ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
L’adozione di maggiorenni e la tutela dei legami familiari di fatto. (Nota a Corte di Cassazione 3/04/2020, n. 7667 e a Corte d’appello di Roma 5/06/2020 n. 2637)
di Maria Giulia D’Ettore e Rita Russo
Sommario: 1. L’adozione di maggiorenne: l’evoluzione dell’istituto - 2. I recenti interventi della Corte di cassazione e della Corte d’appello di Roma - 3. Il giudice nazionale e la interpretazione dei testi normativi alla luce della Costituzione e della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo - 4. Considerazioni conclusive.
1. L’adozione di maggiorenne: l’evoluzione dell’istituto
Nel solco di una giurisprudenza nazionale e sovranazionale che intende dare risposta ad istanze di tutela della vita privata e familiare, in linea con un evidente mutamento della società civile ed un sempre crescente numero di nuclei familiari “allargati”, due recenti pronunce della Corte d’appello e della Corte di Cassazione ridisegnano i confini dell’istituto dell’adozione dei maggiorenni.
La tradizionale qualificazione in senso decisamente patrimoniale dell’adozione dei maggiorenni, concepita, nell’impianto del codice, quale strumento per dare un discendente, e quindi un erede, a chi, al contrario, non ne aveva, cede il passo ad esigenze solidaristiche ed alla necessità di dare veste giuridica a legami familiari nuovi, altrimenti non regolarizzabili [1].
Da istituto volto a realizzare non tanto l’interesse economico e morale dell’adottando, quanto quello dell’adottante alla perpetuazione della discendenza, in assenza di una filiazione biologica, l’adozione di maggiorenne diviene uno strumento di consolidamento di relazioni affettive familiari di fatto, consolidatesi nel tempo, anche per il tramite di un’interpretazione estensiva dell’art. 291 c.c.
Nella sua formulazione letterale, l’art 291 c.c. consente l’adozione di maggiorenni alle persone che non abbiano discendenti legittimi (o legittimati[2]), che abbiano compiuto gli anni trentacinque e che superino di almeno di diciotto anni l’età di coloro che essi intendono adottare.
In presenza delle condizioni di legge, l’adozione di maggiorenni, a differenza di quanto previsto per le forme di adozione dei minori, non determina l’insorgere di un rapporto civile tra l’adottante e la famiglia dell’adottato, né tra adottato e parenti dell’adottante[3] e non interrompe il legame tra l’adottato e la propria famiglia d’origine, nei confronti della quale l’adottato conserva tutti i diritti e gli obblighi.
L’adottato, oltre ad assumerne il cognome che si antepone al proprio, acquista poi i diritti successori di figlio nei confronti dell’adottante, secondo quanto previsto dal libro II del codice civile, mentre l’adottante non acquista alcun diritto successorio nei confronti dell’adottato.
Sebbene all’adozione non consegua alcun obbligo di mantenimento, l’adottante e l’adottato sono reciprocamente tenuti alla prestazione alimentare.
In questo quadro normativo si è assistito, nel tempo, ad una vera e propria riscrittura dell’art 291 c.c. e ad un progressivo ampliamento delle ipotesi concrete in cui, secondo la giurisprudenza, è consentita l’adozione di maggiorenne, con tutto ciò che ne consegue quanto a reciproci diritti ed obblighi delle parti.
Dapprima, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’art 291 c.c. nella parte in cui non consente l’adozione di un maggiorenne anche da parte di chi abbia figli legittimi o legittimati maggiorenni e consenzienti all’adozione, ritenendo dunque non ostativa all’adozione l’esistenza di figli, in presenza dell’ulteriore requisito, non previsto dalla legge, del consenso di costoro[4].
In seguito, la Corte Costituzionale ha ulteriormente temperato il divieto di adozione, ritenendo non ostativa la presenza di figli maggiorenni interdetti, dei quali non sia possibile acquisire il consenso[5].
Al fine di rimediare alla inevitabile disparità di trattamento che l’art 291 c.c. poneva tra figli legittimi e figli (allora denominati) naturali, poiché l’eventuale presenza di figli naturali non era ostativa all’adozione, la Corte Costituzionale[6] ha poi dichiarato l’illegittimità costituzionale della disposizione nella parte in cui non prevede che l’adozione di maggiorenni non possa essere pronunciata in presenza di figli naturali dell’adottante minorenni o, se maggiorenni, non consenzienti[7].
Anche la giurisprudenza della Corte di cassazione ha contribuito ad ampliare la portata applicativa dell’art 291 c.c., ritenendo superabile l’impedimento alla richiesta di adozione determinato dalla presenza di figli minori, seppur questi siano ex lege incapaci di esprimere un valido consenso.
Dapprima, ha ritenuto applicabile l’istituto in caso di adozione della prole del coniuge dell’adottante, laddove uno dei due figli del coniuge sia minore e l’altro sia divenuto di recente maggiorenne, nell’ottica di consentire ad entrambi, in quanto provenienti dalla stessa famiglia, il diritto di inserirsi nel nucleo familiare del quale fa parte il comune genitore, consentendo, in queste ipotesi, una ragionevole riduzione del divario minimo di età tra adottante ed adottato[8].
In seguito, ha ritenuto che possa essere adottato il figlio maggiorenne del coniuge, che già appartenga, insieme al proprio genitore naturale ed ai fratelli minorenni “ex uno latere” al contesto materiale ed affettivo della famiglia del richiedente, fermo restando il potere-dovere del giudice di procedere all’audizione dei minori e del loro curatore speciale [9].
In queste ipotesi il giudice, tenuto a valutare in forza dell’art 312 c.c. non soltanto la sussistenza di tutte le condizioni di legge ma anche la convenienza dell’adozione per l’adottato, deve verificare se “l’interesse dell’adottato trovi effettiva e concreta realizzazione nel costituendo vincolo familiare, vale a dire nella comunione di intenti […] di tutti i membri del nucleo domestico e, soprattutto, dei figli dell’adottante”.
Nella giurisprudenza della Corte di cassazione assume dunque rilevanza centrale l’interesse dell’adottato di vedersi assicurato un legame stabile all’interno di una famiglia allargata, della quale egli si riconosce e nella quale è riconosciuto come parte integrante da tutti i membri, compresi i minori.
2. I recenti interventi della Corte di cassazione e della Corte d’appello di Roma
E’ proprio nel quadro di questa evoluzione giurisprudenziale che si pongono le due pronunce in commento.
Il caso vagliato dalla Corte di cassazione (sent.n.7667/2020) riguarda una donna, rimasta orfana di padre, che sin dall’età di dodici anni era vissuta con la madre ed il compagno di lei, che l’aveva cresciuta come una figlia propria. Pur a fronte di un legame consolidato (30 anni), in difetto del requisito della differenza di età previsto dall’art 291 c.c., la Corte d’appello di Bologna aveva ritenuto sussistente un impedimento all’adozione.
La Corte di cassazione ha preliminarmente disatteso la sollecitazione a sollevare la questione di legittimità costituzionale dell’art 291 c.c. in relazione agli artt. 2, 3, 10 e 30 Cost., tenuto conto della giurisprudenza della Corte Costituzionale[10] che aveva già ritenuto infondata la questione della disparità di disciplina tra l’adozione dei minori e dei maggiorenni, sul presupposto della diversità strutturale dei due istituti, poiché, mentre la prima ha come essenziale obiettivo l’interesse del minore ad un ambiente familiare stabile ed armonioso, nel quale possa svilupparsi la sua personalità, di contro la seconda non determina necessariamente l’instaurarsi o il permanere di una convivenza familiare.
Tuttavia, la Suprema Corte evidenzia, in linea con i precedenti citati, come l’istituto dell’adozione dei maggiorenni abbia progressivamente perso la funzione originaria di assicurare all’adottante la continuità della casata e del patrimonio, per assumere una nuova valenza solidaristica che, seppur distinta da quella dell’adozione dei minori, è comunque meritevole di tutela, in quanto finalizzata a garantire riconoscimento giuridico alla relazione sociale, affettiva ed identitaria e alla storia personale di adottante ed adottato, così consentendo la formazione di “famiglie” tra soggetti già legati da vincoli personali, morali e civili.
In questo senso, la Corte ritiene consentita un’interpretazione dell’art 291 c.c. costituzionalmente conforme agli art 2, 3 e 30 Cost., ma anche all’art 10 Cost. in relazione all’art 8 CEDU, all’art 7 della Carta Europea dei diritti fondamentali e dell’art 16 della Dichiarazione Universale dei diritti dell’Uomo.
L’art 8 CEDU impone, infatti, allo Stato obblighi positivi di tutela effettiva della “vita privata e familiare”, secondo la nozione ampia elaborata dalla giurisprudenza delle Corti sovranazionali, comprensiva di ogni espressione della personalità e dignità della persona, rispetto alla quale il limite della differenza di età rappresenta “un’indebita anacronistica ingerenza dello Stato nell’assetto familiare”.
Il giudice di merito è pertanto chiamato ad adeguarsi alla rivisitazione storico-sistematica dell’istituto, formatasi nel diritto vivente e ad adoperarsi al fine di fornire riconoscimento a situazioni familiari consolidatesi nel tempo e fondate su una comprovata affectio familiaris, come nel caso sottoposto alla Corte, in cui emergeva un legame padre-figlia dell’adottanda con l’adottato, a prescindere dalla differenza di età tra i due richiesta dalla legge. Secondo la Suprema Corte l’interpretazione conforme al dettato costituzionale ed alla normativa sovranazionale giustifica la deroga al limite di età previsto dall’art 291 c.c. anche se, stando al dettato normativo, il requisito della differenza d’età sembrerebbe imperativo, e quindi superabile solo tramite un intervento della Corte costituzionale, peraltro esplicitamente richiesto dai ricorrenti. La Corte di legittimità ritiene però non necessario questo passaggio ritenendo, nel caso di specie, di operare una interpretazione costituzionalmente orientata, volta a rendere compatibile l’art. 291 c.c. con l’art 2 Cost., perché diversamente si impedirebbe, pur a fronte di una formazione sociale di fatto consolidatasi nel tempo, all’adottato di esercitare appieno i suoi inalienabili diritti, e con l’art 3 Cost., dovendosi rimuovere l’irragionevole disparità di trattamento con l’adottante che presenti una differenza di età marginalmente inferiore al tetto legale e questo proprio perché la ratio dell’istituto, alla luce dell’evoluzione sociale, è diversa da quella che aveva ispirato il legislatore.
La Corte d’appello di Roma, invece, con la sentenza n.2637/2020 affronta il diverso profilo della compatibilità tra adozione di maggiorenne e presenza di figli minori dell’adottante; il caso riguarda una coppia di coniugi, genitori adottivi dal 2013 di due minori, che hanno domandato di adottare una giovane donna, nata nel 1997 in Bielorussia e già presente nel contesto familiare sin da bambina, poiché ospitata dalla famiglia per alcuni periodi dell’anno nell’ambito di programmi solidaristici di sostegno ed ospitalità di bambini bielorussi e successivamente trasferitasi, una volta raggiunta la maggiore età, presso il nucleo familiare, con regolare presenza sul territorio italiano in forza di un permesso di soggiorno per motivi di studio. Il Tribunale di Frosinone aveva ritenuto ostativa all’adozione la presenza nel nucleo familiare dei due figli minori.
La Corte d’appello richiama i precedenti arresti in materia della Corte di cassazione ed in particolare quello sopra esaminato, ed evidenzia la necessità di dare riconoscimento formale ad un lungo legame di affetto tra adottanti e adottata e tra questa ed i figli minori della coppia, che si caratterizza per una condivisione di vita prescindente da vincoli di consanguineità, ritenendo giustificata, seppur in un diverso caso, la deroga all’art 291 c.c.
Nel caso sottoposto all’attenzione della Corte, dall’istruttoria svolta (osservazioni del Servizio Sociale, ascolto giudiziale dei minori e consenso prestato dal curatore speciale dei minori) è emersa l’esistenza di un rapporto di condivisione ed affetto tra tutti i membri del nucleo familiare interessato: l’adottanda, infatti, ha fatto ingresso nella famiglia ancor prima dei due minori, cresciuti con la sua costante presenza come una sorella maggiore, cosicché non soltanto vi è tra gli adottanti e l’adottanda un legame assimilabile ad un autentico rapporto di filiazione, ma anche un rapporto tra adottanda e minore assimilabile ad un rapporto fraterno.
Anche in questo caso, il rigido disposto dell’art 291 c.c. è superato per il tramite di un’interpretazione funzionale alla tutela dell’unità familiare, garantita dall’art 30 Cost. e dall’art 8 CEDU: l’adozione non risponde ad una mera esigenza patrimoniale dei soli adottanti, né ad una pura convenienza economica dell’adottata di conseguire i benefici successori di figlia, ma assurge a strumento di tutela dell’interesse morale e giuridico di tutti i componenti del nucleo, adottanti, adottata e minori, di veder riconosciuta quella formazione sociale nella quale essi si identificano come autentica “famiglia”.
3. Il giudice nazionale e l’interpretazione dei testi normativi alla luce della Costituzione e della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo
Le sentenze in esame costituiscono un esempio piuttosto evidente di come stia cambiando l’approccio del giudice alla lettura dei testi normativi.
In particolare, ciò vale per quei settori, come il diritto di famiglia, ove i cambiamenti del costume sono veloci e sono stati, negli ultimi tempi, anche in qualche misura rivoluzionari, generando una forte richiesta di produzione normativa ad hoc cui il legislatore non riesce -o in qualche caso non vuole - dare risposte tempestive e complete. Ciononostante, l’istanza sociale esiste e viene rivolta al giudice, che non può limitarsi ad un non liquet, ma è tenuto a dare una risposta, a maggior ragione qualora si tratti di diritti fondamentali.
In ciò si evidenzia la dimensione fattuale del diritto, laddove per fattualità del diritto si intende quella “enorme virulenza dei fatti, che hanno la vigorìa di condizionare il diritto e di plasmarlo”[11].
Ecco quindi il ricorso ad istituti che, nati per finalità ormai poco attuali, vengono ripensati e rivisti per rispondere ad esigenze nuove: come nel caso della adozione di maggiorenni, chiamata a rispondere non più alla esigenza di trasmettere il patrimonio e il nome familiare ma alle esigenze di tutela della famiglie ricomposte o ricostituite, e in qualche caso anche a dare veste giuridica a legami che altrimenti non potrebbero mantenersi.
In questi casi il giudice è chiamato ad applicare la legge secondo una interpretazione orientata, oltre che dalla logica e dalla individuazione della ratio legis, anche dai principi e dai valori. La presenza di una pluralità di principi, dati da più Carte dei valori, comporta infatti l’esigenza del bilanciamento, che è operato in primo luogo dalla Corte costituzionale, ma anche dal giudice comune[12].
Nella difficile opera di bilanciamento tra i valori il giudice deve da un lato attuare pienamente la sua funzione, dall’altro deve fare attenzione a non travalicarla, sostituendosi al legislatore o alla Corte Costituzionale. E’ quindi necessario trovare il punto di equilibrio nel dialogo con la Corte costituzionale, considerando che più volte la Consulta ha rimarcato il dovere del giudice di rendere l’interpretazione costituzionalmente conforme e che la declaratoria di incostituzionalità è l’extrema ratio, cui ricorrere solamente laddove sia impossibile trarre dalla disposizione, della cui costituzionalità si dubita, una norma conforme a Costituzione.
Il giudice nazionale però, nella sua opera interpretativa, dialoga non solo con la Corte Costituzionale ma anche con le Corti sovranazionali ed in particolare con la Corte europea dei diritti dell’Uomo, interprete di quella Convenzione dei diritti dell’Uomo cui più volte ricorre la giurisprudenza di merito e di legittimità al fine di assicurare il massimo livello di tutela possibile alle situazioni in concreto prospettate. Infine, il giudice deve necessariamente dialogare con la Corte di giustizia della Unione europea, perché non può sottarsi al dovere di applicare il diritto europeo, anche disapplicando la norma interna, nei termini in cui la Corte europea lo interpretata. Si manifesta in questi termini il fenomeno dell’interpretazione conforme, che si presenta, oggi, in tre forme: interpretazione conforme a Costituzione, interpretazione conforme al diritto dell’Unione europea, e interpretazione conforme a Convenzione europea dei diritti dell’Uomo.
Ciò vale in particolare per la Corte di cassazione quando, nell’esercizio della sua funzione nomofilattica, produce il diritto vivente. Si è parlato, in questi termini, di un cambio di prospettiva della funzione nomofilattica che diviene una sorta di “mutazione genetica” della Corte di cassazione, che deve garantire (anche) l’uniforme interpretazione della legge come reinterpretata alla luce della CEDU, dei trattati internazionali e del diritto di matrice UE[13].
Così, nella magmatica materia del diritto di famiglia e nell’esame della istanze di tutela dei nuovi diritti, il principio costituzionale di tutela delle formazioni sociali solidaristiche si legge anche alla luce della giurisprudenza della Corte EDU, ove è stata elaborata una nozione di «vita familiare», tutelata dall’art. 8 della Convenzione, più ampia di quella tradizionale, inserendovi anche i legami familiari di fatto e attribuendo agli Stati contraenti la facoltà di differenziare, in relazione ai diversi modelli della stessa, le varie forme di tutela. Si è detto ad esempio che anche la filiazione adottiva costituisce «vita familiare» ai sensi dell’art. 8; che l’art. 8 è applicabile allorquando esista un legame familiare anche solo di fatto; persino la «vita familiare progettata» non è stata completamente esclusa dall’ambito di applicazione dell’articolo 8. Si delinea così una nozione di legame familiare in cui rileva, in primo luogo, la presenza di un vincolo giuridicamente formalizzato o persino l’aspirazione a stabilire una famiglia, purché si accompagni ad una chiara base giuridica o ad un legame di consanguineità. Inoltre, la Corte riconosce che può essere tutelata la vita familiare di fatto pur in assenza di un legame biologico o di un chiaro fondamento normativo, purché sussistano però legami personali genuini[14].
E’ comprensibile allora che l’interprete vada alla ricerca di un mezzo di tutela di quei legami di fatto che si presentato solidi e solidaristicamente connotati, cercando nella compagine del diritto interno quelle norme che, mediante l’interpretazione conforme, possono applicarsi alla fattispecie e soddisfare la richiesta di costituzione del vincolo giuridico.
4. Considerazioni conclusive
Muoviamo adesso dall’assunto che ogni norma ha una sua ratio e cioè una finalità, e che a diverse finalità corrispondono istituti giuridici differenti.
Ciò posto, dire che l’adozione dei maggiorenni oggi “ha perso la sua originaria natura di strumento volto a tutelare l'adottante per assumere una valenza solidaristica che, seppure distinta da quella inerente all'adozione di minori, non è immeritevole di tutela” significa forse che accanto all’adozione speciale (di minorenni) e all’adozione dei maggiorenni tradizionale, entrambi istituti di diritto positivo, si è affiancato un terzo istituto di creazione pretoria che serve a ratificare i legami familiari di fatto? E in tal caso qual è la sua massima capacità espansiva?
La domanda non è peregrina perché è da chiedersi se questo ipotetico “terzo istituto” può servire a ratificare legami familiari di fatto asimmetrici, ma non negli stessi termini in cui è asimmetrico, in natura, il legame tra genitori e figli.
Si pensi ad esempio ad una persona adulta, possibilmente sola che, per fini caritevoli, accolga nella sua casa un migrante, anch’egli adulto sebbene di età inferiore, che si crei un vincolo solidaristico, e che, dopo un congruo tempo di convivenza, questa debba interrompersi perché al migrante viene rigettata la richiesta di premesso di soggiorno. Se si è creato un legame personale solidaristico di tipo familiare, non connotato però da affettività di coppia, potrebbe in ipotesi essere tutelato tramite adozione, malgrado la differenza d’età non lo consenta?
Quelle che sembrano questioni pragmatiche di rilievo statistico minimo rendono evidente che la questione coinvolge ben altri e più alti interrogativi, sui quali sia la giurisprudenza che la dottrina si interrogano e cioè quale sia il limite per il giudice nella interpretazione conforme alla Costituzione e alle altre Carte dei valori. E’ tutt’ora considerato un punto fermo, infatti, che la lettera della legge non possa essere travalicata attraverso l’interpretazione, al punto di pervenire ad una vera e propria “disapplicazione” del testo normativo[15]. Il dovere di ricercare un’interpretazione incontra dei limiti, tesi a garantire il soddisfacimento di due esigenze: da una parte, la distinzione di ruoli e funzioni tra giurisdizione comune e giurisdizione costituzionale e, dall’altra, la fondamentale esigenza di certezza del diritto, che, in un sistema, quale il nostro, ove non vige il principio dello stare decisis, può essere garantita appieno solamente da pronunce aventi effetti erga omnes[16].
La posta è alta, perché l’esistenza di precedenti giurisprudenziali contraddittori, in particolare se essi riguardano la portata di un diritto fondamentale o le limitazioni che lo caratterizzano, potrebbe condurre a risultati imprevedibili o arbitrari e, in ultima analisi, conseguire l’effetto paradossale di privare gli interessati di una protezione veramente efficace ed effettiva dei loro diritti.
[1] Per un approfondimento v. A. GIUSTI, L'adozione di persone maggiori di età, in BONILINI, Trattato di diritto di famiglia, Torino, 2016.
[2] Nella formulazione ante unificazione dello status di figlio, realizzata dalla l. 219/2012.
[3] Sono fatto salve le eccezioni di legge con riferimento, ad esempio, agli impedimenti matrimoniali (art. 87 c.c.).
[4] Corte Cost., 19.05.1988 n. 557.
[5] Corte Cost., 20.07.1992 n. 345.
[6] Corte Cost., 20.07.2004 n. 245.
[7] La questione è oggi superata, attesa l’unificazione dello status di figlio ad opera della l. 219/2012, ma comunque rilevante, poiché il disposto dell’art. 291 c.c. non è stato adeguato e reca ancora riferimento ai figli “legittimi”.
[8] Cass. 14.01.1999 n. 354.
[9] Cass. 03.02. 2006 n. 2426.
[10] Corte Cost., 15.3.1993 n. 89 e Corte Cost. 17.11.2000 n. 500.
[11] P. GROSSI, Sulla odierna fattualità del diritto in Giustizia civile on line, 2014,n.1.
[12] v. R. CONTI, L'interpretazione conforme e il giudice dai tre cappelli, in La Convenzione Europea dei diritti dell'Uomo, Roma, 2011.
[13] R. CONTI, Il mutamento del ruolo della Corte di cassazione fra unità della giurisdizione e unità delle
Interpretazioni, in Consulta on line, 2015, f.III, 7 dicembre 2015.
[14] v. le seguenti sentenze della Corte EDU: 5.6.2014, I.S. c. Germania; 27.4. 2010, Moretti e Benedetti c. Italia; 4.7.2014, D. e altri c. Belgio; 27.1.2015 e Grande Camera 24.1.2017 entrambe nel caso Paradiso e Campanelli c. Italia; 15.09.2011, Schneider c. Germania.
[15] M. RUOTOLO, Quando il giudice deve “fare da sé”, in Questione giustizia, 22 ottobre 2018.
[16] Si veda F. DELÙ, L’interpretazione conforme e i suoi limiti, https://www.gruppodipisa.it
Spese di giudizio e poteri del giudice amministrativo: la condanna forfettaria.
(nota a Consiglio di Stato, Sez. IV, 21 settembre 2020, n. 5547)
di Roberto Fusco
Sommario: 1. Una breve premessa sulle spese di giudizio nel processo amministrativo. – 2. I profili ricostruttivi della disciplina della condanna alle spese. – 3. I parametri per la liquidazione dei compensi professionali degli avvocati. – 4. Le condanne forfettarie della Sezione IV del Consiglio di Stato. – 5. Alcune brevi considerazioni conclusive.
1. Premessa sulle spese di giudizio nel processo amministrativo.
Le spese di giudizio, nella loro accezione più ampia, ricomprendono tutti quegli esborsi che, complessivamente considerati, costituiscono il costo di un processo. In base ad una ricostruzione funzionale elaborata dalla dottrina, i costi del processo amministrativo possono essere suddivisi in tre diverse categorie: i costi necessari (contributo unificato), quelli normali (per lo più costituiti dai compensi dei legali) e quelli eventuali (spese aggravate, sanzione pecuniaria, astreinte)[1].
Tali tipologie di spese assolvono a funzioni differenti: il contributo unificato serve a finanziare il funzionamento dei tribunali, i compensi agli avvocati servono a garantire il diritto di ciascuno a difendersi in giudizio, mentre le sanzioni per i comportamenti processuali illeciti o comunque abusivi servono a punire i responsabili degli stessi e ad evitare la reiterazione di tali condotte processuali.
A queste diverse funzioni corrispondono differenti regole per il loro riparto: il contributo unificato segue le regole della soccombenza e dell’anticipazione[2], i compensi spettanti ai difensori sono generalmente assoggettati alla regola della soccombenza[3], le c.d. spese aggravate e le sanzioni processuali, previste per le parti che si comportano in maniera illecita o comunque abusiva, richiedono una serie di requisiti specifici per la loro irrogazione[4].
La condanna alle spese, pertanto, può racchiudere al suo interno componenti molto diverse tra loro che non sono assoggettate ad un regime unitario, ma seguono regole differenti per la loro attribuzione a carico delle parti del processo[5].
Una componente quantitativamente molto rilevante della condanna alle spese è costituita dai compensi professionali degli avvocati che prendono parte al giudizio in qualità di rappresentanti delle parti costituite. Le regole per il loro riparto e i criteri da seguire per la loro quantificazione hanno da sempre ingenerato notevoli questioni interpretative che ad oggi non possono ritenersi sopite.
A tal proposito si possono enucleare nella prassi almeno due problematiche ricorrenti: la prima è costituita dalla resilienza del giudice amministrativo a condannare alle spese la parte soccombente, abusando del suo potere discrezionale di compensazione; la seconda è costituita dalla mancanza di aderenza delle liquidazioni giudiziali ai parametri previsti dal d.m. n. 55/2014 per le prestazioni professionali forensi.
2. I profili ricostruttivi della disciplina della condanna alle spese.
Nel processo amministrativo il pagamento delle spese di lite è stato da sempre ancorato al principio di soccombenza[6], ancor prima di mutuare la propria disciplina dal processo civile[7]. Inizialmente, però, tale principio è stato largamente eluso dalla neo-istituita Sezione IV del Consiglio di Stato, che aveva stabilito il principio secondo il quale la pubblica amministrazione che agisce in veste di autorità non può essere condannata alle spese[8].
Col passare degli anni tale irresponsabilità nei confronti delle amministrazioni (statali) si è progressivamente attenuata, ma tutte le pubbliche amministrazioni hanno conservato a lungo un regime di privilegio nei confronti della condanna alle spese. Infatti, il requisito dei “giusti motivi” ha permesso per molto tempo al giudice amministrativo di disporre la compensazione con ampia (e talora eccessiva) generosità nei confronti delle parti soccombenti, soprattutto qualora queste fossero delle pubbliche amministrazioni.
La regola della soccombenza è stata poi ripresa dalla successiva l. n. 1034/1971[9] e confermata dal vigente art. 26, comma 1, c.p.a., secondo il quale il giudice provvede sulle spese a norma degli artt. 91, 92, 93, 94, 96 e 97 c.p.c., tenendo anche conto del rispetto dei principi di chiarezza e di sinteticità degli atti[10]. L’art. 91, comma 1, c.p.c. prevede che, all’esito della definizione della controversia, vadano addebitate alla parte soccombente non solo le spese necessarie per lo svolgimento del processo, ma anche gli onorari per la difesa in giudizio e che entrambi gli importi debbano essere liquidati nella sentenza[11].
Quella della soccombenza, così come prevista dal nostro codice di procedura civile, non è una regola assoluta, ma può subire delle eccezioni. Il giudice, infatti, ai sensi dell’art. 92 c.p.c., può compensare (parzialmente o per intero) le spese tra le parti in caso di soccombenza reciproca e di accoglimento parziale della domanda ovvero nel caso di novità della questione trattata o di mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti. L’art. 92 c.p.c., però, è stato oggetto di una pronuncia della Corte costituzionale che ne ha ridefinito sensibilmente i limiti, dichiarando l’illegittimità costituzionale del secondo comma nella parte in cui non prevede che il giudice, in caso di soccombenza totale, possa compensare le spese tra le parti (parzialmente o per intero) anche qualora sussistano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni oltre quelle nominativamente indicate[12].
Nonostante questo pronunciamento della Consulta, si deve evidenziare che la coeva generosità del giudice amministrativo nel compensare le spese è un fenomeno tuttora estremamente attuale[13]. Infatti, il Consiglio di Stato ha più volte affermato che la decisione del giudice di compensare le spese costituisce una valutazione discrezionale insindacabile in sede di appello, a cui fanno eccezione solo le statuizioni che siano manifestamente irragionevoli, abnormi, illogiche ovvero le condanne a somme palesemente inadeguate[14]. Tale potere discrezionale talvolta si fonda non solo su motivazioni di ordine giuridico, ma anche su ragioni di equità e di convenienza[15].
Questo atteggiamento, in parte comprensibile a causa della maggiore aleatorietà delle controversie amministrative (che, generalizzando, sono di solito più complesse e incerte di quelle civili[16]), negli ultimi tempi si è notevolmente attenuato, ma tuttora si rinvengono di frequente sentenze che compensano le spese richiamandosi semplicemente ai generici “giusti motivi”[17].
Tale prassi, alla luce dell’attuale quadro normativo, non può essere condivisa, poiché rischia di comprimere il diritto della parte vittoriosa di essere interamente ristorata dei costi sostenuti per il suo legittimo diritto di agire e difendersi in giudizio[18]. La compensazione delle spese di lite dovrebbe sempre essere prevista entro i limiti tracciati dal combinato disposto degli artt. 91 e 92 c.p.c. come interpretato dalla Corte costituzionale e fornita di un’adeguata motivazione[19].
3. I parametri per la liquidazione dei compensi professionali degli avvocati.
Le regole del codice di procedura civile e del codice del processo amministrativo fino ad ora analizzate riguardano l’an della condanna alle spese, ossia i limiti entro i quali il giudice deve applicare o meno la regola della soccombenza e condannare chi ha perso a sopportare i costi della lite.
Per definire il quantum della soccombenza[20], invece, la succitata normativa non è sufficiente, dovendo essere integrata dalla disciplina prescritta dal d.m. n. 55/2014, il quale prevede i criteri e i parametri per la liquidazione dei compensi spettanti ai difensori per l’attività svolta in giudizio[21].
Il giudice, nel condannare la parte soccombente alla refusione delle spese legali del vincitore, dovrebbe calcolare i relativi importi applicando i parametri medi previsti nel citato decreto per ognuna delle cinque diverse fasi previste con riferimento alle controversie davanti al giudice amministrativo, ossia: la fase di studio della controversia, la fase introduttiva del giudizio, la fase istruttoria e/o di trattazione, la fase decisionale e la fase cautelare[22].
Nonostante le tabelle prescrivano degli importi fissi (valori medi) per ogni fase delle controversie aventi il medesimo valore, il giudice ha comunque alcuni strumenti attraverso i quali può graduare (in aumento e in diminuzione) il quantum della condanna. Infatti, il compenso dell’avvocato deve essere liquidato in maniera proporzionale all’attività svolta, tenendo conto di una serie di fattori che consentano di variare la liquidazione aumentando o diminuendo gli importi in percentuale rispetto ai valori medi previsti[23]. A tal fine, l’art. 4, d.m. n. 55/2014, consente al giudice sia di aumentare i valori (espressamente qualificati come) medi delle tabelle allegate al decreto di regola fino all’80%[24], sia di diminuire detti valori in ogni caso non oltre il 50% e non oltre il 70% per la fase istruttoria[25].
Pertanto, nonostante i parametri medi siano predeterminati, al giudice rimane comunque un’ampia discrezionalità in sede di liquidazione dei compensi. Nella prassi, però, tale discrezionalità non viene quasi mai esternata attraverso un’adeguata motivazione che dia conto dell’aderenza ai succitati parametri medi e alle variazioni rispetto agli stessi.
Nel processo amministrativo, normalmente, il quantum del rimborso viene stabilito forfettariamente dal giudice, anche perché, al contrario di quanto accade nel giudizio civile, i difensori solitamente non depositano la nota spese quando la causa passa in decisione[26].
Le spese legali liquidate, inoltre, oltre ad essere stabilite forfettariamente senza alcuna motivazione che permetta un collegamento ai parametri normativamente previsti, il più delle volte sono anche eccessivamente ridotte, ossia si pongono al di sotto della somma che dovrebbe essere liquidata avuto riguardo ai parametri minimi, ossia ai parametri medi previsti al netto delle possibili (massime) riduzioni da applicare.
4. Le condanne forfettarie della Sezione IV del Consiglio di Stato.
Il caso di specie riguarda la contestazione in appello di una sentenza del T.A.R. Lazio con la quale veniva liquidato, in favore dei difensori delle parti vittoriose, un importo ritenuto sproporzionato rispetto al valore medio dei parametri previsti dal d.m. n. 55/2014[27].
Più precisamente, il giudice di primo grado, chiamato a decidere su quattro ricorsi aventi ad oggetto l’ottemperanza relativa al pagamento di somme a titolo di equa riparazione per l’irragionevole durata del processo (ai sensi della c.d. legge Pinto[28]), previa loro riunione, li ha accolti, condannando il Ministero dell’economia e delle finanze resistente a corrispondere l’esigua somma complessiva di 400 euro (pari a 100 euro a favore di ogni ricorrente)[29].
I ricorrenti, pur se vittoriosi in primo grado, decidevano di appellare la sentenza del T.A.R. deducendo l’incongruità del quantum della condanna alle spese, essendo la stessa in palese contrasto con il combinato disposto degli artt. 91 c.p.c. e 26 c.p.a. prevedenti la disciplina della condanna alle spese nel giudizio amministrativo e con le regole previste dal d.m. n. 55/2014 per la quantificazione compensi forensi.
L’adita Sezione IV del Consiglio di Stato ha accolto il proposto appello rideterminando la somma spettante in complessivi 2.000 euro per le spese dei quattro giudizi di primo grado (ossia 500 euro per ciascuna parte) compensando, però, le spese del giudizio d’appello.
La sentenza in commento, nel rideterminare il quantum della soccombenza statuita in primo grado, ricalca pedissequamente altre pronunce della Sezione IV del Consiglio di Stato con le quali, relativamente a giudizi di ottemperanza similari a quello considerato, è stata fissata una sorta di “soglia minima” (sempre pari a 500 euro) sotto la quale non sia ammissibile liquidare i compensi spettanti ai difensori[30].
Il Collegio, nell’iter argomentativo a supporto di questa decisione, preliminarmente ricorda che il giudice amministrativo gode di ampi poteri discrezionali in ordine alla statuizione sulle spese e al riconoscimento, sul piano equitativo, dei giusti motivi per far luogo alla compensazione[31], con il solo limite che non può condannare alle spese la parte risultata vittoriosa in giudizio o disporre statuizioni abnormi[32]. Viene precisato però che, qualora il giudice amministrativo decida di disporre la condanna al pagamento delle spese (non compensando le stesse), esso deve “tenere conto” del d.m. n. 55/2014, non potendo la liquidazione delle spese essere “manifestamente sproporzionata” rispetto al valore medio delle tariffe professionali previste dal decreto.
Quindi, la sentenza, pur non statuendo esplicitamente il valore vincolante ed inderogabile dei parametri, prescrive che il giudice, nel liquidare i compensi spettanti ai legali, debba quantomeno tenerli in debita considerazione[33]. Ma nonostante tale corretta affermazione di principio, il Consiglio di Stato, nel rideterminare l’importo della condanna alle spese, invece di operare una liquidazione in aderenza ai parametri, decide a sua volta di adottare la diversa quantificazione forfettaria di 500 euro per ogni giudizio di primo grado, limitandosi a richiamare la consolidata giurisprudenza anzi citata della Sezione IV sul punto[34].
Una possibile spiegazione di questo scostamento è rinvenibile in quella giurisprudenza di una diversa Sezione del Consiglio di Stato (la Sezione III) che non ritiene di applicare ai giudizi in materia di ottemperanza i parametri previsti per i giudizi amministrativi davanti al T.A.R. (tabella n. 21 allegata al d.m. n. 55/2014) ma, piuttosto, quelli relativi alle procedure esecutive mobiliari (tabella n. 16 allegata al d.m. n. 55/2014)[35]. Ma di tale impostazione – di per sé fortemente opinabile – non vi è traccia nella sentenza in commento, che non aggancia la liquidazione delle spese a quei parametri di cui, poco prima, ha raccomandato l’osservanza.
5. Alcune brevi considerazioni conclusive.
In linea generale, nei casi in cui il giudice amministrativo riesce a vincere la sua endemica tendenza a ricorrere alla compensazione delle spese di lite, spesso (per non dire sempre) la condanna è liquidata in misura forfettaria, di gran lunga in ribasso rispetto ai parametri previsti dal d.m. n. 55/2014 e senza alcuna motivazione a riguardo; quasi mai, alla parte vittoriosa è liquidata una somma realmente satisfattiva che gli consenta di restare “indenne dalla lite”[36] dal punto di vista patrimoniale.
La sentenza in commento costituisce un chiaro esempio di queste due diverse criticità, ossia, l’abuso della compensazione con esclusivo riferimento alla sussistenza dei “giusti motivi” e la persistenza delle liquidazioni forfettarie non agganciate ai parametri previsti dal d.m. n. 55/2014. Tali problematiche convivono all’interno della medesima pronuncia poiché, da una parte, il giudice d’appello ridetermina forfettariamente il quantum della condanna alle spese di primo grado e, dall’altra, compensa le spese del giudizio d’appello adducendo la presenza dei “giusti motivi” di compensazione.
Con riferimento al potere di compensare le spese legali non si può che richiamarsi a quanto detto in precedenza. Pur trattandosi di un potere altamente discrezionale, esso deve essere esercitato entro il perimetro tracciato dall’art. 92 c.p.c. nella sua versione costituzionalmente orientata. Pertanto, il giudice che decida di compensare le spese al di fuori dei casi normativamente previsti, dovrà esplicitare quali sono le “altre gravi ed eccezionali motivazioni” che lo hanno determinato in tal senso, non potendo i generici “giusti motivi” costituire una causa legittima per non addossare le spese alla parte soccombente.
Con riferimento alla quantificazione della soccombenza, occorre rilevare come nella prassi, solitamente, chi vince si vede riconosciuta una somma molto inferiore rispetto a quella che poi dovrà corrispondere al suo difensore per l’attività svolta[37]. Il fulcro del problema risiede nel riconoscimento o meno di un’efficacia vincolante ai parametri previsti dal d.m. n. 55/2014[38]. A tal proposito nella giurisprudenza amministrativa si sono formati due contrapposti orientamenti: quello che legittima il potere del giudice amministrativo di derogare a detti parametri[39] e quello che predica la necessità per il giudice di attenersi agli stessi[40].
La sentenza in commento sembra propendere per il rispetto dei succitati parametri. Infatti, pur non prevedendo esplicitamente l’inderogabilità dei parametri minimi, stabilisce che la liquidazione delle spese non possa essere «manifestamente sproporzionata rispetto al valore medio delle tariffe professionali previste dal decreto ministeriale». Pertanto, anche volendo aderire alla teoria della derogabilità dei parametri, il giudice che ritenga di non volerli rispettare dovrebbe quantomeno esplicitare i motivi eccezionali che lo hanno determinato ad effettuare tale scelta con riferimento alle circostanze del caso concreto.
Tale pronuncia, quindi, appare condivisibile nella misura in cui conferma la crescente consapevolezza del giudice amministrativo della necessità di adeguare il quantum delle condanne a degli importi realmente satisfattivi per la parte vittoriosa, in ottemperanza a quanto prescrive il d.m. n. 55/2014. Non lo è altrettanto, invece, né quando concede la compensazione delle spese in appello con la formula dei “giusti motivi”, né quando ridetermina le spese dovute in primo grado forfettariamente, in misura inferiore e senza alcun riferimento ai parametri previsti per i giudizi amministrativi.
A tal proposito è lecito augurarsi un cambiamento delle abitudini sia da parte degli avvocati, che potrebbero (analogamente a quanto avviene nel processo civile) depositare note spese comprovanti l’attività svolta (senza temere che questo sia indizio della loro scarsa dimestichezza con il giudizio amministrativo agli occhi del Collegio), sia da parte dei giudici, che dovrebbero sempre più liquidare i compensi a carico della parte soccombente e in misura rispettosa dei parametri normativamente previsti.
* * *
[1] F.G. SCOCA, Il costo del processo tra misura di efficienza e ostacolo all’accesso, in Dir. proc. amm., n. 4/2014, p. 1432. In senso sostanzialmente analogo, ma con riferimento al processo civile, già F. CARNELUTTI, Istituzioni del diritto processuale italiano, I, Roma, 1956, p. 216, distingueva i costi generali (da intendersi come la frazione imputabile a ciascun processo delle spese generali dell’amministrazione della giustizia) da quelli particolari (da intendersi come le spese necessarie per i singoli atti del processo, comprendenti sia le spese vive che il compenso dovuto a difensori e consulenti tecnici).
[2] Sul regime giuridico del contributo unificato e sulla sua problematica onerosità si segnalano: A. CRISMANI, I procedimenti giurisdizionali eccessivamente onerosi, n. 12/2014, p. 2819 ss.; F. SAITTA, Effettività della tutela e costo del processo amministrativo in materia di appalti: la (discutibile) opinione dei giudici europei sul contributo unificato, in www.lexitalia.it, n. 10/2015; C. LAMBERTI, La corte di giustizia «salva» il contributo unificato e devolve al giudice l’«esonero» dal cumulo, in www.giustamm.it, n. 12/2015; F. MONCERI, Costi del processo amministrativo. Limiti alla imposizione del contributo unificato sui c.d. motivi aggiunti e tutela europea del diritto di difesa, in www.giustamm.it, n. 9/2016.
[3] Sul riparto delle spese legali nel processo amministrativo si segnalano: E. FOLLIERI, Condanna al pagamento delle spese di lite, in F.G. SCOCA (a cura di), Giustizia amministrativa, Torino, 2013, p. 194 ss.; A. BARLETTA, La difesa in giudizio delle parti e la disciplina in materia di spese di lite, in M.A. SANDULLI (a cura di), Il nuovo processo amministrativo, Milano, 2013, vol. II, p. 120 e ss.; M. MENGOZZI, Spese di giudizio, in G. MORBIDELLI (a cura di), Codice della giustizia amministrativa, Milano, 2015, p. 359 e ss. al quale si rinvia per ulteriori riferimenti bibliografici sul tema (p. 359).
[4] Sulle spese aggravate e sulle sanzioni processuali si segnalano: M.A. SANDULLI, Le nuove misure di deflazione del contenzioso amministrativo: prevenzione dell’abuso di processo o diniego di giustizia?, in www.federalismi.it, n. 20/2012; N. PAOLANTONIO, Linee evolutive della figura dell’abuso processuale in diritto amministrativo, in www.giustamm.it, n. 10/2014; M. LIPARI, La nuova sanzione per “lite temeraria” nel decreto sviluppo e nel correttivo al codice del processo amministrativo: un istituto di dubbia utilità, 2011, in www.giustizia-amministrativa.it
[5] In tale contributo ci si soffermerà esclusivamente sulla ripetizione delle spese legali dovute per l’attività degli avvocati. Ci si limita ad evidenziare che l’art. 13, comma 6-bis.1, del d.P.R. n. 112/2002 prescrive una disciplina particolare per il contributo unificato nel processo amministrativo, precisando che tale tributo è dovuto “in ogni caso” dalla parte soccombente, anche nell’ipotesi di compensazione delle spese. Esso, pertanto, non viene trattato alla stessa stregua delle spese legali. Altrettanto può dirsi in relazione alla responsabilità aggravata e alla sanzione per la temerarietà della lite che devono rispettare i requisiti previsti dall’art. 26 c.p.a. e dall’art. 96 c.p.c. per la loro applicazione.
[6] Secondo l’insegnamento di G. CHIOVENDA, La condanna nelle spese giudiziali, Torino, 1901, p. 243, «soccombente è colui contro il quale la dichiarazione del diritto, la pronuncia del giudice, avviene: sia il convenuto contro il quale la domanda è accolta; sia l’attore contro il quale la domanda è dichiarata senza fondamento». La soccombenza, conosciuta anche come la regola del c.d. victus victori (in base alla quale il rimborso delle spese, letteralmente “vitto”, spetta al vincitore) trova la sua ragion d’essere nella circostanza che la parte vittoriosa in giudizio deve ottenere il riconoscimento integrale del suo diritto e che, quindi, non deve subire un danno patrimoniale dipendente dall’esborso monetario per il fatto di essersi dovuta rivolgere a un giudice.
[7] La norma originaria era prescritta nell’art. 50 del Regolamento di procedura dinanzi alla IV Sezione del Consiglio di Stato, 17 ottobre 1889, n. 6516, secondo il quale: «le parti soccombenti sono condannate nelle spese». Successivamente, la regola della soccombenza è stata prevista in linea generale anche dall’art. 68 del r.d. n. 642/1907.
[8] Tale esclusione veniva motivata dal fatto che la pubblica amministrazione nel processo amministrativo non assumesse la veste e la qualità di parte e che stesse in giudizio solo per la tutela dell’interesse pubblico affidatole (vedasi ex multis: Cons. St., Sez. IV, 8 gennaio 1891, in Giust. amm., 1891, I, p. 22 ss.). Sul tema si rinvia a: G. CHIOVENDA, La Pubblica Amministrazione e la condanna nelle spese davanti alla IV Sezione del Consiglio di Stato, in Giust. amm., 1896, vol. IV, p. 84 ss.; F. CAMMEO, La condanna solidale nelle spese giudiziali dinanzi alle giurisdizioni di giustizia amministrativa, in Giur. it., 1911, vol. III, p. 6 ss.; R. MALINVERNO, La condanna alle spese nei giudizi amministrativi, in Riv. dir. pubbl., 1932, I, p. 509 ss.
[9] L’art. 26, comma 4, della l. n. 1034/1971 prevedeva che: «In ogni caso, la sentenza provvede sulle spese di giudizio. Si applicano a tale riguardo le norme del codice di procedura civile».
[10] L’art. 26, comma 1, c.p.a. prevede, poi, la possibilità per il giudice, anche d’ufficio, di condannare la parte soccombente al pagamento di una somma equitativamente determinata in presenza di “motivi manifestamente infondati”. Tale norma ricalca pedissequamente il dettato dell’art. 96, comma 3 c.p.c., salvo differenziarsene per due elementi di specialità: il presupposto della condanna (che viene individuato nella manifesta infondatezza dei motivi) e la sua quantificazione (che non può eccedere il doppio delle spese liquidate dal giudice). L’art. 26, comma 2 c.p.a., inoltre, prescrive una vera e propria sanzione per la parte che agisce o resiste temerariamente in giudizio, che può essere condannata, anche d’ufficio, al pagamento di una somma non inferiore al doppio e non superiore al quintuplo del contributo unificato dovuto per il ricorso introduttivo.
[11] L’art. 91, comma 1, c.p.c., quando parla di “onorari di difesa” si riferisce esclusivamente ai compensi spettanti ai difensori per l’espletata attività giudiziaria, mentre quando parla di “spese giudiziali” si riferisce a tutti i restanti esborsi che, complessivamente considerati, costituiscono il costo del processo.
[12] Corte cost., 19 aprile 2018, n. 77, in Giur. cost., n. 2/2018, p. 703 ss. Per un commento a tale sentenza si rinvia a F. TEDIOLI, La Corte costituzionale estende il perimetro della compensazione delle spese giudiziali, in Studium Iuris, n. 10/2018, p. 1147 ss.
[13] In linea generale, infatti, nonostante l’attuale quadro normativo, sembra comunque piuttosto radicata nella giurisprudenza l’idea di un’ampia discrezionalità del giudice amministrativo in ordine al riconoscimento, sul piano equitativo, dei “giusti motivi” di compensazione. Esemplificativamente, a riguardo, si può citare tra le tante: Cons. St., Sez. III, 26 aprile 2019, n. 2689, in www.giustizia-amministrativa.it, secondo la quale «Per la pacifica giurisprudenza, che il Collegio condivide e fa propria anche nell’attuale quadro normativo, il Tar ha ampi poteri discrezionali in ordine al riconoscimento, sul piano equitativo, dei giusti motivi per far luogo alla compensazione delle spese giudiziali, ovvero per escluderla (Cons. St., A.P., 24 maggio 2007, n. 8)».
[14] In tal senso ex multis si vedano le recenti: Cons. St., Sez. IV, 30 marzo 2020, n. 2167, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. St., Sez. IV, 28 febbraio 2020, n. 1454, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. St., Sez. IV, 17 febbraio 2020, n. 1204, in www.giustizia-amministrativa.it.
[15] In tal senso vedasi ex multis: Cons. St., Sez. IV, 25 febbraio 2019, n. 1306, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. St., Sez. V, 23 giugno 2014, n. 3131, in Foro amm., n. 6/2014, p. 1741.
[16] In tal senso V. CAIANIELLO, Manuale di diritto processuale amministrativo, Torino, 1988, p. 661, secondo il quale nel processo amministrativo sono «spesso estremamente incerte le posizioni della ragione e del torto».
[17] Secondo J. BERCELLI, Parti, difensori, spese, in B. SASSANI – R. VILLATA (a cura di), Il codice del processo amministrativo. Dalla giustizia amministrativa al diritto processuale amministrativo, Torino, 2012, p. 419: «Una così patente e costante elusione della legge da parte dei giudici amministrativi trova la sua giustificazione storica e logico giuridica nella circostanza (…) che il processo amministrativo è sì un processo di parti, ma non è mai stato e non è tuttora un processo di parti paritarie».
[18] In tal senso vedasi già G. CHIOVENDA, La condanna nelle spese giudiziali, cit., p. 84.
[19] Secondo T.A.R. Lombardia (Milano), Sez. II, 10 gennaio 2020, n. 74, in www.giustizia-amministrativa.it, le altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni possono «individuarsi nella complessità delle questioni affrontate dal Collegio». In tale direzione si pone anche qualche recente sentenza del Consiglio di Stato tra le quali si segnala Cons. di St., Sez. III, 15 ottobre 2019, n. 6995, in www.giustizia-amministrativa.it, secondo la quale la decisione di compensare le spese (anche alla luce della sentenza Corte Cost. n. 77/2018) è «una valutazione riservata all’organo giudicante e avente natura discrezionale, che il Legislatore ha però circondato di un onere motivazionale rinforzato, al fine di mantenere inalterato il rapporto di regola ad eccezione, esistente tra i principi di condanna del soccombente e compensazione delle spese».
[20] È bene chiarire che la quantificazione complessiva delle spese di giudizio è cosa diversa dalla quantificazione delle spese legali propriamente intese, che vengono liquidate a favore della parte vittoriosa per il pagamento della sua difesa tecnica in giudizio. La quantificazione totale delle spese, infatti, dipende dalla sommatoria di tutti gli elementi che compongono la condanna alle spese. Oltre agli onorari (rectius compensi) di difesa bisogna calcolare la ripetizione del contributo unificato anticipato dal ricorrente e le eventuali ulteriori somme che il soccombente sarà costretto a pagare a titolo di responsabilità ai sensi degli artt. 26 c.p.a. e 96 c.p.c. Per la quantificazione delle spese legali, invece, salva una possibile loro riduzione per la violazione dei doveri imposti ai sensi dell’art. 92, comma 1, c.p.c. (spese eccessive o superflue) e dell’art. 26, comma 1, c.p.a. (doveri di chiarezza e sinteticità), occorre riferirsi alle regole prescritte nel d.m. n. 55/2014.
[21] Il d.m. giustizia n. 55/2014 “Regolamento recante la determinazione dei parametri per la liquidazione dei compensi per la professione forense, ai sensi dell’articolo 13, comma 6, della legge 31 dicembre 2012, n. 247” ha previsto un innovativo sistema di quantificazione delle prestazioni professionali degli avvocati, abolendo le precedenti tariffe forensi (onorari e diritti) e sostituendole con dei parametri per la liquidazione delle prestazioni da calcolarsi in relazione all’attività svolta e al valore della controversia. Tali parametri, inizialmente introdotti, in applicazione dell’art. 13, comma 6, l. n. 247/2012 (c.d. Legge dell’ordinamento forense), dal d.m. n. 140/2012, sono attualmente previsti dal d.m. n. 55/2014 come da ultimo modificato con il d.m. n. 37/2018.
[22] Sono previste due diverse tabelle rispettivamente per i giudizi innanzi al Tribunale amministrativo regionale (tabella n. 21) e per i giudizi innanzi al Consiglio di Stato (tabella n. 22). In entrambe le tabelle, per ognuna delle succitate fasi, sono previsti dei parametri (medi) diversi a seconda del valore della controversia.
[23] Più precisamente, l’art. 4, comma 1, d.m. n. 55/2014 prevede che: «Ai fini della liquidazione del compenso si tiene conto delle caratteristiche, dell’urgenza e del pregio dell’attività prestata, dell’importanza, della natura, della difficoltà e del valore dell’affare, delle condizioni soggettive del cliente, dei risultati conseguiti, del numero e della complessità delle questioni giuridiche e di fatto trattate. In ordine alla difficoltà dell’affare si tiene particolare conto dei contrasti giurisprudenziali, e della quantità e del contenuto della corrispondenza che risulta essere stato necessario intrattenere con il cliente e con altri soggetti».
[24] Altri aumenti sono poi previsti in relazione all’esito della controversia: in caso di conciliazione giudiziale o di transazione, la liquidazione del compenso può essere aumentata fino a un quarto (art. 4, comma 6), mentre può essere concesso un aumento fino a un terzo del compenso quando le difese della parte vittoriosa sono state dichiarate manifestamente fondate (art. 4, comma 8). È previsto, inoltre, che il compenso possa essere aumentato del 30% rispetto al valore previsto quando gli atti, depositati con modalità telematiche, sono redatti «con tecniche informatiche idonee ad agevolare la consultazione o la fruizione e, in particolare, quando esse consentono la ricerca testuale all’interno dell’atto e dei documenti allegati, nonché la navigazione all’interno dell’atto» (art. 4, comma 1-bis). Il riferimento è relativo a quelli che vengono chiamati “collegamenti ipertestuali”, ossia i link che consentono, una volta realizzati all’interno dell’atto predisposto dal legale con il proprio software di videoscrittura, di poter visualizzare e consultare immediatamente, con un semplice click del mouse, il documento citato nell’atto e allegato nella “busta telematica”. È poi previsto che il compenso relativo alla fase introduttiva del giudizio è di regola aumentato sino al 50% quando sono proposti motivi aggiunti (art. 4, comma 10-bis). Inoltre, quando l’avvocato assiste più soggetti, tali importi possono essere ulteriormente aumentati in percentuali variabili a seconda del numero dei clienti assistiti (art. 4, comma 2).
[25] Art. 4, comma 1, d.m. n. 55/2014 che è stato significativamente inciso dal d.m. n. 37/2018 che ha posto un limite al potere giurisdizionale di ridurre i compensi eliminando la locuzione “di regola” (art. 1, comma 1, lett. a, d.m. n. 37/2018) e precisando che la diminuzione non potrà andare “in ogni caso” oltre il 50% per cento e oltre il 70% per la fase istruttoria (art. 1, comma 1, lett. a, d.m. n. 37/2018). Il regolamento prevede poi anche due diversi casi in cui il compenso dovrebbe essere ridotto rispetto a tali valori per un comportamento non adeguato del difensore: viene previsto che costituisce elemento da valutare negativamente in sede di liquidazione del compenso l’adozione di condotte abusive tali da ostacolare la definizione dei procedimenti in tempi ragionevoli (art. 4, comma 7); e viene sancita la riduzione del 50% del compenso liquidabile al difensore nei casi di responsabilità aggravata di cui all’art. 96 c.p.c., nonché nei casi di pronunce di inammissibilità, improcedibilità o improponibilità della domanda, ove concorrano gravi ed eccezionali ragioni esplicitamente indicate nella motivazione (art. 4, comma 9).
[26] In questi termini E. FOLLIERI, op. cit., p. 195. In tal senso vedasi ex multis Cons. St., Sez. V, 11 luglio 2017, n. 3407, in www.giustizia-amministrativa.it, secondo la quale «costituisce prassi consolidata nella giurisprudenza amministrativa liquidare spese e onorari in misura forfetaria, senza analiticamente rifarsi agli elementi della tariffa professionale, in applicazione di dominanti criteri di equità, prassi alla quale si è adeguata anche quella degli avvocati di non allegare la nota degli onorari e delle spese con riferimento alle singole voci della tabella; in tale ottica i criteri di liquidazione vengono ricavati non tanto nel raffronto fra la tariffa professionale e il valore economico della causa, quanto piuttosto in circostanze eterogenee, peculiari per ogni giudizio, variabili di volta in volta, quali la maggiore o minore complessità delle questioni affrontate, l’applicazione di precetti giurisprudenziali consolidati, la natura della pretesa di cui si chiede l’affermazione e il comportamento tenuto dalle parti».
[27] La sentenza in commento è Cons. St., Sez. IV, 21 settembre 2020, n. 5547, che ha annullato T.A.R. Lazio (Roma), Sez. II, 19 settembre 2019, n. 11130, entrambe consultabili in www.giustizia-amministrativa.it.
[28] Si tratta della l. n. 89/2001 recante “Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile”.
[29] Le spese sono state liquidate ai due difensori, dichiaratesi antistatari, nella misura di 200 euro ciascuno, dato che questi avevano proposto due ricorsi ciascuno (nell’interesse di altrettanti ricorrenti) che sono poi stati riuniti dal T.A.R. Lazio che li ha decisi con la citata sentenza n. 11130/2020.
[30] I precedenti conformi della Sezione IV che vengono richiamati sono: Cons. St., Sez. IV, 10 luglio 2020, n. 4433 e n. 4434; Cons. St., Sez. IV, 28 novembre 2019, n. 8126; Cons. St., Sez. IV, 28 ottobre 2019, n. 7360, n. 7366 e n. 7380; Cons. St., Sez. IV, 8 ottobre 2019, n. 6798; Cons. St., Sez. IV, 4 ottobre 2019, n. 6682 e n. 6683; Cons. St., Sez. IV, 26 settembre 2019, n. 6446, 6448, n. 6449, n. 6450 e n. 6451; Cons. St., Sez. IV, 23 settembre 2019, n. 6321; Cons. St., Sez. IV, 20 settembre 2019, n. 6260; tutte consultabili in www.giustizia-amministrativa.it.
[31] A tal proposito vengono citate diverse sentenze del Consiglio di Stato tra le quali si segnala Cons. Stato, Ad. Plen., 24 maggio 2007, n. 8, in www.giustizia-amministrativa.it. Inoltre, il Collegio richiama anche la nota sentenza Corte cost., 19 aprile 2018, n. 77, cit., con la quale sono stati estesi i poteri di compensazione del giudice amministrativo anche qualora sussistano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni oltre a quelle nominativamente indicate dall’art. 92, comma 2, c.p.c.
[32] Tra le sentenze citate si segnalano le recenti sentenze “gemelle” Cons. St., Sez. IV, 10 luglio 2020, n. 4433 e Cons. St., Sez. IV, 10 luglio 2020, n. 4434, entrambe consultabili in www.giustizia-amministrativa.it.
[33] La sentenza prevede che il giudice amministrativo, nel liquidare i compensi, debba altresì considerare le caratteristiche dell’attività prestata, il valore dell’affare e gli altri criteri normativamente previsti dall’art. 4, comma 1, d.m. n. 55/2014.
[34] Nel caso di specie, però, detto importo, seppur rideterminato in aumento, non è comunque in linea con la somma che la parte vittoriosa avrebbe dovuto ottenere applicando i parametri minimi, prendendo come base di calcolo i parametri medi previsti dalla tabella n. 21 allegata al d.m. n. 55/2014.
[35] Vedasi a riguardo Cons. St., Sez. III, 25 marzo 2016, n. 1247, in Foro amm., n. 3/2016, p. 560, secondo la quale il giudizio di ottemperanza, per i suoi contenuti derivati dal precedente giudizio e per la struttura processuale, presenta un grado di complessità molto inferiore e paragonabile alle procedure esecutive mobiliari, necessità per cui si dovrebbero applicare i (più bassi) parametri previsti dalla tabella n. 16.
[36] Per usare le parole di G. CHIOVENDA, op. cit., p. 244, «Io non ripeterò mai abbastanza che il diritto deve uscire indenne dalla lite, e che l’obbligo dell’indennità dee far capo a chi della lite fu causa».
[37] A tal proposito occorre fare una importante precisazione: quando parliamo della condanna alle spese legali, intendiamo la liquidazione delle spese di lite effettuata dal giudice a favore della parte vittoriosa, che è cosa ben diversa dal diritto al compenso professionale che l’avvocato matura nei confronti del suo cliente in virtù di un rapporto civilistico di natura obbligatoria. Infatti, benché tra la disciplina del compenso professionale dell’avvocato e quella inerente all’obbligo di rifusione delle spese tra le parti vi siano innegabili connessioni logiche e giuridiche, le stesse si pongono su due piani diametralmente diversi, essendo due obbligazioni distinte sia dal punto di vista oggettivo che da quello soggettivo. La disciplina relativa al compenso degli avvocati attiene ai rapporti che ciascuna parte del processo ha con il proprio legale ed ha ad oggetto un diritto di credito che origina da un contratto di mandato (ovvero un vincolo di carattere contrattuale) e la relativa regolamentazione va ricercata nelle norme del codice civile e nella legge professionale forense.
[38] Lo stesso concetto di “parametro” non è ontologicamente un qualcosa di rigido ed immodificabile, ma un’espressione ammantata di una valenza orientativa più che precettiva. È anche vero, però, che il d.m. n. 55/2014 prescrive dei limiti precisi entro i quali poter diminuire i parametri medi previsti per ogni tipologia di giudizio in relazione al valore della controversia.
[39] Vedasi ex multis: Cons. di St., Sez. IV, 15 settembre 2014, n. 4679, in Foro amm., n. 9/2014.
[40] Sebbene la giurisprudenza prevalente deponesse per la natura non vincolante dei parametri (in tal senso vedasi: Cons. St., Sez. IV, 15 settembre 2014, n. 4679, in Foro amm., n. 9/2014, p. 2284; Cons. St., Sez. IV, 29 dicembre 2014, 6381, in Foro amm., n. 12/2014, p. 3092), di recente la Corte di Cassazione con due ordinanze (Cass., civ., Sez. II, ord. 17 gennaio 2018 n. 1018, in Dir e giust., 18 gennaio 2018; e Cass. civ., Sez. II, ord. 31 agosto 2018 n. 21487, in Dir e giust., 5 settembre 2018) ha previsto il divieto per il giudice di liquidare il compenso professionale al di sotto dei parametri previsti. A supporto di tale seconda impostazione depone anche l’ultima modifica dell’art. 1, comma 4, d.m. n. 55/2014 ad opera dell’art. 1, comma 1, d.m. 37/2018 che ha previsto l’impossibilità di diminuire “in ogni caso” i valori dei parametri al di sotto del 50%.
Può la democrazia digitale sostituire la democrazia rappresentativa?*
di Franco Gallo
Sommario: 1. Il lento declino della democrazia rappresentativa – 2. Può esistere un’alternativa tra democrazia digitale e democrazia rappresentativa? – 3. I costi e i benefici della Rete e la difficoltà di una sua regolamentazione “planetaria” – 4. Alcune brevi non confortanti conclusioni.
1. Il lento declino della democrazia rappresentativa
1.1. I regimi democratici contemporanei sono da tempo entrati in una contraddittoria fase evolutiva, nella quale al formale mantenimento delle istituzioni della democrazia liberale fa riscontro sempre più una dissoluzione del più caratterizzante contenuto storico dell’intero paradigma democratico, e cioè l’opportunità per le masse di partecipare attivamente, con il voto e con la discussione, alla definizione delle priorità della vita pubblica[1].
Sul piano giuridico-costituzionale ciò pone delicati problemi in quanto induce anche a identificare la democrazia deliberativa e quella partecipativa, definite dalle Carte costituzionali europee, non più puntando esclusivamente sulla titolarità formale del potere e sulla (buona) qualità della fonte da cui discende la potestà normativa, ma a spostarla, a valle, sul modo di esercitarla. Il che ha portato alcuni maestri del diritto come P. Rescigno, N. Lipari, N. Irti, a parlare, seppur con diversi distinguo, della “giudizializzazione” della democrazia, intesa come passaggio di consistenti poteri normativi da organi politici a organi giudiziari, dal legislatore, divenuto incerto signore del diritto, alla fabbrica interpretativa diffusa, in cui la Carta costituzionale rappresenta l’essenziale cornice entro cui maturare consensi e dissensi e, insieme, lo strumento per superare i disaccordi e la potenziale conflittualità fra i principi di diritto costituzionale[2].
Si capisce quindi perché, in questa situazione, specie dopo l’avvento della rivoluzione informatica, si parli sempre meno di democrazia tout court e che – vista la debolezza del termine – la si aggettivi in funzione del tema che si intende trattare. La si definisce cosí, oltre che «rappresentativa», anche «liberale», «parlamentare» o «presidenziale», «elettorale», «sociale», «digitale», «formale» o «sostanziale», «diretta» o «indiretta», «bipolare» o «multipolare», «maggioritaria» o «proporzionale», «consensuale» o «conflittuale», «consociativa» o «competitiva», fino ad arrivare ad arricchire tale polisemia con ulteriori aggettivazioni di significato più strettamente politico: «plebiscitaria», «populista», addirittura «illiberale».
Il che ha portato inevitabilmente (non solo) la classe politica a domandarsi se eventuali iniezioni di democrazia diretta, fondate su referendum propositivi e su comunicazioni, informazioni e interventi diffusi via Internet, possano correggere in senso più partecipativo e in meglio l’attuale sistema. E ciò senza tener conto delle proposte “estreme”, che puntano addirittura al superamento totale della democrazia elettorale.
Tenterò di dar conto dell’obiettiva difficoltà di dare una risposta positiva a questa domanda in un contesto, come l’attuale, in cui lo strumento telematico, di cui deve necessariamente avvalersi la democrazia diretta digitale, appare difficilmente regolabile e controllabile a causa del suo carattere planetario ed è, quindi, soggetto ad abusi e manipolazioni da parte dei gestori e degli stessi utilizzatori. In tale contesto, una democrazia diretta che non sia complementare (o solo integrativa) di quella indiretta parlamentare, correrebbe il rischio di restare fuori dai paradigmi giuridici del moderno costituzionalismo.
1.2. Nell’era contemporanea per democrazia rappresentativa si intende un sistema in cui il popolo ha il potere di assumere, tramite rappresentanti, le decisioni pubbliche, ossia un sistema di delega che seleziona i rappresentanti dei cittadini attraverso le elezioni.
Una nozione cosí ristretta in termini di democrazia elettorale ha offerto, in un primo momento, argomenti per dimostrare la scarsa idoneità di un tale modello a rispondere alle istanze partecipative. Si è rilevato, infatti, che fondare l’essenza della democrazia solo sulle elezioni avrebbe l’effetto di ridurre l’esercizio della sovranità dei cittadini alla sola manifestazione di voto, e cioè al compimento di un atto della durata di pochi minuti, reiterato a distanza di anni. Cosí intesa, la democrazia rappresentativa tende, in effetti, ad essere solo una democrazia formale priva dei contenuti sostanziali che le dovrebbero dare significato, e cioè la reale partecipazione politica, l’accesso ai diritti di cittadinanza e la tutela dei diritti fondamentali e delle libertà individuali.
In Italia, almeno nel periodo che va dal dopoguerra fino agli anni Ottanta, queste critiche si sono però attenuate soprattutto sul fronte della partecipazione sociale. Il passaggio, in quel periodo, dal parlamentarismo del primo Novecento – che era espressione di un governo oligarchico di notabili eletti a loro volta da notabili – alla democrazia dei partiti ha, infatti, consentito di recuperare importanti elementi partecipativi. In effetti, con l’avvento del suffragio universale la rappresentanza è stata espressa dai partiti in quanto organizzazioni di massa, dotate di entità strutturate, comunicanti in modo permanente con la società civile e, quindi, con gli elettori.
Il fatto è che questo sistema non ha retto e si è dissolto a partire dagli anni Novanta per ragioni ben note, comuni alla maggior parte dei paesi dell’Europa occidentale e meridionale, che non è il caso qui di ricordare. Gli storici e i politologi ci dicono che ora siamo in una situazione in cui i partiti di massa, lungi dallo svolgere la loro funzione di mediazione, si sono trasformati in oligarchie all’interno dello Stato e, molto spesso, in centri di potere autoreferenziali. Travolti da un’ondata di sfiducia, provocata anche da estesi fenomeni corruttivi, essi sono andati in crisi insieme alla prima Repubblica. E’ subentrata allora quella che Bernard Manin[3] ha chiamato «la democrazia del pubblico» (audience democracy), in cui i partiti lasciano ampio spazio alla personalizzazione e la comunicazione, in qualunque modo realizzata, prende sempre più il posto dell’organizzazione. In altri termini, i partiti si sono allontanati dalla società e, nel contempo, si sono per lo più convertiti in comitati elettorali al servizio di un capo, il quale sviluppa il rapporto con i cittadini e la società servendosi di sofisticate tecniche comunicative che negli ultimi anni si sono fondate soprattutto sulla Rete. Manin parla appunto, con riferimento ai Paesi membri dell’UE, di «democrazia del pubblico» perché lo spazio della rappresentanza coincide con lo scambio tra leader e opinione pubblica, a scapito della partecipazione sociale.
L’avvento della «democrazia del pubblico» non significa, però, che i partiti siano scomparsi. Significa solo che essi tendono a riorganizzarsi intorno al leader e, seppur indeboliti, operano ancora nei luoghi in cui si realizza formalmente la democrazia rappresentativa, e cioè nelle competizioni elettorali e in Parlamento[4]. La differenza principale rispetto al passato è che essi sono, anzitutto, al servizio di un leader o di un candidato[5].
E’ facile percepire che dietro questa svolta si nasconde il virus plebiscitario della scelta immediata e senza mediazioni, tipica della rappresentanza populista, ossia la tentazione di affidare i nostri destini ad un capo che fa promesse di salvezza.
Ciò non vuol dire che la partecipazione politica sia inevitabilmente andata in crisi insieme ai partiti di massa. Vuol dire, più semplicemente, che la partecipazione elettorale si è ridotta ed è stata sostituita da altre forme di partecipazione. Prova ne sono le esperienze di governance che stiamo da tempo vivendo in Italia come i “governi negoziati” e condivisi; governi, tutti, formati tra movimenti e partiti disomogenei e frutto di un’instabilità politica strutturale, cui si sono contrapposti – e tuttora si contrappongono sempre in Italia – movimenti di protesta e rivendicativi, segno di “orizzontalità democratica”, come il “popolo viola”, i girotondi spontanei, le manifestazioni all’insegna dello slogan “Se non ora quando?” e, proprio in questi anni, le “Sardine”, figlie della Rete e del tutto sganciate dalla realtà dei partiti.
2. Può esistere un’alternativa tra democrazia digitale e democrazia rappresentativa?
2.1. E’ nell’indicato contesto che la Rete si è imposta come il mezzo più rapido e continuativo di consultazione, informazione e contatto tra cittadini e quindi, almeno in astratto, come strumento apparente di maggiore partecipazione alla vita democratica.
Potenzialmente e teoricamente, i social network come Facebook, Twitter, Instagram e i blog canals potrebbero, dunque, aprire la via a forme di democrazia diretta deliberativa: quella che, nel gergo degli internauti, dovrebbe costituire la Democrazia 4.0. Ciò è tuttavia di difficile, se non impossibile, realizzazione. Il ricorso al canale telematico pone, infatti, numerose e complesse questioni che, se non risolte all’interno e nel contesto di una rinnovata democrazia rappresentativa, potrebbero pregiudicare il conseguimento dei vantaggi partecipativi.
La prima questione è di ordine politico e deriva dal fatto che l’avvento e la prevalenza della Rete possono avere – e finora hanno avuto – l’indesiderabile effetto di ingrandire, anziché ridurre, i difetti della «democrazia del pubblico». L’uso assiduo ed esteso di Internet a fini di propaganda politica da parte di singoli movimenti organizzati indebolisce, infatti, le identità collettive e, di conseguenza, moltiplica la personalizzazione anziché scoraggiarla, dando visibilità a figure dotate di particolari capacità di attrazione e comunicazione personale. Dietro a tutto ciò c’è evidentemente anche l’idea, propagandata da Beppe Grillo, di usare il diritto di voto solo per dire SI o NO a proposte che vengono da organi non eletti, ma sorteggiati. Tali proposte farebbero involvere il pubblico nel privato, che godrebbe, così, di uno spazio eccessivamente dilatato. Vietando al cittadino che vota di fare quello sforzo di riflessione che solo il discorso pubblico può consentire si avrebbe l’effetto, fortemente involutivo, dell’egemonia della società civile sulla politica.
La seconda questione è di ordine sociale e consegue al fatto che la Rete non sempre favorisce la discussione pubblica e la mediazione che dovrebbero svolgersi nella società civile o in Parlamento. Infatti, la creazione sul web di gruppi in base a legami di affinità tra “amici” e di ostilità contro “comuni nemici” avviene fuori dal tradizionale circuito politico, riduce la possibilità di incontro tra opposti schieramenti e quindi allarga, non sana, la frattura tra le comunità. Viene cosí favorita la tendenza a “schierarsi” sulla base di slogan. Internet spesso distrae e disperde. Basti pensare ai tanti portali che nascono ogni giorno. Dice bene il grande filosofo tedesco Jürgen Habermas che “nel mare magnum dei rumori digitali queste comunità sono come arcipelaghi dispersi: ciò che manca loro è il collante inclusivo, la forza di una sfera pubblica che evidenzi quali cose sono importanti”.
La terza questione è di ordine strettamente costituzionale ed è la più grave e la più difficile a risolversi. Infatti, la democrazia elettronica per sua natura non favorisce, anzi tende ad ostacolare, quei processi deliberativi ponderati e quella efficace interazione tra le parti politiche che sono l’essenza e, insieme, la ragione di ogni moderna democrazia parlamentare.
Mi spiego meglio. L’avvento della democrazia diretta digitale, in luogo di quella rappresentativa, imporrebbe l’abolizione di uno dei capisaldi del sistema costituzionale italiano: il divieto del mandato vincolante previsto dall’art. 67 della Costituzione con riferimento alla rappresentanza politica generale.
A prima vista, la soppressione di tale divieto sembrerebbe in astratto un sistema ideale, perché ha l’effetto di identificare puntualmente la volontà del rappresentante eletto con quella del rappresentato elettore. A meglio ragionare, però, ci si rende conto che la democrazia parlamentare è anche e soprattutto mediazione e ricerca del compromesso tra le forze politiche. E se la mediazione, come ci ha insegnato H. Kelsen[6], significa ascoltare nella formazione delle leggi le ragioni degli altri e, perciò, approfondire e rimeditare le proprie, è evidente che introdurre il mandato vincolante significherebbe perdere il luogo della sintesi e, dunque, sopprimere di fatto quel presidio della democrazia moderna, in qualunque forma declinata, che è il Parlamento.
2.2. Per quanto finora detto è, dunque, chiaro che nell’attuale contesto storico la democrazia rappresentativa non può essere sostituita, tout court, dalla democrazia diretta piena, ma tutt’al più solo rigenerata dal fattore tecnologico. La sua sopravvivenza è la necessaria conseguenza dell’intangibilità della funzione parlamentare quale regolata da tutte le Costituzioni dei paesi occidentali. Presuppone perciò, necessariamente, il recupero della mediazione, garantita sia dai partiti che da entità sociali differenti, quali i sindacati, i gruppi di interesse organizzati, le associazioni professionali e gli altri corpi intermedi.
I partiti dovrebbero però tornare ad essere associazioni di base, portavoce di gruppi più o meno stabili di cittadini, rette da comuni opzioni ideali ed in grado di promuovere, grazie alla vita associativa e con l’ausilio della Rete, l’impegno collettivo, la passione politica e la ridefinizione del rapporto tra formazione della conoscenza e decisione politica.
Non è una soluzione a portata di mano, anche perché richiederebbe, tra l’altro, il ripristino del finanziamento pubblico dei partiti e, comunque, l’imposizione ad essi di precise condizioni di trasparenza e di democrazia interna che attualmente non sono garantite. Non va però dimenticato che, come vuole l’art. 49 della Costituzione, i partiti, nonostante tutto, sono ancora gli unici strumenti per definire le politiche ed eleggere i rappresentanti. Così rigenerati, utilizzeranno la Rete e concorreranno con essa alla formazione dell’opinione pubblica e della cosiddetta cittadinanza digitale. L’importante è che non siano sovrastati o sostituiti dal web. La democrazia rappresentativa deve, insomma, essere integrata e migliorata, ma non soppiantata dalla democrazia digitale.
Che quest’ultima non sia in grado di sostituire del tutto la democrazia rappresentativa deriva del resto dal fatto, assorbente e più preoccupante, che le manifestazioni di volontà veicolate nel cyberspazio, strumento della democrazia digitale, si prestano con molta, troppa facilità ad abusi e manipolazioni, senza che, almeno nella presente fase storica, a queste si possa porre sicuro rimedio con interventi legislativi, amministrativi, giudiziari, globali, mirati e tempestivamente applicabili secondo un’accettabile paradigma costituzionale[7].
Vale la pena di soffermarsi, in via conclusiva, su questo ulteriore, grave, aspetto negativo.
3. I costi e i benefici della Rete e la difficoltà di una sua regolamentazione “planetaria”
3.1. Da quanto finora detto risulta, dunque, che la Rete può essere un bene, ma anche un male.
Può essere un bene, se è vista come un essenziale strumento di maggiore partecipazione che colmi parzialmente la lacuna prodotta dalla crisi dei partiti e ne aiuti la ripresa, come un mezzo di interconnessione planetaria tra gli essere umani, come un indispensabile veicolo del fondamentale diritto di informare e di essere informati, di istruire e di essere istruiti (si pensi alla diffusione delle università telematiche); come un ulteriore mezzo di controllo degli elettori sugli eletti; come, infine, una moltiplicazione della capacità di iniziativa dei cittadini. P. Rosanvallon[8] parla al riguardo di funzioni che danno corpo alla “controdemocrazia”, vale a dire il vigilare, l’impedire e il giudicare.
Può essere, però, anche un male e i suddetti benefici potrebbero annullarsi se essa non ha una sua disciplina soprattutto a livello di garanzie costituzionali; se resta in mano ad un’aristocrazia del web, ad una élite capace di gestirla senza controllo pubblico e, quindi, di determinare i comportamenti altrui e minare la sicurezza sui procedimenti e sul voto[9], se - come denunciano P. Klugman e M. Hanson[10] – esso erode il potere dello Stato di regolamentare il materiale calunnioso, pornografico, razzista, sessista o omofobo e le attività dei gruppi politici estremisti.
Dipenderanno dai governi, dai governati e dalle autorità internazionali dotate di influenza e di potere normativo l’uso accorto che si farà della strumentazione digitale e l’individuazione delle modalità della sua integrazione nella vigente democrazia costituzionale rappresentativa. Non è un compito facile, dato il carattere planetario, difficilmente regolabile e controllabile, dello strumento telematico. Non sarà, cioè, facile costruire, nel breve e medio termine, un sistema normativo, nazionale ed internazionale, secondo un paradigma costituzionale pluralista, che tuteli il diritto di accesso alla Rete e, nello stesso tempo, ponga limiti ai possibili abusi e manipolazioni di essa da parte sia dei gestori che degli utilizzatori. L’obiettivo che con tale disciplina si dovrebbe raggiungere dovrebbe essere quello di preservare l’essenza della democrazia rappresentativa, liberando le persone e gli Stati dai possibili abusi del sistema informatico, garantendo il diritto fondamentale di informazione, evitando possibili strumentalizzazioni del flusso di informazioni da parte di terzi, rendendo attendibili quelle diffuse senza controllo; assicurando, insomma, a livello costituzionale la sicurezza delle stesse persone e degli stessi Stati.
E’ evidente che, indicando tale obiettivo, prendo nettamente posizione contro quelle correnti di pensiero che sottovalutano questi problemi e disconoscono la necessità di costruire gradualmente una siffatta disciplina, ritenendo prevalente l’assoluta libertà di navigare rispetto alla tutela dei diritti costituzionali all’informazione e a essere informati. Secondo i sostenitori di tali tesi[11], la regolamentazione della Rete dovrebbe essere solo il frutto delle stesse dinamiche sociali ed economiche prodotte dalla società civile, dalle quali dovrebbero emergere «costituzioni civili» che prevalgono come fonte normativa sui tradizionali poteri politici e costituzionali. Tali forme di autoregolamentazione dovrebbero, in particolare, superare la logica politica degli Stati per imporre nella sostanza, anche qui, il dominio dei regimi privati globali, vale a dire di quel diritto prodotto esclusivamente dall’economia globalizzata, e cioè dagli stessi portatori degli interessi settoriali del mercato.
Sono d’accordo al riguardo con Stefano Rodotà[12] nel ritenere inaccettabili queste prese di posizione, perché affidano alle multinazionali informatiche il futuro dei diritti politici, civili e sociali nel mondo virtuale del cyberspazio. Farebbero correre il rischio di concentrare i poteri e le risorse nelle loro mani e in quelle degli Stati dominanti, che avrebbero cosí il vantaggio di utilizzare Internet solo per i propri interessi.
Giustamente Rodotà non si stancava di avvertire che queste tesi portano inevitabilmente ad una sorta di “medioevalismo istituzionale” e rivelano l’incapacità di elaborare categorie interpretative atte a far fronte ai problemi del presente. Sarebbe come lasciare la tutela dei diritti in Rete solo all’iniziativa dei soggetti privati, i quali, in assenza di altre iniziative, appariranno come le uniche istituzioni capaci di intervenire. E sarebbe come accettare – aggiungerei io – una privatizzazione del governo di Internet senza che altri attori – per primo, il Parlamento – ai livelli piú diversi possano dialogare e mettere a punto regole comuni.
Per evitare questi risultati non resta, quindi, che prendere atto che viviamo in un’epoca tecnologica in cui manca ancora una disciplina super partes che garantisca con pienezza, senza discriminazioni e a livello planetario, i diritti fondamentali di informazione dei cittadini e le libertà degli utenti. Ed occorre anche prendere atto che la questione della democrazia di Internet può essere invece risolta solo costituzionalizzando la Rete nel senso di porre tali diritti fondamentali e tali libertà al centro del potere informatico degli Stati e delle organizzazioni di Stati. Il che – lo ripeto – dovrebbe avvenire non affidandosi alle regole spontanee del mercato, ma regolando tali diritti e tali libertà con le norme, sia costituzionali, sia statali che sovranazionali, proprie della democrazia indiretta rappresentativa.
È un’impresa ardua, essendosi in questi ultimi anni appannata nel mondo la fede nelle istituzioni e nella loro capacità di plasmare il futuro e di indirizzare la vita quotidiana. Ma non vedo, allo stato, altra via da seguire.
4. Alcune brevi non confortanti conclusioni
Va ribadito in via conclusiva che finchè non si introdurrà una soddisfacente regolamentazione del cyberspazio su base transnazionale, transgenerazionale e non ideologica, difficilmente la Rete potrà costituire un sicuro spazio di libertà e, perciò, un valido strumento della democrazia diretta, rafforzativo di quella parlamentare rappresentativa. Essa si presterà, anzi, sempre più a manipolazioni e distorsioni comunicative funzionali anche a politiche di controllo sociale. Non è, infatti, sostenibile una situazione, come l’attuale, in cui tre o quattro aziende private, nonché alcune potenze mondiali, controllano lo spazio di dialogo tra i cittadini, decidono quali voci hanno più visibilità e quali vengono nascoste. E ciò vale, nonostante sussista la buona volontà di apprestare un’idonea regolamentazione da parte di numerosi Stati, organizzazioni internazionali e la stessa UE e nonostante vi sia un costante aumento di atti di autodisciplina e di auto-educazione conseguenti alle disaffezioni e diffidenze alimentate dai numerosi scandali[13].
Per ora, prevale purtroppo l’algocrazia, che mina la democrazia rappresentativa e costringe a muoversi tra fake news e giustizia privata esercitata dalle grandi piattaforme, tra trojan e processi sempre più mediatici, tra politica on-line e discriminazione degli algoritmi. Come dice Lawrence Lessig[14], «il cyberspazio lasciato a sè stesso – e per il momento, purtroppo, lo è – difficilmente potrà mantenere le promesse di libertà e di maggiore partecipazione dei cittadini alla vita pubblica. Potrebbe anzi divenire un perfetto strumento di controllo».
* Questo scritto riprende e sviluppa alcune considerazioni svolte dall’Autore in un più ampio contributo intitolato Democrazia 4.0. La Costituzione, i cittadini e la partecipazione, pubblicato sulla Rivista AIC, 1, 2020.
[1] C. CROUCH, Postdemocrazia, Laterza, Roma-Bari, 2009.
[2] Sul punto, v. in particolare M. VOGLIOTTI, voce “Legalità”, in Annali VI, Enciclopedia del diritto, Giuffrè, Milano, 2013; nonchè U. ALLEGRETTI, Democrazia partecipativa: esperienze e prospettive in Italia e in Europa, University Press, Firenze, 2010 e M. BARBERIS, Stato costituzionale. Sul nuovo costituzionalismo, Mucchi, Modena, 2012.
[3] B. MANIN, Principi del governo rappresentativo, il Mulino, Bologna, 2010.
[4] Cfr. S. STAIANO, Rappresentanza, in Rivista AIC, 3, 2017, p. 18.
[5] Con riguardo al recente passato, basta pensare, in Italia, ai partiti di Di Pietro e di Berlusconi e, ora, alla Lega di Salvini e al Movimento5Stelle di Beppe Grillo.
[6] H. KELSEN, Il primato del Parlamento, Giuffrè, Milano, 1982.
[7] Ciò senza tener conto dell’ulteriore circostanza, peraltro temporanea, della sussistenza, allo stato, del c.d. digital divide, e cioè del divario tecnologico fra le diverse generazioni e i diversi contesti economici e sociali; divide che, almeno nel presente momento, non consente alla Rete di estendersi con la dovuta uniformità e generalità.
[8] P. ROSANVALLON, Controdemocrazia. La politica nell'era della sfiducia, Castelvecchi, Roma, 2017.
[9] Cfr. F. PALLANTE, Contro la democrazia diretta, Einaudi, Torino, 2020.
[10] P. KLUGMAN e M. HANSON, Ingenious. The unintended consequences of human innovation, Harvard University Press, Cambridge, 2020, p. 218 ss..
[11] V., soprattutto, G. TEUBNER, La cultura del diritto nell’epoca della globalizzazione. L’emergere delle costituzioni civili, Armando, Roma, 2005.
[12] S. RODOTA’, Una Costituzione per Internet, in Politica del diritto, ilMulino, 2010.
[13] Dei primi, timidi segnali positivi in tale senso provengono dal Regolamento UE 2016/79 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, concernente la protezione delle persone fisiche nella materia specifica del trattamento e della libera circolazione dei dati personali. Tale Regolamento – in applicazione nei singoli Paesi dell’UE dal 25 maggio 2018 – è sicuramente un buon punto di partenza dell’attività di contrasto del controllo monopolistico sulla “attenzione” e sulla comunicazione tra le persone. Non entra però – e non può comunque validamente entrare – nel merito di quelle manipolazioni create influenzando il comportamento degli utenti attraverso gli algoritmi provenienti da sedi incontrollabili, fonte e transito di comunicazioni telematiche.
[14] L. LESSIG, Introduction, in Free Software, Free Society. The Selected Essays of Richard M. Stallman, University Press, Boston, 2002.
Ci sei ma non ti vedo…. Il posto delle donne nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza
di Valentina Cardinali
Sommario: 1. Il Piano, il suo iter e il valore economico della “questione di genere” - 2. Dove sono le donne nel documento preparatorio italiano - 3. Una errata interpretazione ed un paio di trappole - 4. Alcune proposte.
1. Il Piano, il suo iter e il valore economico della “questione di genere”
La Commissione europea il 17 settembre scorso ha presentato gli orientamenti per i Piani di ripresa e resilienza (PNRR) che gli Stati membri dovranno presentare per accedere al Recovery Fund - Dispositivo per la ripresa e la resilienza - all’interno del Programma NextGenerationEU: si tratta nello specifico di complessivi 672,5 miliardi di euro, 360 miliardi di euro dei quali in prestiti e 312,5 miliardi in sussidi, che per l’Italia sono stimati in 127,6 miliardi di euro in prestiti e 63,8 miliardi in sovvenzioni [1]. Il termine per la presentazione dei PNRR nazionali è il 30 aprile 2021, ma gli Stati membri sono incoraggiati a presentare i loro progetti preliminari a partire dal 15 ottobre 2020. Attualmente, il Governo italiano ha trasmesso alle Camere la proposta di Linee guida per la definizione del proprio Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR)[2]. Al termine di questo vaglio, il Governo elaborerà lo schema di PNRR e dei relativi progetti di investimento e riforma, secondo il modello predisposto dalla Commissione europea e si avvierà l’iter di richiesta.
Tra i vari vincoli di contesto a cui questo processo è soggetto, va ricordato anche che il Parlamento Europeo ha varato una risoluzione a commento di Next Generation EU e del quadro finanziario pluriennale[3] in cui, al paragrafo 16, richiede che gli Stati membri adottino: a) Gender Mainstreaming, b) Gender Budgeting e c) Gender Impact Assessment. Ossia nell’ordine: a) l’integrazione della prospettiva di genere in tutte le attività e in tutte le politiche: dal processo di elaborazione, all’attuazione, includendo anche la stesura delle norme, le decisioni di spesa, la valutazione e il monitoraggio; b) l’applicazione del principio di gender mainstreaming nella procedura di bilancio - dal momento che i bilanci non sono neutrali, ma hanno un impatto diverso su donne e uomini - con la finalità di strutturare le entrate e le uscite in ottica di uguaglianza tra i sessi; c) la sistematica valutazione degli impatti effettivi e potenziali delle decisioni prese su destinatari uomini e donne a partire dalla fase ex ante, in modo da ovviare a eventuali squilibri prima dell'approvazione della proposta stessa. Questa attività, raccomandata dall’Ue sin dal 2002, non è mai stata messa a sistema nell’attività di policy making italiana.
Stante questo scenario, pertanto, appare centrale, a questo stadio del processo, esaminare la proposta di Linee guida trasmessa al Parlamento proprio in ottica di gender impact assessment.
Punto di partenza: il senso e il progetto di utilizzo del Recovery Fund. Nel momento in cui, in quanto Italia, si richiede la più grande quota di risorse finanziare mai messe a disposizione in tempi di crisi, con il vincolo ai Piani, sancito dalla Ue, di creazione di occupazione e di investimento nello sviluppo e nella coesione sociale, NON può NON essere tenuta in adeguata considerazione la più grande disuguaglianza esistente nel mercato del lavoro e nella sfera economica e sociale: quella tra uomini e donne. Una distorsione che incide nettamente sul Pil nazionale e porta con sé inefficienza produttiva, aumento delle disuguaglianze - anche intergenerazionali - e incidenza sulla fecondità e gli assetti demografici. Le analisi di dettaglio e gli scenari sono ormai tristemente noti. Ricordiamo solo in sintesi che nel nostro Paese abbiamo un tasso di occupazione femminile stabilmente al di sotto del 49% da oltre 30 anni (che diventa 33% al Sud), con più di 20 punti percentuali di distanza dagli uomini e con un differenziale salariale medio tra loro del 22%. Abbiamo una donna su 6 che lascia il lavoro a seguito della maternità e 35.000 dimissioni volontarie di donne con figli da 0 a 3 anni, solo nel 2019. Donne che, in cambio dell’abbandono del posto del lavoro, possono accedere alla Naspi e quindi a un sostegno familiare, ma pagato personalmente, barattandolo con il proprio reddito, le proprie competenze e la prospettiva di sviluppo professionale. Il complesso dei contratti a termine e dei lavori precari che rischiano di non essere rinnovati sono in maggioranza delle donne, anche in quei settori che in questo frangente sono più a rischio da un punto di vista economico (es: servizi, turismo, ristorazione) o sanitario (es: sanità). E il futuro non presenta scenari incoraggianti. L’emergenza pandemica ha profondamente inciso anche sulle strutture familiari, in cui si consolida il ruolo della donna come principale care giver e aumenta la quota di rischio di abbandono del lavoro, esito frequente di scelte familiari, in cui l’uomo, culturalmente male breadwinner e col reddito mediamente più alto, torna di più e prima della donna al lavoro fuori casa.
Tutto questo scenario di scarso e mancato impiego delle donne non può essere certo più etichettato come “una questione di parte”, ma è un reale problema economico di tutto un paese che si prende il lusso di lasciare in stand by la metà della sua forza produttiva. E per comprenderlo non serve sensibilità di genere o cultura femminista. Basta una semplice calcolatrice.
Per le profonde implicazioni economiche sociali e demografiche, ci aspettiamo, quindi, che un Piano nazionale tenga in adeguato conto il fatto che non ci potrà essere alcuna strategia futura di ripresa fino a che la scarsa partecipazione delle donne al mercato del lavoro non sarà una priorità del Paese. Non a parole, perché nessun tema come questo presenta una dose di etichette politically correct (chi avrebbe mai il coraggio di sostenere che innalzare l’occupazione femminile non sia un tema importante?), ma nella composizione delle voci di spesa del budget che sarà allegato al Piano, nella definizione e scelta dei progetti su cui puntare.
2. Dove sono le donne nel documento preparatorio italiano
E veniamo al punto due. Capire se in questa proposta ci sia – e in caso affermativo quale sia – il posto assegnato alla questione di genere come delineata nel paragrafo precedente; se tale allocazione, anche in termini strategici, sia corretta ancor prima che esaustiva; se le misure proposte siano adeguate alla risoluzione del problema.
Sotto questo aspetto il quadro si fa più complesso e richiede un’attenzione particolare a ciò che il testo dice e ciò che invece… non dice.
Il PNRR individua come prioritarie 4 “sfide”, a cui concorrono 6 “missioni” (obiettivi). Le sfide sono: 1 il miglioramento della resilienza e della capacità di ripresa dell'Italia, 2. la riduzione dell'impatto sociale ed economico della crisi; 3. il sostegno alla transizione verde e digitale, 4. l’aumento del potenziale di crescita dell’economia e la creazione di occupazione. Le 6 missioni indicate del PNRR, invece, rappresentano le aree di intervento in cui agire per vincere le sfide: 1. Digitalizzazione, innovazione e competitività del sistema produttivo; 2. Rivoluzione verde e transizione ecologica; 3. Infrastrutture per la mobilità; 4. Istruzione, formazione, ricerca e cultura; 5. Equità sociale, di genere e territoriale; 6. Salute. E queste sei missioni, una volta confezionato il Piano, saranno a loro volta suddivise in cluster o insiemi di progetti omogenei selezionati per spendere il Recovery Fund.
Per come abbiamo definito la questione di genere sinora, il tema copre di certo 3 sfide su 4, ma non viene esplicitato in nessuna di queste. Ove, invece, il genere trova espressione nominale è nella missione 5 “Equità sociale, di genere e territoriale”, quindi nell’alveo degli ambiti tematici su cui intervenire per risolvere le sfide. Ma né l’accezione adottata né la collocazione tematica risultano adeguate alla portata del problema. Mi spiego. La voce “equità di genere” (forse traduzione per assonanza di quello che l’Ue chiama “gender equality”, ossia uguaglianza/parità di genere) non è una novità, era infatti già presente nel lavoro finale del cd. Comitato Colao, ma mentre in quella sede rappresentava uno dei tre driver di cambiamento, e quindi aveva una valenza strategica evidente, nelle attuali Linee guida al PNRR è solo uno dei 6 strumenti di cambiamento, tra l’altro accostato ad altre variabili generaliste come “sociale” e “territoriale”, ma annoverato comunque nell’area dello “svantaggio ”. Oltre al declassamento nel PNRR, tuttavia, l’aspetto più rilevante è che la questione di genere esplicitata in termini di “equità” non appare centrata. Adottando questa categoria giuridica, infatti, si mette in luce l’aspetto delle disparità tra i generi, si chiama in campo una contrapposizione da risolvere per “equità” e quindi per obiettivi di giustizia sociale. E’ un aspetto assolutamente legittimo ed è una delle ottiche con cui si guarda al tema, ma non è e non può essere la chiave con cui si costruisce una strategia di rilancio economico del Paese e la si mette a budget. Affrontare il tema dell’occupazione femminile non è solo “cosa buona e giusta”, ma cosa “imprescindibile e necessaria”.
Veniamo ora alla descrizione specifica della missione 5, Equità sociale, di genere e territoriale. Si legge nel documento di Linee guida: “Il Governo punta ad adottare un ampio spettro di interventi quali: misure fiscali (Piano per la Famiglia-Family Act raccordato con la riforma dell'IRPEF), politiche attive del lavoro e politiche di coesione territoriale e sociale (attuazione del Piano Sud 2030, della Strategia Nazionale delle Aree Interne e rigenerazione e riqualificazione dei contesti urbani e borghi rurali. Un ruolo importante sarà rivestito dalle politiche di formazione dei lavoratori e dei cittadini inoccupati, volte all’acquisizione di nuove competenze, e dalla promozione del lifelong-learning. Con riguardo, in particolare, alla parità di genere, un'attenzione particolare sarà riservata all'empowerment femminile (in termini di formazione, occupabilità ed autoimprenditorialità), anche con progetti volti a favorire il reinserimento nel mondo del lavoro di categorie fragili e ad incentivare le capacità imprenditoriali femminili”.
3. Una errata interpretazione ed un paio di trappole.
Per promuovere quindi il “riequilibrio” tra donne e uomini, il Piano espressamente prevede misure fiscali e azioni di empowerment. Nulla da obiettare nel dettaglio delle singole misure ma quello che non è convincente è il ragionamento a monte. Per risolvere il problema di inserire metà della popolazione attiva nel mercato del lavoro – e in questo caso di parla di donne - si pensa alle “misure speciali”: leva fiscale, incentivi ecc. Questa è l’ennesima conferma del fatto che nei confronti della questione di genere la via ordinaria non funziona. Perché il lavoro delle donne deve essere “conveniente?” Come se si trattasse di ragionare di un gruppo di competenze e professionalità per sua natura svantaggiato e strutturalmente tale. E’ evidente che un gap di genere di 20 punti nell’occupazione in 30 anni e più è la spia di un sistema che non funziona, che ha introiettato dinamiche discriminatorie che fanno differenza tra la scelta di un uomo e di una donna. E sempre non a caso, l’osservatorio sulle discriminazioni delle Consigliere di parità riporta costantemente le difficoltà che riscontrano le donne, a parità di competenze, nell’accesso al lavoro e ai percorsi di carriera, sia in presenza di un carico familiare, sia nell’ipotesi e nella probabilità di averne nel medio termine. E quindi questo ci porta a immaginare che la soluzione debba probabilmente ricercarsi non nelle condizioni esterne, ma all’interno della struttura del mercato del lavoro. Anche attraverso azioni positive, di rottura di questa costruzione, talmente sedimentata nel tempo al punto da sembrare “neutra”, normale. Quando di normale non c’è nulla. Perdere punti di Pil per questa “normalità” è una grave responsabilità politica.
E veniamo quindi alle trappole. Il Piano afferma che “un'attenzione particolare sarà riservata all'empowerment femminile (in termini di formazione, occupabilità ed autoimprenditorialità), anche con progetti volti a favorire il reinserimento nel mondo del lavoro di categorie fragili e ad incentivare le capacità imprenditoriali femminili”. Dov’è la trappola? Anche questa volta, come accaduto già in passato, all’interno di intere filiere di programmazione europea la questione dell’occupazione femminile viene risolta con la strada dell’empowerment, ossia “rafforzamento del sé”. Dopo almeno 40 anni di programmazione europea, con scarsi risultati sull’incremento dei tassi di occupazione, con il crollo delle fecondità e con una crisi economica ed una recessione alle spalle, con un'altra crisi alle porte, la considerazione non può avere più il sapore del brand anni ’90.
Ancora una volta appare sbagliata la diagnosi… e la prospettiva. Il problema dell’occupazione femminile non è imputabile alla poca consapevolezza, capacità o determinazione delle donne. Se lo è in alcuni casi, non può esserlo per metà della popolazione lungo 30 anni, senza variare mai. Il problema, quindi, non è delle donne, che “non sanno” o “non sanno fare abbastanza” prendendo a riferimento un modello maschile, ma il problema è della struttura del mercato e del sistema delle opportunità. Sono ancora tanti e troppi i vincoli strutturali nella cultura organizzativa e nel sistema di incontro di domanda ed offerta che non possono essere ricondotte ad una “responsabilità” di come sono o cosa fanno le donne. Questa visione dell’empowerment induce, come conseguenza, nel Piano, a trovare la soluzione in: a) aumento della formazione (quando le donne sono già le utenti prevalenti della formazione, anche qualificata e specializzata, al punto che diventa spesso un viatico per il fenomeno della overeducation); b) occupabilità, cioè necessità di adeguarle al mercato e renderle appetibili (quando stagioni di incentivi hanno dimostrato che non è il libero mercato che alloca le migliori e le più “adatte” – e prova ne è che spesso le migliori e le più adatte vengono invece valorizzate all’estero. E come abbiamo detto prima, il sistema di accesso presenta una cultura organizzativa discriminatoria; c) autoimprenditorialità. Ecco, il cerchio si chiude ideologicamente su questo tema. Una volta definite le donne gruppo sociale strutturalmente svantaggiato, responsabile della propria condizione, privo di empowerment, cosa si propone loro? La soluzione più difficile in assoluto, cioè mettersi in proprio. Per accedere alla quale, secondo questa filosofia, basta empowerment, ossia grinta e formazione. Gli anni ’90 sono passati da tempo e un’attenzione alla valutazione della storia dell’imprenditoria femminile avrebbe dovuto insegnare qualcosa. Ma forse col PNRR 2020 siamo ancora nei tempi per poter recuperare.
4. Alcune proposte
Partiamo dal nominare il grande assente tra le sfide per il post Covid: ossia le infrastrutture sociali, lo sviluppo di quella necessaria rete di servizi di sostegno al lavoro non retribuito, svolto prevalentemente dalle donne e che mediamente consente il funzionamento generale del sistema sociale. Lavoro che ha permesso di assorbire una parte dei contraccolpi del lockdown (chiusura delle scuole, della ristorazione, servizi di cura, ecc.) ma che ha aumentato in modo sproporzionato il carico totale di lavoro delle donne, consentendo, come confermano tutte le recenti indagini, agli uomini di tornare di più e prima al lavoro. L’investimento nel tema delle infrastrutture sociale è fondamentale per dare la svolta al Paese e ai suoi indicatori di debolezza comparativa, ancora prima del digitale e della rivoluzione verde. Altrimenti si rischia di saltare dalla tradizione alla innovazione, dimenticandosi di cosa può far muovere il tutto. E questo ci porta a confermare l’esistenza di un’incidenza di genere enorme nel periodo di emergenza Covid, ma anche questa poco visibile, forse anche perché nei vari comitati e task force attivati in questi mesi la presenza delle donne è minima, se non assente.
Pertanto, considerando che:
1) l’innalzamento del tasso di occupazione generale è richiesto dalla Ue come vincolo all’utilizzo dei Fondi;
2) che condizione di ammissibilità delle proposte nazionali è l’adeguamento al rispetto delle raccomandazioni fornite ai singoli Stati membri (nel 2019 era esplicita la richiesta di innalzamento della occupazione femminile e nel 2020 si conferma in chiave più generalista)
3) che la stima dell‘impatto positivo dei Fondi sull’occupazione aggiuntiva è un criterio di valutazione “positivo” dei progetti ammissibili a finanziamento,
appare necessario uscire dall’ottica del gruppo specifico. Non è perché le donne non siano nominate in un paragrafo specifico sull’occupazione femminile che questo Piano non serva allo scopo. Bisogna potenziare e mettere in pratica l’affermazione contenuta nella Linee guida trasmesse al Parlamento che “si terrà conto in ogni parte del piano dell’equità di genere” – pur con i caveat espressi sulla traduzione. Tuttavia, lasciata senza specifiche, resta nel novero delle affermazioni di principio. Ma la procedura di valutazione di impatto di genere (come richiedeva già il Piano Colao) esiste e si può applicare, così come si può applicare il gender mainstreaming sin dalla fase di progettazione. Come? La sfida è individuare ed esplicitare per ogni obiettivo – missione la ricaduta di genere, anche – e soprattutto – laddove il genere non sia contemplato nella declaratoria. Per ogni missione / obiettivo indicare modalità e impatto stimato della ricaduta positiva su occupazione e inclusione socio economica delle donne. Digitalizzazione, rivoluzione verde, istruzione, cultura, equità sono tutti ambiti in cui la ricaduta di genere va prevista, esplicitata e programmata - operazione possibile e già concretizzabile da subito.
Anche in assenza di una cultura politica avvezza al gender assessment credo che con 127,6 miliardi di euro in prestiti e 63,8 miliardi in sovvenzioni tutto ciò sia assolutamente possibile.
[1] http://www.politicheeuropee.gov.it/.
[2]http://www.politicheeuropee.gov.it/. Cfr. Le politiche di settore nel quadro europeo Elementi per l’attività di indirizzo parlamentare in vista del Piano nazionale per la ripresa e la resilienza, Centro studi Senato 22 settembre 2020
[3] Risoluzione del Parlamento europeo del 23 luglio 2020 sulle conclusioni della riunione straordinaria del Consiglio europeo del 17-21 luglio 2020 (2020/2732(RSP)
La Corte di Cassazione chiarisce a chi spetti l’onere di promuovere la mediazione a seguito di un decreto ingiuntivo
di Mauro Mocci
Sommario: 1. La vicenda - 2. L’ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite - 3. L’inquadramento normativo - 4. La decisione e le motivazioni - 5. Le conseguenze.
1. La vicenda
A fronte di un pagamento azionato mediante decreto ingiuntivo, i clienti di una Banca proposero rituale opposizione, sul presupposto che l’Istituto di credito avesse applicato interessi usurari. Una volta concessa la provvisoria esecuzione parziale, il giudice assegnò termine per la presentazione della domanda di mediazione, secondo l’art. 5 comma 1° D.Lgs. n.28 del 4 marzo 2010, che per l’appunto prevede - fra le ipotesi di mediazione obbligatoria - anche i rapporti bancari. Nessuna delle parti provvide a tale incombente, sicché il Tribunale, trattandosi di una condizione di procedibilità della domanda giudiziale (diversamente dalle cause agrarie, ove la mediazione obbligatoria funge da condizione di proponibilità), dichiarò l’improcedibilità dell’opposizione e l’esecutorietà del provvedimento monitorio. La Corte d’Appello territoriale dichiarò, a sua volta, inammissibile il gravame, ai sensi degli artt. 348-bis e 348-ter, ed i soccombenti ricorsero avanti la Suprema Corte, sulla scorta di un unico complesso motivo.
2. L’ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite
Con ordinanza interlocutoria del 12 luglio 2019 n. 18741, la Terza Sezione Civile ha rimesso gli atti al Primo Presidente, sollecitando la trattazione del ricorso da parte delle Sezioni Unite, sulla questione dirimente dell’individuazione della parte tenuta a promuovere il procedimento di mediazione nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo. In tal senso, il collegio ha recepito il motivo di impugnazione, volto ad investire la Corte in ordine al contrasto sussistente in dottrina e nella giurisprudenza di merito fra due posizioni radicalmente differenti.
Nel silenzio della norma processuale di riferimento, l’indirizzo in allora dominante - di cui capofila in giurisprudenza è stata Cass. Sez. III 3 dicembre 2015 n. 24629[1] - ha ritenuto che, essendo l’opponente il soggetto interessato alla proposizione del giudizio di cognizione, su di lui dovesse ricadere l’onere di promuovere la procedura di mediazione. E’ interessante, in proposito, quanto afferma l’ordinanza della Suprema Corte Sez. 6-1 n. 23003 del 16 settembre 2019: “essendo il tentativo obbligatorio di mediazione strutturalmente legato ad un processo fondato sul contraddittorio (in tal senso, relativamente alla procedura conciliativa obbligatoria di cui all'oggi abrogato art. 412-bis c.p.c., Corte Cost. n. 376/2000), grava sulla parte che promuove un simile giudizio l'onere di assolvere tale condizione di procedibilità…..nel procedimento monitorio un processo fondato sul contraddittorio, ossia il giudizio di cognizione ordinaria, consegue solo all'eventuale opposizione dell'ingiunto: pertanto, spetta a quest'ultimo - e sempre a condizione che sia domandata la concessione della provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo o la sospensione della stessa - l'esperimento nei termini del tentativo obbligatorio di mediazione, essendo nel suo interesse definire alternativamente il giudizio... da ciò logicamente consegue che, in caso di mancato assolvimento di tale condizione di procedibilità, sarà la sua azione (proposta sotto forma di opposizione) a rimanere travolta dalla declaratoria di improcedibilità...dunque, la "logica del contraddittorio" viene adeguatamente garantita proprio assicurando al destinatario della ingiunzione la possibilità di definire in via extragiudiziaria la controversia nella fase del giudizio di merito instaurato a seguito di opposizione (la cui proposizione è soggetta a termine perentorio che, in difetto di espressa norma di legge, non viene ad essere sospeso dalla proposizione della istanza di mediazione divenendo definitivo ed irrevocabile il decreto di condanna in caso di omessa attivazione dell' opponente)”.
Quest’orientamento è stato seguito dalla maggioranza dei giudici di merito e da una parte (minoritaria invero) della dottrina[2].
La gran parte degli autori ed anche alcuni giudici di merito[3] hanno invece evidenziato la condizione dell’opposto nel giudizio monitorio, quale attore in senso sostanziale, e la circostanza che la mediazione obbligatoria viene imposta dal legislatore non all’atto della proposizione del ricorso, ma nella fase a cognizione ordinaria (art. 5 comma 4° D.Lgs. n. 28/2010). In altri termini, l’opposizione conseguirebbe il risultato di ripristinare la disciplina normale dei procedimenti di cognizione, introdotti attraverso l’atto di citazione, che obbliga chi agisce in giudizio – nelle materie specificamente previste dal D.Lgs. in parola – a promuovere la relativa procedura. Da ciò la conclusione che dovrebbe spettare appunto alla parte opposta l’iniziativa della mediazione.
Il persistente contrasto giurisprudenziale fra le predette opinioni ha dunque motivato l’ordinanza di rimessione da parte della terza sezione civile, la quale ha altresì affermato di non reputare condivisibile un’ulteriore tesi, per così dire “a metà strada”, secondo la quale l’onere di attivarsi per il procedimento mediatorio muterebbe a seconda dell’intervenuta concessione o no della provvisoria esecuzione. Nel primo caso graverebbe sull’opponente, nell’altro sull’opposto, legando così la mediazione all’interesse concreto, ma momentaneo, della parte in causa. Si tratta di una soluzione, com’è evidente, non in linea con il principio generale della certezza del sistema, che regola a priori la mediazione sulla scorta della domanda, di cui costituisce condizione di procedibilità.
3. L’inquadramento normativo
L’art. 5 comma 1°-bis recita: “Chi intende esercitare in giudizio un'azione relativa a una controversia in materia di condominio, diritti reali, divisione, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, risarcimento del danno derivante da responsabilità medica e sanitaria e da diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicità, contratti assicurativi, bancari e finanziari, è tenuto, assistito dall'avvocato, preliminarmente a esperire il procedimento di mediazione” ovvero altro meccanismo di risoluzione stragiudiziale specificamente dettato per materie particolari. “L'esperimento del procedimento di mediazione – prosegue la norma - è condizione di procedibilità della domanda giudiziale. L'improcedibilità deve essere eccepita dal convenuto, a pena di decadenza, o rilevata d'ufficio dal giudice, non oltre la prima udienza. Il giudice ove rilevi che la mediazione è già iniziata, ma non si è conclusa, fissa la successiva udienza dopo la scadenza del termine di cui all' articolo 6. Allo stesso modo provvede quando la mediazione non è stata esperita, assegnando contestualmente alle parti il termine di quindici giorni per la presentazione della domanda di mediazione.”
Con riguardo alla specifica materia monitoria, il 4° comma lett. a) del predetto articolo aggiunge che il comma 1-bis non si applica “nei procedimenti per ingiunzione, inclusa l'opposizione, fino alla pronuncia sulle istanze di concessione e sospensione della provvisoria esecuzione”.
In altri termini, per dirimere il potenziale conflitto fra due discipline, volte entrambe ad ottenere l’effetto finale di abbassare il carico processuale – l’una attraverso un intento deflattivo alla fonte (mediante la composizione stragiudiziale), l’altra attraverso un procedimento acceleratorio – ma la cui interferenza avrebbe potuto condurre ad un’eterogenesi del risultato, il legislatore ha inserito il momento della mediazione obbligatoria, una volta esaurita la fase sommaria del procedimento d’ingiunzione.
4. La decisione e le motivazioni
Con la sentenza n. 19596, depositata il 18 settembre 2020, le Sezioni Unite hanno fissato il seguente principio di diritto: “Nelle controversie soggette a mediazione obbligatoria ai sensi dell'art. 5, comma 1-bis, del d.lgs. n. 28 del 2010, i cui giudizi vengano introdotti con un decreto ingiuntivo, una volta instaurato il relativo giudizio di opposizione e decise le istanze di concessione o sospensione della provvisoria esecuzione del decreto, l'onere di promuovere la procedura di mediazione è a carico della parte opposta; ne consegue che, ove essa non si attivi, alla pronuncia di improcedibilità di cui al citato comma 1-bis conseguirà la revoca del decreto ingiuntivo"[4].
Il contenuto decisorio della sentenza muove dall’analisi delle argomentazioni portate dai due orientamenti a sostegno delle rispettive tesi - l’una legata fondamentalmente alla valorizzazione dell’interesse dell’opponente all’instaurazione di un giudizio ordinario, per evitare il passaggio in giudicato del decreto ingiuntivo, l’altra volta a rimarcare il ruolo sostanziale dell’opposto e le conseguenze processuali meno radicali che deriverebbero dalla caducazione del provvedimento (con la possibilità di ripresentarlo o di proporre comunque un’azione ordinaria) - e perviene alla conclusione di dover mettere un punto fermo, al fine di ricomporre la spaccatura fra i giudici di merito giacché “l’effetto di prevedibilità delle decisioni giudiziarie si va affermando come un valore prezioso da preservare, anche in termini di analisi economica del diritto”. In tal modo, la Corte ha adempiuto alla sua funzione nomofilattica, regolando ed uniformando l’interpretazione giurisprudenziale del diritto (art. 65 Ord. Giud).
Innanzi tutto, sotto un profilo sistematico, le Sezioni Unite affermano che una lettura delle norme di cui al D. Lgs. n. 28/2010 (in particolare gli artt. 4 comma 2°, 5 comma 1°-bis e 5 comma 6°) coordinata con i principi generali in tema di azione darebbe univocamente conto del fatto che l’onere di intraprendere la mediazione incomba sul creditore opposto (attore in senso sostanziale).
Altro argomento determinante viene rinvenuto nella struttura del procedimento monitorio, in cui la mediazione è collocata dal legislatore in esito alla fase sommaria, dopo la decisione sulla provvisoria esecuzione. In proposito, è pur vero che l’art. 5 comma 4 lett. a) preclude la mediazione “fino alla pronuncia sulle istanze di concessione e sospensione della provvisoria esecuzione”, ma, in realtà, il momento nel quale si perfeziona il contraddittorio corrisponde alla notifica dell’atto di citazione in opposizione, allorquando “il giudizio si svolge secondo le norme del procedimento ordinario davanti al giudice adito” (art. 645 comma 2° c.p.c.). La fase della concessione o del diniego della provvisoria esecuzione è in realtà eventuale, giacché l’intimante potrebbe astenersi dal chiederla: si tratta dunque di una scelta pratica, dettata essenzialmente dalla constatazione che, usualmente, la domanda di concessione (in mancanza di una provvisoria esecuzione anticipata) viene formulata in sede di prima udienza: tuttavia, com’è evidente, i termini della questione non vengono spostati.
Le Sezioni Unite svolgono altresì un fondamentale richiamo alle differenti conseguenze che deriverebbero dall’inerzia delle parti e dalla successiva pronunzia di improcedibilità. In questo senso, onerare senza successo l’opponente significherebbe determinare il passaggio in giudicato del decreto ingiuntivo, mentre porre l’iniziativa a carico dell’opposto condurrebbe alla revoca del provvedimento monitorio, il che non precluderebbe una sua riproposizione o l’inizio di un’azione di cognizione ordinaria. E d’altronde - prosegue la Corte - neppure è logico, agli effetti sanzionatori, equiparare la posizione dell’intimato che accetta l’ingiunzione a quella dell’intimato che, invece, reagisce, promuovendo il procedimento di opposizione (l’unico riconosciutogli dalla legge).
Ultima, ma evidentemente non ultima per importanza, l’argomentazione legata alla giurisprudenza costituzionale, secondo cui le forme di accesso alla giurisdizione condizionate al previo adempimento di oneri sono legittime purché ricorrano certi limiti e comunque sono illegittime le norme che collegano al mancato previo esperimento di rimedi amministrativi la conseguenza della decadenza dall’azione giudiziaria. A tale riguardo, la sentenza nota correttamente come la procedura di mediazione, pur essendo espressione di una finalità deflattiva (coerente col principio costituzionale della ragionevole durata del processo) è però recessiva nel contrasto con la garanzia del diritto di difesa. In realtà, l’aporia è solo apparente, giacché si tratta di stabilire la parte sulla quale gravi l’onere di intraprendere la mediazione e non di mettere in gioco i due valori.
5. Le conseguenze
Le conseguenze della sentenza n. 19596 del 2020 sono suscettibili di ripercuotersi su un numero elevato di processi, considerato che il decreto ingiuntivo è lo strumento correntemente utilizzato in tutte le ipotesi di credito per somme liquide e che, come già detto, la mediazione è obbligatoria in materia di condominio, diritti reali, divisione, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, risarcimento del danno derivante dalla circolazione di veicoli e natanti, da responsabilità medica e da diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicità, contratti assicurativi, bancari e finanziari (art. 5 comma 1-bis D. Lgs. n. 98/2010)[5]. Per il futuro la strada è segnata.
Si tratta invece di esaminare la sorte dei giudizi ancora in corso, a seguito della pronunzia de qua, giacché quelli esauritisi con il passaggio in giudicato o con la revoca del provvedimento – ovviamente per il mancato esperimento della mediazione - non sono più soggetti a modifiche.
Ma anche laddove, in tesi, il tentativo di conciliazione fosse già stato espletato dall’opponente, o di propria iniziativa o su impulso d’ufficio, sarebbe illogico far retrocedere il processo alla fase antecedente. Residuano allora – nella “fascia intermedia” di concreta applicazione del dictum della Suprema Corte – le ipotesi in cui il giudice “rilevi che la mediazione è già iniziata, ma non si è conclusa” oppure “quando la mediazione non è stata esperita”(art. 1-bis D.Lgs. n. 28/2010): in entrambi i casi, occorre fissare la prima udienza dopo la scadenza del termine di decadenza per il deposito del verbale (art, 6) ed, ove il tentativo non sia stato intrapreso, concedere “contestualmente alle parti il termine di quindici giorni per la presentazione della domanda di mediazione”. In particolare, spetterà a parte opposta attivarsi tutte le volte che controparte abbia iniziato il procedimento, senza però portarlo a termine, ovvero nessuno abbia preso l’iniziativa.
Potrebbe però essere intervenuta la decadenza ed, a questo proposito, occorre chiedersi se ricorra l'affidamento qualificato in un consolidato indirizzo interpretativo di norme processuali, come tale meritevole di tutela con il "prospective overruling", il quale, come insegna la Suprema Corte (Sez. Un. 12 febbraio 2019 n. 4135)[6], può essere riconosciuto solo in presenza di stabili approdi interpretativi della Cassazione, eventualmente a Sezioni Unite, i quali soltanto assumono il valore di "communis opinio" tra gli operatori del diritto, se connotati dai caratteri di costanza e ripetizione.
Nella specie, il mutamento del precedente orientamento giurisprudenziale, che si fondava su Cass. n. 24629/2015 e sulle successive Cass. n. 25611/2016 e Cass. n. 23003/2019, e che dunque poteva dirsi ragionevolmente stabile, potrebbe rendere appunto applicabili i principi in materia di "overruling".
A tale proposito, la giurisprudenza ha riconosciuto il principio dell’effettività dei mezzi di azione e difesa a tutela della parte che abbia fatto incolpevole affidamento sull'interpretazione corrente al momento del comportamento rivelatosi, "ex post", difforme dalla corretta regola processuale[7]. Pertanto, sulla scorta di tale opinione, dovrebbe reputarsi accoglibile la domanda di parte opposta, volta a promuovere la mediazione, pur dopo la scadenza del termine per il deposito del verbale e pur sempre entro la data fissata dal giudice per la prosecuzione del giudizio.
[1] Tale sentenza è stata pubblicata e variamente commentata. Si pùò leggere in Riv. dir. proc., 2016, 4-5, 1283, con nota di G. BALENA, Opposizione a decreto ingiuntivo e mediazione obbligatoria; in Guida dir., 2016, 3, 12, con nota di M. MARINARO, Una diversa soluzione accrescerebbe l’onere della parte creditrice; in Foro it., 2016, I, 1319, con note di M. BRUNIALTI e D. DALFINO, Opposizione a decreto ingiuntivo e mancato esperimento della mediazione obbligatoria. Mediazione ed opposizione a decreto ingiuntivo: quando la Cassazione non è persuasiva; in Giur. it. , 2016, 1, 71, con nota di E. BENIGNI, Mediazione ed opposizione a decreto ingiuntivo: onerato dell’avviso è l’opponente.
[2] In giurisprudenza, anche Cass, 16 settembre 2019 n. 23003, inedita; Trib. Verona, 28 settembre 2017 in Foro it., 2018, I, 328; Trib. Vasto, 30 maggio 2016, ivi, 2016, I, 3649; Trib. Milano, 9 dicembre 2015, in Società, 2016, 1151; Trib. Nola, 24 febbraio 2015 e Trib. Firenze 30 ottobre 2014, in Giur. it., 2015, 1123. In dottrina cfr. G. TRISORIO LIUZZI, in Giusto proc. civ., 2016, 111; E. BENIGNI, Incombe sull’opponente ex art. 645 c.p.c. l’onere di proporre l’istanza di mediazione, in Giur. it. 2015, 1125.
[3] In dottrina si possono ricordare C. MANDRIOLI - A. CARRATTA, Diritto Processuale Civile, XXVII ed, Torino 2019, III, 43; G. BALENA, Mediazione obbligatoria, op. cit.; A. TEDOLDI, Mediazione obbligatoria e opposizione a decreto ingiuntivo, in Giur. it, 2012, 12, 2621. Nella giurisprudenza di merito, Trib. Ferrara, 7 gennaio 2015, in Foro it. 2015, I, 3732, Trib. Firenze 17 gennaio 2016, in Società, 2016, 1148.
[4] Fra i primi commenti, in senso favorevole G. SPINA, Le Sezioni Unite su mediazione e opposizione a decreto ingiuntivo: prime osservazioni tra prevedibilità delle decisioni e overruling, in Nuova proc. civ. 4, 2020; contrario G. D’ELIA, E’ a carico del creditore-opposto l’onere di promuovere la procedura di mediazione obbligatoria, in Il Caso, 2020, 2.
[5] E’ interessante osservare come notevoli problemi di diritto intertemporale si pongano tutte le volte che la questione abbia a che vedere con un decreto ingiuntivo. Si potrebbe fare l’esempio di Cass. Sez. Un. n. 19246 del 9 settembre 2010, relativa alla dimidiazione dei termini di costituzione dell’opponente, in Giust. civ., 2011, 9, 1, 2101, con nota di F. Cordopatri.
[6] Pubblicata in Foro it., 2019, 5, I, 1639, con nota di V. CAPASSO, Di overrulings invocati a sproposito e di effetti collaterali del mai debellato sindacato diffuso di costituzionalità.
[7] Cfr. Cass. 26 ottobre 2011 n. 22282, in Riv. giur. trib., 2012, 6, 502, con nota di G.M. Cipolla; Cass. 27 dicembre 2011 n. 28967, in Nuova giur. civ., 2012, 5, 1, 412, con nota di C. Viale; Sez. Un. 11 luglio 2011 n.15144, in Foro it. 2011, 12, I, 3343, con nota di R. Caponi. Più di recente, Cass. 29 marzo 2018 n. 7833, Cass. 14 marzo 2018 n. 6159, inedite. Per un approfondimento sull’applicabilità dell’overruling cfr. G. SPINA op. cit. § 5.
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