ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Intervista di Paola Filippi a Carlo Smuraglia
Sommario: 1. La scelta dell’intervista.- 2 le domande. – 3. Le risposte. – Le conclusioni.
1. La scelta dell’Intervista.
La notte tra il 15 e 16 dicembre del 1969 Giuseppe Pinelli morì precipitando dalla finestra della questura di Milano. Era stato fermato il 12 dicembre del 1969, poche ore dopo l’esplosione della bomba a piazza Fontana e portato lì dove sarebbe morto.
Sono passati cinquant’anni e non si conosce la dinamica della caduta o meglio chi la cagionò. La morte di Giuseppe Pinelli è ancora la Morte accidentale di un anarchico, come la scrisse Dario Fo, senza verità.
Nessuno si è pentito, nessuno ha parlato, nessuno dopo 10 anni, 30 anni o ora dopo 50 anni, ha pensato: è ora di confessare.
Il Presidente Napolitano – come ci ricorderà Carlo Smuraglia – ha detto che Giuseppe Pinelli è stato vittima due volte, “prima di pesantissimi e infondati sospetti, poi di un’ improvvisa, assurda, fine”.
Ma Giuseppe Pinelli non è vittima due volte bensì tre volte, è stato leso anche il diritto di verità nella dimensione plurale in cui tale valore si declina: quello immortale di Pinelli e dei suoi familiari ed anche quello collettivo della società civile, al cui interno viene sempre più emergendo un’esigenza diffusa alla conoscenza di fatti che costituiscono parte delle ragioni di identità dello Stato.
Con l’intervista a Carlo Smuraglia, professore e avvocato, consigliere del Csm nel quadriennio 1986-1990, senatore della Repubblica, difensore di parte civile della famiglia Pinelli, Giustizia Insieme oggi vuole rendere onore e ricordare Giuseppe Pinelli.
L’omicidio impunito di Giuseppe Pinelli di cinquant’anni fa offre un altro spunto di riflessione - dopo l’intervista a Giovanni Tamburino alla quale l’intervista di Carlo Smuraglia come vedrete si collega - sulla funzione giurisdizionale, sull’indipendenza, sul rispetto della dignità umana e dell’habeas corpus.
La responsabilità di tutti gli operatori di giustizia verso il diritto alla verità.
Carlo Smuraglia, come leggerete, ci introduce con sapienti tratti descrittivi, all’Italia degli anni settanta in uno scenario apparentemente molto diverso dall’attuale. Ma il monito, attraverso il cenno ai fatti di Genova del 2011 e al caso Cucchi, richiama al realismo: quanto è accaduto può ripetersi.
1. Le domande
1. Gentilissimo Prof. Carlo Smuraglia, lei è stato avvocato di parte civile nel procedimento penale aperto a seguito della morte di Giuseppe Pinelli, avvenuta la notte tra il 15 e il 16 dicembre 1969. Vorremmo far conoscere ai lettori di Giustizia Insieme e dalla sua voce i particolari di quella vicenda, ancora oscura dopo cinquant’anni. Cosa si ricorda di quell’incarico, da chi lo ricevette e quando, quanto durò il procedimento, quali furono le indagini e se, secondo lei, ci fu un momento in cui, nel corso delle indagini, i magistrati furono vicini alla verità?
2. Quanto segnò la sua attività professionale l’essere stato l’avvocato di parte civile di Giuseppe Pinelli?
3. Quali sono le persone che nell’ambito di quel procedimento hanno inciso di più sulla sua memoria in positivo e quali quelle che hanno inciso in negativo?
4. Nel corso della sua carriera ha frequentato molti magistrati italiani, li ha visti lavorare e ha lavorato a fianco a loro, quali furono le difficoltà che secondo lei incontrò l’autorità giudiziaria italiana?
5. Dalla fine degli anni sessanta ad oggi come è cambiata la magistratura in termini di indipendenza?
6. Ci sono stati episodi analoghi al malore attivo di Giuseppe Pinelli?
7. Potrebbe accadere ancora quello che accadde il 16 dicembre 1969?
8. Cosa pensa della ricorrente proposta di separare la magistratura requirente dalla magistratura giudicante, come potrebbe influire sul giusto processo? In che modo lo può essere anche per la parte civile?
3. Le risposte
Gentilissimo prof. Carlo Smuraglia lei è stato avvocato di parte civile nel procedimento penale aperto a seguito della morte di Giuseppe Pinelli, avvenuta la notte tra il 15 e il 16 dicembre 1969, vorremmo far conoscere ai lettori di Giustizia Insieme e dalla sua voce i particolari di quella vicenda, ancora oscura dopo cinquant’anni. Cosa si ricorda di quell’incarico, da chi lo ricevette e quando, quanto durò il procedimento, quali furono le indagine e se, secondo lei, ci fu un momento in cui nel corso delle indagini i magistrati furono vicino alla verità?
Carlo Smuraglia: alla prima domanda rispondo – come in altri casi simili - richiamandomi a quanto ho scritto in un mio piccolo libro del 2018 (“Con la Costituzione nel cuore “, edizioni del Gruppo Abele), in particolare alle pagine 106 – 107 (che allego, per comodità). Aggiungerei: L’estraneità totale, rispetto ai fatti, di Giuseppe Pinelli fu ampiamente riconosciuta dalla sentenza istruttoria redatta dal dott. D’Ambrosio, ma - in più - alcuni anni dopo dal Presidente della Repubblica Napolitano, in occasione di una giornata della memoria (9 maggio 2009), che non solo restituì completamente la piena dignità a Giuseppe Pinelli, confermando la sua totale estraneità rispetto ai fatti, ma lo definì come “innocente, vittima due volte, prima di pesantissimi e infondati sospetti, poi di un’ improvvisa, assurda, fine”
Quello per la morte di Giuseppe Pinelli fu un processo di grande delicatezza, anche per le sue implicazioni politiche. Lo seguii dall'inizio per conto della vedova e delle figlie, allora bambine. Pinelli era morto, tre giorni dopo la strage di piazza Fontana, precipitando da una finestra della Questura dove era stato illegittimamente trattenuto e interrogato. Le prime indagini si conclusero rapidamente con un decreto di archiviazione: furono indagini frettolose e lacunose. C'era una gran fretta di chiudere la vicenda perché, sul versante istituzionale, tornava comodo a molti sostenere che si era trattato di un suicidio, sia per confermare la matrice anarchica della strage e la responsabilità di Pietro Valpreda (allora in carcere) sia per salvaguardare l'operato della polizia. Il Questore di Milano — dopo la morte di Pinelli — se ne uscì con una frase diventata famosa: «Apprezzavo molto Pinelli. Era un cavaliere dell'ideale e quando gli abbiamo detto che Valpreda aveva confessato, ha gridato: "per l'anarchia è finita" e si è buttato dalla finestra». Una cosa davvero vergognosa. Ma in quel contesto anche una parte della magistratura non colse la gravità dell'accaduto, tant'è che le indagini si conclusero rapidamente.
A quel punto la vedova Pinelli, consigliata dagli amici che la sostenevano, si rivolse a me e ad alcuni altri avvocati per ottenere la riapertura dell'istruttoria e per costituirsi nel processo come parte civile. Decidemmo di rivolgerci alla Procura generale di Milano, retta da un magistrato di grandissimo prestigio, Luigi Bianchi d'Espinosa, noto negli ambienti culturali e politici come democratico, liberale e grande giurista. La vedova Pinelli presentò una denuncia per omicidio nei confronti degli agenti e dei funzionari presenti nella stanza della Questura durante l'interrogatorio del marito, o vicini, come il commissario Luigi Calabresi. Accadde allora una cosa grave e anomala: il difensore degli imputati mi denunciò per calunnia. La cosa era insidiosa e mirava a bloccare il processo. Peraltro, la vedova Pinelli — sentita dai magistrati — si assunse la responsabilità diretta del contenuto della denuncia, dichiarando che io mi ero limitato a fornirle consigli sul piano strettamente giuridico e confermando in pieno la sua volontà che i colpevoli fossero puniti. Ciononostante, rimasi, per ben due anni, nel processo come imputato, prima di uscirne totalmente prosciolto.
Il clima fuori dal tribunale era molto pesante. La vicenda di questo anarchico caduto da una finestra della Questura suscitò subito interesse, passioni e aspre polemiche. Camilla Cederna, giornalista e inviata de L 'Espresso, fu tra i primi, insieme a Corrado Stajano, ad accorrere in Questura quando si diffuse la notizia della morte di Pinelli. Da allora, pur essendosi fino a quel giorno occupata di tutt'altro, si impegnò in prima persona, promosse e partecipò a eventi su quel tema di grande risonanza. Ci furono tantissimi dibattiti pubblici, ci fu lo spettacolo teatrale di Diario Fo, si impegnò gran parte del mondo della cultura: una parte della stampa capi’, infine, che bisognava fare chiarezza.
Titolare del processo era nel frattempo diventato il giudice istruttore Gerardo D'Ambrosio. Su nostra richiesta venne disposta la riesumazione del cadavere di Pinelli ma, purtroppo, era ormai passato troppo tempo e non fu possibile acquisire elementi utili a chiarire la dinamica dei fatti. Si fecero anche molte prove per stabilire, in base alla traiettoria della caduta, se questa fosse propria di un corpo inerte oppure se si potesse ipotizzare una spinta. Purtroppo, gli esperimenti non produssero risultati significativi, anche perché poco sotto la finestra c'era un cornicione e ciò rendeva possibile che il corpo di Pinelli non fosse caduto direttamente al suolo ma fosse rimbalzato dopo averlo urtato. Un esperto consulente costruì — su nostra richiesta — un manichino del peso e delle dimensioni di Pinelli, che fu gettato dalla finestra e rimbalzò sul cornicione prima di precipitare al suolo, rendendo impossibile una conclusione tecnicamente valida. Si fecero anche delle simulazioni con un tuffatore che cadeva da un trampolino in una piscina. Si compirono, cioè in questa seconda fase, molti sforzi per giungere alla verità, ma non ci si riuscì e il processo si concluse con un proscioglimento generale.
Quanto segnò la sua attività professionale l’essere stato l’avvocato di parte civile di Giuseppe Pinelli?
Carlo Smuraglia: la vicenda “Pinelli” ha segnato profondamente la mia vita professionale, per essere stato testimone di una grave tragedia e di una ingiustizia, ma anche la mia vita personale, perché ho conosciuto e frequentato una persona di estrema dignità come Licia Pinelli e le sue figlie coraggiose, Silvia e Claudia, ed anche perché ho visto e seguito di persona il lavoro di un gruppo di giornalisti seri ed indipendenti, che, a partire dalla tragica notizia, fecero di tutto per raggiungere la verità e per informare i cittadini, trovandosi, non di rado, contro corrente.
Sono cose che non si dimenticano ed incitano ad essere ancora più rigorosi nella vita, nella professione e nella politica. Insomma, ne sono uscito “diverso” e certamente non in senso peggiorativo. Si è alimentata ulteriormente la mia convinzione di sempre, che un buon avvocato deve credere in quello che fa e comportarsi sempre secondo coscienza, a qualunque costo.
Quali sono le persone che nell’ambito di quel procedimento hanno inciso di più sulla sua memoria in positivo e quali quelle che hanno inciso in negativo?
In qualche modo, ho già risposto: sulle esperienze e frequentazioni devo aggiungere anche il mio fortissimo apprezzamento per diverse persone che hanno aiutato Licia e le figlie a sopravvivere a tanto dolore, offrendo un’amicizia e un sostegno incomparabili.
Ho valutato negativamente, invece, il comportamento di tutti coloro che non cercarono la verità, ed anzi tentarono di ostacolarla o comunque si comportarono in modo disumano. Ricordo fra l’altro, il Tribunale civile, che respinse la domanda legittima di risarcimento di Licia Pinelli, fondata sul semplice principio di affidamento (un uomo non può entrare vivo in un palazzo delle istituzioni ed uscirne praticamente senza vita), e addirittura la condannò alle “spese di giustizia”.
Nel corso della sua carriera ha frequentato molti magistrati italiani li ha visti lavorare e ha lavorato a fianco a loro, quali furono le difficoltà che secondo lei incontrò l’autorità giudiziaria italiana?
Carlo Smuraglia: le difficoltà per l’accertamento della verità furono rappresentate dal tentativo di chiudere rapidamente una vicenda “scottante”, lasciando sospetti e dubbi sulla stessa condotta di Pinelli, per lungo tempo. Ma il “potere” politico aveva deciso che la colpa doveva essere degli anarchici e questo prevalse su tutto, fino a quando, in vari momenti e in varie forme, si è potuto stabilire che in Piazza Fontana c’era stata una strage voluta e messa in atto dai fascisti e “tollerata” da una parte delle stesse istituzioni. Naturalmente questo giudizio negativo non coinvolge tutti quei Magistrati del Veneto e di Milano, che fecero il possibile per stabilire ed acquisire la verità sulla strage e sulla morte di Pinelli.
Dalla fine degli anni sessanta ad oggi come è cambiata la magistratura in termini di indipendenza?
Carlo Smuraglia: Non vorrei fare confronti. A me sembra che, nel complesso, la Magistratura abbia oggi un livello notevole di indipendenza, comunque da conservare ed irrobustire, nell’interesse della collettività. Peraltro io, che sono profondamente interessato non solo alla giurisdizione, ma anche e soprattutto alla “cultura” della giurisdizione, penso che occorra lavorare ancora di più per ottenere il massimo dell’indipendenza “interiore” del Magistrato. Questo richiede una particolare cultura e una particolare formazione, sulle quali penso che dovrebbe svolgere ancora più intensamente il suo ruolo la Scuola Superiore della Magistratura.
Sono inoltre convinto che non sempre la “cultura della giurisdizione”, nel senso più ampio e completo, riesce ad affermarsi, anche e soprattutto nelle nuove leve. Occorre sempre una piena consapevolezza della importanza, delicatezza e responsabilità del Magistrato, evitando ogni forma di alterigia, che poi finisce per allontanare il cittadino, anziché avvicinarlo alla giustizia.
Ci sono stati episodi analoghi al malore attivo di Giuseppe Pinelli?
Carlo Smuraglia: mi risulta che ci siano stati in altre epoche e in altri Paesi, episodi di persone “cadute” dalle finestre dei palazzi delle istituzioni, ma non conosco esattamente i casi in questione. Quanto al “malore” (l’aggettivo “attivo” non è nella sentenza, ma è frutto di successive semplificazioni), si trattò solo di un’ipotesi, priva di qualsiasi rilevanza giuridica, formulata da un Giudice Istruttore, peraltro noto per la sua preparazione e la sua indipendenza. Fu solo un ragionamento (superfluo) per indicare la possibile soluzione di un caso per il quale non erano emerse prove concrete di responsabilità e non era possibile ipotizzare un suicidio. Un tentativo di spiegazione, che peraltro suscitò molti malumori e accuse che ritengo infondate. Insomma, D’Ambrosio avrebbe forse fatto meglio a non prospettarla in un provvedimento, ma si può capire anche l’intima difficoltà di un Magistrato che si senta impotente a “spiegare” le ragioni di un evento così tragico.
Potrebbe accadere ancora quello che accadde il 16 dicembre 1969?
Carlo Smuraglia: Per escludere ogni rischio, bisogna che le istituzioni, ad ogni livello, si ispirino in modo profondo, coerente e senza incertezze, alla sostanza della democrazia, che implica rispetto per la persona e per la dignità, oltre che per la vita. Le vicende di Genova del 2011 – sotto questo profilo – preoccupano, perché oggi non dovrebbero essere concepibili comportamenti che la Corte europea di diritti ha definito come torture. E lo stesso va detto per il caso Cucchi. E’ necessario che la democrazia venga vissuta come il fondamento della convivenza civile, nel pieno rispetto della persona, in ogni momento e sotto qualunque profilo. In questo senso, si sono fatti certamente dei passi in avanti, ma la nostra democrazia ha ancora bisogno di penetrare più a fondo nelle istituzioni. Altrimenti, tutto è possibile, anche se dovremmo ormai considerarci vaccinati, dopo un dopoguerra come quello che abbiamo vissuto (stragi, tentativi di golpe, terrorismo, abusi d’autorità, ecc.).
Cosa pensa della ricorrente proposta di separare la magistratura requirente dalla magistratura giudicante, come potrebbe influire sul giusto processo? In che modo lo può essere anche per la parte civile?
Carlo Smuraglia: sono nettamente contrario alla separazione delle carriere. Il Pubblico Ministero deve restare all’interno del sistema processuale al pari degli altri Magistrati, perché l’unitarietà della giurisdizione - quale che sia il ruolo dei suoi componenti - deve essere sempre garantita, nell’interesse e in nome del popolo. Il rischio, separando, è quello di “asservire” il Pubblico Ministero all’esecutivo o quanto meno, di avvicinarlo troppo ad esso, a scapito dell’indipendenza
4. Conclusioni
Carlo Smuraglia è stato uno dei protagonisti positivi di questa storia, uno di coloro che non si sono mai arresi.
Come Davide davanti a Golia, l'avvocato Smuraglia davanti a questo delitto ad opera di ignoti in un palazzo dello stato, non ha piegato il capo.
Un avvocato, processato per calunnia, che non ha esitato ad agire secondo coscienza davanti alla tragica ingiustizia di quel fine anno del 1969, i cui semi infetti hanno avvelenato la storia successiva del nostro paese con altre vittime illustri.
Le sue parole sollecitano più di quanto ci saremmo aspettati, non la rabbia, ma l’equilibrata riflessione sulle cause, i rischi che vicende analoghe si ripetano, la necessità di predisporre strumenti di difesa.
Per la polizia giudiziaria, per l’avvocato e per il magistrato la soluzione è nel rispetto e nell’ascolto.
Carlo Smuraglia, in perfetta consonanza con lo spirito di Giustizia Insieme, si è rivolto agli avvocati ricordando loro che un buon avvocato deve credere in quello che fa e comportarsi sempre secondo coscienza, ai magistrati, per i quali richiama l’essenzialità della “cultura” della giurisdizione, per arrivare alla massima espansione dell’indipendenza “interiore” del Magistrato.
Attento alla cultura della giurisdizione segnala quanto è importante che il Pubblico Ministero resti all’interno del sistema processuale al pari degli altri Magistrati, perché l’unitarietà della giurisdizione - quale che sia il ruolo dei suoi componenti - deve essere sempre garantita, nell’interesse e in nome del popolo e il tragico delitto Pinelli è una buona occasione per ricordarlo.
[In ricordo di Carlo Smuraglia, 12 agosto 1923 - 30 maggio 2022, ripubblichiamo l’intervista del 19 dicembre 2019 il 31 maggio 2022.]
L’azione umana è veramente libera? I dubbi delle neuroscienze
Santo Di Nuovo
La nozione di responsabilità in ambito giuridico si fonda sull’assunto che l’azione umana sia libera e consapevole, e quindi la trasgressione ‘volontaria’ delle norme possa e debba essere punita.
La definizione di “free will” comporta la possibilità che la persona, nel compiere un certo atto, possa scegliere fra opzioni diverse senza che alcune di esse si impongano come costrittive per ragioni diverse dalla decisione consapevole; ma gli approcci empirici a questa definizione teorica non sono semplici né facili.
Le neuroscienze, avvalendosi di esami basati sulle tecniche di brain imaging, hanno approfondito i meccanismi cerebrali che fondano le decisioni coscienti rispetto agli atti da compiere. Anche se le motivazioni all’azione possono originarsi in diverse aree corticali e sottocorticali, l’elaborazione dell’atto volitivo finale è compito specifico della corteccia prefrontale. Sono state individuate altre aree corticali (alcune parti del lobo temporale e parietale) la cui attivazione è associata all’esperienza soggettiva di essere l’autore della specifica azione, definita “senso di agenticità (agency)”. Questo funzionamento consente all’autore di un atto di attribuirsene la responsabilità; e su questa base può essere imputato e punito per l’atto consapevolmente commesso.
Ma ci sono anche prove sperimentali di possibili perturbazioni di questo modello di ‘agenticità’. Libet in uno studio risalente a oltre trent’anni fa dimostrò che il cervello di un soggetto chiamato a compiere un movimento volontario mostra un'attività specifica e riconoscibile già diversi millisecondi (fra 300 e 500, che equivale a mezzo secondo) prima che la decisione diventi cosciente. Questo “potenziale di preparazione motoria” (Readiness potential), evidenziabile con le strumentazioni di imaging cerebrale, dimostra che il cervello comincia ad agire prima che la persona ne sia consapevole a livello cosciente.
L’atto della volizione coinvolge una serie di processi differenziati tra loro che rendono possibile la risposta motoria (quindi l’atto con conseguenze esterne), con diversi passaggi del “decision-making” che partirebbero da una base non cosciente (hidden or covert intention), che prepara il soggetto alla volontà di compiere l’atto motorio. La struttura maggiormente coinvolta in questa fase preliminare è la l’area corticale prefrontale.
L’applicazione all’ambito giudiziario di queste conclusioni neuroscientifiche sarebbe dirompente sia sul piano di principio che su quello pratico: si può essere considerati responsabili per azioni della cui ‘colpevolezza’ non ci si rende conto, perché il cervello agisce prima ancora che si attivi la volontà cosciente? Se la consapevolezza entra in gioco dopo dell’innesco della azione, si può essere condannati per questo? Si potrebbe arrivare su questa base a conclusioni drastiche, come la negazione di qualsiasi ruolo causale della coscienza e del libero arbitrio.
Questa conclusione è stata però contestata da chi ritiene che il paradigma sperimentale utilizzato da Libet in realtà non è generalizzabile a tutte le azioni che la persona realizza nella vita quotidiana. È stato fatto rilevare che nelle decisioni complesse l’area cerebrale in questione non è la prima ad attivarsi ma è preceduta da una codifica del compito da svolgere; inoltre, il tempo percepito è una costruzione mentale non sempre aderente alla realtà. Nell’esperienza cosciente quasi tutte le aree cerebrali sono simultaneamente connesse: da questo network di aree attive e sincronizzate derivano le decisioni coscienti che sono oggetto delle decisioni giudiziarie sulla responsabilità. I fenomeni studiati da Libet, e da chi segue il suo approccio neuro-determinista, sono in genere molto semplici e limitati nel tempo; ben altra dimensione di complessità e durata temporale hanno le azioni criminali per valutare le quali il metodo neuroscientifico proposto risulta insufficiente.
All’interno di questa complessa rete di funzionamento cerebrale, si parla di “attivazione preparatoria inconscia”, secondo il modello definito Default Mode Network, che considera “il cervello a riposo”, cioè in assenza di stimoli esterni o di compiti specifici da eseguire, eppure dotato di una ‘energia oscura’ che attiva il funzionamento dell’organismo anche se in modo non consapevole. Questa attivazione è influenzata da input sia esterni, come gli stimoli sensoriali, sia interni (attenzione, memoria, emozioni) e piuttosto che rappresentare un limite alla volontà libera del soggetto, potrebbe anzi costituire un meccanismo di facilitazione di base al fine di assicurare un adeguato compimento dell’atto di volizione, anche quando esso è inizialmente innescato in modo involontario.
È stato ribadito che il modello psicologico ‘popolare’ della persona e la responsabilità non viene sostanzialmente messo in discussione dal neuro-determinismo. Fino a quando non sarà dimostrato in modo conclusivo che gli esseri umani non possono essere guidati dalla propria ragione, e che gli stati mentali non hanno un ruolo nello spiegare il comportamento, il modello psicologico di responsabilità finora seguito (ed applicato in campo giudiziario) è giustificato.
I tentativi di esplorare la effettiva ‘volontà’ del soggetto in azione mediante mezzi di indagine cerebrali risultano finora riduttivi della complessità del problema del “libero arbitrio” e delle sue ricadute sul piano dell’accertamento giudiziario della responsabilità. Si auspica che un progresso nella metodologia dei disegni di ricerca e un affinamento delle tecniche usate possa chiarire meglio cosa è volontario e cosa può non esserlo nel comportamento umano giuridicamente rilevante.
Riferimenti per approfondimenti:
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M. Brass, M. T. Lynn, J. Demanet, D. Rigoni, Imaging volition: what the brain can tell us about the will, in Experimental Brain Research, 2013, pp. 301–312.
D.A. Fair e al. The maturing architecture of the brain's default network, in Proceedings of the National Academy of Sciences 2008, 105, pp. 4028-4032.
J. Greene, J. Cohen, For the law, neuroscience changes nothing and everything, in Law and the Brain (a cura di S. Zeki and O. Goodenough) Oxford University Press, New York: 2006, pp. 207–226;
P. Haggard, Human volition: Towards a neuroscience of will, in Nature Reviews Neuroscience, 2008, 9, pp. 934–946
W. R. Klemm, Free will debates: Simple experiments are not so simple, in Advances in Cognitive Psychology 2010, 6, pp. 47–65.
B. Libet, Unconscious cerebral initiative and the role of conscious will in voluntary action, in The Behavioral and Brain Sciences, 1985, 8, pp. 529–566.
S. J. Morse, The non-problem of free will in forensic psychiatry and psychology, in Behavioral Sciences & the Law, 2007, 25, pp. 203–220;
A. Noe, Out of our mind: Why you are not your brain, and other lessons from the biology of consciousness, Hill & Wang, New York 2009;
M. S. Pardo, D. Patterson, Minds, brains and law: The conceptual foundations of law and neuroscience, Oxford University Press New York 2013;
M.E. Raichle, A default mode of brain function: A brief history of an evolving idea, in NeuroImage 2007, 37, pp. 1083-1090;
M.E. Raichle The brain's dark energy, Scientific American, 2010, pp. 44-49;
C. S. Soon, M. Brass, H.-J. Heinze, J. D. Haynes, Unconscious determinants of free decisions in the human brain, in Nature Neuroscience, 2008, 11, pp. 543–545.
F. Tempia, Neuroscienze della volontà e della decisione, in Volontà, una sfida contemporanea (a cura di F. Desideri e P.F. Pieri) in Atque, 2017, 21 (numero speciale), pp. 45-67.
K. Vihvelin, Causes, laws, and free will: Why determinism doesn’t matter, Oxford University Press, New York 2013.
di Ciro Angelillis
sommario: 1. Premessa. - 2. L’estensione erga alios delle sentenze della CEDU.- 3.Il principio consolidato nella Giurisprudenza della Corte e la ‘serialità delle violazioni’. - 4. Il principio consolidato della prevedibilità della decisione giudiziaria - 5. Il binario morto della dicotomia ‘Prevedibilità soggettiva/ oggettiva’. - 6. Mutamento interpretativo e mutamento giurisprudenziale -7. Mutamento interpretativo e rispetto del principio di prevedibilità nella vicenda Contrada
1.Premessa
La questione di diritto rimessa alle Sezioni Unite dalla 6^ sezione penale è la seguente: “Se la sentenza della Corte Edu del 14 aprile 2015 sul caso Contrada abbia una portata generale, estensibile nei confronti di coloro che, estranei a quel giudizio, si trovino nella medesima posizione, quanto alla prevedibilità della condanna; e, conseguentemente, laddove sia necessario conformarsi alla predetta sentenza nei confronti di questi ultimi, quale sia il rimedio applicabile”.
Il tema della possibile estensione erga alios della sentenza del 2015 della Corte EDU sul caso Contrada c. Italia si innesta in quello generale degli effetti sul giudicato penale delle sentenze della CEDU e della individuazione degli strumenti processuali che consentano al Giudice di eseguirle, intervenendo sul processo o sulla sentenza. L’ordinanza, le cui argomentazioni rispecchiano il convulso dibattito che caratterizza, da qualche anno, questo spicchio della materia della esecuzione, condivide l’opzione prospettata dal ricorrente di rimettere alle SSUU la decisione del ricorso, per via di diversi contrasti giurisprudenziali su questioni rilevanti ai fini della soluzione del caso in esame, ma presenta una peculiarità nella parte in cui - dopo avere evidenziato le criticità dei due orientamenti che oggi, con riferimento al quesito sopra indicato, si contendono il campo nel seno della Suprema Corte e che fanno capo alle sentenze ‘Dell’Utri’ ed ‘Esti’, entrambe della prima Sezione - sottopone all’esame delle SSUU una terza opzione di cui non nasconde gli effetti dirompenti. Mentre, infatti, le sentenze ‘Dell’utri’ ed ‘Esti’, per ragioni diverse e attraverso strumenti processuali diversi (la revisione europea la prima e l’incidente di esecuzione la seconda), escludono la possibilità di estendere ai rispettivi ricorrenti gli effetti della sentenza ‘Contrada’, la “terza via interpretativa” conferisce al principio posto dalla Corte europea - per cui, secondo l’ordinanza, “la garanzia di accessibilità del precedente ‘sfavorevole’ è riconosciuto dalla Corte EDU al solo precedente di legittimità a Sezioni Unite” - una valenza generale con effetti caducatori, a cascata, rispetto, non solo, a tutte le sentenze definitive di condanna per l’ipotesi delittuosa di cui agli artt. 110 e 416 bis c.p. commessa prima del 1994 ma a tutte le “condanne” intervenute “prima del consolidamento della giurisprudenza sfavorevole al reo” determinato dall’intervento delle Sezioni Unite.
La prospettazione di questa opzione, nonostante i suoi possibili effetti dirompenti rispetto al principio della stabilità del giudicato, consegue alla considerazione che le sentenze ‘Esti’ e Dell’Utri’, per un verso o per l’altro, escludendo che “la sentenza emessa sul caso Contrada avesse effettivamente rilevato un deficit sistemico”, avevano escluso la esportabilità dei principi affermati dalla sentenza Contrada sulla base di soluzioni “non appaganti” rispetto “all’impostazione della sentenza Contrada”.
In primis, secondo l’ordinanza, non è la natura di origine giurisprudenziale della fattispecie del concorso esterno ad avere indotto la Corte EDU a pervenire alle sue conclusioni, come sostenuto dalla sentenza Esti e da quelle che si sono inscritte nella sua scia, ma la carenza di “certezza applicativa” della norma penale, presupposto indefettibile del principio di legalità di cui all’art. 7 della Convenzione, poichè anche una norma “formulata in maniera chiara e precisa” potrebbe essere oggetto di “una interpretazione giurisprudenziale non uniforme” .
Allo stesso modo, l’ordinanza rileva la criticità della sentenza Dell’Utri che ha condizionato all’esame della condotta processuale tenuta dal ricorrente illo tempore, la possibilità di prospettare il conflitto interpretativo rispetto ad un diversa qualificazione giuridica dei fatti contestati, nel senso che Dell’Utri non avrebbe potuto beneficiare della estensione degli effetti della sentenza della Corte EDU per non avere prospettato, al Giudice nazionale, come invece aveva fatto Contrada, la possibile riqualificazione dei fatti contestati nel diverso reato di favoreggiamento personale. La sesta sezione rileva che il comportamento processuale non può essere influente rispetto al giudizio di prevedibilità, pena la trasformazione del “ vulnus sistemico rilevato dalla Corte EDU in un vizio del singolo processo”.
Tanto chiarito, la questione di fondo enucleata dall’ordinanza è se ritenere violato il principio di prevedibilità convenzionale per tutti coloro che sono stati condannati in via definitiva per concorso esterno nel reato di cui all’art. 416-bis c.p. in relazione a condotte poste in essere prima del 1994 e della pronuncia della sentenza Dimitry delle Sezioni Unite ovvero, più in generale, per tutti coloro che hanno subito “condanne” intervenute “prima del consolidamento della giurisprudenza sfavorevole al reo” determinato dall’intervento delle Sezioni Unite e, conseguentemente, se la Corte europea abbia evidenziato o meno un difetto strutturale del sistema normativo interno tale da non potere non avere ricadute erga omnes.
2.L’estensione erga alios delle sentenze della CEDU
Si è detto che nella materia in trattazione i punti fermi non abbondano, ma tra i pochi che è possibile enucleare dall’interno del frastagliato e complesso panorama giurisprudenziale vi è quello (ben evidenziato dalla sentenza Esti del 12 gennaio 2018) della diversità di posizione di chi, dopo avere adito vittoriosamente la Corte EDU chieda al Giudice interno di elidere gli effetti del giudicato reputato iniquo dalla Corte, rispetto a chi (c.d. fratello minore) chieda gli stessi benefici rappresentando al Giudice nazionale di trovarsi nella situazione della parte vittoriosa a Strasburgo. Il giudice interno, infatti, solo nel primo caso è obbligato ad adeguarsi senza riserve e senza spazi di valutazione al dictum della sentenza della Corte, in virtù dell’art. 46 della Convenzione europea che prevede l’obbligo per gli Stati contraenti, di uniformarsi alle sentenze definitive della CoEDU per le controversie in cui sono parte, e, nel caso di condanna, di rimuovere tutte le conseguenze pregiudizievoli per la vittima che abbia adito la corte europea, senza che possa ritenersi di ostacolo, in questo senso, l’effetto preclusivo del giudicato, stante l’efficacia immediatamente precettiva nell’ordinamento italiano delle norme convenzionali, naturalmente nei limiti tracciati dalle sentenze gemelle della corte Costituzionale, che sono quelli della loro inidoneità a determinare l’inapplicabilità di norme interne con esse contrastanti, senza un intervento ablatorio della stessa corte Costituzionale.
Non così quando la questione affrontata dalla Corte EDU è portata all’esame del Giudice interno dai c.d. fratelli minori; in questi casi, svincolato dall’obbligo posto dall’art. 46 della Convenzione, il Giudice deve valutare, in via pregiudiziale, la ‘esportabilità’ al di fuori della vicenda processuale coinvolta dalla decisione della CEDU e la estensibilità erga omnes delle conclusioni formulate dalla Corte Edu. Oggi lo stato dell’arte ci consente di ritenere pacifico che la portata precettiva dell’art. 46 rimane confinata allo specifico caso coinvolto dalla pronuncia del giudice europeo, sicchè, negli altri casi, non esiste un obbligo di indifferenziata estensione erga omnes dei principi affermati da una sentenza CEDU.
A riprova di tanto si segnalano sinteticamente:
L’ordinamento convenzionale che, per un verso, prevede espressamente l’obbligo di adeguamento solo a vantaggio di chi è parte nel processo dinanzi alla Corte (art. 46 CoEDU), per l’altro riserva l’ipotesi della estensione dei principi erga alios alle c.d. sentenze pilota attraverso le quali, sul presupposto della pendenza di una pluralità di ricorsi vertenti sulla stessa problematica, la Corte indica allo Stato il problema strutturale o sistematico riscontrato nell’ordinamento interno e le misure riparatorie che deve adottare per porvi rimedio (art. 61 del regolamento CEDU).
I ripetuti interventi della Corte Costituzionale tra i quali si richiamano:
La sentenza n. 49 del 2015 che ha rivendicato l’autonomia esegetica del giudice nazionale che può e deve stabilire la ‘portata del precedente’, in quanto “sarebbe errato, e persino in contrasto con queste premesse, ritenere che la CEDU abbia reso gli operatori giuridici nazionali, e in primo luogo i giudici comuni, passivi ricettori di un comando esegetico impartito altrove nelle forme della pronuncia giurisdizionale, quali che siano le condizioni che lo hanno determinato. Il giudice nazionale non può spogliarsi della funzione che gli è assegnata dall'art. 101, secondo comma, Cost., con il quale si “esprime l'esigenza che il giudice non riceva se non dalla legge l'indicazione delle regole da applicare nel giudizio, e che nessun'altra autorità possa quindi dare al giudice ordini o suggerimenti circa il modo di giudicare in concreto” (sentenza n. 40 del 1964; in seguito, sentenza n. 234 del 1976), e ciò vale anche per le norme della CEDU, che hanno ricevuto ingresso nell'ordinamento giuridico interno grazie a una legge ordinaria di adattamento.”.
La sentenza n. 236 del 2011 che ha ribadito che la giurisprudenza europea va applicata con un margine di apprezzamento e di adeguamento alla luce delle peculiarità dell’ordinamento giuridico in cui la norma convenzionale è destinata ad inserirsi e che le sentenze di Strsburgo restano pur sempre legate alla concretezza della situazione che le hanno originate.
La sentenza n. 210 del 2013 che ha affermato che “Spetta anzitutto al legislatore rilevare il conflitto verificatosi tra l’ordinamento nazionale e il sistema della Convenzione e rimuovere le disposizioni che lo hanno generato, privandole di effetti” ed in mancanza sarà la stessa Corte Costituzionale a valutare eventuali “contro limiti” rispetto alla accertata contrarietà della normativa interna al paradigma dell’aer. 7 della convenzione (nel caso di specie sottoposto all’attenzione della Corte non furono ravvisati ‘controlimiti’ nel principio di stabilità del giudicato rispetto ad una norma penale concernente il trattamento sanzionatorio).
I precedenti casi di estensione erga alios degli effetti delle sentenze della CEDU che hanno accertato un difetto strutturale dell’ordinamento per via di “pacifiche violazioni convenzionali di carattere oggettivo e generale” . Si è trattato di interventi del Legislatore (con valenza solo per il futuro) o della Corte Costituzionale (attraverso declaratorie di illegittimità costituzionale che hanno travolto potenzialmente i giudicati) o anche del Giudice di legittimità, sul piano interpretativo che, come è evidente, in nessun caso sono stati passivi esecutori di un comando altrui ma hanno determinato un ‘adattamento’ dell’ordinamento interno ai principi della convenzione, attraverso un ineludibile percorso di riflessione sul dictum del Corte europea:
la sentenza Sejdoc contro Italia che ha indotto il legislatore italiano a modificare l’art. 175 c.p.p. in materia di restituzione nel termine per impugnare le sentenze contumaciali;
la sentenza Torregiani del 2013 sul sovraffollamento carcerario in seguito alla quale è intervenuto il legislatore;
le vicende Dasgupta e Lorefice in ordine al principio di immediatezza nel secondo grado di giudizio, in cui l’adeguamento è avvenuto prima sul piano interpretativo poi su quello normativo (art. 603 cpp);
la vicenda Scoppola/Ercolano in cui la CEDU era intervenuta ritenendo in violazione dell’art 7 della Convenzione la norma che prevedeva, per i delitti puniti con l’ ergastolo e giudicati con rito abbreviato, la pena dell’ergastolo in luogo della pena dell’ergastolo con isolamento diurno e non la pena della reclusione temporanea in luogo della pena dell’ergastolo. In quest’ultimo caso è noto che, dopo che Scoppola, la parte vittoriosa a Strasburgo, aveva ottenuto dalla Suprema Corte - sia pure in sede di ricorso straordinario per errore di fatto (art. 625 bis cpp) - la sostituzione della pena dell’ergastolo con quella della pena della reclusione temporanea, la Corte Costituzionale (sollevata la questione dalla Suprema Corte alla quale si era rivolto Ercolano, un ‘fratello minore’ di Scoppola , impugnando l’ ordinanza del Giudice dell’esecuzione che aveva escluso che potessero essere estesi a lui gli effetti della sentenza Scoppola), aveva ritenuto costituzionalmente illegittima la norma già censurata dalla CEDU, stabilendo che il giudicato non può che ritenersi recessivo rispetto alle compromissioni dei valori e dei diritti fondamentali della persona;
La vicenda Drassich sul principio del contraddittorio in ordine alla qualificazione giuridica del fatto, in cui l’adeguamento è avvenuto sul piano interpretativo.
La necessità di fugare il rischio di collocare la CoEDU all’interno del nostro ordinamento quasi fosse l’organo del quarto grado di giudizio, con il potere di annullare le decisioni della Corte di Cassazione. Ipotesi, quest’ultima, che non è concettualmente ipotizzabile come non lo è un contrasto tra Corte europea e Stato contraente che abbia ad oggetto l’applicazione di un principio ai casi concreti: il possibile contrasto tra loro può ipotizzarsi esclusivamente sul piano della compatibilità/incompatibilità di diritti e principi, il quale trova la sua composizione attraverso il c.d. “dialogo tra le Corti” costituito dalla reciproca cessione di spazi all’evoluzione interpretativa dei diritti fondamentali, oppure, in ultima analisi, attraverso i meccanismi interni fissati dalla Corte Costituzionale con le c.d. sentenze gemelle del 2007 n. 348 e n. 349.
Per queste ragioni, alla domanda che l’ordinanza pone apertis verbis se “la sentenza sul caso Contrada lasci al giudice nazionale un margine di apprezzamento per valutare [se e ndr]come applicare erga alios la nozione di prevedibilità della legge penale in presenza di contrasti giurisprudenziali” , si ritiene di rispondere positivamente.
3.Il principio consolidato nella Giurisprudenza della Corte e la ‘serialità delle violazioni’
Nessun automatismo, dunque, ma apprezzamento della sentenza della Corte di Strasburgo sotto un duplice profilo, se sia espressione di una giurisprudenza europea consolidata e se accerti una violazione destinata a ripetersi tutte le volte che si faccia interpretazione/applicazione del diritto, fisiologica nello Stato contraente (c.d. serialità delle violazioni).
Quanto al primo profilo, l’esigenza di valutare la giurisprudenza europea nel suo complesso discende dal fatto che le sentenze della Corte, ancorchè l’interpretazione estensiva dell’art. 46 implichi una ‘autorità di cosa giudicata interpretata’ ai principi di diritto espressi in esse rispetto ai casi simili, restano pur sempre legate alla concretezza della situazione che le hanno originate, sicchè la peculiarità della singola vicenda su cui è intervenuta la sentenza, deve essere adeguatamente valutata dal giudice nazionale che sarà chiamato a trasporre il principio affermato dalla Corte di Strasburgo nel diritto interno solo dopo avere escluso il rischio che quel principio, per non essere ‘consolidato’ nell’ambito della complessiva elaborazione giurisprudenziale, sia smentito da altre pronunce.
E’ noto che questa impostazione, ripetutamente sostenuta dalla Corte Costituzionale (sent. n. 236/11; sent. n. 49/2015), è stata contestata dalla Grande Camera di Strasburgo che, nella causa GIEM c. Italia del 2018, ha ricordato come le sentenze della Corte abbiano tutte lo stesso carattere vincolante; tuttavia, come è stato condivisibilmente osservato in dottrina, il richiamo alla nozione di ‘diritto consolidato’ non intende sindacare la vincolatività delle pronunce della Corte rispetto al caso specifico, ma risponde all’esigenza di prevenire l’inevitabile rischio di contrasti nella giurisprudenza della CEDU e di acquisire, prima di provvedere ad una declaratoria di incostituzionalità di una norma interna per contrasto con la Convezione, la ragionevole certezza che l’orientamento della Corte europea non muterà.
Ne deriva, in conclusione, la necessità di vagliare se il principio affermato dalla Corte nella sentenza Contrada risponda al ‘diritto consolidato’ della Corte di Strasburgo sull’art. 7 della Convenzione ovvero se quella decisione sia stata il frutto di una valutazione condizionata dal caso concreto ed insuscettibile di ricevere una generale applicazione.
Sotto diverso profilo, occorre, poi, apprezzare se la sentenza di condanna della Corte costituisca una red flag in ordine ad un possibile difetto strutturale dell’ordinamento, per essere la violazione della Convenzione destinata a ripetersi, nel senso che il giudice nazionale dovrà accertare se l’ applicazione/interpretazione del diritto interno, che secondo la Corte europea integra una violazione della Convenzione, sia quella fisiologica oppure se la lettura del nostro ordinamento che la Corte europea ha effettuato nel caso di specie, non corrisponda effettivamente al nostro diritto vivente.
Nel caso di specie si dovrà accertare se la vicenda Contrada sia stata espressione di un ‘mutamento di diritto giurisprudenziale’, non consentito dal principio di legalità di cui all’art. 7 della Convenzione e destinato a ripetersi poiché applicazione fisiologica del diritto interno, oppure, avendo la Corte europea errato nel ricondurre un semplice ‘mutamento interpretativo’, pienamente consentito anche dalla Convenzione (in quanto non può essere un mero contrasto giurisprudenziale ad inibire l’applicazione di una determinata fattispecie di reato), ad un mutamento del diritto giurisprudenziale applicabile, nessun effetto generale sarebbe riconducibile alla sentenza, poiché nessun difetto strutturale, corrispondente a quello accertato dalla sentenza Contrada, esisterebbe nel nostro ordinamento.
4. Il principio consolidato della prevedibilità della decisione giudiziaria
4 .1 La Corte Europea dei diritti dell’uomo, nell’ affaire Contrada c. Italia, ricorso n. 66655/13), premesso che il reato di concorso esterno in associazione mafiosa è “il risultato di una evoluzione giurisprudenziale iniziata verso la fine degli anni ottanta e consolidatasi nel 1994 con la sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione del 5/10/94, ‘Demitry’, e che, l’addebito riguarda episodi relativi ad un periodo tra il 1979 e il 1988, in cui il diritto vivente non si era ancora cristallizzato con l’intervento delle Sezioni Unite penali, ha ritenuto che la condanna di Contrada violasse il principio della ‘prevedibilità della decisione giudiziaria’, principio strettamente collegato con quello di legalità. Per pervenire alle sue conclusioni, la Corte di Strasburgo ha dato decisivo rilievo alle sentenze della Cassazione che hanno escluso la configurabilità giuridica del concorso esterno in associazione mafiosa, la prima risalente al 1987, un’altra al 1989 e altre due al 1994.
La CoEDU, come è evidente, non mette nel mirino una norma penale interna o la sua interpretazione da parte dei giudici nazionali e, tanto meno, la valutazione e la qualificazione giuridica dei fatti. Quello che la Corte europea pone in rotta di collisione con il principio di legalità di cui all’art. 7 della Convenzione, è il mutamento giurisprudenziale che incida sull’ambito di applicazione di una norma penale.
La fonte giurisprudenziale concorre ad integrare il diritto vivente e, pertanto, un indirizzo giurisprudenziale innovativo non può estendere la punibilità a fatti anteriormente commessi a meno che la nuova interpretazione non sia “ragionevolmente prevedibile”.
Dinanzi al divieto di retroattività, il principio di legalità convenzionale pone sullo stesso piano la legge e la giurisprudenza, sicchè il nuovo e non prevedibile indirizzo ermeneutico non può frustrare l'affidamento ingenerato da una interpretazione giurisprudenziale reiterata nel tempo anche se successivamente riconosciuta errata.
In altri termini, secondo l’interpretazione che dell’art. 7 della Convenzione fornisce la CoEDU, i requisiti di accessibilità e prevedibilità devono sussistere in riferimento al diritto come vive nella giurisprudenza, così che i mutamenti della norma possono assumere rilievo indipendentemente dal mutamento del testo di legge.
Questa interpretazione del dato normativo convenzionale non può essere messa in discussione dal Giudice interno e, d’altra parte, sottende un principio che non costituisce una novità nel panorama della giurisprudenza europea ( cfr CoEDU, sent. 10/10/2006, Pessino contro Francia; sent. 22/9/95, S.W. contro Regno Unito) tanto da potersi senz’altro definire un principio consolidato.
4.2 Tanto premesso, deve rilevarsi che detto principio ha piena cittadinanza nella giurisprudenza di legittimità anch’essa impegnata a presidiare il principio della certezza applicativa della norma all’interno del nostro ordinamento, sul presupposto che, dietro l’apparenza di semplici dinamiche interpretative della norma incriminatrice, possano nascondersi fenomeni di retroattività in malam partem del “diritto vivente”, che potrebbero rivelarsi più insidiosi di quelli riguardanti il diritto scritto. In particolare le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno più volte ribadito che i valori dell’ accessibilità (accessibility) della norma violata e della prevedibilità (foreseeability) della sanzione, si riferiscono non tanto all'astratta previsione legale quanto alla norma ‘vivente’ quale risulta dall’ interpretazione dei giudici e hanno affermato che, anche nel nostro ordinamento, il principio di legalità convenzionale “non consente che un'applicazione univoca decennale da parte della Corte di cassazione di un principio affermato a garanzia della libertà della persona possa essere messo nel nulla da una difforme interpretazione, anche se plausibile, proprio perché questo risultato interpretativo non è "prevedibile" dall'agente. (S.U. Beschi n. 18288/10, S.U. Gallo n. 29556/14).
Dunque, sotto questo profilo, non è riscontrabile alcun ‘deficit sistemico’ del nostro ordinamento nel quale trova piena cittadinanza la ‘prevedibilità della decisione giudiziaria’, sia pure all’interno di parametri di giudizio che siano compatibili con il nostro ordinamento, saldamente ancorato al principio della riserva di legge e alla concezione tradizionale che attribuisce una valenza meramente dichiarativa all’attività di interpretazione della giurisprudenza, volta esclusivamente ad enucleare il significato della norma. D’altra parte, secondo quanto ribadito dalla sentenza n. 236 del 2011 della Corte Costituzionale, la giurisprudenza europea va applicata con un margine di apprezzamento e di adeguamento che le consenta di tener conto delle peculiarità dell’ordinamento giuridico in cui la norma convenzionale è destinata ad inserirsi. Cosicchè sullo sfondo rimane nitida la diversa valenza che assume il principio della prevedibilità del risultato interpretativo della norma, cui perviene l’elaborazione giurisprudenziale, nella misura in cui contribuisce ad individuare i comportamenti penalmente rilevanti, negli stati di civil law dove non ha cittadinanza il vincolo al precedente, rispetto a quelli di common law dove invece, come è noto, detto vincolo è finalizzato a favorire la stabilizzazione giurisprudenziale.
5.Il binario morto della dicotomia ‘Prevedibilità soggettiva/ oggettiva’
Sotto il diverso versante del paradigma valutativo della ‘ragionevolezza’ della prevedibilità della rilevanza penale di un fatto, emergono invece innegabili punti di frizione tra la sentenza Contrada e il nostro ordinamento, ben evidenziati dall’ordinanza di rimessione.
La Corte europea definisce il concorso esterno in associazione di tipo mafioso, il “risultato di una evoluzione giurisprudenziale” (paragrafo 74), individuando lo spartiacque della ragionevole prevedibilità, in un dato oggettivo, la sentenza Demitry del 1994, prima della quale “il reato non era sufficientemente chiaro e prevedibile”.
L’ordinanza della sesta sezione, per questa ragione, non condivide la “lettura”, della sentenza ‘dell’Utri che, “in chiave prettamente interna del dictum della Corte EDU” ha ancorato “la ragionevole prevedibilità della rilevanza penale di un fatto ad un profilo eminentemente soggettivo, anziché alla qualità della norma da valutarsi oggettivamente», e prospetta, in piena adesione alla impostazione della sentenza Contrada, la terza opzione interpretativa che porterebbe a reputare imprevedibile “qualunque condanna per fatti commessi prima del ‘consolidamento’ della giurisprudenza sfavorevole al reo”.
Si ritiene che la contrapposizione tra prevedibilità in termini oggettivi delle conseguenze sanzionatorie della fattispecie, di matrice europea, e prevedibilità soggettiva ritagliata sulle qualità personali dell’imputato, sia collocata su un binario morto, almeno per tre ordini di argomenti.
In primo luogo, quella che si ritrova nella sentenza Contrada è una nozione di prevedibilità in senso oggettivo che non può ritenersi espressione di giurisprudenza consolidata. Al contrario, in alcune pronunce la Corte valorizza come indice di valutazione della prevedibilità i fisiologici mutamenti socioculturali, tali da giustificare la comune contezza della illiceità della condotta (i c.d. reati naturali, sent. 22/11/’95 S.W. contro Regno Unito), altre volte la tipologia dei destinatari della norma che rende il dubbio sulla liceità della condotta fonte di un dovere di astensione dall’azione o quantomeno di grande prudenza (sent. 1/9/16, X e Y contro Francia).
Tanto basterebbe a rendere la sentenza Contrada, sotto questo specifico motivo, priva della forza espansionistica rivendicata dai ricorrenti.
In secondo luogo, la trasposizione del sistema ‘oggettivo’ di misurazione della prevedibilità della decisione genererebbe inevitabili sofferenze del sistema interno in ordine, quanto meno, alla individuazione del momento in cui possa ritenersi raggiunta la soglia minima della prevedibilità della decisione giudiziaria che, nel caso in esame, è stata individuata dalla CoEDU nell’intervento delle Sezioni Unite. Nel nostro ordinamento, infatti, il Supremo Consesso della Corte di Cassazione non interviene all’improvviso determinando una portata applicativa del precetto del tutto inaspettata e spiazzando i destinatari delle norme in ordine alla loro interpretazione; al contrario, il suo ruolo è quello di presiedere alla “graduale chiarificazione delle norme penali che contribuisce alla evoluzione del diritto penale”, per usare le parole della Corte di Strasburgo, concludendo un dibattito animatosi nelle Sezioni semplici con sentenze da tutti conoscibili. Inoltre, proprio la vicenda Contrada, caratterizzata da interventi delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione successivi a quello del 1994, che hanno ridisegnato, in modo decisivo, i contorni della portata applicativa della fattispecie in esame (si pensi all’abbandono del requisito dello ‘stato di fibrillazione’ dell’associazione mafiosa), dimostra il rischio di una mobilità permanente di detta soglia della prevedibilità.
Per altro verso, non può non convenirsi con la sentenza ‘Dell’Utri’ per cui il concetto di ‘prevedibilità delle conseguenze della propria condotta’ e di ‘conoscibilità del diritto vivente’ ingloba un’insopprimibile dimensione soggettiva dei suoi parametri valutativi tanto che il nostro ordinamento, del tutto coerentemente, sul presupposto che il giudizio di prevedibilità riferito alle conseguenze penali della condotta, non può prescindere dall’elemento psicologico, colloca il rimedio avverso le decisioni giudiziarie imprevedibili sul polo dell’elemento soggettivo, riconoscendo rilevanza all’errore inevitabile dell’imputato sul precetto a norma dell’art. 5 c.p., come rivisitato dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 364 del 1988 che, non si dimentichi, prende le mosse da una vicenda in cui l’imputato aveva ritenuto, in buona fede, sulla base della giurisprudenza maggioritaria del Consiglio di Stato, di poter eseguire alcuni lavori senza licenza edilizia. Con il principio della ‘ignoranza inevitabile’ la Corte Costituzionale fornisce, evidentemente, una sponda al requisito della determinatezza della fattispecie penale, baluardo del principio di legalità di cui all'art. 25 della Costituzione, per cui se su un versante il legislatore deve rendere obiettivamente riconoscibile il perimetro del precetto normativo e l’ambito della sua portata applicativa, sull’altro, il giudice, nell’attività di adeguamento della norma al caso di specie, non può debordare dal limite della prevedibilità, in capo all’imputato, delle conseguenze criminose della sua condotta.
In conclusione, nel caso di specie, il principio di legalità convenzionale si innesta nel nostro ordinamento grazie all’art. 5 del c.p., come rivisitato dalla Corte Costituzionale, la cui giurisprudenza, in piena sintonia con quella della Suprema Corte di Cassazione. (S.U. Beschi n. 18288/10, S.U. Gallo n. 29556/14), garantisce equilibrio al sistema, salvaguardando la specificità della tradizione costituzionale e, al contempo, assicurando piena cittadinanza alla legalità convenzionale.
Soprattutto (terzo argomento), la questione della prevedibilità soggettiva/oggettiva non è rilevante poiché risulta disinnescata a monte dalla considerazione (connessa a quella immediatamente precedente sul ruolo delle Sezioni Unite) che, in un caso o nell’altro, il deficit di legalità accertato dalla CoEDU, nel caso Contrada, si basa su una lettura del nostro ordinamento che non corrisponde effettivamente al nostro ‘diritto vivente’. Il processo di avvicinamento verso la individuazione del ‘deficit sistemico’, del ‘difetto strutturale’ dell’ordinamento si ferma, così, inesorabilmente dinanzi al vaglio della c,d, ‘serialità delle violazioni’. Erroneamente, infatti, la Corte europea ha ricondotto ad una ipotesi di ‘mutamento giurisprudenziale’ la vicenda Contrada che, invece, ha concretizzato non altro che una ipotesi di ‘mutamento interpretativo’, pienamente ammessa dalla stessa Convenzione poiché in piena sintonia con il principio consolidato della prevedibilità giudiziaria.
6.Mutamento interpretativo e mutamento giurisprudenziale
L’ actio finium regundorum risulta inevitabile: il mutamento interpretativo rappresenta un significato possibile e prevedibile attribuito agli enunciati normativi in vigore al momento del fatto senza che possa ravvisarsi alcuna forma di violazione dell’art. 7 della Convenzione in quanto escludere la legalità di una condanna nei casi di incertezza applicativa significherebbe impedire qualunque processo di concretizzazione giurisprudenziale delle disposizioni legislative, in palese contraddizione con l’assunto fondamentale della stessa giurisprudenza europea secondo la quale alla produzione del diritto concorrono i due formanti legislativo e giurisprudenziale.
Anche sotto questo profilo è agevole registrare piena sintonia tra i principi consolidati di matrice europea e quelli interni che informano il ‘mutamento interpretativo’. Quanto meno va evidenziato con nettezza che questi ultimi non sono nel mirino della sentenza Contrada.
Il dovere “d’informazione e di attenzione” sulla norma penale, rientra pacificamente nei parametri valutativi dell’atteggiamento psicologico dell’imputato per cui, non è consentito ritenere, a priori, che un’oscillazione della giurisprudenza giustifichi l’assenza di remora per il cittadino a porre in essere comportamenti che, anche secondo una sola parte della Suprema Corte, sono punibili: “La colpevolezza prevista dagli artt. 42, 43, 47, 59 ecc. c.p. va, pertanto, arricchita, in attuazione dell'art. 27, primo e terzo comma, Cost., fino ad investire, prima ancora del momento della violazione della legge penale nell'ignoranza di quest'ultima, l'atteggiamento psicologico del reo di fronte ai doveri d'informazione o d'attenzione sulle norme penali, doveri che sono alla base della convivenza civile” C.Cost.n. 364/88.
I Giudici di Strasburgo, d’altro canto, quando filtrano la vicenda giudiziaria di Contrada attraverso il setaccio del principio di legalità convenzionale, richiamano una casistica variegata in cui le specifiche vicende sono trasversalmente accomunate da una imprevedibile inversione di rotta della giurisprudenza, rispetto ad un errato orientamento precedente (c.d.overruling correttivo) che nulla ha in comune con il mero contrasto di giurisprudenza, sicchè nel mirino della Corte europea è la violazione del principio dell’affidamento ingenerato da una giurisprudenza costante poi smentita all’improvviso.
Pertanto, se la vicenda Contrada - in cui l’oscillazione della Corte di Cassazione ebbe ad oggetto la configurazione giuridica di tutte quelle condotte di contiguità alla mafia siciliana poste in essere da esponenti del mondo istituzionale e ricondotte sotto l’ombrello della fattispecie associativa attraverso l’applicazione del meccanismo estensivo, di parte generale, del concorso di persone - si fosse spiegata interamente nell’alveo del mutamento interpretativo, non vi sarebbe stata violazione del principio di legalità che, proprio così come interpretato dalla CoEDU, contrasta le sole ipotesi di giurisprudenza costante poi smentita all’improvviso da una retroattiva interpretazione normativa in malam partem.
Occorre, allora, rompere gli indugi ed entrare senza remore (finalmente) in medias res in quanto la risposta al quesito posto dalla sesta sezione passa attraverso una riflessione che consenta - attraverso la rivisitazione della giurisprudenza che ha preceduto la sentenza Dimitry del 1994 e che ha costituito il panorama entro il quale sono state poste in essere le condotte del Contrada come dei suoi fratelli minori - di rispondere alla domanda se la rilevanza penale della condotta del Contrada e dei suoi fratelli minori poteva ritenersi, o meno, incerta per via delle oscillanti, contraddittorie, ambigue ricostruzioni della giurisprudenza, in ordine al significato della lettera dell’art. 416 bis. c.p., se, cioè, la lettura del nostro ordinamento che la CoEDU ha effettuato nel caso di specie, corrisponde effettivamente al nostro ‘diritto vivente’ oppure, al contrario, se la Corte europea ha errato nella lettura del nostro ordinamento riconducendo un semplice mutamento interpretativo a un mutamento della legge applicabile.
7. Mutamento interpretativo e rispetto del principio di prevedibilità nella vicenda Contrada
7.1 Il presupposto da cui prende le mosse la sentenza della Corte EDU è costituito da “una sentenza di condanna pronunciata nei confronti del Contrada .. basata su una giurisprudenza consolidatasi in malam partem successivamente ai fatti ascritti..” (cfr ordinanza di rimessione). Come si è detto, questa affermazione necessita di una verifica funditus, per cui, dopo avere riavvolto sinteticamente il nastro, occorre verificare se sia possibile formulare ipotesi di qualificazione alternativa della condotta del Contrada (e, per quanto interessa in questa sede, dei suoi fratelli minori) che fossero, al momento della commissione dei fatti, ragionevolmente prevedibili rispetto a quella per cui è seguita la condanna.
L’indagine, avente ad oggetto il panorama normativo ma anche giurisprudenziale coevo al decennio in cui sono stati commessi i fatti ascritti al Contrada (1979- 1988), appare, evidentemente, conseguenziale alla stessa pronuncia della CoEDU che si è fermata sulla soglia dell’affermazione del principio violato, limitandosi a ricostruire la cronologia dei diversi orientamenti giurisprudenziali nazionali senza valutare direttamente le disposizioni interne e il loro ambito di applicazione, versante, quest’ultimo, che costituisce prerogativa del Giudice nazionale.
7.2 Per la CoEDU, dunque, Contrada “non poteva conoscere nella fattispecie la pena in cui incorreva per la responsabilità penale derivante dagli atti da lui compiuti”.
Orbene, “gli atti compiuti” dal Contrada, non sono controversi e possono essere ricavati dalla sentenza di condanna secondo cui l’imputato contribuì “all’attività ed alla realizzazione degli scopi criminali dell’associazione mafiosa denominata ’cosa nostra’, in particolare fornendo ad esponenti della Commissione provinciale di Palermo notizie riservate riguardanti indagini e operazioni di polizia”.
Nonostante la questione della possibilità di applicare il meccanismo estensivo di cui all’art. 110 c.p. alle fattispecie plurisoggettive di associazione fosse sul tappeto sin dagli anni 70, la Corte europea concentra la sua attenzione su alcune sentenze della Cassazione che avrebbero “contestato l’esistenza di un tale reato”: la sentenza Cillari, n. 8092 del 14/7/87, e quelle, successive, Agostani, n. 8864 del 27/6/89 e Abbate e Clementi, nn. 2342 e 2348 del 27/6/94.
Di queste, l’unica sentenza coeva ai fatti ascritti al Contrada è la sentenza Cillari che, per questa ragione, assume un peso specifico decisivo nell’economia dell’intera motivazione della sentenza della CoEDU, in quanto, evidentemente, le sentenze rappresentative della tesi negazionista intervenute in epoca successiva ai fatti commessi dal Contrada e dallo stesso Genco (sentenze ‘Clementi’ e ‘Della Corte’ rispettivamente di maggio e di giugno del 1994), non possono essere prese in considerazione.
La sentenza Cillari, però, a ben vedere, “contesta” la fattispecie del concorso esterno in associazione mafiosa non sul presupposto della irrilevanza penale della relativa condotta ma, più semplicemente, ritenendo che: “La cosiddetta "partecipazione esterna", che ai sensi dell'articolo 110 cod. pen. renderebbe responsabile colui che pur non essendo formalmente entrato a far parte di una consorteria mafiosa abbia tuttavia prestato al sodalizio un proprio ed adeguato contributo con la consapevole volontà di operare perché lo stesso realizzasse i suoi scopi, si risolve, in realtà, nel fatto tipico della partecipazione punibile, la quale deve ritenersi integrata da ogni contributo apprezzabile effettivamente apportato alla vita dell'ente ed in vista del perseguimento dei suoi scopi, mediante una fattiva e consapevole condivisione della logica di intimidazione e di dipendenza personale propria del gruppo e nella consapevolezza del nesso causale del contributo stesso.”
Secondo la sentenza, cioè, il parametro valutativo della ‘partecipazione’, elemento costitutivo della fattispecie associativa, è affidato solo al contributo causale e non può essere limitato dal dato formale dell’inserimento nella struttura organizzativa della compagine criminale. Pertanto la condotta di partecipazione – intesa nel senso di ‘svolgimento di un ruolo’ all’interno dell’organizzazione e non di un mero ‘ far parte’ dell’associazione che renderebbe logicamente incompatibile un contributo causale del concorrente - può essere anche quella dell’extraneus, di colui, cioè, che non sia formalmente inserito nell’organigramma associativo, a condizione che sia obiettivamente rilevante, sotto il profilo causale, ai fini del perseguimento degli scopi dell’associazione. Altri stralci delle sentenze rappresentative della tesi negazionista confermano questa traiettoria interpretativa: il concorrente “eventuale” « non soltanto deve realizzare una condotta […] o, quanto meno, deve contribuire con il suo comportamento alla realizzazione della medesima, ma pur anche deve agire con la volontaria consapevolezza che detta sua azione contribuisce all’ulteriore realizzazione degli scopi della societas sceleris: il che, di tutta evidenza, non differisce dagli elementi - soggettivo ed oggettivo - caratterizzanti la “partecipazione”» sez. I, 18 maggio 1994, n. 2348, Clementi.
Per converso, nelle sentenze rappresentative della tesi possibilista, in relazione alla condotta dell’extraneus, non è mai stato messo in discussione che è necessario « che tale apporto, valutato ex ante, e in relazione alla dimensione lesiva del fatto ed alla complessità della fattispecie, sia idoneo se non al potenziamento almeno al consolidamento ed al mantenimento dell’organizzazione criminosa » (Cass. pen., sez. I, 13 giugno 1987, n. 3492, Altivalle, cit.). Nella stessa pronuncia i Supremi Giudici hanno sottolineato che « il concorso non sussiste quando il contributo è dato ai singoli associati, ovvero ha ad oggetto specifiche imprese criminose e l’agente persegua fini suoi propri, in una posizione di assoluta indifferenza rispetto alle finalità proprie dell’associazione ».
Evidentemente, i due diversi approcci culturali alla questione dell’ammissibilità del concorso di persone ex art. 110 c.p. per le fattispecie associative hanno generato un confronto all’interno della giurisprudenza (per altro animatosi solo in epoca successiva a quella della commissione dei fatti da parte del Contrada) in cui, però, la condotta causalmente orientata al perseguimento degli scopi associativi, non è mai stata collocata al di fuori dell’ alternativa, di pari trattamento sanzionatorio, partecipazione/ concorso esterno.
7.3 Pertanto, rispetto alla giurisprudenza rappresentata dalla sentenza Cillari, l’orientamento opposto che, riconoscendo cittadinanza nel nostro ordinamento al concorso esterno in associazione mafiosa, ha costituito, con la sentenza Demitry del 1994, il punto di approdo della elaborazione giurisprudenziale, non può definirsi ‘in malam partem’ (se non in senso lato). Anzi, dopo l’abbrivio della sentenza Demitry, la giurisprudenza delle Sezioni Unite, proseguendo l’elaborazione garantista del concorso esterno, al fine di scongiurare possibili approcci ‘morbidi’ alla valutazione dell’apporto causale del contributo, cui, in astratto, potrebbe prestarsi lo schema concorsuale, ha richiesto una verifica con giudizio ex post della efficacia causale della condotta del concorrente, secondo il modello della condicio sine qua non adottato dalla sentenza Franzese per i reati colposi ad evento naturalistico (Sez. U. Mannino, n. 33784/05).
Insomma, se lo schema giuridico del concorso esterno in reato associativo - che pure si affacciava, all’epoca dei fatti in esame, nel panorama del diritto giurisprudenziale vivente, anche grazie a pronunce di merito di particolare portata come quella del c.d. maxiprocesso dell’8/11/1985, Abbate Giovanni + 706 - è stato ritenuto non sufficientemente chiaro e prevedibile per Contrada, non rimane che incanalare “gli atti compiuti” dal Contrada nell’unica categoria giuridica alternativa possibile che è quella della partecipazione associativa piena. Lo stato d’incertezza generato dalla giurisprudenza e censurato dalla CoEDU atteneva alla collocazione delle condotte di contiguità alla mafia siciliana all’interno o all’esterno del perimetro della partecipazione e non, certo, alla loro riconducibilità nell’ambito della categoria della fattispecie associativa.
La lettura di altri stralci della motivazione della sentenza rappresentativa della tesi negazionista, la sentenza Cillari della prima sezione della Cassazione, sopra indicata, ne fornisce una formidabile conferma.
A pg. 7 della sentenza, infatti, la Prima sezione, ritiene “irrilevante ai fini della decisione” la fondatezza della censura mossa dai ricorrenti alla sentenza della Corte di Appello in punto di ammissibilità del “concorso eventuale nella realizzazione del reato de quo”. “Cio che ha rilevanza” prosegue la Corte, “è che il contributo cosciente apportato dal singolo si innesti nella struttura dell’associazione ed in vista del perseguimento della sua finalità, divenuta così, causa comune (civilisticamente intesa) dell’agire suo e dell’ente”.
In altri termini la prima sezione esclude la possibilità (invocata dai ricorrenti) di veicolare le condotte contestate verso il reato di favoreggiamento, per il sol fatto che la Corte di Appello aveva erroneamente ipotizzato il concorso esterno. Sicchè, prosegue la Corte, “si impone l’esame ..della posizione di ciascun ricorrente”, all’esito della quale il Giudice di legittimità perviene alla sua decisione di annullare con rinvio la sentenza della Corte di Appello, con riferimento ad alcuni dei ricorrenti, non perché le loro condotte erano state sussunte nella fattispecie concorsuale ma perchè difettava “il contributo cosciente”
7.4 Non solo allora, rimane impraticabile la via, mai ipotizzata da alcuna pronuncia della Cassazione, della irrilevanza penale delle condotte di Contrada come di coloro che sono stati condannati per concorso in associazione mafiosa, prima del 1994 (deve condividersi sul punto la sentenza Dell’Utri), ma anche l’alternativa di una qualificazione giuridica, in termini di favoreggiamento personale o, comunque, in termini diversi da quelli associativi.
Il punto è cruciale: configurare per il ‘fratello minore’ Genco, ma anche per lo stesso Contrada, la fattispecie del favoreggiamento, significherebbe, infatti, rimettere in gioco l’accertamento in concerto dei fatti - definitivamente cristallizzato dalle sentenze della Cassazione che definirono la vicenda processuale della cognizione - con una inconcepibile oltre che inammissibile rivisitazione delle condotte, involgendo un ambito della questione che rimane estraneo a questo giudizio come a quello della Cedu.
I Giudici interni nel caso Contrada come nel caso Genco avevano escluso, cognita causa, la configurabilità del reato di favoreggiamento personale con una valutazione in concreto della vicenda che, nel caso Contrada, non poteva essere (e non è stata) messa in discussione dalla CoEDU. Così come la dinamica degli eventi ascritti al Contrada, ha indotto il Giudice interno ad escludere che “gli atti compiuti” dal Contrada, finalizzati “alla realizzazione degli scopi criminali dell’associazione mafiosa denominata ’cosa nostra’”, fossero di natura saltuaria od episodica o comunque avessero caratteristiche tali da poter retrocedere verso la categoria del favoreggiamento personale di cui all’art. 378 c.p., allo stesso modo per Genco le condotte di “agevolazione di affari illeciti in favore di personaggi mafiosi” hanno indotto i Giudici della cognizione ad escludere che fossero configurabili fattispecie diverse da quella associativa.
In altri termini, deve escludersi che la sentenza Demitry abbia eroso l’ambito applicativo della fattispecie del favoreggiamento personale o di altre fattispecie limitrofe a vantaggio della fattispecie di concorso esterno, collocando alcune condotte che in precedenza erano qualificate diversamente, nel cono proiettivo della fattispecie concorsuale. Deve escludersi, cioè, che prima della sentenza Demitry vi fosse un dubbio interpretativo in ordine al contenuto negativo del contributo causale del partecipe come del concorrente esterno, in quanto in entrambi gli orientamenti rivisitati dalla sentenza Demitry, non sono mai state messe in discussione le condotte esterne al perimetro dell’area di punibilità della fattispecie associativa ( contributo dato per la commissione dei singoli delitti scopo o alle persone dei singoli associati, fenomeni di fiancheggiamento verso uno o più associati per motivi individuali e non per arrecare un contributo alla vita del consorzio criminale, ecc.) né il fine della tesi possibilista, condivisa dalle Sezioni Unite, è mai stato quello di introdurre all’interno di questo perimetro dette condotte.
Pertanto deve concludersi che l’operato dei Giudici interni ha determinato un assetto interpretativo della norma pienamente prevedibile o, quanto meno, non ha prodotto alcun effetto pregiudizievole per il Contrada come per Genco come per gli altri fratelli minori per i quali, alla luce delle considerazioni svolte, se non esistevano le condizioni per ritenere prevedibile che la loro condotta fosse qualificata in termini di concorso esterno, certamente esistevano le condizioni per ritenere prevedibile una decisione giudiziaria di condanna per il reato di partecipazione in reato associativo mafioso, condanna che, rispetto a quella subita, non avrebbe avuto connotazioni meno afflittive.
Conclusioni: rigetto del ricorso.
di Fabio Squillaci
Sommario: 1. Premessa – 2. Il “pacchetto corruzione”: i nuovi volti della pena – 3. Conclusioni
1.Premessa
Il dettato costituzionale secondo cui le pene devono tendere alla rieducazione del condannato (art. 27, III comma Cost.) rappresenta il fulcro del lavoro che segue. Questo è il presupposto essenziale e irrinunciabile da cui si deve muovere quando si parla di pene e delle loro funzioni. Tuttavia, specie gli ultimi decenni del secolo scorso sono stati segnati – come è noto – da un notevole aumento della popolazione presente negli istituti di pena e la drammatica situazione carceraria ha suscitato “interesse” anche nei confronti della la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che ha condannato il nostro ordinamento per violazione dell’articolo 3 della Convenzione. È proprio attraverso la riduzione della popolazione ristretta, invero, che si creano i presupposti affinché quella funzione risocializzante possa essere davvero perseguita all’interno degli istituti penitenziari, in cui devono essere necessariamente garantiti e tutelati i diritti dei detenuti. È fuori discussione, del resto, che una detenzione disumana perde gli stessi connotati assegnati dalla Costituzione al trattamento sanzionatorio penale e, primo tra tutti, la sua attitudine rieducativa, coerentemente a quella che è la lettura data dalla Corte circa l’interpretazione dell’articolo 27, terzo comma della Costituzione.
Storicamente, facendo riferimento a una formulazione risalente a Seneca, si possono individuare due diverse concezioni del senso della pena. Da un lato vi sono quelle dottrine che giustificano la pena in base al concetto di quia peccatum est, con uno sguardo rivolto esclusivamente al passato; dall’altro, vi sono le dottrine che giustificano la pena in base al ne peccetur, guardando al futuro, focalizzandosi sullo scopo, sul miglioramento che può derivare dalla pena. Avendo puntualizzato tale discrepanza tra le due scuole di pensiero, possiamo affermare che il primo gruppo è formato essenzialmente da una sola dottrina, la teoria assoluta o retributiva della pena; e il secondo gruppo è composto da varie dottrine, che sono riconducibili ad almeno tre orientamenti: la teoria della prevenzione, dell’emenda e della difesa sociale.
Il Codice Rocco è riuscito, nell’ambito del sistema sanzionatorio, a fondere le idee della Scuola Classica e della Scuola Positiva, e su questo punto si è sostanziato, a lungo, il connotato dell’originalità dell’impianto sanzionatorio codicistico, noto comunemente con l’espressione di “doppio binario”. Un termine sintetico con la quale si richiama il profilo di coesistenza della pena e della misura di sicurezza. Si tratta, in entrambi i casi, di sanzioni penali che vengono connotate da diversi indici distintivi: infatti, la pena è commisurata alla gravità del reato commesso e la sua funzione è quella di essere la sanzione per il reo in relazione all’avvenuta commissione di un fatto, previsto dalla legge come reato. La misura di sicurezza, invece, non è ricollegata alla commissione del fatto delittuoso, ma al diverso profilo della pericolosità sociale dell’agente, la quale si rinviene nella probabilità, e non nella mera possibilità, della commissione, da parte di quello stesso soggetto, di ulteriori reati. Vengono, quindi, introdotte le misure di sicurezza per ragioni di carattere politico, volendo sanzionare anche circostanze non riconducibili alla commissione di un delitto tout court, ma che richiedevano un controllo da parte dell’autorità istituzionale, come afferma Rocco nella Relazione di accompagnamento al codice del 1930: “La necessità di costituire un sistema di rigida difesa sociale, sistema reclamato dalla mutata coscienza nazionale che ha bisogno dell’impiego di mezzi che assicurino in maniera decisa ed energica la prevalenza degli interessi generali sugli interessi particolari ovvero la subordinazione della parte al tutto per una necessità ferrea di comune disciplina”. Il sistema del doppio binario si rivelò, nei fatti, contraddittorio ed incongruente a causa della sua natura eccessivamente compromissoria. La dottrina vi ritrovò una pesante contraddizione teorica, dovuta al fatto che il sistema così licenziato suppone una concezione dell’uomo come “diviso in due parti”: una parte libera e responsabile, quindi, assoggettabile a pena; e una parte, determinata e pericolosa, assoggettabile a misura di sicurezza.
2.Il “pacchetto corruzione”: i nuovi volti della pena.
Scandita la premessa è opportuno muovere verso lidi più consoni al vero punto focale del lavoro, ovverosia le novità sanzionatorie in tema di delitti contro la P.A. Si fa riferimento al nuovo volto “punitivo” assunto dalla normativa vigente sempre più lontano da schemi repressivi tradizionali ed aperto, finalmente, ad una commistione tra modelli, influenzato forse da quella cultura europeista che considera la “pena” come un unicum pur se pregno di sfumature. La legislazione emergenziale degli ultimi anni in tema di corruzione permette di cogliere a pieno l’itinerario di viaggio del legislatore. Dopo la legge “Severino” legge n. 190/2012 e la legge n. 69/2015, è sopraggiunta il 9 gennaio scorso la legge n. 3/2019, recante «Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza e movimenti politici». Ad innescare il trend di profonda rivisitazione delle discipline anticorruzione è stata la legge n. 190/2012 che ha rappresentato un reale spartiacque nelle strategie di contrasto ai fenomeni corruttivi. La prima ha seguito lo schema dell’espansione del diritto penale: nuovi reati, fattispecie più ampie, pene più severe; da un altro versante, il legislatore del 2012 ha infranto, mediante lo sdoppiamento della fattispecie di concussione e la creazione del nuovo delitto di cui all’art. 319-quater c.p., un tabù che appariva sino a quel momento inviolabile: l’impunità, in qualità di vittima-concusso, del privato “indotto” ad un pagamento indebito dall’abuso del pubblico agente. La successiva legge n. 69/2015 si è limitata a razionalizzare il materiale normativo eliminando qualche incongruenza normativa. In aggiunta, la penna del legislatore ha ulteriormente arricchito il corpus degli strumenti anticorruzione, mediante l’innesto nel codice penale della riparazione pecuniaria di cui all’art. 322-quater e l’attenuante della collaborazione processuale, collocata nel nuovo comma 2 dell’art. 323-bis. Questo programma politico-criminale trova ora la sua definitiva affermazione mediante la l. n. 3/2019, battezzata dalla critica legge “Spazzacorrotti”. Sarebbe dunque riduttivo presentare quest’ultimo prodotto della penna legislativa un “accidente” della storia, giacché esso rappresenta piuttosto la chiusura di un cerchio legislativo iniziato poco più di un lustro fa. In secondo luogo, il robusto aumento delle pene comminate per i predetti reati, risponde a esigenze pragmatiche che spaziano da profili filosofici ad aspetti pratici: ad esempio nell’innalzamento dei minimi edittali si cela la voluntas legislatoris di rendere più difficile la sospensione condizionale della pena e l’accesso alle misure alternative alla detenzione, i cui spazi operativi peraltro sono stati via via compressi pure attraverso manipolazioni dirette delle relative norme. Ovviamente, questa escalation punitiva sottende l’idea, tutt’altro che fondata, che basti inasprire la minaccia edittale e incrementare i tassi di carcerazione per ottenere un corrispondente effetto dissuasivo. Sembra che il legislatore abbia accolto gli approdi dell’AED che ricollega l’effetto di deterrenza al paradigma della convenienza economica degli attori in campo, tanto in chiave di svantaggio per il reo, quanto in chiave di costi di per il soggetto pubblico inquisitore. In tal senso viene svilito il postulato di Beccaria secondo cui la probabilità di condanna è più importante del malum passionis minacciato. Certo, l’assoluta “certezza del castigo”, a cui anelava il padre del diritto penale moderno, appare oramai un’utopia, tanto più che molti studi ormai attestano come conti più che l’oggettiva probabilità della pena la sua percezione psicologica, vale a dire la probabilità attesa.
Oltre alla già riscontrata dilatazione delle fattispecie incriminatrici, all’introduzione di nuovi tipi penali e all’aumento smisurato delle pene edittali, ci sembra paradigmatica l’evoluzione conosciuta dall’immane apparato degli strumenti di abbattimento dei patrimoni illecitamente acquisiti. Un primo ambito di “contaminazione” ha riguardato il sistema delle misure di prevenzione patrimoniale: una regione ai confini del diritto penale, dilatatasi grandemente negli ultimi anni, ben oltre l’originaria sfera dell’antimafia (cfr. la legge “Rognoni-La Torre” n. 646/1982). Sennonché, al di là delle etichette formali, è arduo distinguere dal diritto penale in senso stretto (soprattutto) le misure patrimoniali, essendo queste protese più che al contenimento di una pericolosità soggettiva (dell’indiziato di reati) alla salvaguardia del sistema economico da intorbimenti criminosi.
Le novità su cui intendiamo soffermarci è la nuova sanzione della “riparazione pecuniaria” introdotta all’art. 322 quater c.p. Tale istituto, introdotto nel 2015, e la cui disciplina ora è stata ulteriormente rafforzata, completa quell’effetto “moltiplicatore” della risposta sanzionatoria che in un clima emergenziale si è voluto attribuire ai reati contro la p.a. in difetto di qualsivoglia ragionamento di sistema.
Innanzitutto, l’art. 322 quater c.p. delinea una forma di riparazione coattiva, di tipo non risarcitorio (restando difatti impregiudicato il risarcimento dei danni), non affidata all’iniziativa volontaria del reo e neppure subordinata ad un’espressa richiesta della persona offesa. Inoltre, la quantificazione dell’ammontare dovuto a titolo compensativo non è rimessa all’apprezzamento del giudice né commisurata ai pregiudizi complessivamente subiti dall’amministrazione di appartenenza, ma forfettariamente calibrata sui proventi materiali indebitamente ricevuti. Tali peculiarità rendono la misura del tutto inedita nel nostro sistema penale. Di certo, essa ha assai poco a che spartire con l’idea della riparazione del danno: nel caso di specie, la restituzione coattiva dell’indebito costituisce una sanzione patrimoniale che si aggiunge alla reclusione, operando contestualmente e indipendentemente da questa, anche in sede esecutiva. Va, inoltre, osservato che nonostante il nomen iuris (“riparazione pecuniaria”), l’istituto adombra una vocazione funzionale non solo compensatoria, ma anche (e soprattutto) punitivo-deterrente. In particolare, essa solleva seri problemi di coordinamento e sovrapposizione con l’istituto della confisca del prezzo o profitto del reato ex art. 322-ter c.p. Per queste ragioni, un’irrogazione cumulativa comporterebbe una violazione del ne bis in idem sanzionatorio e del principio di proporzione (art. 3 Cost.), anche per come delineato dai casi Grande Stevens c. Italia et similia, scongiurabile solo attraverso un’interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente (CEDU) orientata. Di fatto, e prescindendo dalle differenze nominalistiche, la somma delle due misure darebbe luogo ad una pena patrimoniale, formalmente inespressa, quantificata nel doppio del vantaggio illecito.
Con riferimento ai reati di corruzione la nuova misura non colpisce anche il privato corruttore, posto il mancato richiamo all’art. 321 c.p.: la norma fa riferimento a quanto ricevuto dal pubblico agente e non anche al vantaggio tratto dal privato e tale circostanza dovrebbe determinare la non applicabilità del nuovo istituto nei confronti del “privato indotto” e nei confronti del “privato corruttore internazionale”. La logica repressiva riformatrice non si esaurisce nell’innalzamento delle pene principali: il vero punctum dolens sono infatti le pene accessorie applicabili alle persone fisiche per i principali delitti contro la p.a. Le apportate modifiche normative, da un lato, tendono ad allungarne la durata e, dall’altro, a presidiarne l’effettività in caso di sospensione condizionale, patteggiamento o a seguito di riabilitazione del condannato. Analogo disegno è stato replicato nei riguardi dei soggetti collettivi, come emerge dall’inasprimento delle sanzioni interdittive irrogabili ai sensi del d.lgs. n. 231/2001. La ricerca di una severità “oltranzistica” dell’apparato punitivo ha raggiunto risultati per certi versi aberranti con l’estensione ai corrotti e ai corruttori del regime carcerario differenziato preveduto dall’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario, il tutto in uno scenario appena scosso dalla pronuncia dei giudici di Strasburgo. Inoltre, sono cresciuti sia i casi di interdizione accessoria perpetua sia la durata della corrispondente misura temporanee. Il rigore repressivo è per giunta amplificato dall’attuale innalzamento edittale concernente la maggior parte dei delitti contro la p.a., che riduce sensibilmente le chances di condanna a una pena detentiva inferiore a 2 anni. Se l’innesto dell’induzione indebita del pubblico agente sana una stortura della riforma del 2012, l’inclusione della corruzione per l’esercizio delle funzioni e soprattutto del traffico di influenze illecite suscita non poche perplessità dall’angolazione della proporzione. Tale severità riverbera i suoi effetti anche sulla fase cautelare del procedimento, giacché la novella del 2019 ha altresì introdotto il divieto di contrattare con la pubblica amministrazione quale ulteriore misura interdittiva applicabile prima della condanna, senza necessità di attenersi ai limiti di pena previsti dall’art. 287, comma 1, c.p.p. (nuovo art. 289-bis c.p.p.). Il legislatore, in secondo luogo, ha inteso enfatizzare la capacità afflittiva delle pene accessorie pure in caso di sospensione condizionale della pena e, sul piano processuale, di applicazione della pena su richiesta delle parti. La stessa logica si riverbera sull’istituto del patteggiamento nonché quelli dell’affidamento in prova al servizio sociale e della riabilitazione. Il nuovo comma 1-ter dell’art. 445 c.p.p. affida al giudice la scelta se applicare le pene previste dall’art. 317-bis c.p. anche nei casi di condanna a pena detentiva che non superi i 2 anni soli o congiunti a pena pecuniaria. Quanto all’affidamento in prova, l’esito positivo della misura estingue gli effetti penali della condanna ad esclusione delle pene accessorie perpetue, mentre, l’istituto della riabilitazione, si è detto, «non produce effetti» sulle pene accessorie perpetue.
3.Conclusioni In definitiva gli ultimi approdi sanzionatori nell’ambito dei reati contro la p.a. rivelano una pericolosa incapacità selettiva del legislatore che, influenzato dalle “emozioni di repressioni esemplari”, ha congeniato un sistema bizzarro che presta il fianco ad innumerevoli censure e rischia di essere colpito dalla scure della Corte Costituzionale e della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. L’inasprimento delle comminatorie edittali cela una volontà di sterilizzare gli istituti premiali per alcune categorie di reati, evidenziando il serio rischio di concepire la pena detentiva quale misura fisiologica per i reati commessi dai white collars. Per altro verso lo snaturamento delle pene accessorie che, perduta la loro caratura di automatismo sanzionatorio e lasciati nella disponibilità decisionale del giudicante, diventano da predicato della pena una seconda pena, radicano nel sistema ordinamentale nuove ipotesi di contrasto con il principio del ne bis in idem sostanziale. Da ultimo la misura introdotta dall’art. 322 quater c.p., lasciando intatte le perplessità di cui si è detto, potrebbe rappresentare un principio di rinnovamento della logica punitiva attraverso l’affermazione di una seriazione di reati (ad esempio quelli contro la p.a.) per i quali la risposta detentiva non può essere l’unica concepibile e percorribile. In altri termini, in chiave futuristica, l’istituto de quo è un germe per inaugurare una nuova stagione punitiva in cui il diritto penale qualifichi la sanzione pecuniaria quale unico strumento più idoneo a realizzare quegli obiettivi di prevenzione, punizione ed emenda che sono posti a fondamento dell’art. 27 della
di Filippo Ruggiero
Tra le diverse narrazioni che ha avuto, nei diversi ambiti giudiziario, storico, e artistico letterario, Piazza Fontana al cinema è soprattutto Romanzo di una strage (Marco Tullio Giordana, 2012). A 50 anni dal 12 dicembre del 1969, le riflessioni ancora oggi si concentrano sulla scena di allora, che ha marcato indelebilmente la storia recente italiana. Come del resto suggerito dal titolo, a guardare gli eventi di allora attraverso il cinema si guarda un romanzo, efficace ed ancora attuale. In due ore di narrazione sono concentrate tante pillole di fatti, necessari alla contestualizzazione; sullo sfondo dell’autunno caldo si intrecciano le vite spezzate di semplici comparse della storia, come Annarumma, e l’intimità dell’ambiente familiare e domestico di un protagonista, come il commissario Calabresi (Valerio Mastandrea) e la moglie Gemma (Laura Chiatti); una società civile in fermento in relazione alla quale, tra i vari, lo sguardo si sofferma da una parte sulla figura di Pinelli (Pierfrancesco Favino), visto come padre nelle sue due diverse famiglie, e dall’altra su quelle di altri attori che hanno giocato il ruolo dei soldati, su un palcoscenico diretto da chi, dietro la scena, cercava di guidare a sé gli eventi. In questo contesto, un venerdì pomeriggio, in una banca allora colma di gente in piena attività di contrattazione, un orologio segna le 16.37 e una deflagrazione attesa si materializza agli occhi dello spettatore. Si può sentire lo stordimento di chi accorre sulla scena; si può vedere la reazione commossa della città, nelle scene di repertorio dei funerali sullo sfondo della musica di Mozart. La storia è storia, ed è nota. Al romanzo sono concesse licenze. Così è concessa la costruzione di un rapporto personale pacificante tra due protagonisti come Pinelli e Calabresi; è concesso prendere una posizione anche solo parziale sui fatti che seguirono la strage, la morte di un uomo che si trovava nelle mani di rappresentanti dello Stato; così come è concessa la libera ispirazione sul racconto dell’ultimo cambio di cravatta della vita del commissario Calabresi (stando al racconto che ne fu poi fatto dalla moglie). Ma al di là delle licenze, il romanziere vuole mostrare il crinale che la democrazia italiana ha attraversato in quel periodo. Perché in situazioni di incertezza, gli italiani seguono le voci sicure; perché in situazioni di incertezza si assiste al muoversi di spinte autoritarie; perché le tendenze della società civile, inoltre, possono orientarsi sulla base di fake news ante litteram, costruite ad arte, fatte diffondere allo scopo e che diventano verità. Il romanziere, alla fine del racconto, non crede che sia stata fatta giustizia per i fatti di allora; crede, anzi, che si sia preferita un’opera di rimozione, lasciando che fosse il tempo a lenire la ferita di morti innocenti. Ma ciononostante, non è la delusione il sentimento prevalente e il romanzo è caratterizzato da una tensione positiva; a fronte delle tentazioni autoritarie, una democrazia giovane – come quella italiana di allora e di oggi – è una conquista che si deve preservare e custodire con premura, attraverso il necessario impegno di tutti i suoi attori: sapienti uomini delle istituzioni, pronti a non assecondare tali impulsi; uno Stato composito, dove giostrano servizi oscuri e personaggi stravaganti come il questore Guida, ma anche persone come lo stesso commissario Calabresi o il magistrato Paolillo; una vedova, rappresentante della società civile che, nonostante tutto, trova in questi interlocutori la conferma alla propria fiducia nella giustizia. È grazie all’impegno di uomini come loro, a vario titolo, che il pericolo può essere evitato.
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