici, anche rispetto alla futura richiesta di pregiudiziale. Poi, quello di sostituire un effetto erga omnes (con un’eventuale pronuncia di incostituzionalità) all’effetto disapplicativo della norma interna da parte del singolo giudice comune. In pratica, con il meccanismo ‘tradizionale’ la norma interna, anche se disapplicata dal giudice comune nella singola fattispecie al suo esame con sostituzione della norma ‘europea’, continua a vivere nell’ordinamento interno. L’intervento abrogativo della Corte costituzionale della stessa norma (perché in contrasto anche con un diritto protetto dalla Costituzione italiana) evita l’eventuale ‘macchia di leopardo’: che la norma interna disapplicata in un caso non lo sia in un altro, così risolvendo – secondo il meccanismo dell’incidente di costituzionalità- il problema assai più radicalmente.
Prima di qualche considerazione finale sul punto, una brevissima notazione su quello che, rispetto alla sentenza n. 269 del 2017, ne costituisce un completamento: o, se si vuole, aggiunge another brick in the wall, per parafrasare il titolo di un capolavoro musicale.
Mi riferisco alla sentenza n. 20 del 2019 (Zanon est.), la quale precisa bensì, ma anche amplia e conferma (il par. 5.2. del)la sent. 269/2017.
La precisa nel senso di esplicitare quanto già in essa si poteva desumere: e cioè che naturalmente «i giudici comuni possono sottoporre alla Corte di giustizia dell’Unione europea, qualsiasi questione pregiudiziale a loro avviso necessaria». Detto altrimenti, il giudice comune, di fronte ad una ‘doppia pregiudizialità’, dopo aver sollevato incidente di legittimità costituzionale e dopo che la soluzione negativa di esso (perché la Corte costituzionale non vi avrà ravvisato alcuna frizione con la Costituzione), può bussare a Lussemburgo e richiedere una pregiudiziale, eventualmente per disapplicare una norma interna che pure incostituzionale non è. Torno tra un momento sul punto.
Ma la sentenza n. 20 del 2019 amplia, confermandolo, l’orientamento espresso con il precedente citato in quanto afferma che la ‘doppia pregiudizialità’ viene in essere quando la norma interna non solo è in frizione con diritti e principi fondamentali della Costituzione e dal diritto europeo c.d. “primario”, ma anche – ed è qui la novità – di quello ‘derivato’ che abbia «una singolare connessione con le pertinenti disposizione della CFUE». Come dire: ciò che decide (ai fini della doppia pregiudizialità) non è tanto la natura self executing della norma europea quanto «il rango costituzionale della questione e dei diritti in gioco». Sensibile ed evidente l’ampliamento di orizzonte.
Brevissime riflessioni a conclusione, espresse in forma di interrogativi.
Ci sarà mai un giudice comune che in caso di doppia pregiudizialità, una volta rassicurato dalla propria Corte costituzionale che la norma interna non vìola la propria Costituzione, andrà a richiedere una pregiudiziale a Lussemburgo? Andrà cioè a richiedere una ‘verifica dei poteri’ rispetto alla Carta europea, così sospettando che lo ‘spettro’ della tutela dei diritti fondamentali sia più intensa nella Carta sovranazionale rispetto a quella della ‘sua’ Costituzione? Ed il Giudice di Lussemburgo - eventualmente ricevendo una richiesta di pregiudiziale su di una norma nazionale su cui la Corte costituzionale italiana ha già effettuato una TAC positiva in punto di armonia con i diritti fondamentali della Costituzione italiana - si sentirà di affermare che quest’ultima è più fragile e meno perspicua della Carta europea? Più in generale, può davvero una norma interna non violare diritti e principi fondamentali della Costituzione italiana ed al contempo violare i corrispondenti diritti e principi contenuti nella Carta europea?
Le risposte a queste domande danno il senso della complessiva ‘operazione’ compiuta dalla giurisprudenza costituzionale di ‘espansione’ del proprio ruolo e sindacato accentrato di costituzionalità: quando il tradizionale meccanismo di disapplicazione tange i diritti in Costituzione, la Consulta assume la direzione delle operazioni ermeneutiche.
4. Seconda icona. La scala ritirata con la Corte di Strasburgo: dialogo e giurisprudenza ‘consolidata’.
La seconda icona è brevissima, perché arcinota: sicché pochi cenni sono sufficienti.
Rispetto alla Corte di Strasburgo, infatti, il punto di cesura, ciò che segna l’esistenza di un ‘prima’ e di un ‘dopo’ è rappresentato dalla nota sentenza n. 49 del 2015 (est. Lattanzi). E’ la sentenza del canone ‘occidentale’ della c.d. ‘giurisprudenza consolidata’: in essa si afferma che non ogni pronuncia isolata della Corte EDU, (che non individua, appunto, alcun orientamento consolidato) obbliga il giudice nazionale all’applicazione del principio espresso ad ipotesi diverse, ancorché astrattamente rientranti nel (o assimilabili al) caso deciso. Dunque, la Corte costituzionale statuisce che fino a quando non emerge un ‘diritto consolidato’ (espresso, cioè, quantomeno da una pronuncia della Grande Chambre), può continuarsi ad applicare il ‘diritto vivente’ nazionale. Nella specifica materia, ciò equivale ad affermare la piena compatibilità di una confisca urbanistica disposta sì in assenza di una formale sentenza di condanna, ma in presenza di una declaratoria di estinzione del reato per prescrizione. Tale tipologia di pronuncia «non denuncia alcuna incompatibilità logica o giuridica con un pieno accertamento di responsabilità», doveroso ai fini della confisca e nondimeno presente nella sentenza di prescrizione, avuto riguardo alla sostanza dell’accertamento. Detto altrimenti: mentre secondo la Corte EDU (sentenza Varvara) ai fini della confisca è richiesta una formale sentenza di condanna (tale per contenuto e forma), per la Corte costituzionale (sentenza n. 49 del 2015) è sufficiente – perlomeno fino a quando il principio della Corte sovranazionale non si sarà consolidato in un orientamento univoco di segno contrario – un giudizio di responsabilità ‘sostanziale’, quale quello che consegue anche ad una declaratoria di prescrizione che appunto presuppone tale accertamento.
Si è rischiato – com’è evidente – il corto circuito istituzionale. Per risolvere tale braccio di ferro, sono stati necessari oltre tre anni, quanti ne sono trascorsi tra la sentenza n. 49 del 2015 della Corte cost. e la pronuncia della Grande Camera, 28 giugno 2018, G.I.E.M. e altri contro Italia. Con essa - sostanzialmente avallando il decisum di Corte cost. n. 49 del 2015 sullo specifico punto - il vertice di Strasburgo ha affermato non essere indispensabile una ‘condanna formale’ (“formal conviction” o “condamnation formelle”) per stabilire il ‘legame morale’ tra chi subisce la confisca urbanistica (che è e rimane ‘pena’ ai sensi dell’art. 7 della Carta EDU) ed il reato commesso, purché il procedimento nel quale essa è applicata rispetti le garanzie discendenti dalla natura penale della sanzione (art. 7) e del giusto processo ‘convenzionale’ (art. 6), in ciò superando la sentenza Varvara.
Insomma, nel nocciolo duro della confisca urbanistica senza condanna, Strasburgo viene ai dicta di Roma.
Ma, al di là dello specifico problema decisorio (pure di enorme importanza), ciò che preme evidenziare è il principio secondo il quale – come si legge nella sentenza n. 49 del 2015 - «è solo un “diritto consolidato”, generato dalla giurisprudenza europea, che il giudice interno è tenuto a porre a fondamento del proprio processo interpretativo, mentre nessun obbligo esiste in tal senso a fronte di pronunce che non siano espressive di un orientamento ormai divenuto definitivo».
Ciò che preme evidenziare è il fatto che sia la stessa Corte costituzionale a delineare una sorta di ‘decalogo metodologico’ al giudice comune per individuare ciò che debba intendersi per ‘diritto consolidato’ della CEDU: in poche parole, come riconoscerlo. Così, la sentenza 49/2015 afferma che, se è pur vero come non sempre sia di immediata evidenza se una certa interpretazione delle disposizioni della CEDU abbia maturato a Strasburgo un adeguato consolidamento (specie a fronte di pronunce destinate a risolvere casi del tutto peculiari), vi sono senza dubbio «indici idonei ad orientare il giudice nazionale nel suo percorso di discernimento: la creatività del principio affermato, rispetto al solco tradizionale della giurisprudenza europea; gli eventuali punti di distinguo, o persino di contrasto, nei confronti di altre pronunce della Corte di Strasburgo; la ricorrenza di opinioni dissenzienti, specie se alimentate da robuste deduzioni; la circostanza che quanto deciso promana da una sezione semplice, e non ha ricevuto l’avallo della Grande Camera; il dubbio che, nel caso di specie, il giudice europeo non sia stato posto in condizione di apprezzare i tratti peculiari dell’ordinamento giuridico nazionale, estendendovi criteri di giudizio elaborati nei confronti di altri Stati aderenti che, alla luce di quei tratti, si mostrano invece poco confacenti al caso italiano».
Quando tutti, o alcuni di questi indizi si manifestano - secondo un giudizio che non può prescindere dalle peculiarità di ogni singola vicenda- non vi è alcuna ragione che obblighi il giudice comune a condividere la linea interpretativa adottata dalla Corte EDU per decidere una peculiare controversia, sempre che non si tratti di una “sentenza pilota” in senso stretto.
Anche sul punto sono state scritte migliaia di pagine ed argomentate disparate opinioni in accesi dibattiti: io mi limito a poche riflessioni, in forma interrogativa.
Innanzitutto: ciò che non obbliga (in quanto non consolidato) implica anche irrilevanza dell’orientamento CEDU, potere, cioè, del giudice comune di ignorare l’orientamento ‘episodico’? Oppure il fatto stesso della presenza di un orientamento interpretativo di tale specie genera comunque un dubbio di legittimità costituzionale? Ancora: come sarà da intendere, alla luce dei parametri della sent. 49 del 2015 il parere consultivo previsto nel Protocollo n. 16? Certamente esso, non avendo natura di pronuncia giurisdizionale, non potrà essere inteso come ‘diritto consolidato’, pur se ne avrà, tuttavia, alcuni formali caratteri: postulabile solo dalle più alte giurisdizioni nazionali e solo nel contesto di una causa pendente dinanzi a essa, esso verterà su “questioni di principio relativa all’interpretazione o all’applicazione dei diritti e delle libertà definiti nella Convenzione o nei suoi protocolli” e, soprattutto, sarà emesso dalla Grande Chambre, cui sono chiamati 17 giudici di diversi Paesi. Certo, l’art. 5 prevede espressamente che «i pareri consultivi non sono vincolanti» non solo nei confronti dell’Autorità Giurisdizionale richiedente e neppure nei confronti degli altri giudici nazionali: ma se – mi chiedo – nel parere consultivo la Corte EDU farà proprio ed avallerà un orientamento minoritario o episodico precedente (insomma, una propria isolata pronuncia precedente), è davvero possibile sostenere che i contenuti di quest’ultima non assurgano al rango nobiliare di “diritto consolidato”? Ed, in conseguenza, la Corte costituzionale manterrà fermi i propri principi di metodo della 49 del 2015 o sarà disposta ad una revisione di adattamento ?
5. Terza icona. La fine delle “rime obbligate”: la scala ritirata al legislatore (ma anche ai giudici nazionali).
Terzo ed ultimo quadro del ‘nuovo’ metodo dialogico attuato dalla Corte riguarda i soli rapporti con i giudici nazionali: precisamente la fine delle c.d. “rime obbligate” nella sua giurisprudenza su questioni incidentali.
Si tratta – insistendo nella metafora – della terza scala su cui la Corte ha fatto salire per lungo tempo innanzitutto il legislatore nazionale, ma anche noi giudici comuni e che alla fine ha riconosciuto “insensata” (per dirla con Wittgenstein), ritirandola: ciò che, azzardando un pronostico, pare aprire una nuova ed inedita stagione della giustizia costituzionale.
Il discorso è notevolmente complesso e la sua necessaria semplificazione in questa sede naturalmente sacrifica diversi riferimenti e molti argomenti: di questo chiedo anticipate scuse.
Cosa si intende per principio delle “rime obbligate”, che ha ispirato, praticamente dalla sua nascita, il metodo ermeneutico della Corte e che ora pare, appunto, strumento dismesso?
E’ la nota intuizione (e poi sistemazione) del genio di Vezio Crisafulli ([7]), secondo cui omissioni legislative incostituzionali potevano essere colmate dalla Corte attraverso interventi additivi non qualificabili come manipolativi (quindi legittimi) in quanto la regola da inserire “risultava direttamente implicata dal testo costituzionale”. Come scrive un costituzionalista di rango come Marco Rutolo (e con parole che è difficile trovare più chiare ed efficaci), «in tal caso la Corte agirebbe “sotto dettatura” della Costituzione, non essendovi propriamente una “discrezionalità” al riguardo. Un artificio retorico (…) da impiegare in prospettiva “giustificazionista”, per legittimare quella che altrimenti apparirebbe come una sorta di invasione della sfera riservata al legislatore»([8]). Per anni, l’idea delle “rime obbligate” ha tuttavia costituito, nella sua declinazione in negativo, il vero self restraint della Corte: più che «per “giustificare” la novità, ha finito per essere utilizzata come “argine” al dilagare della creatività della Corte»([9]), costituendo il postulato del dialogo con il legislatore nazionale. Le “rime obbligate” costituivano, insomma, la scala protesa verso cui ascendere ad una rispettata discrezionalità nelle scelte legislative più varie: dalla politica criminale in tema di cernita alla selezione delle incriminazioni, al quantum e proporzione della sanzione, alla modulazione dei diritti delle parti nel processo, e così via. In breve: il non possumus dei Giudici della Consulta ammantato di teoria della Costituzione, che, come tale, diveniva delicato equilibrio nei rapporti di potere istituzionale e che, alla fine, postulava l’idea «dell’incostituzionalità come extrema ratio»([10]).
Per fattori e circostanze qui neppure accennabili, la metodica della “rime obbligate” tramonta nell’ultimo triennio: tra Marco Ruotolo che parla di un “allentamento della sua morsa” e Tomaso Epidendio ([11]) che parla di una vera e propria “decostruzione”, mi sento di concordare più con la nettezza del secondo.
Comunque sia, al di là della semantica descrittiva del fenomeno, certamente crolla ‘l’argine’: Vezio Crisafulli è messo in un cassetto.
Le tappe decisorie di questo overrulling sono abbastanza note e provo a rammentarle rapidamente e per punti: l’abbrivio è forse nella sentenza n. 236 del 2016 (est. Zanon) ([12]), dove il trattamento sanzionatorio viene facilmente ricalibrato “per linee interne” sulla base del trattamento sanzionatorio della sostituzione di neonato (art. 567, comma 1, c.p.)([13]). Ad essa segue la sentenza n. 222 del 2018 (est. Viganò) ([14]): è la nota sentenza in cui la Corte trasforma l’editto sanzionatorio fisso (inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale ed incapacità all’esercizio degli uffici direttivi per dieci anni) in una sanzione mobile (“fino a dieci anni”). Anche qui è superato il precedente, assolutamente in termini della sent. n. 134 del 2012 con la quale – ancora in salute il principio delle “rime obbligate”- era stato ritenuto necessario l’intervento del legislatore.
E’ soprattutto la sentenza della formale ed esplicita abiura del principio delle “rime obbligate”. In essa si legge: «(…) a consentire l’intervento di questa Corte di fronte a un riscontrato vulnus ai principi di proporzionalità e individualizzazione del trattamento sanzionatorio, non è necessario che esista, nel sistema, un’unica soluzione costituzionalmente vincolata in grado di sostituirsi a quella dichiarata illegittima, come quella prevista per una norma avente identica struttura e ratio, idonea a essere assunta come tertium comparationis. Essenziale, e sufficiente, a consentire il sindacato della Corte sulla congruità del trattamento sanzionatorio previsto per una determinata ipotesi di reato è che il sistema nel suo complesso offra alla Corte “precisi punti di riferimento” e soluzioni “già esistenti” (sentenza n. 236 del 2016) – esse stesse immuni da vizi di illegittimità, ancorché non “costituzionalmente obbligate” – che possano sostituirsi alla previsione sanzionatoria dichiarata illegittima in vista di una tutela effettiva dei principi e dei diritti fondamentali incisi dalle scelte sanzionatorie del legislatore, che rischierebbero di rimanere senza possibilità pratica di protezione laddove l’intervento di questa Corte restasse vincolato, come è stato a lungo in passato, ad una rigida esigenza di “rime obbligate” nell’individuazione della sanzione applicabile in luogo di quella dichiarata illegittima».
E’ un vero manifesto della futura giustizia costituzionale: che va a saldarsi con quella rivoluzionaria tecnica decisoria compendiata nella ordinanza n. 207 del 2018 (est. Modugno), la pronuncia sul caso Cappato.
Ovviamente, non parlerò della Cappato e neppure ho il tempo di approfondire l’inaugurata tecnica della ‘promessa di incostituzionalità’. In questa sede mi serve solo sottolineare come l’ordinanza estesa dal mio Maestro rivela la piena consapevolezza, in capo al Giudice delle Leggi, della possibile declinazione di plurime (e persino assai distanti) soluzioni alla delicata quaestio iuris sottoposta “sulla base di scelte discrezionali” del legislatore ([15]): ma si rifugge, al contempo, la soluzione decisoria dell’inammissibilità sulla considerazione che «un simile effetto non può considerarsi consentito nel caso in esame, per le sue peculiari caratteristiche e per la rilevanza dei valori da esso coinvolti», così preannunciando un’incostituzionalità che non si dichiara in attesa dello sperato intervento del legislatore.
Quale riverbero ha avuto la metodica delle “rime obbligate” sull’agere giudiziale dei giudici comuni? E quale metodo di dialogo con la giurisdizione ordinaria essa aveva instaurato? Soprattutto, cosa cambia nel dialogo con i giudici comuni l’abbandono di tale principio?
Interrogativi complessi.
Direi che quel principio aveva, indirettamente, il pregio di instaurare un metodo di dialogo assai efficace.
La Corte, infatti, insegnava ai giudici come fosse avventura da evitare, perché destinata all’insuccesso, la proposizione di incidenti di costituzionalità suscettibili di diverse soluzioni normative, ciascuna delle quali, appunto, non ‘obbligata’. Era – uso volutamente l’imperfetto – un criterio ermeneutico dettato alla giurisdizione: l’idea, insomma, che stante la pluralità di opzioni possibili, risultasse inutile (recte: inammissibile) compulsare la Corte allorquando, dal ventaglio di soluzioni possibili, soltanto il legislatore avrebbe potuto pescare. Oltre a costituire un momento pedagogico essenziale in ordine al valore formale ed al ruolo stesso del principio di legalità, questo principio ha stimolato il dinamismo della giurisdizione ordinaria, spingendola verso la pratica di soluzioni costituzionalmente orientate. Ha educato i giudici ordinari allo sforzo ermeneutico pro Constitutione. Tutti noi – parlo dei magistrati della mia prossimità generazionale – siamo cresciuti nell’idea sistemica dell’incidente di costituzionalità come di un raro ‘distillato’: prodotto prezioso ottenuto alla fine di un immane sforzo interpretativo o, per dirla con Zagrebelsky, prodotto estremo del “fallimento di ogni interpretazione.” Idea, questa, solo all’apparenza antinomica rispetto a quella dialogica, ma che, in realtà, ne incarna la forma probabilmente più nobile ed essenziale, perché ne ha ben chiari i limiti; idea culturalmente importante per i giudici, specie per quelli di sponda penalistica, perché, evitando derive solipsistiche, alla fine incentivava il metodo dell’interpretazione conforme a Costituzione.
Principio delle “rime obbligate” (della Corte costituzionale) ed interpretazione conforme (del giudice comune) si tengono assieme, in una sequenza di limiti, in un assetto complessivo di (armonia di) sistema. Come il giudice a quo non può sollevare l’incidente se non dopo la sperimentazione di un’ermeneutica armonica a Costituzione ([16]), così la medesima reductio ad unum è il corrispondente limite decisorio della Corte, poiché, parafrasando, in linea di principio, le leggi non si dichiarano costituzionalmente illegittime quando sia possibile prospettare, rispetto alla disarmonia denunciata, plurime soluzioni egualmente plausibili. Se, insomma, ‘salta’ quest’ultimo limite, è difficile, logicamente, difendere il primo: il sistema sta o cade solo alla condizione che tutti i protagonisti rispettino l’uso degli strumenti ermeneutici.
Oggi, senza le “rime obbligate”, la giurisdizione pare formalmente (ed apparentemente) più libera di richiedere soluzioni ermeneutiche che oltrepassino il cancelli della lettera normativa; sostanzialmente non è così. I giudici rischiano di divenire strumento di una metabasi dalla “formulazione legislativa del diritto, a quello del sistema della giurisdizione, vale a dire della formulazione giudiziaria del diritto”, ma interamente affidato, al contempo, all’organo di giustizia costituzionale.
Dove condurrà questo nuovo ruolo della Corte costituzionale e quali scenari dischiuderà al dialogo come anche alla giustizia costituzionale?
“Vedremo. Possiamo aspettare, non siamo più giovani”.
* Lo scritto riproduce, con l’aggiunta di poche note, il testo della relazione svolta all’incontro di studi: "L''età dei diritti' e la tutela giurisdizionale effettiva nel dialogo fra le Corti”, svoltosi nell’Aula Magna della Corte di Cassazione nei giorni 30 e 31 maggio 2019 e promosso dalla Scuola Superiore della Magistratura in collaborazione con la struttura di formazione decentrata della Corte Suprema di Cassazione.
[1]) M. Bignami, Le gemelle crescono in salute: la confisca urbanistica tra Costituzione, Cedu e diritto vivente, in Dir. pen. cont., (riv. trim), 2015, 2, p. 289 ss.
[2]) Elaborata nelle conferenze tenute su questo tema, nel 1967, all’Università di Harvard, le William James Lectures, il cui precetto fondante era: «Conforma il tuo contributo conversazionale a quanto è richiesto, nel momento in cui avviene, dall’intento comune accettato o dalla direzione dello scambio verbale in cui sei impegnato»: P. Grice, Logica e conversazione. Su intenzione, significato e comunicazione, Il Mulino, Bologna, 1993, cit. a p. 60. Una sintesi assai significativa (e di cui mi giovo per le essenziali citazioni nel testo) è in P. Cantù, I. Testa, Teorie dell’argomentazione. Un’introduzione alle logiche del dialogo, Bruno Mondadori, Milano, 2006, pp. 25 ss.
[3]) A. Colella, Verso un diritto comune delle libertà in Europa. Riflessioni sul tema dell’integrazione della CEDU nell’ordinamento italiano, in www.forumcostituzionale.it (2007, pp. 1-142).
[4]) Riprendendo un accenno, davvero elegante, che rinvengo nell’assai pregevole saggio di G. Comazzetto, Luci e ombre del dialogo tra Corti: la “saga Taricco” tra revirements e questioni irrisolte, in Consultaonline, 2018 (7 maggio), fasc. 2, p. 348.
[5]) La proposizione 6.54 del Tractatus recita testualmente: “Le mie proposizioni illustrano così: colui che le comprende, alla fine le riconosce insensate, se è salito per mezzo di esse, su esse, oltre esse. (Egli deve, per così dire, gettare la scala dopo esservi salito). Egli deve superare queste proposizioni. Allora vede rettamente il mondo”. A tale proposizione segue quella finale, immortale almeno quanto criptica: “7. Di ciò di cui non si può parlare, si deve tacere. (Wovon man nicht sprechen kann, darüber muß man schweigen)”: L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, Torino, Einaudi, 1961 (trad. di Amedeo G. Conte), p.82.
[6]) A. Ruggeri, Taricco, amaro finale di partita, in Consultaonline, 2018, fasc. III, p. 490.
[7]) Esposta essenzialmente in V. Crisafulli, La Corte costituzionale ha vent’anni, in N. Occhiocupo (a cura di), La Corte costituzionale tra norma giuridica e realtà sociale, Il Mulino, Bologna, 1978, p. 69 ss.
[8]) M. Ruotolo, L’evoluzione delle tecniche decisorie della Corte costituzionale nel giudizio in via incidentale. Per un inquadramento dell’ord. n. 207 del 2018 in un nuovo contesto giurisprudenziale, di prossima pubbl. in Scritti in onore di Antonio Ruggeri, p. 6 del manoscritto.
[9]) Ancora, suggestivamente, M. Ruotolo, loc. ult. cit.
[10]) Secondo l’espressione di G. Zagrebelsky, La legge e la sua giustizia, Il Mulino, Bologna, 2008, p. 257.
[11]) T. Epidendio, L’ordinanza n. 207 del 2018 tra aiuto al suicidio e trasformazione del ruolo della Corte costituzionale, in giudicedonna.it , 1/2019, a cui sono grato per l’intera discussione sul punto.
[12]) Illegittimità costituzionale dell’art. 567, secondo comma, c.p. – alterazione di stato mediante falso - nella parte in cui prevede la pena edittale della reclusione da un minimo di cinque a un massimo di quindici anni, anziché la pena edittale della reclusione da un minimo di tre a un massimo di dieci anni.
[13]) Operazione ermeneutica per nulla scontata, considerando il precedente di inammissibilità, in termini quanto a quaestio, rappresentato dall’ordinanza n. 106 del 2007.
[14]) Illegittimità costituzionale dell’art. 216, ult. comma, della legge fallimentare, in materia di fissità della pena accessoria nei reati fallimentari.
[15]) Si v. i §§ 10 e 11 del Considerato, ove si enunciano tali possibilità: le modalità di verifica medica della sussistenza dei presupposti in presenza dei quali una persona possa richiedere l’aiuto, la disciplina del relativo “processo medicalizzato”; l’eventuale riserva esclusiva di somministrazione di tali trattamenti al servizio sanitario nazionale; la possibilità di una obiezione di coscienza del personale sanitario coinvolto nella procedura, aggiungendo che “una disciplina delle condizioni di attuazione della decisione di taluni pazienti di liberarsi delle proprie sofferenze non solo attraverso una sedazione profonda continua e correlativo rifiuto dei trattamenti di sostegno vitale, ma anche a traverso la somministrazione di un farmaco atto a provocare rapidamente la morte, potrebbe essere introdotta, anziché mediante una mera modifica della disposizione penale di cui all’art. 580 cod. pen., in questa sede censurata, inserendo la disciplina stessa nel contesto della legge n. 219 del 2017 e del suo spirito, in modo da inscrivere anche questa opzione nel quadro della «relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico», opportunamente valorizzata dall’art. 1 della legge medesima” e precisando ulteriormente che sarebbe necessaria “una disciplina ad hoc per le vicende pregresse (come quella oggetto del giudizio a quo), che di tale non punibilità non potrebbero altrimenti beneficiare: anche qui con una varietà di soluzioni possibili”.
[16])…perché «in linea di principio, le leggi non si dichiarano costituzionalmente illegittime perché è possibile darne interpretazioni incostituzionali (e qualche giudice ritenga di darne), ma perché è impossibile darne interpretazioni costituzionali»: secondo il più famoso monito di metodo della giustizia costituzionale, quello di Gustavo Zagrebelsky nella sent. n. 356 del 1996.
1. Premessa
L’intervista di Giustizia Insieme a Gabriella Luccioli è rivolta alle giovani magistrate.
Le domande riguardano la magistratura di ieri e di oggi, il cambiamento determinato dall’ingresso delle donne e poi consigli alle giovani magistrate
La Presidente Luccioli ricorda il sistema dei ruoli chiusi e il congresso di Gardone e poi come la legge cd. Castelli con la cd. contro riforma Mastella e il testo unico del Csm in tema sulla dirigenza hanno prodotto, combinate tra loro, l’effetto perverso del carrierismo, con il danno collaterale della discriminazione delle magistrate.
Ci ricorda con orgoglio come le donne hanno mutato la cultura della magistratura e quella della società traducendo le istanze di giustizia in risposte concrete di eguaglianza e di tutela dei diritti fondamentali.
Con riguardo alla domanda sul come conciliare carriera e famiglia non esita a denunciare che “nel nostro Paese vi è ancora un diverso prezzo da pagare da uomini e donne per raggiungere gli stessi traguardi professionali”.
Ma poi ci rammenta che “Sulle donne grava anche la responsabilità di contrastare una trasformazione in senso impiegatizio della magistratura, della quale si avvertono alcuni sintomi per il diffondersi di comportamenti di scarsa sensibilità al proprio ruolo”. Il consiglio conclusivo è dunque “non scadere mai nella routine e nel pressappochismo e mettere in campo una professionalità elevatissima, di livello superiore a quello degli uomini”.
2. Le Domande
Paola Filippi: come è cambiata la magistratura dagli anni sessanta, cosa è cambiato in meglio e cosa è cambiato in peggio?
Gabriella Luccioli: per rispondere a questa domanda con un minimo di compiutezza credo sia indispensabile richiamare in rapida sintesi l’evoluzione della normativa in tema di ordinamento giudiziario.
Ai tempi del mio ingresso in magistratura era necessario per accedere al concorso soltanto il conseguimento della laurea, e questo comportava la possibilità di diventare magistrati molto giovani. Era tuttavia prevista una seconda prova di esame dopo un biennio, il cosiddetto esame di aggiunto, un esame pratico che consentiva agli uditori di divenire aggiunti giudiziari, acquisendo in via definitiva lo status di magistrati. Si trattava di un impegno oneroso, perché richiedeva di aggiungere all’esercizio delle funzioni frattanto conferite la fatica di affrontare un nuovo esame: e si trattava di un passaggio importante, perché offriva l’opportunità di migliorare definitivamente la posizione in graduatoria assunta nella prima prova.
E tuttavia va riconosciuto che l’esperienza dell’esame di aggiunto presentava aspetti positivi, in quanto imponeva, pur ad un prezzo molto alto, di arricchire con una preparazione funzionale alla pratica della giurisdizione quel bagaglio di conoscenze essenzialmente teoriche che il corso di laurea aveva garantito.
Con la legge n. 357 del 1970 l’esame di aggiunto fu abolito e fu sostituito da una valutazione del consiglio giudiziario; con la successiva legge n. 97 del 1979 la figura dell’aggiunto venne soppressa.
L’ordinamento prevedeva inoltre la progressione in carriera a ruoli chiusi: per l’appello mediante concorso per esami e titoli o per soli titoli, o mediante scrutinio per merito; analogo sistema era previsto per la cassazione. Alla titolarità delle diverse funzioni era collegata la possibilità di ricoprire posti corrispondenti ad un certo livello di gerarchia degli uffici, con il correlato trattamento economico.
Si trattava di un sistema fortemente burocratizzato, che affidava la selezione all’alta magistratura, secondo una terminologia propria di quegli anni, in evidente contrapposizione con la bassa magistratura, e che delineava una struttura piramidale così rigida da condizionare la stessa attività giurisdizionale, basandosi i concorsi per titoli sulla valutazione dei provvedimenti giudiziari. Ricordava efficacemente Cordero che, essendo una sciagura essere discriminati, come in ogni carriera burocratica, regnava l’impulso mimetico.
Tale sistema non poteva reggere alla forza propositiva del dibattito che già dal Congresso di Gardone animava la magistratura associata sul ruolo del giudice e sul suo rapporto con la Costituzione, della quale secondo acquisizioni ampiamente condivise egli era chiamato ad inverare i valori.
Maturò tra i magistrati - contestualmente al prorompere di nuove istanze sociali recepite dal legislatore nella straordinaria stagione delle riforme, che segnò una forte espansione delle libertà e dei diritti - la forte consapevolezza che fosse necessario superare la struttura gerarchica dell’ordinamento ed abolire la carriera, sopprimendo ogni distinzione che non fosse ricollegabile alle funzioni ricoperte e agganciando la progressione economica alla sola anzianità.
Era a tutti evidente che un sistema basato su una rigida selezione attraverso esami e concorsi per accedere ai gradi più alti della giurisdizione non lasciava spazio all’impegno dei tanti magistrati che dedicavano ogni sforzo a contrastare la criminalità in tutte le sue forme o a garantire la tutela dell’ambiente, della sicurezza nei luoghi di lavoro, dei diritti civili e sociali, senza preoccuparsi delle ricadute o dei ritardi che ne potevano derivare sul piano della carriera.
Il modello del giudice burocrate, puro tecnico del diritto e teso alla conservazione dell’esistente nello svolgimento di un’attività avalutativa e meccanica, doveva essere sostituito dalla figura di un giudice garante dei diritti di tutti, e soprattutto dei più deboli.
L’aver pienamente compreso ed introiettato la portata del principio di eguaglianza di tutti i magistrati espresso nell’art. 107 Cost. costituì certamente l’acquisizione più significativa di quegli anni.
Le iniziative legislative in tema di riforma dell’ordinamento giudiziario assunte in detto periodo risentono chiaramente delle elaborazioni fin lì compiute anche e soprattutto in ambito associativo. Con la legge n. 570 del 1966, detta legge Breganze, fu abolito il sistema di promozione a magistrato di appello a seguito di scrutinio, ed in sua sostituzione fu adottata una forma di selezione in negativo, compiuti undici anni dalla nomina a magistrato di tribunale: ciò vale a dire che se la valutazione era positiva la promozione seguiva automaticamente per anzianità, a ruoli aperti, con il conseguimento del titolo e dello stipendio di consigliere di appello, a prescindere dalla permanenza nell’esercizio delle funzioni inferiori.
Passaggio successivo fu la legge n. 831 del 1973, che estese il sistema Breganze alle promozioni in cassazione ed al conferimento delle funzioni direttive superiori, conseguibili ora rispettivamente dopo sette anni dall’ottenimento della qualifica di appello e dopo otto anni dalla nomina a consigliere di cassazione. Tale sistema, che realizzava una completa scissione tra qualifica e funzioni, subì un limitato correttivo con la sentenza n. 86 del 1982 della Corte Costituzionale, che soppresse la possibilità di nomina a consigliere di cassazione indipendentemente dal conferimento delle relative funzioni, ma conservò la possibilità di conseguire la relativa idoneità a ruoli aperti ai fini della progressione economica.
Questo complesso di interventi permise a ciascun magistrato di raggiungere le qualifiche più elevate, con le relative retribuzioni, senza sottoporsi ad alcuna effettiva selezione, in quanto la realizzata equiparazione tra tutti i componenti dell’ordine giudiziario non era accompagnata da adeguati strumenti di verifica della professionalità. Tale sistema, se da un lato eliminò la vecchia gerarchia prodotta dal controllo dei concorsi da parte della Corte di Cassazione, dall’altro lato diede luogo ad una nuova forma di gerarchia generata da canoni di selezione per gli uffici direttivi segnati da ampia discrezionalità.
Nel lungo periodo il descritto sistema di avanzamento automatico a tutti i livelli finì per provocare l’appiattimento delle carriere e per sopprimere ogni tipo di incentivo sul piano della preparazione e dell’aggiornamento dei magistrati; né la raggiunta autonomia dai vincoli preesistenti valse a produrre effettivi benefici sul piano dell’efficienza del servizio.
Come è noto, la riforma dell’ordinamento giudiziario realizzata con la legge n. 111 del 2007 ha segnato il superamento del sistema fondato sulla mera anzianità, ora rilevante soltanto ai fini della legittimazione per l’attribuzione delle funzioni, prevedendo che sia per la progressione in carriera che per il conferimento degli incarichi direttivi e semidirettivi, dei quali è sancita la temporaneità, siano privilegiati la capacità professionale, la laboriosità, la diligenza e l’impegno, secondo una prospettiva tesa ad introdurre la cultura della valutazione: una prospettiva che a sua volta si ispira al principio della formazione permanente del magistrato.
Un cambiamento radicale, dunque, che si poneva come una sostanziale controriforma rispetto agli assetti della precedente riforma Castelli, la quale era stata dettata da una politica di forte contrasto all’autonomia dell’ordine giudiziario ed appariva ispirata al modello napoleonico di magistrato, con evidente compromissione della professionalità dei singoli e del valore della funzione giurisdizionale.
Non è certo questa la sede per analizzare pregi e difetti della controriforma del 2007, alla quale va comunque riconosciuto il merito di aver eliminato le più gravi storture della precedente normativa. Mi limito ad osservare, attualizzando il discorso, che in relazione ai criteri di nomina dei direttivi e semidirettivi dettati dalla circolare 28 luglio 2015 del CSM sulla dirigenza - emessa al dichiarato scopo, una volto eliminato il criterio dell’anzianità, di rendere trasparenti i parametri per l’assegnazione degli incarichi e di orientare le scelte dell’organo di autogoverno - l’indicazione minuziosa di una serie di indicatori generici e specifici che si intrecciano tra loro, con prevalenza di quelli specifici (che in alcuni casi non appaiono idonei ad esprimere alcuna attitudine alle funzioni direttive del candidato), consegna il giudizio ad un notevole tasso di discrezionalità e può assecondare logiche diverse da quella di selezionare il magistrato più meritevole e più idoneo ad assumere l’incarico: è forte il rischio che detti indicatori possano essere piegati verso un determinato esito ed utilizzati strumentalmente nella motivazione, per giustificare scelte già effettuate aliunde, come alcune decisioni del CSM, molto criticate o non comprese dalla base dei magistrati, inducono a ritenere sia avvenuto.
Al tempo stesso tale sistema produce l’effetto perverso di indurre i magistrati, sin dall’inizio della loro carriera, a precostituirsi quante più esperienze spendibili al momento della selezione, anche se si tratta di attività del tutto inconferenti rispetto all’incarico direttivo cui si aspira.
Ne consegue la diffusione di un carrierismo e di un individualismo esasperati, sui quali allignano ben note degenerazioni correntizie, come già ho avuto modo di rilevare rispondendo ad una domanda di Morena Plazzi nella precedente intervista. Ed è evidente che questa perenne tensione verso le agognate promozioni finisce per intaccare l’indipendenza dei magistrati, incoraggiando il conformismo e l’appiattimento sugli orientamenti giurisprudenziali dominanti.
Va infine sottolineato l’impianto discriminatorio del citato t.u., che sembra ignorare tutti i principi in tema di discriminazioni indirette e di pari opportunità, introducendo meccanismi oggettivamente idonei a limitare o comunque a rendere più arduo l’accesso delle donne alle funzioni direttive e semidirettive.
Paola Filippi: Quanto le donne hanno cambiato il mondo della magistratura?
Gabriella Luccioli: L’ingresso delle donne in magistratura a seguito dell’approvazione della legge n. 66 del 1963 fu certamente ritardato da quell’ambigua formulazione dell’art. 51 Cost. che in esito ad un lungo e non esaltante dibattito i Padri Costituenti si risolsero ad adottare: un testo che, con l’inciso secondo i requisiti stabiliti dalla legge, sostanzialmente rimetteva al legislatore ordinario la scelta dei requisiti necessari per svolgere le funzioni giurisdizionali.
La legge n. 66 del 1963, sollecitata e in qualche misura imposta dalla nota sentenza n. 33 del 1960 della Corte Costituzionale - che aveva dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 7 della legge 19 luglio 1919 n. 1176, nella parte in cui escludeva in via generale le donne da tutti gli uffici pubblici che implicavano l’esercizio di diritti e di potestà politiche - ha costituito una grande conquista di civiltà, allineando finalmente l’Italia alle altre democrazie occidentali.
Come è noto, il numero delle donne vincitrici di concorso, nei primi anni assolutamente esiguo, cominciò a raggiungere percentuali pari al 30-40% negli anni ottanta e registrò un'impennata negli anni successivi, sino a superare ampiamente già da qualche tempo la metà dei vincitori e nelle ultime prove di esame a raggiungere percentuali vicine al 70%. Il numero complessivo delle magistrate è ormai pari al 54% e sembra destinato ad aumentare nel tempo, essendo del tutto prevedibile la prosecuzione del trend che vede sempre più donne vincitrici del concorso.
Questo processo così rapido di femminilizzazione non solo ha determinato il cambiamento dal punto di vista sociologico nella composizione del corpo della magistratura e la trasformazione della sua stessa immagine, ma ha arrecato importanti mutamenti nei contenuti della giurisdizione, oggetto di attente ricerche in ambito accademico, purtroppo del tutto ignorate al nostro interno.
Molto è certamente cambiato nella cultura dei giudici, se è vero che sono sempre meno frequenti le decisioni influenzate da quegli stereotipi culturali che negli anni passati avevano giustificato palesi discriminazioni nelle cause di lavoro, di separazione e di divorzio, nei processi per i reati di maltrattamenti, di violenza e di femminicidio, condizionando sia il momento di acquisizione delle prove sia quello del giudizio.
Ed il cambiamento è dovuto non solo al processo di trasformazione della società e alle istanze di eguaglianza e di rispetto espresse dalle donne nei vari settori dell’organizzazione sociale, ma anche alla presenza vigile delle magistrate che a tale processo hanno ampiamente contribuito, impegnandosi sul fronte dei diritti fondamentali e traducendo quelle istanze in risposte concrete di giustizia.
Al riguardo non posso non rivendicare con orgoglio l evoluzione della giurisprudenza nelle materie dei diritti della persona, di famiglia e di biodiritto verificatasi negli ultimi venti anni nell’ambito della prima sezione civile della Corte di Cassazione grazie all’impegno ed alla sensibilità delle consigliere che ne hanno fatto parte.
Ricordava l’indimenticabile Graziana Campanato al XXXI Congresso dell’ANM che la presenza delle donne in magistratura “ha costituito un volano di trasmissione del pensiero femminile soprattutto quando la magistrata è riuscita a superare il modello tradizionale del buon magistrato ed ha elaborato un proprio modello capace di coniugare il rigore scientifico del giurista con la sensibilità specifica del suo essere donna, rivendicando il diritto di interpretazione delle norme che mettesse in rilievo i canoni della differenza”.
Saperi e sensibilità diverse hanno anche ispirato nuove misure organizzative e determinato la nascita dei comitati pari opportunità prima presso il CSM, successivamente presso la Corte di Cassazione e infine presso le varie Corti di Appello: tali organismi hanno consentito una elaborazione collettiva delle problematiche di genere, facendo emergere difficoltà e carenze organizzative che penalizzano le donne e che per la prima volta hanno trovato luoghi istituzionali di analisi e di soluzione.
L’adozione di normativa primaria e secondaria volta ad affrontare le problematiche organizzative connesse alle assenze per maternità, compresa l’istituzione dei magistrati distrettuali, è stata la risposta non sempre immediata e non sempre appropriata del sistema alle esigenze di cambiamento che la presenza delle donne poneva.
E tuttavia non possono essere sottaciuti alcuni profili di negatività della progressiva femminilizzazione della magistratura posti in luce da alcuni osservatori, soprattutto con riferimento alla composizione dei collegi giudicanti. Ricordo che in Francia, dove il rapporto donne - uomini corrisponde al 65%- 35 %, si è aperto negli ultimi anni un ampio dibattito sulla necessità di una composizione mista dei collegi, sul rilievo che un corretto esercizio della giurisdizione postula l’apporto del pensiero, delle competenze e della sensibilità di giudici appartenenti ad entrambi i generi.
Paola Filippi: Cosa non rifaresti, cosa rifaresti, cosa rifaresti diversamente?
Gabriella Luccioli: È una domanda cui non so rispondere, e quindi mi limiterò a poche battute. Quando si contestualizzano le decisioni prese, quando si considerano le circostanze di tempo, di lavoro, la qualità dei rapporti professionali ed umani, le esigenze familiari che hanno ispirato o condizionato certi passaggi del nostro percorso, è difficile valutare a posteriori la bontà di quelle decisioni e stabilire se non fosse stato preferibile adottarne altre.
So tuttavia per certo che se nell’esprimere certe opzioni sulla carriera, sulla sede in cui lavorare, sulle funzioni da esercitare si tiene ben saldo il rispetto per l’attività che siamo chiamati a svolgere ogni determinazione assunta trova una sua razionalità.
Ciò vale a dire che se, come credo, la soluzione di ogni dilemma deve essere ispirata dalla finalità non già di fare carriera, ma dall'ambizione di adempiere nel modo migliore alla funzione di garanzia della legalità e dei diritti delle persone, ogni decisione che si ispiri a questo valore sarà sempre la decisione più saggia.
Paola Filippi: Cosa pensi sia utile consigliare alle colleghe che impegnate oggi in magistratura?
Gabriella Luccioli: So che i consigli non sono generalmente graditi alle nuove generazioni. Mi limiterò a formulare qualche mia personale valutazione, che ha piuttosto il senso di una testimonianza.
Nella mia lunga storia professionale mi è sempre apparso essenziale avere la memoria delle tante battaglie che hanno segnato la storia delle donne nel nostro Paese e far emergere con forza nella giurisdizione i valori, la dignità, la sensibilità e i diritti delle donne.
Questa consapevolezza mi ha suggerito di non abbassare mai la guardia a presidio delle vittorie già ottenute sul piano dei diritti, perché non è vero che le conquiste raggiunte sono definitive, ma è piuttosto vero che esse esigono di essere sempre riaffermate e difese.
In particolare in questi tempi difficili è percepibile un'onda lunga di ritorno che spinge all’indietro, cancellando diritti e posizioni che sembravano definitivamente acquisiti (il riferimento più immediato è all’infelice disegno di legge Pillon, che appare fortunatamente accantonato con il mutare della maggioranza di Governo, o alla recente normativa in tema di immigrazione e di sicurezza). Assistiamo ad interventi legislativi non ispirati ai valori di libertà e di democrazia, ma dettati da interessi politici contingenti e dalla propaganda, con i quali la magistratura è chiamata a confrontarsi facendosi garante dei diritti fondamentali delle persone.
Sul piano culturale vanno superate le residue discriminazioni di genere dirette e indirette che ancora esistono nella società e nella famiglia, che si sostanziano in una rigida divisione dei ruoli nell’ambito domestico, con inevitabili ripercussioni sulla vita professionale delle donne; discriminazioni che anche al nostro interno si riproducono in forma strisciante attraverso atteggiamenti di diffidenza o di sfiducia o attraverso criteri di selezione per gli uffici direttivi e semidirettivi che pur apparentemente neutri finiscono, come già accennato, per penalizzare le donne.
Ci sono ancora tante cose nel nostro Paese che offendono le donne e che vanno contrastate: dalla disciplina del cognome dei figli bloccata dagli incredibili ritardi del legislatore (a dimostrazione che il restringimento dell’area dei diritti può avvenire anche con il non fare), alla persistente violazione e reificazione del corpo femminile, alla volgarità dei messaggi pubblicitari, alla declinazione sempre al maschile di termini che ben possono essere tradotti al femminile, ad alcune infelici motivazioni di sentenze penali di cui la stampa ha avuto di recente occasione di occuparsi.
Il percorso da compiere per superare archetipi culturali resistenti al cambiamento è ancora lungo ed esige una chiara consapevolezza ed un forte impegno delle magistrate, soprattutto delle più giovani.
Sulle donne grava anche la responsabilità di contrastare una trasformazione in senso impiegatizio della magistratura, della quale si avvertono alcuni sintomi per il diffondersi di comportamenti di scarsa sensibilità al proprio ruolo (dei quali certe improvvide apparizioni sui social costituiscono esempio) o in qualche caso di negligenza, pure a fronte di difficoltà familiari e personali che devono trovare soluzione attraverso diverse modalità organizzative e il coinvolgimento della dirigenza dell’ufficio.
A tali assunzioni di responsabilità va a mio avviso aggiunta la necessità per le donne di superare gli ostacoli, le vischiosità e le pregiudiziali diffidenze che rendono ancora difficile il loro percorso professionale opponendo la reazione più seria ed efficace: non scadere mai nella routine e nel pressappochismo e mettere in campo una professionalità elevatissima, di livello superiore a quello degli uomini.
Cercando di non considerare che anche questa è una discriminazione indiretta.
Paola Filippi: C’è un sistema per coniugare famiglia e carriera?
Gabriella Luccioli: Non credo sia possibile individuare un sistema con valenza generale, credo piuttosto che il punto di equilibrio tra impegno professionale e oneri familiari vada ricercato caso per caso, con riguardo alla specificità delle singole situazioni.
Esistono enormi difformità di esigenze in relazione alla diversità di funzioni, di uffici, di territorio, di presenza di figli, dell’età dei figli, della qualità del rapporto con il partner, della disponibilità di questo a condividere l’attività di cura familiare.
Esiste inoltre per le giovani generazioni il grande problema della sede all’atto del conferimento delle prime funzioni: si tratta spesso di luoghi di lavoro molto lontani o difficilmente raggiungibili da quello di provenienza, che comportano scelte organizzative complesse, rese tanto più difficili dalla presenza di figli, non infrequente a seguito dell’elevazione dell’età di ingresso in magistratura.
Di fronte a realtà così delicate e complicate è impossibile intercettare soluzioni valide per tutti o consegnare ricette; l’unica certezza generalizzabile è che nel nostro Paese vi è ancora un diverso prezzo da pagare da uomini e donne per raggiungere gli stessi traguardi professionali.
Nei giorni in cui l’Accademia di Svezia tributa il Nobel a Olga Tokarczuk “per la sua immaginazione narrativa che con passione enciclopedica rappresenta l’andare al di là dei confini come forma di vita”, non posso non riflettere sulle vibrazioni generate dalle parole della scrittrice, che nelle sue opere si racconta e sussurra al lettore che sin da piccola, mentre osservava lo scorrere dell’Oder, desiderava solo essere su quel fiume. Desiderava essere eterno movimento.
E’ il movimento, l’erranza che esso genera, il tratto più autentico dell’umano, perché ci rende vivi e ci trasforma, perché produce cambiamento e - come dice la scrittrice e premio Nobel - “il cambiamento è sempre più nobile della stabilità”.
Ancor più al termine di una domenica d’ottobre dal sapore estivo passata a lasciarsi cullare dall’instancabile corrente del mare salentino che da sempre ignora la quiete, mi frullano nella mente le tante riflessioni, che in più occasioni ho avuto modo di scambiare con tanti giovani colleghi che lavorano come me in Calabria, su quale cambiamento epocale abbia vissuto l’associazionismo e l’auto governo della magistratura italiana, in particolare nell’ultimo decennio.
Cambiamento che i drammatici fatti della scorsa primavera hanno manifestato in tutta la sua crudezza e intollerabilità anche per chi, come me e come tanti altri, aveva già chiaro che, sia nell’associazionismo che nell’autogoverno, ci stavamo avviando a un punto di non ritorno.
Come ha lucidamente messo in luce da un noto candidato in una mail precedente alle elezioni, il doppio colpo assestato dal legislatore dapprima con la legge elettorale del 2002 e poi con le riforme ordinamentali del 2006 ha, imprevedibilmente anche per i più pessimisti, mutato rapidamente l’atteggiamento dei magistrati nei confronti della funzione, con immediate ricadute, da un lato, sui rapporti di forza tra correnti e ANM, dall’altro, sull’attuazione del sistema di autogoverno e in definitiva sul peso del C.S.M. all’interno della magistratura.
L’intreccio perverso tra una legge elettorale con sistema maggioritario e una discrezionalità sempre più ampia - e attuata via via in forme sempre meno leggibili - nella scelta dei dirigenti e dei semidirettivi ha invero accresciuto a dismisura il peso delle correnti, favorendo rapporti personalistici tra consiglieri e singoli magistrati, accrescendo il ruolo della territorialità, mortificando l’elaborazione culturale, esaltando l’idea della “carriera”, da costruire, fin dai primissimi anni di servizio, anche mediante l’accaparramento delle c.d. medagliette, ossia esperienze varie di natura ordinamentale o comunque di supporto all’organizzazione giudiziaria.
Di pari passo il ruolo e il peso dell’ANM è andato sempre più svilendosi, riducendosi spesso a un contenitore privo di autonomia, schiacciato dalla contrapposizione sempre più dura tra le correnti, finalizzata esclusivamente ad accrescere i rispettivi consensi.
Molti colleghi che sono entrati in magistratura nell’ultimo decennio hanno così avuto immediatamente la percezione di una magistratura “oppressa” dalle correnti, viste essenzialmente come centri di gestione del potere, da utilizzare eventualmente solo come scudo di protezione personale.
In questo contesto AREA si è posto come soggetto aperto e inclusivo della magistratura progressista sulla base di una piattaforma valoriale, cercando di rifuggire da logiche meramente clientelari e pur soffrendo, dalla sua nascita, di una fragilità intrinseca, che perdura a causa di una mai sopita diffidenza di parte dei suoi aderenti al progetto stesso, fondata peraltro su profili che ben potrebbero trovare una reductio ad unitatem all’interno del gruppo stesso e orientarne, sempre dall’interno, le scelte.
E’ in questo scenario che i fatti di maggio sono esplosi, segnando drammaticamente uno dei punti più bassi del nostro sistema di autogoverno.
Ebbene, a fronte della plastica rappresentazione di un sistema di autogoverno in disfacimento, e nel silenzio imbarazzato delle correnti, l’ANM ha coraggiosamente ripreso il suo ruolo, proponendo una competizione elettorale realmente plurale, libera e trasparente, pur con una legge elettorale che favorisce le alleanze meramente elettorali.
In sostanza l’ANM ha suggerito un’operazione non di facciata, cogliendo il cambiamento, cercando di lanciare un messaggio “alto”, di ampio respiro e tendendo una mano a una base delusa e arrabbiata.
La storia ci ha detto come finì la corsa, per dirla con Guccini.
Senza ipocrisie, il pluralismo è stato attuato solo da AREA e la dispersione dei voti tra i tanti candidati, più o meno indipendenti, vicini ad AREA, ha impedito l’elezione di uno di loro.
Ma, ciò detto, ritengo che rendersi conto della necessità fisiologica del cambiamento - e farlo al di là delle logiche di corto respiro legate agli esiti della contingente competizione – sia ben più importante della fredda analisi sui “vicini di casa”, sulle “candidature forti degli avversari”, sugli esiti delle competizioni elettorali democratiche in cui “vince chi prende più voti”, e ciò per due motivi essenziali: a) perché l’associazionismo e quindi l’ANM è un bene prezioso di tutti noi, che non può essere gettato alle ortiche come un giocattolo rotto che non serve più; b) perché la cosiddetta “base”, quasi sempre silenziosa, è fatta da tantissimi magistrati che all’ANM sono iscritti e, pur vivendo magari ancora da poco tempo l’associazionismo, sono teste pensanti che leggono il messaggio che è stato lanciato, un messaggio che scorre sul fiume di un cambiamento che noi tutti possiamo ancora governare e trasformare in un’opportunità di rinascita dalle ceneri.
Non vince solo chi prende più voti, vince chi è più credibile, vince chi riaccende la passione per l’associazionismo, chi restituisce significato al principio di condivisione di valori essenziali che non possono e non devono essere considerati come un vecchio ospite che si invita ancora per affetto ma senza che possa partecipare veramente alla conversazione.
E’ dalle idee condivise che deve ripartire la cultura dell’associazionismo, del quale altrimenti non resta che l’ombra.
Un’ombra che genera distorsioni, conflitti, contrapposizioni sterili che alimentano la deriva individualistica in atto e divenuta ormai una triste narrazione che non rende giustizia alla storia e alla funzione della magistratura.
Errore fatale sarebbe perciò quello di non cogliere lo Spirito del tempo, forse meno fatale quello di sottovalutare l’amara ironia di Nanni Moretti. Temo infatti che sia più pericoloso non assumerci, oggi, la responsabilità etica dell’edificazione della casa dei valori condivisi in cui riconoscerci come persone, prima che come giudici.
Lasciare inascoltata la voce che si eleva da più parti e che reclama una partecipazione attiva dalla base significa negare in radice l’identità stessa di un gruppo che come valore fondante – e non solo come etichetta – sceglie la democrazia.
E’ un non senso.
Considerare secondarie le istanze che arrivano dai colleghi più giovani che non si riconoscono in metodi e sistemi che hanno alimentato logiche correntizie e spartitorie, significa svuotare di significato anche la carta stessa dei valori di Area.
Quando la hybris sottovaluta l’indignazione che serpeggia tra i più, gli esiti del tracotante mancato ascolto degli altri sono sempre una disfatta.
Il pensiero necessariamente lungo della politica - come ricordava Enrico Berlinguer - si schiaccia sull’immediatezza, così come si schiaccia sulla ricerca sterile di consensi che sfocia nel populismo, così come si schiaccia sull’urgenza di ottenere tutto e subito.
Le parole schiudono significati, aprono mondi, rifondano luoghi, anche quelli dissolti nel disincanto raccontato dalla nostra storia più recente.
E le parole di cui oggi abbiamo bisogno non sono: “candidature forti”, “strategie da opporre a quelli che sono più furbi”, “vince chi prende più voti”.
Non abbiamo bisogno di un lessico propagandistico.
Le parole di cui abbiamo bisogno sono: “credibilità”, “condivisione”, “etica”.
L’ondata di presentizzazione che stiamo vivendo soffoca ogni pulsione di crescita e cambiamento, toglie ogni respiro alle scelte coraggiose e di ampio respiro.
Toglie spazio alla visione, che è un’altra delle parole di cui abbiamo bisogno.
Un gruppo umano che agisce ciecamente, senza alcuna elaborazione degli ideali e delle proposte generate dalle quotidiane e assai differenti vicende che animano oggi gli uffici giudiziari, può generare negli altri solo la sensazione frustrante e diffusa del tradimento. Con la conseguenza che anche l’eventuale vittoria è solo illusoria, è una vittoria di Pirro.
Mi vengono in mente le parole di Alessandro Barbano quando dice che “l’etica della responsabilità è introiettiva, avverte il peso della responsabilità, lo sente e lo sostiene. L’estetica della miserabilità è proiettiva. La proiezione è propria di chi rifiuta questa responsabilità e vede il male soltanto all’esterno, fuori di sé”.
La dirigenza di Area, nella scelta di aderire senza riserve e con trasparenza alle indicazioni della GEC, ha avuto il coraggio e la lungimiranza di preservare il ruolo dell’associazionismo nel suo complesso, anche a costo di una prevedibile sconfitta elettorale, e di dare una visione diversa a una base sfiduciata.
Ci sono momenti in cui bisogna avere il coraggio di scegliere da che parte stare e quali valori perseguire, senza indugi e senza quell’atteggiamento omologante e autoassolutorio del “dobbiamo fare così altrimenti quelli ci distruggono”.
Ci sono momenti in cui non si può relativizzare e l’Ethos, quale valore assoluto, deve avere la meglio su tutto il resto.
Perché, come diceva Pericle agli ateniesi: “ci è stato anche insegnato di rispettare quelle leggi non scritte che risiedono nell'universale sentimento di ciò che è giusto e di ciò che è buon senso.
Qui ad Atene noi facciamo così.
Un uomo che non si interessa allo Stato noi non lo consideriamo innocuo, ma inutile; e benché in pochi siano in grado di dare vita ad una politica, tutti qui ad Atene siamo in grado di giudicarla”.
di Maria Chiara David
La recente Sentenza della Corte di Cassazione a Sezione Unite n. 30475/19 del 30.5.2019 relativa alle condotte di commercializzazione della c.d. cannabis light chiama in causa anche tematiche di natura tecnico-scientifica. La riflessione, partendo dal principio affermato, si sviluppa dal punto di osservazione del tecnico che opera quotidianamente sul campo[1] ed è chiamato a tradurre i risultati degli accertamenti chimici in dati utilizzabili nelle aule giudiziarie anche alla luce dei criteri normativi e giurisprudenziali.
Viene approfondito e messo a confronto l’approccio giuridico al concetto di dose drogante con l’approccio scientifico, anche attraverso gli esiti di analisi di evidenze epidemiologiche relative ai mutamenti intervenuti nel tempo, sulla piazza romana, nel mercato dei derivati della cannabis, nonché analizzati gli effetti di tali mutamenti nella repressione penale del fenomeno, per concludere con l’indicazione di opzioni operative nell’ottica della traduzione pratica dei principi affermati dalla Suprema Corte.
SOMMARIO: 1. Premessa. - 2. Esiti di analisi tossicologiche su derivati della cannabis sottoposti a sequestro penale nel periodo 2017-2018 in procedimenti trattati dalla Procura della Repubblica di Roma. - 3. Dati del biennio 2009-2010 e confronto con l’attualità. - 4. Il concetto di dose drogante. - 5. Riverberi operativi sulla c.d. cannabis light.
1. Premessa
Dal punto di vista scientifico, una sostanza è stupefacente quando provoca in chi la assume effetti psicotropi, cioè quando contiene una molecola in grado di alterare le normali reazioni fisiche e/o psichiche. Questa molecola viene definita principio attivo e costituisce una percentuale della sostanza che viene immessa sul mercato a diversi livelli di concentrazione.
Si riscontra, in via generale, che le diverse tipologie di sostanze stupefacenti (es. cocaina, eroina, hashish, ecc.) vengono destinate alla distribuzione con concentrazioni di principio attivo (c.d. purezza) molto variabili, tanto che -attraverso l’esame del principio attivo, dei costituenti naturali –alcaloidi– aggiunte diluenti/adulteranti come le sostanze da taglio -è spesso possibile risalire - ad un medesimo venditore o alla stessa piazza di spaccio: ogni laboratorio o spacciatore che raffina la sostanza originaria lavora in modo differente, dando al prodotto in commercio una composizione specifica.
Chi immette, a diversi livelli il prodotto sul mercato, può dunque determinare la quantità di principio attivo e quanto conseguentemente sarà forte lo stupefacente da vendere al dettaglio.
Per tale motivo gli acquirenti si riforniscono spesso dallo stesso spacciatore, conoscendo le caratteristiche della merce che vende e volendo evitare conseguenze spiacevoli, come l’acquisto di stupefacenti con quantità di principio attivo non soddisfacenti.
Già i caratteri di un simile contesto rendono evidente la difficoltà a stabilire un parametro universale per la composizione delle singole dosi, per cui ad esempio una dose di marijuana – per essere definita tale – dovrebbe contenere x% di principio attivo in quantità predeterminata.
Va considerato, poi, che l’effetto psicotropo non è sempre lo stesso, ma varia da individuo a individuo in conseguenza di numerosi fattori. E' intuitivo, ad esempio, che uno spinello contenente 1 grammo di marijuana al 2,5% di THC da cui si ricavano 25 mg di THC non fa lo stesso effetto su un uomo di 50 kg e su uno di 100, perché la sostanza viene assorbita e distribuita in modo molto diverso; a ciò si aggiunga che l’assorbimento è influenzato dallo stato di salute, dal momento dell’assunzione, dallo stato o meno di digiuno, dalle abitudini del soggetto, dall’interazione con altre sostanze presenti nell’organismo.
Vi è poi un fattore che influenza grandemente l'effetto psicotropo: la tolleranza dell'organismo alla sostanza assunta aumenta man mano che il consumatore reitera nel tempo l'assunzione, per cui lo stesso individuo, per avere effetto drogante, deve assumere quantitativi ogni volta più consistenti (assuefazione).
Non essendo predeterminabile secondo parametri fissi,il concetto di dose drogante non è rinvenibile nella letteratura scientifica.
Un dato di fondamentale importanza assume ulteriormente rilievo alla luce di concrete evidenze di mercato: da un'analisi ragionata degli esiti di accertamenti su una significativa percentuale di derivati della cannabis posti in sequestro in casi trattati dalla Procura della Repubblica di Roma negli anni 2017-2018 (v. infra) emerge come il contenuto di principio attivo sia soggetto ad un progressivo aumento. Lo stupefacente venduto a Roma è divenuto, negli anni, sempre più forte, evidenziando un processo ad andamento esponenziale: i consumatori si abituano a dosi sempre più massicce di THC, fattore che induce i venditori ad immettere in commercio sostanze sempre più forti, con conseguente ulteriore innalzamento delle soglie di assuefazione dei consumatori.
In buona sostanza, la dose drogante, vale a dire quella idonea a produrre nel consumatore effetto psicotropo, varia:
1. da individuo a individuo,
2. per lo stesso individuo, in conseguenza di fattori contingenti quali lo stato di salute, il digiuno, l’interazione con altre sostanze, l’assuefazione ed altro,
3. secondo il grado di assuefazione medio nella fetta di mercato/territorio in cui avviene l’approvvigionamento.
2. Esiti di analisi tossicologiche su derivati della cannabis sottoposti a sequestro penale nel periodo 2017-2018 in procedimenti trattati dalla Procura della Repubblica di Roma.
Allo scopo di verificare la variabile indicata al punto numero 3, sono stati esaminati i risultati delle analisi svolte[2] sui derivati della cannabis (hashish, marijuana, olio di hashish, piante, ecc.) sequestrati nel territorio di competenza della Procura della Repubblica di Roma nel biennio 2017-2018.
All’esito è possibile valutare, con un buon grado di affidabilità, l’andamento del mercato clandestino e delle percentuali di THC presenti nei derivati della cannabis. Emerge, come innanzi anticipato, un dato piuttosto netto: il trend delle percentuali di THC riscontrate sul territorio di Roma è in continuo ed incessante aumento.
Tale dato, peraltro, risulta coerente con quanto si segnala nella relazione dell’osservatorio europeo delle droghe e delle tossicodipendenze del 2018 (dati 2017) EMCDDA, ove viene riportata la potenza media della resina (hashish) nell’intervallo 14-21% e per i preparati della cannabis (marijuana) tra il 9 ed il 12% di THC. Analoga coerenza con le evidenze del National Institute of Drug of Abuse (NIDA)[3] che rileva come la potenza della marijuana, presente in campioni confiscati negli USA, sia aumentata notevolmente nel periodo più recente. Secondo quest’ultima analisi, il contenuto medio di THC nei campioni di marijuana sequestrati negli anni 90 era del 3,8%, mentre nel 2014 si sono registrate percentuali in deciso aumento, fino al 12,2%.
E’ chiaro che la tendenza solleva preoccupazioni per il possibile aggravamento delle conseguenze dell'uso di tali sostanze, soprattutto per chi è nuovo all'uso.
La percentuale media complessiva di THC riscontrata nei sequestri di derivati della cannabis (hashish e marijuana) per l’anno 2017 nell’area di Roma è pari al 16,2%, rilevato su 552.362,05 kilogrammi totali[4]. La percentuale media per l’hashish è pari al 18% e per la marijuana del 14,2% .
Tabella 1 Anno 2017: numero di reperti; Percentuale media di THC riscontrata; Valore minimo rilevato alle analisi; Valore massimo rilevato alle analisi.
ANNO 2017 | N. reperti | Media ###b# medio | ###b# min | ###b# max |
Piante | 3 | 6,6 | 0,8 | 10,1 |
Hashish | 141 | 18,0 | 5,5 | 47,3 |
Marijuana | 121 | 14,2 | 1,30 | 34,3 |
Per l’anno 2018, la percentuale media complessiva di THC riscontrata nei sequestri di derivati di cannabis è invece pari al 19,4% (hashish e marijuana) stimato su 36.157,49 kilogrammi complessivi[5]. La percentuale media è pari al 25,2% per i soli reperti di hashish e del 17,2% per i reperti di marijuana.
Tabella 2 Anno 2018: numero di reperti; Percentuale media di THC riscontrata; Valore minimo rilevato alle analisi; Valore massimo rilevato alle analisi.
ANNO 2018 | N. reperti | Media ###b# medio | ###b# min | ###b# max |
Piante | 10 | 4,5 | 0,3 | 10,3 |
Hashish | 62 | 25,2 | 6,5 | 60,3 |
Marijuana | 102 | 17,2 | 1,1 | 36,6 |
3. – Dati del biennio 2009-2010 e confronto con l’attualità.
Interessante è il confronto dei dati ora riportati con gli esiti di uno studio pregresso[6], effettuato sui reperti in sequestro relativi agli anni 2009-2010, da cui emerge che la percentuale media di THC nei derivati di cannabis era all’epoca pari al 5-6% su un campione di 157.089,00 kilogrammi oggetto di sequestro.
Il sensibile aumento delle percentuali di THC nei preparati reperibili sul mercato clandestino e utilizzati con finalità ricreative fornisce un indice dell’andamento della potenza/efficacia dei prodotti utilizzati come sostanze aventi effetto stupefacente: da un iniziale 5-6% di THC siamo arrivati a reperire nel 2018 prodotti con percentuali medie di THC del 25,2% per le resine (hashish) e del 17,2% per la marijuana.
In altri termini, gli stupefacenti c.d. leggeri in vendita sulle piazze romane hanno oggi un’efficacia drogante sensibilmente più consistente di quelli che si vendevano solo qualche anno fa. E’ come se le bottiglie di vino in vendita fossero passate da una gradazione del 12% ad una del 25%: a parità di quantità di bicchieri bevuti l’effetto ubriacante sarebbe straordinariamente maggiore.
Poiché l’offerta si modula in base alla domanda, il fenomeno è indicativo anche di una più decisa assuefazione dei consumatori al prodotto e della conseguente, generalizzata, richiesta di prodotti con proprietà droganti sempre più elevate, essendo ritenuti ormai insoddisfacenti quelli aventi bassa percentuale di THC.
4. -Il concetto di dose drogante
Come già indicato, vi è concreta evidenza della impossibilità di pre-stabilire la dose stupefacente. Questo concetto non riveste validità scientifica poiché è del tutto generico e fa riferimento ad una serie ampia di presupposti ed effetti diversi e non meglio definiti, proprio come sarebbe impossibile ed improduttivo stabilire la quantità di vino ubriacante (per incidens, il valore soglia di 0,5 g/L di alcol è il valore del tasso alcolemico, ovvero la concentrazione di alcol presente nel sangue, e non la concentrazione di alcol presente nei prodotti in commercio)
E’ necessario dunque distinguere la percentuale di THC nel prodotto presente sul mercato (hashish/marijuana con il X% di THC) dalla dose drogante per il singolo (la quantità X milligrammi di THC assunta), cioè la quantità di THC che viene assimilata in concreto fumando spinelli.
Focalizzando l’attenzione sulla letteratura scientifica, va rilevato che, negli studi esaminati[7], non si fa menzione del concetto di dose drogante, ma più in generale vengono riportate ricerche cliniche compiute su popolazioni controllate nella prospettiva di verificare uno o pochi effetti terapeutici.
A riprova del difetto di esplicitazione del concetto di dose drogante, vi sono gli esiti di una verifica effettuata su documenti provenienti da diverse fonti istituzionali che, a vario titolo, impattano con la problematica.
Il documento approvato dal gruppo di lavoro previsto dall’Accordo di collaborazione del Ministero della Salute e Ministero della Difesa del Novembre2016 sulla Sostanza vegetale Cannabis[8] riporta studi sugli effetti clinici analgesici, antiemetici, ipotensivi nel glaucoma, ed altri, per assunzioni di THC di 16-34 mg.
Ed ancora: il Consiglio Superiore di Sanità, nella nota del 10 aprile 2018[9], riporta uno studio dell’effetto antalgico con assunzione di 2-22 mg di THC.
Anche la ricerca nei testi della farmacologia generale[10] non fornisce una risposta circa la definizione del concetto di dose drogante, ma si rilevano solo studi dell’azione terapeutica antiemetica per assunzione di 5-15 milligrammi di THC.
Il Portale del Network Nazionale sulle Dipendenze[11], in collaborazione con il Dipartimento delle Politiche Antidroga della Presidenza del Consiglio dei Ministri, riporta effetti evidenti dopo l’assunzione di piccole dosi di THC (5-10 mg).
Una valutazione, in concreto, di quantità stupefacente riscontrabile negli spinelli da strada, si trova in un lavoro scientifico degli anni 70, pubblicato sull’autorevole rivista Nature[12], dove viene riportato una quantità di THC di 12-15 milligrammi.
Sul web[13] si rintracciano descrizioni delle abituali quantità e modalità di consumo dei prodotti della cannabis in questi ultimi anni; emerge che un consumatore di cannabis non abituale, per avere un effetto leggero, deve assumere almeno 33 mg/dose di THC, mentre per ottenere lo stesso effetto, un consumatore medio deve assumerne almeno 50 mg e un consumatore forte circa 100 mg.
L’unico riferimento al concetto di soglia stupefacente è quello presente nella Nota del Ministero dell’Interno del luglio 2018[14], confluita nell’indirizzo operativo comunicato nella Direttiva[15] sulla commercializzazione di canapa n. 11013/110 del 9 maggio 2019, dove si legge: “ le infiorescenze con tenore superiore allo 0,5% rientrano nella nozione di sostanze stupefacenti … per la cannabis, sia la tossicologia forense che la letteratura scientifica individuano tale soglia attorno ai 5 mg di THC che in termini percentuali equivalgono allo 0,5%” (calcolato su uno spinello/sigaretta artigianale confezionato da 1 grammo). Ma tale riferimento, poiché non si basa su lavori condotti alla luce di studi controllati di popolazione, non può avere, per quanto sinora rilevato, valore assoluto.
L’ambito di applicazione di tali indicazioni non può, dunque, che esser visto nell’ottica di stabilire una soglia minima, al di sotto della quale il prodotto, nemmeno in astratto, può essere utilizzato con finalità ricreative.
In tale prospettiva va tuttavia tenuto presente che l’assunzione di 5-10 mg di THC può avvenire con spinelli confezionati con marijuana o hashish contenenti percentuali differenti di principio attivo, così come si può assumere 1 grammo di un farmaco con una compresa ad alta percentuale di principio attivo o tante compresse a basso tenore. Ed ancora: è possibile ubriacarsi con tante birre a bassa gradazione così come è possibile con una unica assunzione di un superalcolico. Peraltro, con la cannabis light non c’è una proporzionalità diretta tra quantità assunta ed effetto drogante, nel senso che l’effetto non è da intendersi come sommatorio, perché nello spinello sono presenti molti costituenti vegetali inattivi e materiale di confezionamento che implicano una diminuzione dell’assorbimento del principio attivo e quindi dell’efficacia drogante.
Il contesto in esame è denso di complesse implicazioni ed il legislatore ha evidente necessità di stabilire un quantitativo-soglia da ritenersi idoneo, almeno in astratto, a produrre effetti droganti. Per punire una condotta di detenzione a fini di spaccio o di cessione occorre, infatti, stabilire cosa si intenda per sostanza stupefacente, non potendosi certo sottoporre a sanzione penale condotte prive di qualsiasi offensività. E’ sulla base di questa esigenza che il DPR 309/90, attraverso il rinvio alle tabelle redatte dal Ministero della Salute (D.M. 11 aprile 2006), indica come parametro la singola dose media, specificando la quantità di THC ritenuta mediamente idonea a determinare effetto stupefacente. La quantità o dose che viene stabilita dalla legge è di 25 mg/dose. Ciò significa che, dal punto di vista normativo, ad un determinato quantitativo di sostanza sequestrata è normativamente riconducibile un certo numero di dosi. Ogni volta che la Polizia Giudiziaria invia ad un laboratorio di tossicologia una sostanza stupefacente per l'analisi, il tossicologo forense verifica il principio attivo della sostanza sequestrata e la quantità di esso e divide il dato ottenuto per 25 mg, ottenendo il numero di dosi che viene acquisito dal Pubblico Ministero ai fini della contestazione. Si tratta, tuttavia, di un dato astratto, non ricollegabile a basi propriamente scientifiche.
Sembra dunque evidente che il concetto giuridico di dose drogante è frutto di convenzione, analogamente al dato della percentuale di alcol nel sangue idoneo a qualificare lo stato di ebbrezza ai sensi dell’art. 186 cds: la legge stabilisce che se la percentuale è di 0,8 g/l il soggetto è ubriaco, se invece è di 0,7 non lo è; e ciò a prescindere dal fatto che il soggetto sia uomo o donna, se l'alcol sia stato assunto a stomaco vuoto o durante una cena, ecc.. Si tratta di un criterio che ha, comunque, piena validità processuale, salve le complesse valutazioni del Giudice in ordine alla correlata individuazione della destinazione o meno della sostanza all’uso personale.
4. Dose drogante e cannabis light
Le recenti vicende normative e giurisprudenziali della c.d. cannabis light impongono una riflessione ulteriore sul concetto di dose drogante.
Se fino ad oggi i prodotti finali della pianta di cannabis, cioè le infiorescenze essiccate contenenti il principio attivo THC, rientravano integralmente nell’ambito di applicazione del Testo Unico degli Stupefacenti. Con l’entrata in vigore della legge nr. 242 del 2016 il legislatore ha aperto spazi, per determinate finalità, alla coltivazione di cannabis con un principio attivo THC inferiore allo 0.6 %. A seguito dell’intervento normativo, diverse aziende si sono lanciate sul mercato offrendo una vasta gamma di prodotti contenenti percentuali di principio attivo ritenute inoffensive, sul presupposto che la liceità della coltivazione della pianta (con determinate caratteristiche) portasse con sé la possibilità di distribuirne i diversi derivati.
I punti vendita si dono diffusi in ogni parte d'Italia e si sono creati non pochi problemi per gli operatori a vario titolo coinvolti nell’azione di contrasto allo spaccio di sostanze stupefacenti (forze di polizia, autorità giudiziaria, tecnici di laboratorio), dove si sono improvvisamente trovati a fronteggiare la presenza sul mercato di un prodotto apparentemente identico allo stupefacente ma - per la prima volta - posto in vendita in regolari esercizi commerciali.
In un primo momento si è posto il problema della liceità della presenza stessa di questo tipo di negozi che, spesso con fare ammiccante, sembravano proporsi come attrattivi proprio per le (più che dubbie) proprietà droganti della merce venduta. E’ stato avvertito poi che la libera circolazione nelle strade e la detenzione da parte dei giovani utenti del nuovo prodotto di pacchetti, bustine e contenitori vari di marijuana (seppure non contenente principio attivo, elemento ovviamente non riscontrabile ictu oculi) rischiava di penalizzare proprio l'attività di contrasto allo spaccio di stupefacenti, costringendo gli operanti a moltiplicare controlli ed a rivolgere i propri sforzi alla ricerca di un corpo del reato piuttosto evanescente.
La recente sentenza delle Sezioni Unite n. 30475/2019 afferma il principio per cui la cessione, la vendita e in genere la commercializzazione dei derivati della cannabis sativa L. quali foglie, inflorescenze, olio, resina, è condotta che integra il reato di cui all'art. 73 T.U. n. 309/90 anche a fronte di un contenuto di THC inferiore ai valori indicati dall’art. 4 commi 5 e 7 Legge n. 242 del 2016, "…salvo che tali derivati siano, in concreto, privi di ogni efficacia drogante o psicotropa, secondo il principio di offensività".
Viene stabilito, in sostanza, che i prodotti in questione (c.d. cannabis light nell’accezione corrente), non rientrando nell’alveo applicativo delle disposizioni della L. 242/2016, debbono considerarsi sostanza stupefacente e che la loro detenzione a fini di cessione o cessione costituisce reato, salvo che si tratti di prodotti privi, appunto, di efficacia drogante o psicotropa ovvero privi di offensività.
Il principio affermato inevitabilmente impone un'analisi, in concreto, della idoneità del prodotto a determinare un effetto drogante, pur in presenza di modestissime percentuali di principio attivo. Si pensi, nella pratica quotidiana, al sequestro di cannabis light in vendita nei negozi ed alla conseguente esigenza di stabilire, al più presto, la legittimità della detenzione/cessione.
Per rispondere a tale esigenza, gli operatori e gli uffici di Procura debbono necessariamente rapportarsi a criteri chiari e suscettibili di riscontro. Ma qui entrano in gioco, in modo particolarmente accentuato, le sottolineate difficoltà nella definizione, in concreto, di soglia/effetto drogante.
In tale prospettiva si dovrà considerare che, se è in astratto possibile confezionare uno spinello contenente cannabis light, per avere un effetto psicotropo in presenza di una percentuale di THC pari allo 0,5% (ma il principio affermato dalle SS.UU implica considerare anche percentuali inferiori), occorrerebbe fumare uno spinello contenente un quantità di prodotto del peso di almeno 5 grammi, anziché di 1 grammo (peso convenzionale della sigaretta artigianale considerato dai tecnici) per arrivare ad assumere una dose drogante da 25 milligrammi di THC, normativamente indicata nel DPR 309/90.
A ciò si aggiunga che la bassa percentuale di THC in relazione agli altri componenti presenti nel prodotto oggetto di commercio, come le parti vegetali inattive, gli alcaloidi minori e il materiale di confezionamento, influenza non poco la possibilità concreta di avere effetto drogante.
Un parallelo rende chiara l’affermazione: è come se si avesse un vino con gradazione alcolica del 2%: è possibile in astratto ubriacarsi bevendolo, ma occorrerebbe berne dieci litri.
E’ davvero difficile, quindi, immaginare che si possa fumare uno spinello con dette caratteristiche, senza contare il costo dell’operazione: ha senso acquistare cannabis light per avere effetti droganti quando, con lo stesso prezzo, si può acquistare agevolmente marijuana ad alta potenza ed ottenere un effetto psicotropo incomparabilmente maggiore?
Il principio affermato dalla Suprema Corte lascia pertanto aperti non pochi interrogativi e sono intuibili le difficoltà per coloro che possono essere chiamati ad intervenire sui casi concreti. Pur non potendo dare risposte con valenza scientifica, alla luce delle osservazioni svolte, è ragionevole ipotizzare che difficilmente potrà essere riconosciuta efficacia drogante a derivati della cannabis che presentino un contenuto di principio attivo THC compreso tra lo 0,2 e lo 0,6%.
[1] L’autrice, tossicologo forense, è consulente tecnico e perito del Tribunale di Roma in materia di stupefacenti.
[2]Lo studio si è concentrato sui campioni posti in sequestro da me sottoposti ad analisi in qualità di consulente tecnico nel corso degli accertamenti chimico tossicologici disposti dalla Procura di Roma nei procedimenti destinati a giudizio direttissimo, con cadenza settimanale per ogni mese del biennio.
[3]https://www.drugabuse.gov/node/pdf/1380/marijuana
[4]Il numero di reperti analizzati di derivati della cannabis è di 265 reperti nell’anno 2017, così suddivisi: 53% di Hashish, 45,6% di Marijuana ed1,1% di piante di cannabis.
[5]Il Totale dei reperti analizzati nell’anno 2018 è di 174, così suddivisi: 35,6% di Hashish, il 58,6% di Marijuana ed il 5,7% di piante di cannabis.
[6] Si tratta di un progetto del Laboratorio di Tossicologia Forense Università di Roma Tor Vergata e dell’ Istituto Superiore di Santità, in collaborazione con il Ministro della Gioventù ed il Dipartimento delle Politiche Antidroga Presidenza del Consiglio dei Ministri “Analisi e Valutazione del potenziale tossicomanico dei nuovi consumi giovanili associati o no alle sostanze incluse nelle tabelle di cui all’art. 14 del DPR 9 ottobre 1990 n. 309 e nel testo aggiornato del DPR 309 pubblicato sulla GU serie generale n. 242 del 15/10/2008 (decreto 26/09/2008) con riferimento ai sequestri effettuati dalle forze di Polizia”.
[7] Letteratura Scientifica Nazionale accessibile ai soci del Gruppo Italiano Tossicologi Forensi (GTFI) ed ai membri del gruppo internazionale The International Association of Forensic Toxicologist (TIAFT)
[8]https://www.epicentro.iss.it/cannabis-uso-medico/pdf/sost%20vegetale%20cannabis.pdf
[9]http://www.salute.gov.it/imgs/C_17_pubblicazioni_2761_allegato.pdf
[10] G. B. Katzung – Farmacologia Generale e clinica. Edizione VIII
[11]http://cannabis.dronetplus.eu/guida.html
[12] Rivista Nature Vol. 227 (1970)
[13] https://erowid.org/plants/cannabis/cannabis_dose.shtml
[14] Nota n. 2018/43586 - Direzione Centrale Servizi Antidroga – https://www.easyjoint.it/wp-content/uploads/2018/09/Ministero-Interno-31-lug-2018-commercializzazione-delle-infiorescenze.pdf
[15] http://www.interno.gov.it/sites/default/files/direttiva_canapa.pdf
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